Una repubblica (delle banane) ingovernabile. Uno Stato “cadavere in putrefazione”. Prima i Sardi si allontanano e meglio è.

Uno tsunami che spazza via i due cadaveri

di Francesco Casula

Il massiccio voto a Grillo, si abbatte come un uragano nella cosiddetta seconda repubblica, schiantandola. Travolgendo illusioni bipolariste, imposte coattivamente e non per libera scelta dei cittadini. Liquidando decine di partiti e partitini. Ridimensionando brutalmente Partiti dominus, che ritenevano di egemonizzare e dominare la politica italiana, ponendosi come i suoi soli ed esclusivi rappresentanti e gestori . Così il Pd perde 8 punti rispetto alle elezioni del  2008 (ovvero tre milioni di voti) e il Pdl addirittura 17 (7 milioni di voti). Eppure ambedue si proclamano vincitori: non capendo che pensano ancora di volare ma sono precipitati, rovinosamente. Per la verità il Pd, con un minimo di pudore, ha dichiarato che è primo ma non ha vinto! Si è dimenticato di un piccolo particolare: è primo in virtù di una legge elettorale più che truffaldina. Una legge “della rapina a mano armata”: l’ha definita su La Repubblica del 26 febbraio scorso Gianluigi Pellegrino. Un obbrobrio mostruoso, liberticida e anticostituzionale in base alla quale si assegnano il 55% dei seggi al Senato su base regionale e alla Camera su base nazionale, a forze che non raggiungono neppure 1/3 dell’elettorato e comunque a prescindere dai voti ottenuti: com’è appunto successo al Pd.

Altro che la legge truffa del 1953 o la fascistissima Legge Acerbo del 1923: che almeno ancoravano il premio di maggioranza a una soglia minima di voti! Ma tant’è: il Porcellum, da tutti criticato, in realtà è stato conservato perché serviva a Pdl-Pd, per spartirsi il bottino, magari a turno, eliminando così altri possibili competitori. Persino la giustificazione (ideologica) alla base del premio di maggioranza, ovvero la garanzia della governabilità, questa volta è  andata gambe all’aria. Grillo si è messo in mezzo e di traverso, facendo saltare gli interessi partitocratici. Così, in un paese in decadenza, si allunga l’ombra inquietante dell’ingovernabilità. Con i grandi partiti ridotti a simulacri. A involucri che spezzandosi, fanno fuoruscire i liquidi maleodoranti delle ruberie e della corruzione. E uno Stato incapace di risolvere i problemi essenziali dei cittadini, in specie dei territori più penalizzati (è il caso della Sardegna), viepiù si mostra come nemico delle popolazioni. Un cadavere in putrefazione, l’ha definito qualcuno. Forse è il caso, per noi Sardi, di allontanarci il più presto possibile.

Pubblicato su Sardegna Quotidiano del 28-2-2013

 

“Massaria- Agricoltura tradizionale a Guasila e in Sardegna di Salvatore Atzori (CUEC, Cagliari, 2012)

LA TREXENTA E LA STORIA DEI CONTADINI

di Francesco Casula

“MASSARIA-Agricoltura tradizionale a Guasila e in Sardegna” (CUEC Editrice) di Salvatore Atzori, è una  bella e rigorosa ricerca che rappresenta una vera e propria sonda infilata nel passato di Guasila ma non solo: della Trexenta, del campidano, dell’intera Sardegna di cui è paradigma. Una sonda che registra segni etnologici e antropologici; scampoli di preistoria, storia, archeologia,lingua, cultura popolare e  poesia orale, con distici ironici e d’amore, di riti e tradizioni  (penso a s’agiudu torrau), cultura materiale e immateriale. Un saggio prezioso soprattutto per conoscere il paesaggio agrario del paese della Trexenta ma, dicevo, non solo. Paesaggio agrario analizzato nei fattori della produzione, nei mezzi tecnici a forza animale e umana; nelle colture, nelle fasi lavorative, nei rapporti di produzione. Con i vari tipi di contratto e il trattamento economico dei subordinati, con la scala gerarchica servile e le mansioni dei serbidoris. Con le mansioni femminili. Quello che emerge è una vera e propria storia dei contadini in Sardegna, un romanzo corale, con la straordinaria raccolta di testimonianze di giorronaderis, pastoris, messaius e messaieddus, boinarxus, sotzus e sotzas, con la minuziosa e rigorosa perlustrazione e documentazione sulle colture intensive con sa bingia, s’ortu, sa mendula, s’olia. Non è infatti – come scrive Salvatore Atzori – “solo opera personale, ma identità collettiva, matrice di ogni madre”.

 Quello che emerge è un racconto di persone della cui esistenza e delle cui gioie e pene non avremo saputo. Anche a questo serve infatti la storia orale, a dar voce a chi non l’ha avuta e non l’ha, e anche a mettere in piedi la storia a partire dal basso,  dal vero, dall’esperienza diretta delle classi subalterne. E tutto questo senza nessun sospetto di idealizzazione e di arcadia e di nostalgia dei bei tempi antichi: anche perché, quasi sempre belli non erano: come ricorda nella esemplare prefazione Giulio Angioni. Con l’arretratezza, l’analfabetismo, la miseria. E’ infatti – per utilizzare l’espressione di Atzori – una ricerca che non ha alcuna parentela con le rappresentazioni decontestualizzate e defunzionalizzate, alla moda, che vanno abusivamente sotto l’etichetta del folclore.

Giovedì 28 febbraio prossimo (ore 17,30 Aula consiliare Palazzo Viceregio) insieme al sottoscritto ne parleranno con l’Autore Angela Quaquero e Giulio Angioni.

Pubblicato su Sardegna Quotidiano del 25-2-2013

SIGISMONDO ARQUER: Lo scrittore vittima dell’Inquisizione e condannato al rogo in Spagna (1530-1571)

  

UNIVERSITA’ Terza Età di Quartu Sant’Elena 27-2-2013

8° Lezione del Corso di Letteratura Sarda di Francesco Casula

 

Sigismondo Arquer nasce a Cagliari nel 1530, studia teologia e legge nell’università di Pisa dove nel maggio del 1547 consegue la laurea in Diritto civile e canonico, mentre nell’università di Siena si laurea in Teologia. Tornato in Sardegna diviene avvocato del fisco a Cagliari. Nel settembre del 1548 lascia di nuovo l’Isola per recarsi presso il re Carlo I (Carlo V imperatore) a Bruxelles, a perorare la causa della sua famiglia alla quale erano stati posti sotto sequestro i beni.

   Durante un breve soggiorno a Basilea, su invito di Sebastian Münster, geografo, cartografo e di fede luterana presso il quale era ospite, scrive una monografia sulla Sardegna Sardiniae brevis historia et descriptio, cui era allegata una carta dell’isola e una veduta di Cagliari (Tabula corographica insulae ac metropolis illustrata), che viene inserita nella Cosmografia scritta dallo stesso Münster. La parte composta dall’Arquer  fu pubblicata nell’edizione del 1550, ma la stesura più nota in Italia è quella del 1558, riportata nelle Antiquitates Italicae Medii Evi di Ludovico Muratori. Il libro dell’Arquer sulla Sardegna fu inserito anche da Domenico Simon, insigne giurista e letterato algherese del secolo XVIII, nel suo Rerum Sardoarum Scxiptores, stampato a Torino nel 1778.

  Sulla figura dell’Arquer scrissero, tra gli altri, anche gli storici sardi Pasquale Tola, Pietro Martini e Giuseppe Manno. La Breve storia della Sardegna, rappresenta  la più antica descrizione dello stato e dei problemi dell’Isola in cui l’Arquer traccia anche un ritratto censorio del corrotto clero del tempo. La descrizione che egli presenta della condizione dei religiosi cagliaritani dell’epoca non è diversa da quella che espose nel 1562 l’Arci­vescovo Antonio Parragues de Castillejo, ma per tale censura l’Arquer incorse nelle ire dell’Inquisizione spagnola, è accusato di luteranesimo e incarcerato a Toledo nello stesso anno 1562. Riesce ad evadere, ma non può uscire dalla Spagna perché vengono inviate a tutte le frontiere le indicazioni sulla sua persona, per cui è imprigionato una seconda vol­ta.

L’Arquer sostiene appassionatamente la sua innocenza ed in carcere scrive un’autodifesa  in  lingua castigliana, la Passione. Il poema –che segna l’inizio della drammaturgia religiosa in Sardegna- si compone di 45 strofe, ognuna delle quali comprende dieci versi ottosillabi con rima assonante mista, ossia baciata e alternata. Il manoscritto del poema sulla Passione fu rinvenuto nel 1953 fra le carte del processo a carico di Arquer presso “l’Archvio Historico Nacional” di Madrid da Francesco Loddo e Alberto Boscolo, studiosi di storia sarda, durante un loro viaggio nella capitale spagnola, che lo pubblicarono nel volume XXIV dell’Archivio storico sardo. Nel poema l’Arquer esalta la passione di Gesù Cristo così simile alla sua, ma i suoi nemici cagliaritani, tra i quali vi erano gli Aymerich e gli Zapata, intrigheranno contro di lui raccogliendo prove tali da accelerarne la fine. Egli sosterrà sempre la propria innocenza ed anzi si dichiarerà martire della vera fede, schernendo quegli stessi ministri del culto che lo esortavano al pentimento. Per questo, durante il terribile “auto da fé” (l’espressione deriva dal portoghese e significa atto della fede), ossia la proclamazione pubblica della sentenza, lo si metterà alla sbarra prima che venisse addossato al palo, ed i carnefici vedendo che non solo non si pentiva ma che anzi esaltava il suo martirio, lo trafiggeranno con le lance e lo getteranno poi nel rogo degli eretici. Così morirà nel il 4 Giugno del 1571 a Toledo, dopo sette anni e otto mesi di detenzione.

La sua figura “assai complessa e conflittiva e di dimensione europea” –la definisce  Marcello Maria Cocco, studioso dell’Arquer- e la sua opera, ignorata dagli scrittori sardi contemporanei e pressoché sconosciuta fino alla metà del ‘700, quando ne parlerà Ludovico Muratori-  verrà riscoperta e riproposta nell’800 con un triplice atteggiamento nei suoi confronti: di compassione per la sua tragica fine; di indispettita disapprovazione per le sue critiche impietose formulate nella Sardiniae brevis istoria; di ammirazione per la incisività e la concisione della sua prosa ma soprattutto per il sacrificio della sua vita che segna il trionfo della libertà di coscienza.

Lo storico Dionigi Scano, autore dello studio più ampio sull’Arquer, sostiene che il luteranesimo non fu che un pretesto di cui si servì la classe nobiliare cagliaritana per disfarsi di un terribile avversario. E sarebbe dunque la Cagliari della prima metà del ‘500, con i suoi odi e le lotte intestine a segnare la fine drammatica di Sigismondo Arquer.

 

Presentazione del testo

L’opera scritta da Sigismondo durante il soggiorno basileense dal 21 Aprile al 5 Giugno del 1549, è un brevissimo saggio di 12 pagine articolato in sette paragrafi, redatto in un latino di rara  raffinatezza, chiaro, semplice ed elegante. Si tratta di un’opera informativa più che storica da cui emerge un agile ritratto della Sardegna del tempo, corredato da buone illustrazioni quali la carta dell’Isola, la riproduzione del muflone e la pianta schematica di Cagliari.

Poche pagine ma fitte di notizie, spesso di prima mano, di giudizi critici su alcune credenze superstiziose, di indagini sui problemi della lingua dei sardi, che confronta con il catalano e il latino, portando ad esempio una trascrizione del Pater Noster in queste tre lingue.

Particolarmente interessanti il quadro che offre della fauna della Sardegna, le informazioni sulle terme, sulle miniere, sulle saline. Più discutibili invece le brevi note sulle antiche vicende storiche che si rifanno alle fonti classiche, che affondano abbondantemente le loro radici nelle leggende e nei miti. Non manca un accenno alla validità e bontà della Carta de Logu di Eleonora d’Arborea, la Costituzione della Sardegna in vigore dal 1392 e nel capitolo VII, un quadro, riportato nel testo, che riguarda le magistrature, le condizioni della religione, della cultura, della morale in genere nonché delle condizioni economiche che si riflettono nell’uso del vestiario più o meno di lusso.

Il “librillo” –così lo chiama l’autore- è privo di organicità e anche piuttosto frammentario tanto che l’Arquer, conscio dell’incompletezza, ci fa sapere che nutre il proposito di scrivere una più completa storia dei Sardi, “Si dominus requiem e ocium dederit” (Se il Signore ci darà pace e tempo libero). Pace e tempo libero che purtroppo gli mancarono. In ogni caso La qualità intrinseca dell’opera, unita al prestigio della collocazione nella quale apparve, fanno della Sardiniae brevis historia et descriptio una pietra miliare nel panorama delle lettere isolane, anche perché si tratta dell’archetipo di una serie di scritti del genere letterario storico-descrittivo, destinato ad affermarsi con i secoli nella cultura isolana.

 

MAGISTRATURE, NATURA DEGLI ABITANTI, LORO COSTUME, LEGGI E RELIGIONE

 […] Le cariche ecclesiastiche in Sardegna sono regolate secondo i decreti del Papa. Infatti vi si trovano tre arci­vescovi, a Cagliari, Arborea e Torres o Sassari, i quali hanno sotto di sé alcuni vescovi. Vi è pure un inqui­sitore generale contro gli eretici, gli apostati e gli stregoni, come av­viene in Spagna, al quale sono con­cessi altri diritti, oltre quelli che, per norma generale voluta dai re e dai papi, sono concessi agli altri inqui­sitori. Gode di grandissimi privilegi e non ha sopra di sé nessuno all’in­fuori del supremo inquisitore di Spa­gna, del quale è delegato. Nessuno in Sardegna può contare più di lui. Egli, per suo conto, nomina, come suoi dipendenti, altri inquisitori e funzionari, dei quali è giudice; co­storo agiscono contro chi è sospet­tato, con tanta durezza che non è possibile accennarne solo con poche parole. Infatti, tengono in carcere per molti anni dei poveri infelici, e li interrogano e li sottopongono a torture prima di decidere se devono condannarli o assolverli. Hanno an­che, per esercitare le loro funzioni, dei libri, come il Malleum malefica­rum, il Directorium inquisitorum e alcuni altri volumi. Inoltre hanno del­le istruzioni segrete e molte altre disposizioni che interpretano secondo il loro personale giudizio. I Sardi hanno anche un Commissarium Crociatae1, che non ha alcun superiore, oltre il pontefice, ecc. Infine, per quanto riguarda i costumi e la natura dei Sardi, dirò che essi son robusti, per lo più rudi e avvez­zi alla fatica, all’infuori di pochi che si abbandonano al lusso; son poco dediti allo studio delle lettere, men­tre amano moltissimo la caccia. Mol­ti sono pastori e a loro bastano cibo agreste e acqua. Quelli che abitano nei borghi e nei villaggi, vivono tran­quilli e sono ospitali e gentili; vivo­no alla giornata e vanno vestiti di poverissimo panno; non conoscono guerra ed hanno anche poche armi; ciò che è ancora più straordinario è il fatto che, in un’isola così vasta, non vi è chi fabbrichi spade, pugnali e altre armi; ma queste vengono dalla Spagna e dall’Italia. I Sardi si servono invece di frecce, soprattutto quando vanno a caccia. Ma se tal­volta sbarcano nell’isola, per far pre­da, pirati turchi o africani, vengono subito volti in fuga dai Sardi o son fatti prigionieri.

Gli isolani son ottimi cavalieri e di colorito bruno a causa del sole ar­dente; vivono onestamente, secondo le leggi di natura, e meglio vivreb­bero se avessero degli onesti pre­dicatori della parola di Dio.

Quando i contadini celebrano qual­che festa, dopo la Messa, per tutto il resto della giornata e della notte ballano -uomini e donne- dentro la chiesa del Santo, cantando canzoni profane; inoltre uccidono maiali, montoni e buoi e mangiano allegra­mente di queste carni in onore del Santo. Vi sono anche di quelli che ingrassano qualche maiale in onore di un santo, per poterlo poi mangiare durante la festa, spesso in una chie­sina costruita fra i boschi. E se la famiglia non è tanto numerosa da poter consumare tutta quella carne, perché non ne avanzi, invitano altre persone al banchetto che si fa den­tro la chiesa stessa. Le donne cam­pagnole sono modestissime nel ve­stire che non ostenta lussi; ma le signore delle città, che son ricchis­sime, abusano del fasto e del lusso, ostentandoli superbamente. I sacer­doti sono ignorantissimi al punto che è raro trovarne tra essi, come tra i monaci, uno che conosca il latino. Vivono con le loro concubine e si danno con più impegno a mettere al mondo figli che a dedicarsi alla lettura.

 

Arquer plurilinguista

L’Arquer usava un latino di rara raffinatezza, chiaro, conciso, semplice ed elegante: tacitiano insomma. Conosceva bene, oltre che il latino, il sardo, il castigliano e l’italiano, come dimostrano le sue Lettere a Gaspar Centelles e le Coplas a l’imagen del Crucifixo, (Strofe a immagine di Cristo, contenute nella Passione), composte durante la prigionia a cui fu sottoposto durante il lunghissimo processo per eresia.

Arquer scrive però solo in latino, in italiano e in castigliano, non ci sono pervenute invece testimonianze scritte nelle sue due lingue madri ovvero in catalano e in sardo, (tranne, in quest’ultima lingua, che il  Babbu nostru “Padre nostro” contenuto nella Descriptio Sardiniae). Tuttavia dichiara che tutti i processi era solito redigerli in catalano “la lingua de mi tierra” (la lingua della mia terra).

La lingua scritta che gli era più congeniale era però certamente il latino, il compendio Sardiniae brevis historiae infatti è sempre stato ammirato per la classicità della sua prosa, che risulta –come abbiamo già detto- sintetica, nuda robusta ed essenziale.

Sulla lingua sarda scrive che: corrupta fuit multum lingua eorum, relictis (ne rimase corrotta poiché nell’Isola sopraggiunsero diversi popoli) etiamsi ipsi mutuo sese recte intelligant ( ma i Sardi fra loro si intendono ugualmente bene).

Aggiunge specificando che nell’Isola due sono le lingue principali che si parlano: una è quella usata nelle città, l’altra è quella usata fuori di essa. Infatti nelle città si parla quasi dovunque la lingua spagnola, tarragonese o catalana, che gli abitanti hanno appreso dagli Spagnoli, che quasi sempre vi tengono i posti di comando, gli altri mantengono intatta la lingua sarda.

I catalanismi e gli ispanismi presenti nel sardo sono numerosi e riguardano la vita sociale, l’amministrazione dello stato, i cerimoniali religiosi, le arti e i mestieri, la vita quotidiana, l’abbigliamento, la gastronomia, l’oggettistica, la nomenclatura delle piante, la medicina e più in generale i modi di dire e quindi, almeno in certa misura, i modi di pensare. Si può conclusivamente affermare con Wagner che l’elemento catalano spagnolo è, naturalmente dopo il latino, di gran lunga il più importante del sardo. 

 

– Il multilinguismo nella Sardegna del ‘500/’600

Sigismondo Arquer rappresenta emblematicamente ed esprime il multilinguismo presente in Sardegna nel ‘500/’600: occorre infatti ricordare che insieme all’Arquer nel Cinquecento in Sardegna scrittori come Antonio Lo Frasso, Girolamo Araolla, Pietro Delitala, utilizzano con intenti letterari una o più lingue delle almeno quattro comunemente usate. Arquer conosce il sardo e il catalano –che apprende in famiglia, da ricordare che l’Arquer era di origine spagnola- l’italiano che apprende e approfondisce a Pisa, il castigliano che impara in seguito, durante la lunga permanenza a corte in Spagna. Essa è la lingua ufficiale scritta, insieme al Latino, quest’ultima  specie all’interno della Chiesa.

Ha dunque due lingue madri: il catalano e il sardo, appartenenti alla sfera dell’oralità, mentre il latino, italiano e castigliano vengono impiegati nella scrittura, con una diversità di funzioni: il castigliano che utilizzerà per scrivere “Passione” e altre brevi preghiere, finirà col diventare “la lingua para hablar con Dios” (la lingua per parlare con Dio), come diceva Carlo V; mentre il latino, che utilizzerà nell’Historia, sarà la lingua scritta che gli è più congeniale.

 

1. De Sardorum lingua [testo tratto da Sardiniae brevis istoria et descriptio di Sigsmondo Arquer a cura di Cenza Thermes, Gianni Trois editore, Cagliari 1987, pag. 29]

La lingua dei Sardi

Un tempo i Sardi ebbero una lingua propria, ma poiché nell’isola soprag­giunsero diversi popoli e la terra sarda fu dominio di signorie stra­niere, come quelle dei Latini, dei Pisani, dei Genovesi, degli Ispanici e degli Africani, la lingua ne rimase corrotta, sebbene tuttora vi si tro­vino moltissimi vocaboli che non e­sistono in nessun’altra lingua. Ci re­stano molte parole latine, soprattut­to nei monti della Barbagia, dove gli imperatori romani stanziarono i loro presidi, come è detto nel libro II C. De officio prae. Afric.

Da quanto ho detto precedentemen­te, ne è derivato il fatto che i Sardi, nei diversi luoghi, parlano lingue tan­to diverse, a seconda dei dominato­ri; ma fra di loro si intendono bene.

Nell’isola, due sono le lingue prin­cipali: una è quella usata nelle cit­tà, l’altra è quella usata fuori di esse. Infatti, nelle città si parla quasi do­vunque la lingua spagnola, tarrago­nense o catalana, che gli abitanti hanno appreso dagli Spagnoli, che quasi sempre vi tengono i posti di comando; gli altri mantengono intatta la lingua sarda. Ecco, dunque, un esempio dell’una e dell’altra lingua, in una preghiera rivolta al Signo­re.

 

2. Il Padre nostro trilingue: in latino, catalano e sardo [testo tratto da Sardiniae brevis istoria et descriptio di Sigsmondo Arquer a cura di Cenza Thermes, Gianni Trois editore, Cagliari 1987, pag. 41]

Pater noster qui es in coelis sanc­tificetur nomen tuum. Adveniat

Pare nostre che ses en los cels sia santificat lo nom teu. Venga

Babu nostru sughale ses in sos che­ius santu siada su nomine tuo. Ben­giad

regnum tuum, fiat voluntas tua sicut in coelo et in terra:

lo regne teu, fasase la voluntat tua axicom en lo cel i en la terra:

su rennu tuo, faciadsi sa voluntade tua comenti in chelo et in sa terra:

Panem nostrum quotidianum da nobis hodie, et dimitte nobis

lo pa nostre cotidià dona a nosaltres hui, i dexia a nosaltres

su pane nostru dogniedie dona a no­sateros hoae, et lassa a nosateros

debita nostra, sicut et nos dimittimus debitoribus nostris, et ne

los deutes nostres, axicom i nosal­tres dexiàm als deutors nostres, i no

is debitus nostrus, comente e nosa­teros lassaos a is debitores nostrus, e no

inducas in tentationem, sed libera nos a malo, quia tuum est

nos induescas en la tentatio, mas livra nos del mal perché teu es

nos portis in sa tentatione, impero libera nos de su male, poiteu tuo esti

regnum, gloria et imperium, in secula seculorum amen.

lo regne, la gloria i lo imperii en los sigles de les sigles, amen.

Su rennu, sa gloria e su imperiu in sos seculos de sos seculos, amen.

 

 

PARTITI ITALIANI:SOS CADDOS MANNOS DE ISTALLA BENINT IN SARDIGNA. PROITE?

PARTITI ITALIANI

LO SBARCO DEI GERARCHI

di Francesco Casula

Prosegue, ininterrotta e quotidiana, la calata in Sardegna dei gerarchi dei Partiti italiani. E mi sovvengono i versi di Peppino Mereu:”Deo no isco sos carabineris/in logu nostru proite bi suni/e non arrestan sos bangarutteris”. Parafrasando il poeta di Tonara: che vengono a fare nelle nostre città? Perché non se ne stanno a Roma e Milano, magari a “bonificare” i loro partiti  e i loro pretoriani, invischiati in ruberie di ogni sorta? Vengono in Sardegna per fare pubblicità alle loro succursali e ai vassalli che hanno deciso di mettere in lista e dunque, grazie al Porcellum, di eleggere, semplicemente “nominandoli”. Con quale criterio? Lo descrive, in modo plastico ed incisivo Matteo Marteddu, dirigente del Movimento “La Base”, riferendosi al Pd, ma che può estendersi a tutti i Partiti o quasi:”Il meccanismo è quello della fedeltà ai capobastone, in una sorta di condiviso criterio medievale: a chi procura truppe da combattimento sul territorio delle periferie dell’impero, vanno benefici e prebende. Già letto sui libri di storia: per chi lo ha fatto, naturalmente”.

E la Sardegna con i suoi immani problemi? Cancellata, derubricata dalle Agende dei Governi italiani: da almeno 20 anni. Macellata economicamente e socialmente – e culturalmente – dal Governo Monti come da quelli precedenti e di Berlusconi in primis. Ed oggi, alla vigilia delle elezioni, senza alcun pudore, i responsabili dello sfascio sbarcano nell’Isola a promettere ai sardi magnifiche e progressive sorti. Monti promette addirittura di risolvere La vertenza entrate, che si trascina da anni: quella stessa cui, da capo del Governo, si è ben guardato dal mettere mano.

Ma c’è dell’altro: i politici italiani persistono con la loro lingua biforcuta. In Sardegna, per accalappiarsi i voti, parlano demagogicamente un lessico filosardo, a Roma ne parlano uno contrapposto. Così  qui cianciano di continuità territoriale e a Roma sostengono la Tirrenia, storicamente ostile ai sardi.

Persino il leader di 5 stelle, in genere spiritoso e creativo, è venuto a comunicarci una verità disarmante: la Sardegna “è colonizzata”. Grazie Grillo, ma lo sapevamo già. Ma tu, non aggiungere altro colonialismo politico. Ma passi Grillo. Gli è che abbiamo avuto l’affronto di veder sbarcare nella nostra Isola persino figuri impresentabili, come un certo Er pecora e altri neofascisti, che vengono a farci la lezione. Intollerabile!

*Pubblicato su Sardegna Quotidiano del 21-2-2013

 

La vera e la falsa immagine della giudicessa-regina Eleonora d’Arborea

 

L’immagine di Eleonora? E’ un falso.

di Francesco Casula

 L’immagine di Eleonora d’Arborea, che solitamente vediamo riprodotta non solo nelle copertine dei libri ma anche sulle confezioni dei prodotti alimentari, è falsa: rappresenta Giovanna La Pazza – figlia di Ferdinando II d’Aragona e di Isabella di Castiglia – e non la regina-giudicessa di Arborea. In questo “falso” ci sono cascato anch’io nella monografia in Lingua sarda che su di lei ho scritto per l’Alfa editrice. E ci è cascato anche Sardegna Quotidiano, che (sabato 9 gennaio pagina 22) a corredo del bell’articolo di Massimeddu Cireddu, riporta appunto la “falsa” immagine di Eleonora.

Ma ecco come descrive e spiega l’origine del “falso” lo storico Francesco Cesare Casula, già docente di Storia Medioevale dell’Università di Cagliari: ”Cinquant’anni dopo la morte di Giovanna la Pazza avvenuta nel 1555, un pittore napoletano di maniera, certo Bartolomeo Castagnola, ricopiò a Cagliari un suo ritratto che fu riscoperto nell’Ottocento da un ignoto cultore di storia sarda il quale, in clima albertino di ricostruzione delle patrie memorie e di esaltazione romantica, vi scrisse in calce:D(OM)INA LEONORA, credendo o volendo far credere che si trattava di un dipinto trecentesco della famosa giudicessa Eleonora d’Arborea. E tale, dal 1859 in poi, è stato sempre accettato e ammirato dai Sardi di ieri e di oggi i quali, ignorantemente, continuano a riprodurlo dappertutto”.

Sarà lo stesso F. C. Casula a individuare invece l’immagine autentica di Eleonora nel 1984 quando la ritrovò effigiata nei peducci pensili della volta a crociera dell’abside della chiesa di San Gavino Martire in San Gavino, insieme al busto del padre Mariano IV, del fratello Ugone III e del marito Brancaleone Doria.

La giudicessa-regina, non solo non è bellissima, come l’immaginario collettivo ci consegna ma è brutta e per di più ha il volto sfigurato da una vasta cicatrice, che sempre lo storico Cesare Casula, suppone sia il prodotto di uno schizzo di olio bollente, da cui sarebbe stata colpita da bambina.

Del resto, a nutrire qualche dubbio sulla bellezza di Eleonora è persino il suo più grande celebratore, Camillo Bellieni, storico e intellettuale di gran vaglia, nonché fondatore, insieme a Lussu, del Partito sardo d’azione. Ecco quanto scrive in una celebre monografia sulla giudicessa: “Eleonora non si può avvicinare alle ideali figure di Madonna, dai capelli biondi e dagli occhi cerulei”.

Pubblicato su Sardegna Quotidiano del 19-2-2013

 

 

Il Prefetto di Cagliari Giuffrida inviso ai Sardi

Is Arenas e la figura dei Prefetti.

di Francesco Casula

Monta la protesta contro il prefetto di Cagliari per la vicenda di Is Arenas. Non solo da parte dei “tifosi” e sostenitori del Cagliari calcio ma dell’intera opinione pubblica sarda coinvolgendo per intanto esponenti politici: da Bustianu Cumpostu, leader di Sardigna Natzione  che lancia gravi accuse parlando di “Continue vessazioni amministrative e penali”; al deputato Mauro Pili che chiede le dimissioni di Giuffrida per “manifesta incompatibilità ambientale”. Soprattutto sulla Rete è stata evocata l’antica costumanza sarda, che prevedeva per sos istranzos sgraditi e ostili alle comunità, l’accompagnamento degli stessi, sul dorso di un asino, fuori dall’abitato. Nel nostro caso, il prefetto potrebbe essere accompagnato o al Porto di Cagliari o all’aeroporto di Elmas: a suo piacimento.

Ma la vicenda ha assunto una dimensione più vasta e più politica, coinvolgendo il ruolo stesso dei prefetti: così il giurista Andrea Pubusa ha sostenuto che essi “dovrebbero essere banditi perché incompatibili con un ordinamento democratico, fondato sulle autonomie locali, quale è il nostro (art. 5 della Costituzione)”.

Giustamente. Essi infatti sopravvivono come cascame e residuo dell’ordinamento di uno Stato ottocentesco, centralista e accentrato. Nati con il  regio decreto del 9 ottobre 1861, furono mutuati dall’ordinamento napoleonico, autoritario e centralizzato, che non a caso li voleva dipendenti rigidamente dal Governo, come rappresentanti nel territorio dell’Esecutivo.

Oggi, la figura del prefetto, che sia nell’Italia prefascista che fascista  è stata espressione esemplare e paradigmatica dello stato napoleonico accentrato e autoritario stride e stona con uno Stato che vorrebbe – almeno in teoria – esser autonomista e regionalista. Ma tant’è: nessuna parte politica si batte oramai per la sua soppressione. Storicamente è stata una battaglia di Emilio Lussu che sosteneva la eliminazione delle province in primo luogo perché si trattava proprio in virtù della presenza del Prefetto, “di equivoche strutture politiche, fatte per mascherare una armatura governativa e poliziesca”. Per decenni è stata una rivendicazione del Partito sardo: oggi pare dimenticata anche dai sardisti. Eppure sarebbe urgente, nella discussione di un Nuovo Statuto della Sardegna, porre finalmente all’ordine del giorno la liquidazione di questi proconsoli “romani”,

in genere invisi alle popolazioni e antisardi.

Pubblicato su Sardegna Quotidiano del 13-2-2013

 

 

 

Gli studenti sardi, contro il Decreto Profumo, occupano il Palazzo delle Scienze a Cagliari.

 

Scordatevi la borsa, Universitari.*

 Francesco Casula

Alla scuola pubblica, regnante Gelmini sono stati sottratti 8 miliardi di euro. Nel corrente anno accademico ci sono state 58 mila immatricolazioni in meno rispetto agli scorsi anni. A causa anche del fatto che il 38% degli universitari aventi diritto alle borse di studio, in quanto “idonei”, quest’anno, ne sono stati deprivati. Ma i tagli continuano, Anzi: le rasoiate. Il Consiglio dei Ministri del Governo Monti, pur dimissionario, si accinge ad emanare un decreto attuativo della riforma Gelmini con il quale il ministro Profumo vuole rimodulare il meccanismo di accesso al diritto allo studio, escludendo arbitrariamente migliaia di studenti, discriminando pesantemente il Sud, imponendo tempi ancora più forsennati a chi studia per essere in regola per il mantenimento della borsa di studio.

Nel decreto, infatti, è previsto l’aumento del 40% dei requisiti di merito e la borsa di studio viene negata a tutti gli studenti e le studentesse con il seguente reddito ISEE: al Nord oltre 20 mila euro, al Sud oltre 17.150 e nelle Isole oltre 14.300.

La detrazione sull’alloggio passa dalle attuali 1.500 euro alle 2.640 e la detrazione sul costo della mensa sale dalle 600 alle 700 euro. Per cui, ironizzano su fb gli universitari, “la borsa di studio sarà di fatto garantita d’ora in poi solo ai nullatenenti e agli evasori”

La conseguenze di tale perverso decreto sono facilmente immaginabili: ulteriore espulsione dal sistema di diritto allo studio di migliaia di studenti con il restringimento dei criteri di accesso; l’abbandono dell’università da parte di quegli studenti (specialmente nel Sud) che in assenza dei sussidi, non potranno più proseguire gli studi; l’esodo forzato dal Sud al Nord e dunque l’ulteriore svuotamento delle Università meridionali; altre migliaia di studenti che all’Università non si iscriveranno mai.

La Sardegna sarebbe tra le più penalizzate, sottolinea Marco Meloni, combattivo coordinatore dell’Associazione universitaria Unica 2.0 e si creerebbero tre “gabbie geografiche” Nord, Centro e Sud. A fronte invece della omogeneizzazione della contribuzione studentesca su tutto il territorio dello stato sul piano della tassazione studentesca con corposi aumenti stabiliti dal decreto legislativo del 68/2012.

Di qui la protesta degli studenti sardi con l’occupazione del Palazzo della scienze. Che continuerà, a Cagliari come in tutta Italia, sino al ritiro del decreto.

*Pubblicato su Sardegna Quotidiano del 9-2-2013

 

Letteratura sarda:Antonio Canu e Girolamo Areolla

Università della Terza Età di Quartu sant’Elena

13- 2- 2013    6° Lezione di Letteratura sarda

di Francesco Casula

 

1. ANTONIO CANO*

Il primo scrittore di un poema in lingua sarda(1400-1476/78)

Antonio Cano (o Canu) nasce a Sassari, sul finire del Trecento e muore verso il 1470: ma non conosciamo la data esatta né della nascita né della morte. Sappiamo però che dopo essere stato rettore nella villa di Giave, fu eletto abate nella prestigiosa abbazia di Saccargia dellOrdine Camaldolese e che, essendo figlio del barone di Osilo, nel 1420 pare sia stato nominato oratore di corte da Alfonso V il Magnanimo.

Nominato inoltre dal Papa Eugenio IV, dal Luglio del 1436 al 1448 fu vescovo della Diocesi di Bisarcio (oggi scomparsa) e dal 1448 al 1480  dellArchidiocesi di Sassari (un tempo di Torres).

Il 12 Marzo 1437 in qualità di vescovo indisse un sinodo nella Chiesa di Santa Maria di Ozieri: i cui Atti però sono andati perduti. Nel 1444, essendo deceduto labate Giovanni, della SS Trinità di Saccargia, chiese ed ottenne dal Papa lamministrazione spirituale e temporale del monastero.

La sua fama è legata soprattutto al poemetto in rima, Sa  vitta et sa morte et passione de Sanctu Gavino, Prothu et Januariu, scritto in Lingua sarda- logudorese, probabilmente nel 1463, in occasione di un Concilio provinciale da lui stesso convocato e celebrato.

Fu però pubblicato molto più tardi, nel 1557: l’esemplare, conservato nella Biblioteca dell’Università di Cagliari e proveniente dal lascito Baylle, è l’unico che si conosca del poema. L’edizione reca, segnata a penna da mano più recente, l’attribuzione all’arcivescovo di Torres Antonio Cano: «Auctore Antonio Cano Archiepiscopo Turritano realisti». Confermerebbe tale attribuzione Giovanni Francesco Fara (1553-1591, arciprete del capitolo turritano, vescovo di Bosa e padre della storiografia sarda con le opere Chorographia Sardiniae e De rebus Sardois.

Certo è che il successo del poema dovette essere notevole se ancora dopo circa un secolo si sentì la necessità di pubblicarlo a stampa, in un periodo nel quale nella Sardegna del Cinquecento, la stampa di un libro –naturalmente se è sarda- doveva costituire un avvenimento abbastanza eccezionale. Per la notevole importanza filologica del testo, fu ristampato dalla Ditta G. Dessì di Cagliari nel 1912, in edizione critica del grande linguista tedesco Max Leopold Wagner.

Il poemetto, di argomento agiografico, è considerato la più antica opera letteraria in lingua sarda fino ad oggi conosciuta.

 

Protasi

O Deu eternu, sempre omnipotente,         

In s’aiudu meu ti piachat attender

Et1 dami gratia de poder acabare

Su sanctu2 martiriu in rima vulgare3

De sos sanctos martires tantu gloriosos

Et cavaleris de Cristus victoriosos 

Sanctu Gavinu Prothu e Januariu

Contra su demoniu nostru adversariu

Fortes defensores et bonos advocaos,

Qui in su paradisu sunt glorif icados

De sa corona de sanctu martiriu,

Cussos sempre siant in nostru adiutoriu.

                            Amen.

 

 

Traduzione

(O Dio eterno, sempre onnipotente, ti piaccia intervenire in mio aiuto e donarmi la grazia per poter finire in rima volgare, il santo martirio dei santi Martiri tanto gloriosi e cavalieri di Cristo vittoriosi, San Gavino, Proto e Gianuario.Contro il demonio nostro nemico, forti difensori e buoni avvocati, che sono glorificati in paradiso con la corona del santo martirio, intervengano sempre in nostro aiuto. Così sia)

 

*Passo tratto da Letteratura e civiltà della Sardegna di Francesco Casula, volume I, Edizioni Grafica del Parteolla, Dolianova, 2011, pagine 33-35.

 

 

2. GIROLAMO ARAOLLA*

Il poeta sardo trilingue che vuole “ripulire” la lingua sarda (1510 circa-fine secolo XVI)to nel primo ventennio del secolo XVI, apparteneva a una nobile famiglia sassarese (un Francesco Araolla fu castellano di Torres nel 1531 e un altro Girolamo Araolla fu nel 1554 consigliere di Sassari). La prima data certa che troviamo per il poeta è il 1543-44, anni in cui fu Capo Giurato  (il Sindaco di oggi) di Sassari: carica che ricoprì anche nel 1548-49 e che potevano esercitare solo i cavalieri e i nobili, feudatari esclusi. In seguito la famiglia cadde in disgrazia. Studiò Lettere e Filosofia poi si laureò in Diritto: certamente non in Sardegna, dove le Università non erano ancora state istituite. Quella di Cagliari nascerà infatti nel 1626 e quella di Sassari nel 1634. Probabilmente si adottorò a Pisa o a Bologna, dove ebbe come maestro Gavino Sambigucci. Suo amico fu in particolare lo storico Giovanni  Francesco Fara, vescovo della diocesi di Bosa e storico, considerato anzi dopo Sigismondo Arquer, il più antico storico e geografo isolano.

 Dopo una certa vita dissoluta abbracciò lo stato ecclesiastico, fu ordinato sacerdote e subito ottenne la nomina a canonico della cattedrale di Bosa il 18 Marzo del 1569 da parte del vescovo Antonio Cavaro (Pintor). Fu anche consultore dellInquisizione del regno di Sardegna ma ciò non gli impedì di usare la satira e pungere indisturbato i costumi del tempo. La tranquillità e l’agiatezza della nuova condizione gli permisero di coltivare gli studi poetici e storici.

Scrisse pregevoli versi in Lingua sarda, italiana e spagnola.  Nel 1582 pubblicò il suo poema Sa vida, su martiriu, et morte dessos gloriosos Martires Gavinu, Brothu et Gianuari, opera che si riallaccia a quella quattrocentesca di Antonio Cano, riadattando il vasto materiale della leggenda popolare sulla vita dei martiri turritani ad una costruzione narrativa più articolata. La sua morte viene collocata tra il 1595 e il 1615.

La sua opera, in ottava rima, sulla vita e il martirio dei santi turritani Proto, Gavino e Gianuario fu pubblicata per la prima volta a Cagliari nel 1582 e poi a Mondovì nel 1615. Il poema fu ben acconto per questi motivi: per l’argomento molto caro ai suoi concittadini e per il carattere religioso dell’opera ma soprattutto per aver usato la lingua sarda ovvero “l’obliato idioma patrio”: l’espressione è dello storico Francesco Sulis.

Il poemetto, che ha per argomento l’epopea dei santi, abbastanza innocua sia politicamente che culturalmente, è un’amplificazione e uno sviluppo di Sa  vitta et sa morte et passione de Sanctu Gavino, Prothu et Januariu, scritto dall’arcivescovo di Sassari Antonio Cano, probabilmente nel 1463, in occasione di un Concilio provinciale da lui stesso convocato e celebrato ma pubblicato molto più tardi nel 1557.

Sa Vitta del Cano è di 1081 versi, quella dell’Araolla invece è quasi il doppio, 244 stanze per circa 2000 versi. Ambedue raccontano la storia dei martiri di Torres Gavino, Brotu e Gianuario. Quella però di Araolla -scrive Michelangelo Pira- voleva essere più che un’operetta religiosa, un poema eroico, cioè la forma più alta di un’opera poetica così come la concepiva il nostro Cinquecento. I tre martiri infatti, protagonisti del poema ci vengono presentati più che come santi portatori ed espressione della fede cristiana, come eroici paladini di essa, esempi e paradigmi di fortezza e di coraggio: tres gloriosos advocados qui triunfant como in sa celeste corte (tre gloriosi avvocati che adesso trionfano nella corte celeste).

Il poema è scritto in sardo-logudorese, lingua e letteratura sarda che egli voleva elevare a dignità letteraria con chiari propositi nazionalisti, mischiandola a questo scopo con voci tratte dall’italiano e dallo spagnolo.

Ecco, a questo proposito, quanto scrive, testualmente, nell’introduzione al poema che funge anche da dedica all’arcivescovo di Sassari Don Alonso De Lorca : “Semper appisi desigiu, Illustrussimu segnore, de magnificare e arrichire  sa limba nostra sarda: de sa matessi manera qui sa naturale insoro tottu sas naciones de su mundu hant magnificadu et arrichidu; comente est de vider peri sos curiosos de cuddas. Et si bene d’issas matessi riccas et abundantes fuint algunas, non però hant lassadu de arrichirelas et magnificarelas pius cun vocabulos et epithetos foras d’issa limba non dissonantes de sa insoro, à tale qui usadas et exercitadas in sas scrituras sunt venidas in tanta sublimidade et perfezione arrichida s’una cun s’atera qui in pius finesa non podent pervennere, comente veros testimongios nos dimostrant sos iscrittos de sos eccellentes et famosos Poetas Italianos et Spagnolos” (Sempre desiderai Illustrissimo Signore, di magnificare e arricchire la nostra lingua sarda, alla stessa maniera che tutte le nazioni del mondo hanno magnificato e arricchito la loro propria: come si può vedere dagli studiosi di queste. E nonostante alcune di esse fossero già ricche e copiose, non si tralasciò di arricchirle e magnificarle ancora più con vocaboli ed epiteti d’altre lingue ma da quelle non dissonanti: sì che esse adoperate e sveltite nelle scritture, sono ora giunte a tale sublimità e a tale perfezione con l’arricchirsi l’una con l’altra che non è possibile possano conquistare maggiore eleganza e chiara testimonianza ce ne forniscono gli scritti dei più eccellenti e famosi poeti italiani e spagnoli).

 Con l’opera oltre che magnificare e arricchire la nostra lingua sarda, vuole recuperare un tema nazional-religioso molto noto e diffuso, offrendo  alla fantasia dei suoi lettori l’immagine edificatrice e commovente della fede e della fortezza di Gavino, Proto e Gianuario, già personaggi leggendari. 

 

SA FIDE DE GIANUARI

1. Los agatant in logu in hue1 soliant

Viver, sempre in abstrattu contemplende

Sa ineffabile altesa, in hue sentiant

Immensa gloria cun Deus conversende:

Sa pena, su martiriu si queriant

Fuer, los potint mas issos bramende

Stant su puntu, s’hora, et sa giornada

Qui l’esseret per Christu morte dada.

 

2. Los imbarcant cun furia, et cuddos Santos,

Quale angione portadu a sacrificiu,

Cantende istant sos versos et sos cantos

Dessu2 devotu Re divinu officiu;

Non timent pena, morte, non ispantos,

Aspirende a’ cuddu altu benefficiu,

In hue pr’unu mortale suffrimentu

Eterna gloria, eternu est su contentu.

 

3. Brothu, su perfectissimu Oradore,

Et valente Theologu, vidende

Gianuari santu esser d’annos minore,

Et disse algunu tantu dubitende,

Qui pro carissia o pro qualqui terrore

Su Barbaru l’andaret isvoltende,

Lu exortat in sa barca, et dat consiggiu3

Sendeli babu, et mastru, et isse figgiu.

 

4. «Como ti s’hat a parrer, figgiu meu,

Si has Como esser constante, firmu et forte

A cuddu veru Trinu, et unu Deu,

Et sufferrer con gaudiu et pena, et morte:

Non ti spantet su visu horrendu, et feu

De custu Barbariscu, pro qui a sorte

Dizzosa, l’has a tenner a soffrire

Per Christu ogni trabagliu, ogni martire.

5.«Non piaguere, o riquesa transitoria

Qui solet ingannare assos ignaros,

Qui tenent cuddos pro contentu et gloria

Quales sunt sos carnales et avaros,

T’ingannet, no; ma sigui, qui vitoria

Ti s’aparizzat dessos donos raros;

Qui mai nexuno s’ind’est coronadu,

Si con affannos non l’hat conquistadu.

 

Traduzione:

LA FEDE DI GIANUARIO

1.Li trovano nel luogo dove erano soliti vivere, sempre a  contemplare in estasi l’ineffabile altitudine dove, conversando con Dio, sentivano l’immensa gloria: se avessero voluto sfuggire alla pena, al martirio, avrebbero potuto ma bramandolo sanno il punto, l’ora e la giornata in cui, per Cristo, sarebbe loro data la morte.

2. Li imbarcano con furia e quei santi, come agnelli portati al sacrificio, cantano i versi e i canti, divino ufficio del devoto Re. Non temono né pene né  morte, né paure ma aspirano a quell’alto beneficio dove in cambio della mortale sofferenza c’è l’eterna gloria e l’eterna felicità.

3. Proto, il perfettissimo oratore e valente teologo, vedendo Gianuario giovane d’anni e dubitando un po’ di lui che il Barbaro potesse, per difetto o per qualche paura, convincerlo, nella barca lo esorta e lo consiglia, essendogli babbo e maestro e lui invece figlio.

4.Ora si vedrà figlio mio se saprai essere costante fermo e forte in quel vero Dio, uno e trino, e saprai soffrire con gaudio pena e morte: non ti spaventi il viso orrendo e brutto di questo Barbaro, perché per una sorte fortunata soffrirai in nome di Cristo ogni tormento e ogni martirio.

5.Non piaceri o ricchezze futili, che sogliono ingannare gli ignari, che li reputano gioia e gloria, come sono carnali ed avari, non t’inganni, no; ma pensa che ti si prepari una vittoria di doni rari, di cui mai nessuno s’è incoronato se non li ha conquistati con sofferenze.

 

*Passo tratto da Letteratura e civiltà della Sardegna di Francesco Casula, volume I, Edizioni Grafica del Parteolla, Dolianova, 2011, pagine 52-55

 

 

ALCUNI PREGIUDIZI E LUOGHI COMUNI SUL SARDO*

-Il sardo è un dialetto

Sul Sardo sono presenti –e spesso vengono circuitati ad arte- una serie di pregiudizi e di luoghi comuni. Una sorta di Idola fori, per dirla con il lessico forbito del filosofo e politico inglese Francesco Bacone. Essi si sono creati e sedimentati nel tempo, frutto insieme dell’ignoranza e della malafede da parte degli nemici della Lingua sarda.

l pregiudizio e il luogo comune più diffuso è che il sardo sia un dialetto. Occorre rispondere e chiarire con nettezza che nessun linguista o intellettuale rigoroso e serio ritiene che il sardo sia un dialetto: dal massimo studioso Max Leopold Wagner (che scriverà una monumentale opera dal titolo inequivocabile: La lingua sarda. Storia, spirito e forma) a un intellettuale come Antonio Gramsci (che in una lettera dal carcere 26 Marzo del 1927 alla sorella Teresina scriverà: “Intanto il sardo non è un dialetto…) .

Ma oggi è lo stesso Stato italiano a riconoscere al sardo lo status di Lingua: nella Legge del 15 Dicembre 1999, n.482 concernente “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”l’art.2  recita testualmente: ”In attuazione dell’art. 6 della Costituzione e in armonia con in principi generali stabiliti dagli organismi europei e internazionali, la Repubblica tutela la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo”.

E’ una lingua con proprie strutture sintattiche e grammaticali, espressioni foniche e semantiche, peculiari, autonome e distinte da tutte le altre lingue neolatine o romanze, ad iniziare dall’italiano. Ciò premesso occorre anche aggiungere che la linguistica moderna, scientifica, non distingue e fa differenze tra ciò che comunemente si chiama lingua da ciò che si chiama dialetto e, a maggior ragione non distingue tra lingua egemone e lingua subalterna.

Ciò che rende differente ciò che noi chiamiamo lingua da quello che chiamiamo dialetto non è qualcosa di insito nel sistema linguistico ma l’uso e l’importanza sociale dello stesso. In altra parole fra lingua e dialetto non ci sono differenze culturali ma politiche e giuridiche.

Per cui schematicamente potremmo affermare che la lingua è un dialetto che nella storia “vince” politicamente: così è stato per l’Attico di Atene in Grecia; per il castigliano di Madrid in Spagna; per il francese che da “dialetto” di Parigi, in seguito alla supremazia della città è stato adottato come idioma di tutto lo stato francese; per lo stesso italiano che da “dialetto” di Firenze, diviene idioma comune a tutta la penisola per il prestigio culturale degli scrittori fiorentini, e via via elencando.

O ai  “dialetti” dei vari paesi africani e asiatici ecc., che una volta decolonizzati e ottenuta l’indipendenza, diventano “lingue”. Così il Kiswahili- ma è solo un esempio- considerato “dialetto” nel Kenya sotto il dominio inglese fino al 1964, è oggi    la lingua ufficiale di questo paese africano. E’ cambiata qualcosa? Sì. Lo status politico e giuridico, non altro. Ed è proprio lo status politico, in buona sostanza a distinguere una lingua da un dialetto. A questo proposito è quanto mai opportuno ricordare la famosa definizione di Max Weinreich:”Una lingua è un dialetto con un esercito e una flotta”.

 

-Il Sardo non è unitario*

Un altro diffuso e ubiquitario pregiudizio e luogo comune attiene all’unità e unitarietà del Sardo. Non c’è un Sardo, si dice, ma molti Sardi. Occorre rispondere con nettezza che il Sardo consta di due fondamentali varianti o parlate: il logudorese e il campidanese. Ma il fatto che esistano due parlate non mette minimamente in discussione l’esistenza di una lingua sarda sostanzialmente unitaria, in quanto la lingua, per la linguistica scientifica è considerata un sistema o un insieme di sistemi linguistici. Inoltre la struttura del campi danese e del logudorese è sostanzialmente identica: quando vi sono delle differenziazioni di tratta di differenziazioni o lessicali (dovuta alla diversa penetrazione delle lingue dei popoli dominatori, soprattutto spagnolo e italiano) o differenze fonetiche, di pronuncia. Cioè differenze minime. Peraltro presenti anche nei diversi paesi della stessa “zona linguistica”. Ma non differenze sostanziali a livello grammaticale o sintattico. Del resto, qualcuno può affermare che l’Italiano non sia una lingua unitaria perché viene parlata con una pronuncia che varia –e molto!- da regione a regione, da paese a paese, da città e città? Qualcuno può pensare che la lingua sarda non sia unitaria perché “adesso” in campidano risulta “immoi” e  nel logudoro “como”?  Che dire allora dell’italiano unito a fronte di adesso, ora, mo’ per indicare la stessa “cosa”? Il fatto che in sardo  per indicare asino si utilizzino molti lessemi (ainu, molente/i, poleddu, burricu, bestiolu, burriolu, burragliu, chidolu, cocitu, unconchinu) non è forse segno di ricchezza lessicale piuttosto che di disunità del Sardo? Una lingua fatta di somme e di accumuli in virtù delle influenze plurime indotte dalla presenza nei secoli, di svariati popoli, ognuno dei quali ha influenzato e contaminato la lingua sarda?

Ma poi, dopo essere stata riconosciuta anche giuridicamente e politicamente come lingua, chi impedisce al Sardo di assurgere al piano e al ruolo anche pratico, di lingua unificata? Così come è successo storicamente a molte lingue, antiche e moderne, nel mondo e in Europa, prima pluralizzate in molte parlate e dialetti e in seguito unificate? Negli ultimi 150 anni della nostra storia è successo nell’800 e nel primo ‘900, tanto per fare qualche esempio, al Rumeno, all’Ungherese, ,al Finlandese, All’Estone; e recentemente al catalano, le cui varietà (il barcellonese, il valenzano, il maiorchino per non parlare del rossiglionese, del leridano e dell’algherese) erano assai diverse fra loro e assai più numerose delle varietà del Sardo di oggi. Dopo l’incerto procedere, fra molte incomprensioni e non pochi pregiudizi, che accompagnò una prima proposta di standardizzazione della lingua, dal 2006 la Regione si è dotata di Sa limba sarda comuna, uno standard linguistico per i documenti in uscita dall’Amministrazione e di riferimento per le decine di varietà del sardo. Si tratta non di un cocktail di varianti ma di una lingua effettivamente parlata nel centro dell’Isola, qualcosa che sta al sardo come il lucchese stava all’italiano nascente. E’ un primo incoraggiante inizio: Occorrerà proseguire in tale direzione. Si potrà ancora obiettare che tra logudorese e campi danese potrebbero esserci differenze poco sostanziali, ma come la mettiamo con il Catalano di Alghero, i Tabarchino di Carloforte e Calasetta, e lo stesso Gallurese e Sassarese? I linguisti rispondono a questa obiezione con chiarezza e scientificità: si tratta di Isole alloglotte. Ovvero di lingue e dialetti diversi dalla Lingua sarda, pur presenti nello stesso territorio sardo. Un fenomeno del resto presente in tutto il territorio italiano –e non solo- dove vi sono molte isole alloglotte in cui si parla:  albanese, catalano, greco, sloveno e croato oltre che francese, franco-provenzale, il friulano, il ladino e l’occitano. Questo fenomeno ha radici storiche precise: per quanto attiene al catalano di Alghero è da ricondurre al fatto che nel 1354 Alghero fu conquistata dai catalani che cacciarono i Sardi e da quella data si parlò il catalano, appunto. Il Tabarchino parlato a Carloforte (Isola di San Pietro) e a Calasetta (Isola di Sant’Antioco) è ugualmente da ricondurre a motivazioni storiche: alcuni pescatori di corallo provenienti dalla Liguria e in particolare dalla città di Pegli (a ovest di Genova, ora quartiere del comune capoluogo) intorno al 1540 andarono a colonizzare Tabarca (un’isoletta di fronte a Tunisi) assegnata dall’imperatore Carlo V alla famiglia Lomellini. Nel 1738 una parte della popolazione si trasferì nell’Isola di San Pietro. Nel 1741 Tabarca fu occupata dal bey di Tunisi. La popolazione rimasta fu fatta schiava, carlo Emmanuele di Savoia re di Sardegna ne riscattò una parlte portandola ad accrescere la comunità di Carloforte. Di qui il tabarchino.Diverso è invece il discorso che riguarda il sassarese, considerato dai linguisti un sardo-italiano e il gallurese ritenuto un corso-toscano. E da ricondurre ugualmente a motivazioni storiche.

 

*Passi tratti da La Lingua sarda e l’insegnamento a scuola, di Francesco Casula, Alfa Editrice, Quartu, 2010, pagine 8-11

La politica dei Partiti italiani fra risse e balle ciclopiche

AVANSPETTACOLO (E SPETTACOLO) DELLA POLITICA.

di Francesco Casula

Il sistema politico italiano – le cui articolazioni e succursali sarde non fanno eccezione, seguono anzi supine e subalterne le dinamiche continentali e italiote – da un po’ di tempo tende sempre più a “modernizzarsi”, “americanizzandosi”. Ricorre cioè a un uso più spregiudicato dei nuovi mezzi di comunicazione di massa, di tecniche più sofisticate di psicologia di massa, di linguaggio, di controllo dell’informazione. Attraverso tali tecniche e linguaggi, partiti, uomini politici e programmi vengono “venduti” prescindendo dai contenuti: quello che conta e che si valorizza – come in tutte le operazioni di marketing – è l’involucro, la confezione, l’immagine. O, meglio, quello che conta è lo spettacolo. E, nei periodi preelettorali come questo, l’avanspettacolo. Vieppiù indecoroso. Con recite ipocrite. Condite da risse e berci. In una gara a chi la spara più grossa. Con promesse e patti che non saranno mai mantenuti. Anzi: che verranno puntualmente traditi. Con oceani di balle e menzogne. Che ripetono, in modo ossessivo, ritenendo che l’iterazione possa tramutarle in verità. Fidandosi – evidentemente – nella imbecillità o comunque smemoratezza dell’elettore distratto. Il caso paradigmatico è l’IMU. Concepito da Berlusconi, deciso dal Governo Monti, approvato e votato da PDL-PD-UDC, oggi, per turlupinare noi elettori e cercare di catturare il  nostro voto veniamo a sapere che tutti i protagonisti dell’imposizione di quell’odioso balzello vorrebbero cambiarlo e persino eliminarlo. Per il futuro. L’uomo di Arcore va persino oltre: assicura che rimborserà quello pagato nel 2012.

Lo strumento principe utilizzato dai mestieranti e piazzisti della politica, per vendere fumo e chiacchiere è la TV: che occupano stabilmente e senza pudicizia. Segnatamente le Liste che esprimono e rappresentano i poteri politico-economici-fianziari-burocratici. Con giornalisti – almeno i più – genuflessi e proni, compiacenti e striscianti. Veri e propri imbrutta paperis e piscia tinteris. Che improvvisamente tirano fuori le unghie e diventano aggressivi, provocatori e indisponenti nei confronti delle Liste (poche) che criticano l’establishment e denunciano le malefatte: di ieri e di oggi. Ad iniziare da quelle riguardanti il Monte dei Paschi di Siena. Su cui si vorrebbe imporre il silenziatore. Anche da parte di chi, come Napolitano, dovrebbe sostenere il contrario: fare chiarezza. Assoluta.

Pubblicato su Sardegna Quotidiano del 6-2-2013

Ollolai nella storia di Francesco Casula

 

La Chiesa e il Convento dei Francescani a Ollolai: dove?

di Francesco Casula

A Ollolai, dove avvenne nel 1471/72, l’insediamento della Chiesa di santa Maria Maddalena e del piccolo Convento dei Frati Francescani annesso? Nell’attuale San Basilio, come tradizionalmente, si è sempre sostenuto?

Don Salvatore Bussu, in un libro su Ollolai, molto bello e documentato, sostiene di no: secondo lo studioso la Chiesa di santa Maria Maddalena  era ben distinta da quella di san Basilio, rifacendosi in modo particolare a una monografia sull’antica capitale barbaricina, di Salvatore Merche ma anche a molti documenti d’archivio. Così inoltre argomenta :”Per escludere che il convento fosse ubicato a san Basilio basta ricordare le motivazioni per cui i frati erano presenti a Ollolai. La ragione principale per cui il marchese Antonio Cubello aveva chiesto al Papa di costruire il convento era la mancanza di operai evangelici che istruissero la popolazione nella fede…Ma se il motivo era l’istruzione del popolo, perché andare in campagna, lontano dall’abitato? Dobbiamo concludere che la località di san Basilio non poteva essere il posto adatto per dei frati missionari” 1.

Ma c’è di più: il sacerdote e storico Vittorio Angius, redattore delle voci sarde del Dizionario storico-statistico-commerciale degli Stati di S. M. il re di Sardegna  scrive (nel 1845) che a Ollolai ci sono cinque Chiese, quella parrocchiale  di :”San Michele, piuttosto piccola e povera… e altre quattro minori  s. Antonio in mezzo all’abitato; santa Susanna che è propinqua alla parrocchia; s Pietro apostolo che è lontana dal comune di circa mezzo miglio; santa Maria Maddalena distante un miglio, e posta sulle montagne; san Basilio2. Dunque la Chiesa di santa Maria Maddalena, non coinciderebbe con la chiesa di san Basilio e, dato l’ordine con cui la elenca, sarebbe più vicina a Ollolai. Ma sempre ugualmente abbastanza distante, come afferma lo stesso Angius parlando del piccolo Convento annesso:” A distanza di mezz’ora in circa dalla popolazione, in un sito ameno e delizioso, coronato di eminenza e ricco d’acque salubri fu edificato il piccolo convento di Ollolai” 3.

Lo storico Francescano Leonardo Pisano precisa che vicino alla Chiesa di santa Maria Maddalena scorre un chiassoso torrentello di acque cristalline 4.

Conosciamo dunque il contesto ambientale e le condizioni climatiche (le montagne, le acque salubri,l’ aere sano) ma non l’ubicazione esatta. La distanza di cui parla l’Angius di per sé non è significativa ai fini dell’individuazione del luogo preciso perché dobbiamo supporre, anzi sappiamo con certezza, che Ollolai – come vedremo nei prossimi articoli –  si estendeva molto oltre gli attuali confini.

Poteva esse la zona di Laralai o quella di Mareddu come ipotizza il già citato Salvatore Bussu5? Può darsi. Ma perché escludere la zona di san Basilio, molto prima di arrivare alla località in cui c’è l’attuale Chiesa del Santo? Sarebbe più in sintonia con l’ambiente di montagne, chiassoso torrentello di acque cristalline e aere puro di cui parlano gli storici.                                                   2- continua

 

Note Bibliografiche

1. Salvatore Bussu, Ollolai cuore della Sardegna, la capitale dell’antica Barbagia nella storia dell’Isola, Edizioni l’Ortobene, Nuoro, 1995, pagina  81.

2. Dizionario Angius/Casalis, La Sardegna paese per paese, Edizione Unione Sarda, Cagliari, 2004, pagina.255.

3. Goffredo Casalis, Dizionario storico-statistico-commerciale degli Stati di S. M. il re di Sardegna, vol. II, Torino, 1834, pag.129.

4. Padre Leonardo Pisano, I Frati Minori di Sardegna,I Conventi maschili dal 1458 al 1610, volume I, Edizioni della Torre, Cagliari 2002, pagina 22.

5. Salvatore Bussu, op. cit. pagina 83.