Gli 11 anni di Pontificato di Papa Francesco.

Gli 11 anni di Pontificato di Papa Francesco.
di Francesco Casula
Il 13 marzo del 2013 veniva eletto papa il gesuita Bergoglio, che non a caso sceglieva il nome di “Francesco”: nomen omen! Fin da subito ha voluto imprimere alla Chiesa cattolica un radicale cambio di rotta, trovando all’interno stesso della Chiesa, ma soprattutto fra la gerarchia sorde ampie e corpose resistenze alla sua “rivoluzione”: di qui lo “scontro” sotterraneo (ma non troppo). Schematizzando (e necessariamente semplificando) a confrontarsi (o combattersi?) sono due Chiese contrapposte: quella di Bergoglio e quella rappresentata emblematicamente dai “bertoniani”. Insomma la Chiesa dei poveri e la Chiesa “costantiniana”: una dialettica, un confronto, uno scontro che ha attraversato la sua storia millenaria. E che nella storia carsicamente emerge in alcuni periodi, per inabissarsi in altri. Da quando con l’imperatore Costantino appunto, inizia a mutare “pelle”, DNA: trasformandosi gradatamente, da Chiesa come Comunità di base, povera e solidale, perseguitata e martirizzata, in Chiesa gerarchica, di potere e di dominio: di potere economico e politico. Nel Medioevo al fine di giustificare e “legittimare”, tale potere “temporale”, dei papi e della Chiesa – evidentemente hanno la coda di paglia – gli storici “cristiani” fra l’altro “inventarono” un documento secondo cui l’imperatore Costantino con un decreto avrebbe donato a Papa Silvestro i territori di Roma e del Lazio. Ci avrebbe poi pensato Lorenzo Valla, umanista brillante e colto, a demistificare e sbugiardare tale falso, tale documento apocrifo, con le armi finissime e scientifiche della filologia, della paleografia e dell’archeologia, con un celebre opuscolo ” De falso credita et ementita Constantini donatione” del 1440. Ma non solo su questo versante muta la Chiesa: nata per annunziare il messaggio evangelico, diventa “altro”: si dota e costruisce un apparato dottrinale e teologico, di norme, precetti, divieti, dogmi, riti, culti: che di fatto tendono a “sostituire” il messaggio originale cristiano o, comunque, lo “declassano”, lo diluiscono e, talvolta, lo stravolgono, facendolo di fatto evaporare. Il “fedele” è tale più per l’osservanza della “pratica religiosa” e cultuale o della lettera della dottrina, quasi fosse un’ideologia astratta, che per la “pratica etica” e i comportamenti morali. Il Papa gesuita invece si ispira al messaggio evangelico primigenio: dandone l’esempio e iniziando a praticarla, la povertà, evocata dalla scelta del nome: Francesco appunto. Così ai sontuosi appartamenti papali preferisce la modesta foresteria di Santa Marta, dove consuma i pasti insieme agli altri. Di contro la Chiesa “costantiniana” rappresentata in modo esemplarmente paradigmatico da Bertone che – già potente Segretario di Stato – abita in un sontuoso e lussuoso e superaccessoriato attico. Papa Francesco non riduce la communio e la vita stessa della Chiesa alla struttura ecclesiastica e all’estabilishement: anzi. Di qui la sua apertura agli extracomunitari, ai migranti, alle altre confessioni religiose. Per lui infatti il contenuto della fede non è la gerarchia ma l’evento di Cristo vivente che essa custodisce. E la Chiesa per lui è chiamata a servire tutti gli uomini, segnatamente gli ultimi e quelli che chiama con un lessico molto pregnante, gli scartati, e non solo i fedeli. Il suo servizio non è un mestiere e, ancor meno una carriera, con privilegi ed emolumenti principeschi, come troppo spesso lo è stato nel passato (e lo è ancora) per molti ecclesiastici: che Bergoglio denuncia con reprimende severe. Per lui è un ministero evangelico e profetico di salvezza che si dispiega nella situazione storica concreta in cui vive e opera, accettando e incrociando il frastuono dell’esistenza, occupandosi degli uomini e delle donne, quali sono, e non solo delle loro anime. Egli non è il capo di una setta religiosa: è il fratello e il padre di tutti, ma soprattutto dei diseredati, dei dannati della terra: anche se, formalmente, non appartengono alla Chiesa. Di qui la simpatia, l’apertura e il sostegno deciso e convinto alle problematiche ambientali (penso alla recente enciclica Laudato si’) e ai nuovi processi di liberazione, in sintonia con i soggetti emergenti delle trasformazioni sociali: alle donne che pur continuando ad essere discriminate, iniziano ad acquisire potere e ruoli; alle culture e lingue, un tempo distrutte che rivendicano la propria identità; alle comunità indigene che rivendicano le loro visioni del mondo autoctone non soggette alla colonizzazione occidentale; alle comunità contadine che si mobilitano contro il capitalismo selvaggio. Di qui soprattutto la sua battaglia permanente e assillante per la Pace, il disarmo, la lotta alle fabbriche di armi e di morte. Di qui la sua proposta di “negoziati” per interrompere “l’inutile strage” e la “gigantesca carneficina” (per utilizzare le locuzioni di Benedetto XV a proposito della Prima Guerra mondiale). O il suo accorato appello perché in Palestina si ponga fine al macello in atto., A tali aperture si oppone la Chiesa “costantiniana”, di fatto preconciliare, più legata alla religio che alla religiosità, ma soprattutto non disposta a rinunciare ai privilegi di casta e al potere.
 
 
 
 
 
 
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Intervista a “Servizio Pubblico” di Michele Santoro

La mia Intervista a “Servizio Pubblico” di Michele Santoro su Prima Guerra mondiale e dintorni. (nessi su sutzu per chi non l’avesse vista e sentita).
di Francesco Casula

Quando scoppia il primo grande conflitto mondiale nel 1914, dopo l’attentato all’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria il 28 agosto a Sarajevo, l’Italia non entra in guerra: il Parlamento, composto soprattutto da liberali, socialisti e cattolici, era neutralista.
La stragrande maggioranza era infatti contrario alla guerra: i liberali, per motivi politici ed economici, perché ritengono la guerra strumento di distruzione di persone e cose; i socialisti, per motivi ideologici e politici, perché nella guerra, qualunque Stato vinca, a essere macellati sono i proletari, essi sostengono invece la lotta di classe e la rivoluzione proletaria non la guerra; i cattolici per motivi dottrinali e religiosi: solo Dio è padrone della vita.
A fronte della neutralità del Parlamento il re Vittorio Emanuele III (noto come Sciaboletta) con il ministro degli esteri Sidney Sonnino e il Primo ministro Antonio Salandra sfiancano il Parlamento, per un intero anno, costringendolo alla fine a cambiare opinione e a entrare in guerra il 24 maggio del 1915.
Dopo lo scoppio della guerra, il re con il ministro degli esteri e il capo del governo hanno colloqui sia con le potenze dell’Intesa che con gli Imperi centrali. Ebbene l’Austria si dichiara disponibile a cedere all’Italia, se solo fosse rimasta neutrale, le cosiddette terre irredente. E Giolitti, il gran capo dei liberali, in una lettera privata, poi pubblicata dal quotidiano “La Tribuna”, aggiungerà che “era disponibile a cedere le terre irredente e parecchio di più”.
La Stampa e i Media si guardarono bene dal darne notizia, anche dopo la desecretazione della trattative. Solo don Lorenzo Milani, parroco di Barbiana, a più riprese ne parlò e ne scrisse in “Lettera ai giudici” (1965), denunciando che quella guerra si poteva evitare. Fu inascoltato.
L’Italia nonostante tale disponibilità dell’Austria, entrerà in guerra, con la stragrande maggioranza della popolazione contraria. Le punte di diamante dei guerrafondai e bellicisti sono i nazionalisti, i futuristi (per il loro capo, Marinetti, la guerra è “la sola igiene del mondo”) i dannunziani, Mussolini con “Il popolo d’Italia”. A favore della guerra si dichiarano anche i grandi Giornali e Quotidiani ma soprattutto la grande industria metallurgica e meccanica che vede nella guerra un’occasione formidabile per fare immani profitti con la vendita delle armi e le sicure commesse da parte dello Stato.
Una guerra “inutile strage” e “gigantesca carneficina”, come denuncerà il Papa Benedetto XV nell’enciclica Ad Beatissimi Apostolorum Principis. Con 10 milioni di morti. Per non parlare dei dispersi e mutilati. Cui la Sardegna, in proporzione agli abitanti pagherà il fio più alto: 13.602 morti.
Quella guerra che Emilio Lussu nel suggestivo libro testimoniale “Un anno sull’Altopiano” descriverà mirabilmente. Lui che da “convinto e chiassoso interventista” si arruolerà volontario ma al fronte ne sperimenterà l’atrocità l’assurdità e l’insensatezza: con la protervia e la stupidità dei generali che manderanno al macello i soldati; con i miliardi di pidocchi e di topi; con la polvere e il fumo, i tascapani sventrati, i fucili spezzati, i reticolati rotti.
In cambio delle migliaia di morti – scriverà il grande storico sardo Raimondo Carta Raspi – ci sarà il retoricume delle medaglie de dei ciondoli. Ma la gloria delle trincee non avrebbe sfamato la Sardegna, perché le patacche, anche se seminate, non produrranno grano.
E la guerra di oggi in Crimea? Ha analogie con quella del Quindici/Diciotto? Sì. Questa come quella, continua ad essere voluta dagli Stati (Europei e America) ma non dai popoli; continua ad essere sostenuta dai Grandi Giornali e, soprattutto dalle industrie belliche per ingrassarsi con ciclopici profitti. Esattamente come nella Prima Guerra mondiale.
E la nostra Isola? Gravata dal 65% delle servitù, basi e poligoni militari per l’esercitazione e la sperimentazione di armi degli eserciti di mezzo mondo. E noi sardi? A produrre armi munizioni e bombe nella RWM di Domusnovas.
Da Isola di pace a Isola di guerra.

La mia Intervista a “Servizio Pubblico” di Michele Santoro su Prima Guerra mondiale e dintorni. (nessi su sutzu per chi non l’avesse vista e sentita).

di Francesco Casula

Quando scoppia il primo grande conflitto mondiale nel 1914, dopo l’attentato all’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria il 28 agosto a Sarajevo, l’Italia non entra in guerra: il Parlamento, composto soprattutto da liberali, socialisti e cattolici, era neutralista.
La stragrande maggioranza era infatti contrario alla guerra: i liberali, per motivi politici ed economici, perché ritengono la guerra strumento di distruzione di persone e cose; i socialisti, per motivi ideologici e politici, perché nella guerra, qualunque Stato vinca, a essere macellati sono i proletari, essi sostengono invece la lotta di classe e la rivoluzione proletaria non la guerra; i cattolici per motivi dottrinali e religiosi: solo Dio è padrone della vita.
A fronte della neutralità del Parlamento il re Vittorio Emanuele III (noto come Sciaboletta) con il ministro degli esteri Sidney Sonnino e il Primo ministro Antonio Salandra sfiancano il Parlamento, per un intero anno, costringendolo alla fine a cambiare opinione e a entrare in guerra il 24 maggio del 1915.
Dopo lo scoppio della guerra, il re con il ministro degli esteri e il capo del governo hanno colloqui sia con le potenze dell’Intesa che con gli Imperi centrali. Ebbene l’Austria si dichiara disponibile a cedere all’Italia, se solo fosse rimasta neutrale, le cosiddette terre irredente. E Giolitti, il gran capo dei liberali, in una lettera privata, poi pubblicata dal quotidiano “La Tribuna”, aggiungerà che “era disponibile a cedere le terre irredente e parecchio di più”.
La Stampa e i Media si guardarono bene dal darne notizia, anche dopo la desecretazione della trattative. Solo don Lorenzo Milani, parroco di Barbiana, a più riprese ne parlò e ne scrisse in “Lettera ai giudici” (1965), denunciando che quella guerra si poteva evitare. Fu inascoltato.
L’Italia nonostante tale disponibilità dell’Austria, entrerà in guerra, con la stragrande maggioranza della popolazione contraria. Le punte di diamante dei guerrafondai e bellicisti sono i nazionalisti, i futuristi (per il loro capo, Marinetti, la guerra è “la sola igiene del mondo”) i dannunziani, Mussolini con “Il popolo d’Italia”. A favore della guerra si dichiarano anche i grandi Giornali e Quotidiani ma soprattutto la grande industria metallurgica e meccanica che vede nella guerra un’occasione formidabile per fare immani profitti con la vendita delle armi e le sicure commesse da parte dello Stato.
Una guerra “inutile strage” e “gigantesca carneficina”, come denuncerà il Papa Benedetto XV nell’enciclica Ad Beatissimi Apostolorum Principis. Con 10 milioni di morti. Per non parlare dei dispersi e mutilati. Cui la Sardegna, in proporzione agli abitanti pagherà il fio più alto: 13.602 morti.
Quella guerra che Emilio Lussu nel suggestivo libro testimoniale “Un anno sull’Altopiano” descriverà mirabilmente. Lui che da “convinto e chiassoso interventista” si arruolerà volontario ma al fronte ne sperimenterà l’atrocità l’assurdità e l’insensatezza: con la protervia e la stupidità dei generali che manderanno al macello i soldati; con i miliardi di pidocchi e di topi; con la polvere e il fumo, i tascapani sventrati, i fucili spezzati, i reticolati rotti.
In cambio delle migliaia di morti – scriverà il grande storico sardo Raimondo Carta Raspi – ci sarà il retoricume delle medaglie de dei ciondoli. Ma la gloria delle trincee non avrebbe sfamato la Sardegna, perché le patacche, anche se seminate, non produrranno grano.
E la guerra di oggi in Crimea? Ha analogie con quella del Quindici/Diciotto? Sì. Questa come quella, continua ad essere voluta dagli Stati (Europei e America) ma non dai popoli; continua ad essere sostenuta dai Grandi Giornali e, soprattutto dalle industrie belliche per ingrassarsi con ciclopici profitti. Esattamente come nella Prima Guerra mondiale.
E la nostra Isola? Gravata dal 65% delle servitù, basi e poligoni militari per l’esercitazione e la sperimentazione di armi degli eserciti di mezzo mondo. E noi sardi? A produrre armi munizioni e bombe nella RWM di Domusnovas.
Da Isola di pace a Isola di guerra.

L’ Astensionismo? Lo producono i Partiti e il sistema elettorale maggioritario

L’ASTENSIONISMO? LO PRODUCONO I PARTITI
e il sistema elettorale maggioritario.

di Francesco Casula

L’astensionismo c’è sempre stato. E’ un dato fisiologico. Ma era minimo: soprattutto nella repubblica incipiente, dopo il crollo del Fascismo e la cacciata dei tiranni sabaudi, ma anche nell’intero trentennio (1946-1976) quando la partecipazione elettorale era elevatissima e stabile.
Ancora nelle elezioni politiche del 1976 l’astensionismo è stato del 6,6%. Aumenterà enormemente invece nel ventennio 1979-99: sia nelle elezioni politiche che in quelle regionali e locali e, persino nelle consultazioni referendarie.
Ma ancor più si accentuerà, arrivando a percentuali colossali (oggi siamo a circa il 50%) nell’ultimo ventennio.
Le cause: due in modo particolare: la trasformazione del sistema politico e dei Partiti e l’introduzione dei sistemi elettorali basati sul maggioritario.
I Partiti, segnatamente negli ultimi venti/trent’anni si sono ridotti a ectoplasmi. A comitati elettorali (quando non comitati d’affari). Lontani dai bisogni della gente e dei territori: specie dei più periferici. Viepiù omologhi fra di loro. Tanto che qualche anno fa i due “poli” di centro-destra e di centro-sinistra si scambiarono reciproche accuse di plagio dei programmi. E negli ultimi anni si sono addirittura organicamente alleati, prima con il governo Monti e poi con quello di Draghi: in nome, si è sostenuto,della governabilità e della stabilità, considerata alla stregua di una vera e propria finalità politica.

A tutto ciò aggiungasi i sistemi elettorali – a livello statale come a livello regionale – i vari Porcelli (nomen omen!) basati sostanzialmente sul maggioritario, la cui fascistissima legge elettorale Acerbo,del 1923, in confronto, era ultrademocratica!
Sistemi elettorali – come quello attualmente ancora in vigore in Sardegna per le elezioni regionali – che producono disastri e devastazioni infliggendo colpi mortali alla democrazia; alla stessa libertà elettorale; al diritto all’ esistenza politica delle minoranze “fastidiose” per l’establishment: che lasciano senza rappresentanza istituzionale decine e decine di migliaia di elettori: com’è successo nel 2014 con Michela Murgia, Pili, Devias e Sanna (con più di 130 mila sardi senza rappresentanza in Regione, il 17% ), nel 2019 con Maninchedda, Pili e Andrea Murgia (con più di 56 mila, circa l’8%) e oggi con Soro e Chessa (con più di 70 mila, 9.6%) .
Abbiamo così cittadini di serie A: il cui voto conta. E cittadini di serie Z, il cui voto non conta.

Possiamo tollerare simil infamia? E per quanto tempo ancora? E poi ci si stupisce se il 50% degli elettori, semplicemente a votare non vanno? E saranno loro gli irresponsabili e non chi produce tale vergogna?