Eliseo Spiga, l’intellettuale controcorrente

 

Eliseo Spiga, l’intellettuale controcorrente.

di Francesco Casula.

Inizio con l’analisi del suo romanzo: Capezzoli di pietra

Capezzoli di pietra è un avvincente e suggestivo romanzo costruito con fraseggiare, periodare e passaggi agili e felici; con un lessico acuminato, con straordinari intrecci che hanno inizio, si interrompono, si intessono di nuovo, si spezzano e infine si risolvono, facendo abbondante uso dei flash-back. Con soluzioni linguistiche e prosadiche fortemente personali: perché Spiga ha pochissimi debiti con la cultura accademica e difficilmente gli si può attagliare qualche “ismo” tradizionale.

Spiga si ribella allo sfacelo e alla società alienata della apparente razionalità capitalistica del sistema economico e sociale occidentale. In altre parole non si conforma e non si arrende alle logiche e alle ragioni della modernizzazione tecnicista, al mito dello Stato e del mercato, al dio moneta: ma non in nome di qualche società perfetta e ideale, di qualche “città del sole” utopica – alla Tommaso Moro o alla Campanella, tanto per intenderci – bensì della comunità nuragica, della sua organizzazione politica e sociale, della sua economia e dei suoi valori.

   Il tema che attraverserà l’intero romanzo è annunciato solennemente ed affermato apoditticamente fin dalla prima pagina e dal primo capitolo che sopra si riporta: ”I miti della moneta e dello stato, che erano affluiti in cielo per oltre 50 secoli da tutti i punti dell’orizzonte e che si erano addossati gli uni agli altri fino a formare un’unica coltre, quasi un altro cielo, si squarciavano fragorosamente e rovesciavano sulla terra grandine vento e fuoco”.

   La razionalità del sistema, la visione rettilinea e lineare della storia, la fede <nelle magnifiche sorti e progressive>, sono fatte a pezzi, ridotte in frantumi, fin dall’esordio del romanzo. La civiltà industriale, – o più propriamente l’inciviltà industriale, per usare un’espressione del grande scrittore italiano PaoloVolponi- produce infatti immani catastrofi, mostruosi disastri, ciclopiche sciagure. L’Ordigno –questa è la potente immagine e il simbolo che Spiga utilizza per riassumere il trinomio città/stato/moneta- cui si oppone l’Organismo, ovvero la triade campagna/comunità/beni d’uso,  ha creato nuove barbarie: la pascoliana “truce ora dei lupi”.

   La Sardegna è diventata così “un atollo nuclearizzato” in mezzo al mediterraneo e “l’occhio vitreo” dell’Ordigno, da milioni di teleschermi impone ordini sul mangiare, sul vestire, sul pensiero e sul sapere. Perché vuole ridurre tutto all’unità: ”Un mondo. Una legge. Un’umanità indistinta, Una coscienza frollata. Un paesaggio spianato,. Una luce fredda“. Insieme nelle città “persino l’aria scarseggiava e l’acqua era diventata quasi un articolo da farmacia”.

   Cagliari è distrutta da un uragano di fuoco e di acqua e Nurgulè – il protagonista del romanzo è “trasportato dal diluvio come arca inzuppata, sullo sperone più alto del promontorio di Sant’Elia, nella sfera del delirio, al di là del tempo e dello spazio”.

   Perché – ecco un altro suggestivo tema del romanzo – l’uomo contemporaneo non è più in nessun luogo e il tempo non sa ormai cosa sia. La moderna inciviltà urbana e industriale crea infatti sradicamento, estraneità, tragica solitudine, costante declino di tutti i valori, perdita orribile e insanabile del senso della totalità, disperante lacerazione e cancrena dell’individuo. E insieme cancella la dimensione del tempo storico: sia lo spessore del passato che la prospettiva del futuro, riducendo tutto a un presente astorico e senza tempo.

   A fronte di tale catastrofe e disfatta, Nurgulè rientra nel ventre materno e risale il tempo, con il suo spirito disincarnato, fino all’origine della biforcazione fatale in cui si era smarrita una parte dell’Umanità.

   Ritorna così al mondo delle origini, al mondo della natura, a uno splendido passato di bellezza: che ci lascia un’impressione di letizia, come se avessimo attraversato un paese amabile e felice.

   Il periodo nuragico, la società nuragica è infatti vista, descritta, rappresentata, cantata e celebrata nel romanzo come l’età dell’oro, arcana e felice,- soprattutto a confronto con

 

 

il buio del presente  – solcata com’è da lampi di magia che creano nel lettore stati d’incanto.

 E’ la civiltà della sovranità comunitaria, che non costruisce città ma villaggi, perché “la città è ostile alla terra, agli alberi, agli animali e inselvatichisce gli uomini, pretende tributi insopportabili per accrescere le sue magnificenze…crea i funzionari del tempio e del sovrano…i servi e gli schiavi”.

 E’ la civiltà della gestione comunitaria delle risorse, della democrazia, dell’egalitarismo, dei rapporti amichevoli con gli altri popoli del Mediterraneo.

 E’ la civiltà che rispetta l’ambiente, la natura, gli equilibri dell’ecosistema, della terra perché “non ci appartiene e siamo noi che le apparteniamo, siamo solo i suoi figli e non i suoi padroni”.  E’ la civiltà che identifica la Comunità e la Nazione sarda con i suoi nuraghi, “fiaccole perenni di indipendenza”, simbolo “della libertà eterna della Confederazione delle

Comunità nuragiche” che si oppone “alla pretesa eternità delle monarchie divine raffigurate dalle piramidi nilotiche”.

 E’ la civiltà con il suo peculiare idioma, che sarà <tagliato> e proibito dai Romani, che avevano decretato il taglio della lingua e la crocifissione per chiunque fosse stato sorpreso a pronunciare una parola nuragica. ”Le croci da quel momento furono i nuovi alberi piantati dallo stato: Ne furono piantati dovunque e in tutte le stagioni. Ciascuna di esse riguardava l’obbligo del mutismo. E col l’abolizione della lingua si dissolveva anche l’ultimo segno di riconoscimento e di appartenenza alla Comunità. Un mutismo che sapeva di peste. E la peste spingeva tutti verso l’ebetudine, dissecava il pensiero, calcificava le idee, annientava la creatività”.

 Si tratta solo di lacerti lirici e onirici? Di struggente nostalgia per un antico splendore? Di una favola – sia pure bella – che Spiga sogna, invoca, almanacca, come una necessità fantastica e biologica, ma pur sempre una favola? L’invocazione di un mondo salvo e salvifico, di una tana, di un’arca di Noè per salvarci dalla disumanizzazione di una realtà dominata dall’Ordigno? Certo, può darsi. Ma non solo. E comunque se di favola si tratta, è una favola che parla di noi, di noi sardi e di noi uomini e donne del 2007. Dei nostri problemi. Delle nostre

 

FINE DEL REGNUM SARDINIAE [tratto da La Sardità come utopia- note di un cospiratore, Ed. CUEC, Cagliari 2006 pagine 151-154].

“L’evento politicamente più significativo dell’Ottocento sardo è senza dubbio la perfetta fusione, 29 novembre 1847, della Sardegna con gli Stati sabaudi di Terraferma e la fine del Regnum Sardiniae.

Il pretesto per decretare la fusione fu dato dalle manifestazio­ni pubbliche di Cagliari e Sassari per invocare che venissero estese alla Sardegna riforme liberali quali l’attenuazione della censura sulla stampa, la limitazione degli abusi polizieschi e qualche libertà commerciale. Dentro la cortina fumogena del riformismo liberale europeo, avanzavano, in posizione premi­nente, i nobili ex-feudali che, illecitamente arricchitisi con la ces­sione dei feudi in cambio d’esorbitanti compensi, ritenevano più garantite le loro rendite dalle finanze piemontesi piuttosto che da quelle sarde. In prima fila c’erano anche vescovi e preti, impiegati statali desiderosi di carriera e di migliori stipendi, un po’ d’avvocati e altri professionisti in cerca di lustrini, commer­cianti e affaristi, specialmente continentali, razzolanti sempre più numerosi nelle aie sarde, e, infine, coro vociante e allucinato, folti gruppi di studenti universitari opportunamente masturbati dai gesuiti.

Ad una delegazione di quest’accozzaglia reazionaria, espressa dagli Stamenti, ormai ridotti a stato larvale, e da alcuni consigli comunali, sua Maestà Carlo Alberto espettorò con paterna tenerez­za la sua intenzione di formare con Sardi e Piemontesi, e qualche altro, una sola famiglia.

In effetti, al Re erano state presentate, in seguito ad una perfi­da manipolazione che si abbracciava con la perfida malafede del sovrano, non tanto programmi riformatori quanto la richiesta di perfetta fusione. In altre parole, gli autori della iniziativa scellerata, dichiaravano la rinuncia dei Sardi, commenta Girolamo Sotgiu, a quella indipendenza nazionale che aragonesi e spagnoli avevano secolarmente rispettato e che il regno sabaudo non aveva osato mettere in discussione anche se l’aveva svuotata di contenuto. La Sardegna, che era stata un regno con relativa autonomia all’inter­no del grande Impero di iberica magnificenza, si ritrovò ad essere provincia di uno staterello ottuso e famelico. E finì così, in una bolla regale, il Regnum sortito da una Bolla pontificia.

I Sardi, ovviamente, erano tutt’altro che convinti della rinuncia. Da più parti furono minacciati, ai piemontesi un’altra edizione dello scommiato del 1794, e ai gesuiti espulsione e morte, mentre i contadini scalpitavano all’idea della imminente sollevazione. Da Teulada vennero a Cagliari in moltissimi credendo di dover parte­cipare

 

 

 

alla rivolta. A Selargius c’erano cinquecento uomini armati sul piede di guerra e circa ottocento ce n’erano ad Aritzo, Orgoso­lo e Fonni. La Sardegna contadina, osserva ancora Sotgiu, sembrava rivivere l’ansia e la speranza dei giorni esaltanti dell’Angioy, pronta ancora una volta a scendere in armi per la sarda rigenerazione.

Gli avvenimenti, com’è noto, presero tutt’altra piega.

Il tenente generale Alberto La Marmora, proprio quello del Voyage en Sardaigne, giunse, ai primi del 1849, come commissario regio per pacificare l’Isola scossa da continui tumulti esplosi dalle gravissime condizioni economiche e anche da rinnovati senti­menti repubblicani filofrancesi. Conservatore e militaresco, il Generale si dedicò alla pacificazione affrontando il dissenso e la protesta con la repressione più brutale e la violazione sistematica delle meschine libertà statutarie. Per lui lo stato d’assedio divenne sistema di governo inaugurando la pratica della dittatura militare che, poco più di dieci anni dopo, diventerà usuale durante la guer­ra di conquista del Mezzogiorno da parte della monarchia italiana.

Il 24 febbraio del 1852, lo stato d’assedio, con l’invio del gene­rale Durando e di 500 soldati, fu imposto su tutta la provincia di Sassari per domare le agitazioni che vi si erano accese. Ancora nel 1855, lo stato d’assedio fu proclamato ad Oschiri per l’omicidio di un ingegnere.

Nel frattempo, tanto per non dimenticare, venne ribadito il divieto della lingua sarda e, da una Corte reale che parlava france­se, fu confermato l’obbligo dell’italiano già in vigore dal 19 maggio 1726 con l’incarico al gesuita Antonio Falletti di provvedere con un suo piano. Evidentemente, non era l’amore per la lingua italia­na che spingeva la Corte, ma la preoccupazione per la lingua che alimentava una cultura politica popolare di cui conoscevano bene la verve eversiva. Perciò, la Corte soffiava sempre sulla propagan­da razzistica contro i sardi ancora più brutti, sporchi, cattivi e anche pelosi, persino le donne avevano lunghi baffoni ed erano capaci di sparare da cavallo, e già diventati pocos, locos y malunidos.

Ma ormai Annibale è alle porte, come dicevano i sardisti quando temevano o si inventavano un pericolo, e si prepara il tempo in cui le catastrofi dei sardi da grandi si sarebbero trasformate in gran­dissime e, forse, irreparabili.

La Sardegna diventa subito terreno di conquista e di caccia per i nuovi capitali mercantili e industriali che la politica affaristica della Corte sabauda aveva mobilitato nei mercati finanziari d’oltralpe per dare sostegno al progetto cavourriano dell’Unità nazionale. Il sogno dell’indipendenza finisce nella soffitta o nascosto in qualche piega della coscienza. La dipendenza della Sardegna diventa totale, generale. Da dipendenti del Piemonte passiamo alle dipendenze di tutte le regioni del Nord-Italia e dei loro affaristi e speculatori. E, oggi, esiste al mondo qualcosa, qualche potere o volere, da cui non dipendiamo? Ma questo non è lo status di una colonia?

Lo Stato italiano, sin dai suoi primi mugolii, considerò la Sardegna come una sua appendice molto incerta, una colonia insomma e come tale barattabile. La cessione ai francesi fu ipotizzata per molto tempo. Quella a favore degli inglesi con minore convinzione. A quando la cessione piena agli Stati Uniti d’America?”

EMILIO LUSSU

 

In occasione del Giorno della memoria che sarà celebrato il 27 gennaio prossimi mi piace pubblicare un articolo di Emilio Lussu su:

 

“Sardegna, Ebrei e «razza italiana»”

Giustizia e Libertà, 21 ottobre 1938

Le Journal des Débats pubblica, tra il serio ed il faceto, uno scritto in cui si attribuisce a Mussolini il proposito di relegare in Sardegna tutti gli ebrei italiani. Con i tempi che corrono, queste cose vanno prese sempre sul serio. Come sardo, nato in Sardegna e rappresentante di sardi, io mi considero direttamente interessato […] .

Così stando le cose, è troppo giusto che gli ebrei italiani vengano a finire in Sardegna: essi sono i nostri più prossimi congiunti. Per conto nostro, noi non sentiamo che pura gioia. Essi saranno accolti da fratelli. La famiglia semitica uscirà rafforzata da questa nuova fusione. Semitici con semitici, ariani con ariani.

 

Mussolini va lodato per tale iniziativa. Anche perché rivela, verso noi sardi, un mutato atteggiamento.

Nel 1930, davanti a un giornalista e uomo politico francese che gli aveva fatto visita, pronunziò parole e propositi ostili contro l’isola fascisticamente malfida, e affermò che avrebbe distrutto la nostra razza, colonizzandoci con migliaia di famiglie importate da altre regioni d’Italia. Egli mantenne la parola e popolò le bonifiche sarde di migliaia di romagnoli e di emiliani.

Ma, a difesa della razza sarda, vigilavano impavide le zanzare, di pura razza semitica. L’immigrazione ariana è stata devastata dalla malaria e ora non ne rimane in piedi che qualche raro esemplare superstite.

Con gli ebrei, sarà un’altra questione. Essi saranno i benvenuti per noi e per le zanzare fedeli, le quali saranno, con loro, miti e discrete come lo sono con noi.

Sardi ed ebrei c’intenderemo in un attimo. Come ci eravamo intesi con gli ebrei che l’imperatore Tiberio aveva relegato nell’isola e che Filippo II di Spagna scacciò in massa. Quello fu un gran lutto per noi.

Ben vengano ora, aumentati di numero. Che razza magnifica uscirà dall’incrocio dei due rami!

Per quanto federalista e autonomista, io sono per la fusione dei sardi e degli ebrei. In Sardegna, niente patti federali. I matrimoni misti si faranno spontanei e la Sardegna sarà messa in comune. E quando saremo ben cementati, chiederemo che ci sia concesso il diritto di disporre della nostra sorte. L’Europa non vorrà negare a noi quanto è stato accordato ai Sudeti. Una Repubblica Sarda indipendente sarà la consacrazione di questo nuovo stato di fatto. Il presidente, almeno il primo, mi pare giusto debba essere un sardo, ma il vice-presidente dovrà essere un ebreo. Modigliani può contare sul nostro appoggio che gli sarà dato lealmente. Penso che dovremmo respingere la garanzia delle grandi potenze mediterranee e svilupparci e difenderci da noi stessi. Se gli ebrei d’Europa e d’America vorranno accordarci la decima parte di quanto hanno speso in Palestina, è certo che la Sardegna diventerà, in cinquant’anni, una delle regioni più ricche e deliziose del mondo, la cui cultura non avrà riscontro che in poche nazioni avanzate.

Ciò non toglie che i nostri rapporti non possano essere buoni, inizialmente, anche con l’Italia ariana; ma, da pari a pari. Vi sarà uno scambio di prodotti, e noi potremo, data la ricchezza delle nostre saline, rifornire l’Italia ariana, specie di sale, che ne ha tanto bisogno.

Naturalmente, non accoglieremo tutti gli ebrei italiani. Ve ne sono parecchi che, per noi, valgono gli ariani autentici. Il prof. Del Vecchio [1][2], per esempio, noi non lo vogliamo. E vi saranno parecchi ariani di razza italica che noi terremo a fare semitici onorari. Problemi tutti che risolveremo presto e facilmente.

V’è la questione del re-imperatore che, come si sa, ha fatto la sua fortuna come re di Sardegna. Si ha l’impressione che il decalogo razzistico sia stato compilato anche per lui. Non esiste infatti nessuna famiglia, in Italia, meno italiana della famiglia reale: essa non appartiene più alla razza italica pura. Di origine gallica, i matrimoni misti l’hanno corrotta a tal punto che il sangue straniero vi è in predominio palese. E il principe ereditario, figlio di una montenegrina, è sposato con una belga-tedesca; una principessa con un tedesco, e un’altra con uno slavo-bulgaro. Ariani ma non italiani. La futura repubblica sarda sarà magnanima anche col re di Sardegna. Lo accolse l’isola, fuggiasco dall’invasione giacobina, lo accoglierà ancora una volta, profugo dal dominio ariano-italico. L’isola dell’Asinara gli sarà concessa in usufrutto fino all’ultimo dei suoi discendenti. E potrà tenervi corte, liberamente, a suo piacere.

Colpisce invece che, per restare alla stessa fase storica, sia pressoché assente nella nostra memoria collettiva la deportazione di qualcosa come 50.000 sardi, a seguito della spedizione di Tiberio Sempronio Gracco nel 237 a.C. o, secondo altri, a seguito di quella del nipote omonimo nel 175 a.C. Sono i “sardi venales”, sardi di poco valore economico, perché per la loro quantità fecero crollare il prezzo degli schiavi.

Perché in effetti la rimozione di quella lontana deportazione di 50.000 sardi fa compagnia all’oblio pressoché totale della deportazione di circa 290 sardi, tra politici ed ebrei, e di circa 12.000 internati militari sardi nei lager nazisti. E si trattava nella stragrande maggioranza di giovani. Una enormità di gente nostra allora e oggi. Fino a pochi anni fa, questa realtà restava totalmente sconosciuta ai più e, nel migliore e raro dei casi, il nome di una via in qualche nostro paese serbava il ricordo ormai smemorizzato.

(EMILIO LUSSU)


 

GRAMSCI E LA SARDEGNA

       

GRAMSCI E LA SARDEGNA di Francesco Casula

1. Gramsci e la Questione Meridionale.

Nella elaborazione gramsciana la “Questione meridionale” assume il valore di una vera e propria questione nazionale, anzi la più importante questione della storia italiana. Essa viene sviluppata segnatamente nel saggio Alcuni temi della questione meridionale ma è anche presente in molti appunti che si trovano nei Quaderni dal carcere

In Gramsci il “meridionalismo” per intanto si trasferiva da elitari circoli intellettuali alle masse e si ricomponeva così l’unità della teoria e della prassi, alla base di tutta la sua riflessione, perché per l’eroe antifascista occorre certo conoscere il mondo ma –marxisticamente- per cambiarlo e non solo per capirlo e interpretarlo.

In secondo luogo –per così dire come premessa- Gramsci rifiuta con sdegno le tesi delle cosiddette tare criminogene dei sardi e dei meridionali, sostenute allora persino in certi ambienti socialisti impregnati di positivismo –è il caso di Enrico Ferri, direttore dell’Avanti, organo del Partito socialista, dal 1904 al 1908 e deputato dello stesso partito per molte legislature- secondo le quali le popolazioni meridionali erano inferiori “per natura”. Questa ideologia pararazzistica aveva fatto breccia anche tra le masse lavoratrici del Nord: in qualche modo ne è testimonianza un’orrenda ma significativa espressione di Trampolini, massimo esponente del socialismo emiliano, secondo il quale gli italiani si dividevano in “nordici” e “sudici” .

Ma anche quando non sfociano in queste espressioni al limite del razzismo, le posizioni complessive dei Socialisti –e dunque non solo quelle di Filippo Turati e dei riformisti- sono di totale sfiducia nelle possibilità del proletariato meridionale: il loro interesse infatti è rivolto esclusivamente alla classe operaia del Nord e alle sue organizzazioni. Di qui l’abbandono sdegnato del Partito socialista da parte di Gaetano Salvemini, che al PSI rimprovererà proprio di essere “nordista”, ovvero di interessarsi solo delle oligarchie operaie delle industrie settentrionali mentre rimane estraneo quando non ostile rispetto agli interessi dei contadini meridionali.

Nell’affrontare la Questione meridionale l’intellettuale di Ghilarza pone in prima istanza la necessità di un’alleanza stabile e storica fra gli operai del Nord e i contadini del sud e dunque manda gambe all’aria non solo il positivismo razzistico di certo socialismo ma la sfiducia generale che si nutriva dei confronti dei contadini. In questa posizione si sente fortissimo il suo essere sardo, il legame con la sua terra, la conoscenza e la consapevolezza dei mali dell’Isola; insieme l’elaborazione che fa della “Questione meridionale” è strettamente legata alla strategia rivoluzionaria del Partito comunista di allora.

Gramsci nella sua elaborazione parte dalla considerazione che l’esistenza delle due Italie –una sviluppata e l’altra sottosviluppata- erano il risultato inevitabile del processo risorgimentale, di come si era realizzata l’unità, senza la partecipazione e il coinvolgimento delle masse contadine. Si era trattato in buona sostanza di una “rivoluzione passiva” che aveva visto protagonista e vincente il cosiddetto blocco storico conservatore, costituito dagli industriali del Nord alleati e complici con gli agrari del Sud e con gli intellettuali che facevano da cerniera fra le masse sfruttate e i grandi latifondisti meridionali.

Di qui l’esigenza –e la proposta gramsciana–  di un’alleanza fra operai e contadini e dunque della creazione di un nuovo blocco storico capace di contrapporsi, come classi rivoluzionarie, a quello vecchio fra borghesia settentrionale e agrari: un blocco storico però che non fosse solo economico e sociale ma anche di ordine intellettuale e ideologico, tale infatti era quella antagonista. Per cui al centro vi era la questione degli intellettuali e la conquista dell’egemonia.

Quanto questo progetto si sia realizzato fino ad oggi sta al lettore valutare e giudicare: certo è che le “due Italie”, di cui parla Gramsci, sono ancora oggi corposamente e drammaticamente presenti. E’ altrettanto vero che quel dualismo e quello scarto nello sviluppo fra Nord e Sud –a parere di chi scrive- era frutto e prodotto certo del processo risorgimentale guidato ed egemonizzato dai moderati (Cavour, i Savoia e i loro referenti sociali: borghesia e agrari) ma anche, per non dire soprattutto, delle politiche dei Governi unitari: sia della destra che della sinistra storica come  di Crispi e Giolitti, tutti nordisti e brutalmente antimeridionali, centralisti e negatori di qualsiasi autonomia.

2. Gramsci e la lingua sarda: la lettera a Teresina7

(….) Franco mi pare molto vispo e intelligente: penso che parli già correttamente. In che lingua parla? Spero che lo lascerete parlare in sardo e non gli darete dei dispiaceri a questo proposito. E’ stato un errore, per me, non aver lasciato che Edmea, da bambinetta,  parlasse liberamente in sardo. Ciò ha nociuto alla sua formazione intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia. Non si deve fare questo errore coi tuoi bambini. Intanto il sardo non è un dialetto, ma una lingua a sè, quantunque non abbia una grande letteratura, ed è bene che i bambini imparino più lingue, se è possibile. Poi, l’italiano, che voi gli insegnerete, sarà una lingua povera, monca, fatta solo di quelle poche frasi e parole delle vostre conversazioni con lui, puramente infantile; egli non avrà contatto con l’ambiente generale e finirà con l’apprendere due gerghi e nessuna lingua: un gergo italiano per la conversazione ufficiale con voi e un gergo sardo, appreso a pezzi  e bocconi, per parlare con gli altri bambini e con la gente che incontra per la strada o in piazza. Ti raccomando proprio di cuore, di non commettere un tale errore, e di lasciare che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino spontaneamente nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non  sarà un impaccio per il loro avvenire: tutt’altro. (…)

3. Gramsci controcorrente.

Ebbene Gramsci, proprio in questo periodo storico e in questa temperie culturale ed ideologica ha il coraggio di andare controcorrente, anche su questo versante:  “non imparare il sardo da parte di Edmea ha nociuto alla sua formazione intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia….è bene che i bambini imparino più lingue…. ti raccomando di lasciare che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino spontaneamente nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà un impaccio per il loro avvenire : tutt’altro.

 Il grande intellettuale sardo esprime in questa lettera una serie di posizioni sulla lingua materna, che i linguisti e i glottologi nonchè gli studiosi delle scienze sociali: psicologi come pedagogisti, antropologi come psicanalisti e persino psichiatri avrebbero in seguito articolato, argomentato e rigorosamente dimostrato come valide, in modo inoppugnabile.

4. Gramsci e le tradizioni popolari.

Sì, le tradizioni popolari: “ ….le canzoni sarde che cantano per le strade i discendenti di Pirisi  Pirione di Bolotana … le gare poetiche…. le feste di San Costantino di Sedilo e di San Palmerio …. le feste di Sant’Isidoro”.  Sai – scrive in una lettera alla mamma il 3 Ottobre 1927 – che queste cose mi hanno sempre interessato molto, perciò scrivimele e non pensare che sono sciocchezze senza cabu nè coa”.

In altre opere ribadirà che il folclore non deve essere concepito come una bizzarria, una stranezza o un elemento pittoresco, ma come una cosa che è molto seria e da prendere sul serio. Solo così –fra l’altro– l’insegnamento sarà più efficiente e determinerà realmente una nuova cultura nelle grandi masse popolari, cioè sparirà il distacco fra la cultura moderna e la cultura popolare o folclore. In altre occasioni sottolinea che folclore è ciò che è e “occorrerebbe studiarlo come una concezione del mondo e della vita“, “riflesso della condizione di vita culturale di un popolo“ in contrasto con la società ufficiale. “.

5.Gramsci e il “folclorismo”.

Quello che invece Gramsci critica è il “folclorismo“, ovvero l’abbandono all’isolamento storico e a una cultura arbitrariamente privata di ogni residua mobilità, che definisce , malattia mortale di una cultura disattenta ai significati progressivi della esperienza popolare e invece esaurita nel rispecchiamento della vita passata, nella celebrazione di quei“ valori” che disturbano meno la morale degli strati dirigenti e rendono in questo senso più facili tutte le operazioni  conservatrici e reazionarielegando vieppiù il folclore “alla cultura della classe dominante “.

6. Gramsci e le “pardulas”.

In altre lettere – per esempio in quelle del 16 Novembre del 1931 alla sorella Teresina– chiede notizie su parole in sardo logudorese e campidanese e alla madre – nella lettera del 26 Febbraio del 1927 – si figura di rinnovare una volta libero e tornato al paese il “grandissimo pranzo con culurzones e pardulas e zippulas e pippias de zuccuru e figu siccada”. In un’altra lettera del 27 Giugno 1927 le chiede di mandargli “la predica di fra Antiogu a su populu de Masullas”.E al figlio Delio che parlava russo e italiano e cantava canzoncine in francese avrebbe voluto insegnare a cantare in sardo: “lassa su figu, puzzone”.

7. Gramsci e l’utilizzo della Lingua sarda.

Ma il  “sardo“ di Gramsci non si ferma qui: alle pardulas e ai bimborimbò delle feste paesane, pure importanti. Il suo rientrare insistente nella lingua materna non è un fatto sentimentale. Va ben oltre. Voglio ricordare per inciso che nei primi mesi di vita studentesca nella Facoltà di Lettere a Torino i suoi interessi si rivolgono in modo particolare agli studi di glottologia di qui le sue ricerche sulla lingua sarda  e il suo proposito di laurearsi, con il suo grande maestro Matteo Bartoli, proprio in glottologia. O basti pensare che si fa scrivere da due bolscevichi della “Sassari“ lo slogan della futura rivoluzione in Sardegna: “Viva sa comune sarda de sos massajos, de sos minadores, de sos pastores, de sos omines de traballu” (Avanti ,edizione piemontese del 13 Luglio 1919). Non è da escludere inoltre che sia stato proprio su suo suggerimento che il Consiglio italiano dei contadini prometta di fare una traduzione in lingua sarda dell’appello rivolto al Partito sardo d’Azione in occasione del suo 5° Congresso in Macomer il 27 Settembre del 1925.

8. Lingua come concrezione storica.

concezione del mondo e della vita“, “riflesso della condizione di vita culturale di un popolo“ in contrasto con la società ufficiale. “.

5.Gramsci e il “folclorismo”.

Quello che invece Gramsci critica è il “folclorismo“, ovvero l’abbandono all’isolamento storico e a una cultura arbitrariamente privata di ogni residua mobilità, che definisce , malattia mortale di una cultura disattenta ai significati progressivi della esperienza popolare e invece esaurita nel rispecchiamento della vita passata, nella celebrazione di quei“ valori” che disturbano meno la morale degli strati dirigenti e rendono in questo senso più facili tutte le operazioni  conservatrici e reazionarielegando vieppiù il folclore “alla cultura della classe dominante “.

6. Gramsci e le “pardulas”.

In altre lettere – per esempio in quelle del 16 Novembre del 1931 alla sorella Teresina– chiede notizie su parole in sardo logudorese e campidanese e alla madre – nella lettera del 26 Febbraio del 1927 – si figura di rinnovare una volta libero e tornato al paese il “grandissimo pranzo con culurzones e pardulas e zippulas e pippias de zuccuru e figu siccada”. In un’altra lettera del 27 Giugno 1927 le chiede di mandargli “la predica di fra Antiogu a su populu de Masullas”.E al figlio Delio che parlava russo e italiano e cantava canzoncine in francese avrebbe voluto insegnare a cantare in sardo: “lassa su figu, puzzone”.

7. Gramsci e l’utilizzo della Lingua sarda.

Ma il  “sardo“ di Gramsci non si ferma qui: alle pardulas e ai bimborimbò delle feste paesane, pure importanti. Il suo rientrare insistente nella lingua materna non è un fatto sentimentale. Va ben oltre. Voglio ricordare per inciso che nei primi mesi di vita studentesca nella Facoltà di Lettere a Torino i suoi interessi si rivolgono in modo particolare agli studi di glottologia di qui le sue ricerche sulla lingua sarda  e il suo proposito di laurearsi, con il suo grande maestro Matteo Bartoli, proprio in glottologia. O basti pensare che si fa scrivere da due bolscevichi della “Sassari“ lo slogan della futura rivoluzione in Sardegna: “Viva sa comune sarda de sos massajos, de sos minadores, de sos pastores, de sos omines de traballu” (Avanti ,edizione piemontese del 13 Luglio 1919). Non è da escludere inoltre che sia stato proprio su suo suggerimento che il Consiglio italiano dei contadini prometta di fare una traduzione in lingua sarda dell’appello rivolto al Partito sardo d’Azione in occasione del suo 5° Congresso in Macomer il 27 Settembre del 1925.

8. Lingua come concrezione storica.

A più riprese infatti nelle sue opere sottolinea l’importanza del Sardo in quanto concrezione storica complessa e autentica,simbolo di una identità etno- antropologica  e sociale, espressione diretta di una comunità e di un radicamento nella propria tradizione e nella propria cultura. Una lingua che non resta però immobile –come del resto l’identità di un popolo– come fosse un fossile o un bronzetto nuragico, ma si “costruisce“ dinamicamente nel tempo, si confronta e interagisce, entrando nel circuito della innovazione linguistica, stabilendo rapporti di interscambio con le altre lingue. Per questo concresce all’agglutinarsi della vita culturale e sociale. In tal modo la lingua, per Gramsci, non è solo mezzo di comunicazione fra individui, ma è il modo di essere e di vivere di un popolo, il modo in cui tramanda la cultura, la civiltà, la storia, le tradizioni.

 

Bibliografia essenziale

Opere dell’Autore

– Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Einaudi editore, Torino 1955

Lettere dal carcere, Einaudi editore, Torino, 1971.

Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Gerratana, Einaudi Editore,Torino 1975.

L’Ordine Nuovo. 1919-1920, a cura di Gerratana e Santucci, Einaudi editore,Torino 1987.

Folklore e senso comune, Editori riuniti, 1992

La religione come senso comune, a cura di La Rocca, Nuova Pratiche Editrice, Milano 1997.

Le opere, a cura di Santucci, Editori Riuniti, Roma 1997.

La nostra città futura, scritti torinesi (1911-1922), a cura di A. d’Orsi, Carocci editore, Roma 2004.

La questione meridionale, Editori Riuniti, Roma 2005.

Opere sull’Autore

– Mario Manacorda, Il principio educativo in Gramsci, Armando editore, Roma, 1987.

– Paolo Spriano, Gramsci in carcere e il partito, l’Unità editrice, Roma, 1988.

– Giuseppe Fiori, Vita di Antonio Gramsci, Laterza editore ,Roma-Bari 1989.

– Norberto Bobbio, Saggi su Gramsci, Feltrinelli editore, Milano, 1990.

– Giuseppe. Vacca, Appuntamenti con Gramsci, Carocci editore, Roma, 1999.

– Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, Garzanti editore, Milano 1957.

– Eric J. Hobsbawm, Gramsci in Europa e in America, Laterza editore, Roma-Bari 1995.

– Luciano Canfora, “Su Gramsci”, Datarews editrice, Roma, 2007.

– Gianni Fresu, ‘Il diavolo nell’ampolla’. Antonio Gramsci, gli intellettuali e il partito, Città del sole editore, Napoli 2005.

– Frantziscu Casula-Matteu Porru, Antoni Gramsci, Alfa editrice, Quartu, 2006.

 

 

  

 

Peppino Mereu: il poeta maledetto e socialista

Peppino Mereu: il poeta maledetto e socialista

16 gennaio 2016

mereu
Francesco Casula

Il 14 gennaio scorso ricorreva il 144° anniversario della nascita del poeta tonarese Peppino Mereu. Giovanissimo inizia a cantare e a scrivere poesie. A 19 anni si arruola volontario carabiniere: durante i cinque anni della vita militare in vari paesi dell’Isola, conosce alcuni poeti sardi. Canta le sue poesie nelle feste e nelle sagre paesane dimostrando grandi capacità poetiche e di improvvisazione. Questi anni (1891-1895) segnano profondamente la sua formazione: prende coscienza delle ingiustizie e degli abusi di potere, tipici del sistema militare.

Di qui la sua critica spietata al ruolo dei carabinieri, che invece di essere difensori della giustizia sono spesso alleati degli stessi trasgressori della legge. Significativi a questo proposito i versi, diventati a livello popolare famosissimi, soprattutto nel Nuorese: Deo no isco sos carabineris/in logu nostru proite bi suni/e non arrestan sos bangarutteris. Proprio in questi anni prende consapevolezza dei problemi socio-economici-culturali della Sardegna e aderisce alle idee socialiste del tempo, un socialismo utopistico in cui il poeta individua la soluzione per i problemi delle classi lavoratrici e oppresse. Idee e valori socialisti che Mereu  diffonde affidandosi alle sue poesie per sostenere con nettezza, prima di tutto la libertà e l’uguaglianza: Senza distintziones curiales/devimus esser, fizos de un’insigna/liberos, rispettaos, uguales.

Per continuare con la rivendicazione del suffragio elettorale che i Socialisti propugnavano con forza e che il poeta di Tonara così canterà, – proprio nel 1892, anno della nascita del Partito socialista – Si s’avverat cuddu terremotu/su chi Giacu Siotto est preighende/puru sa poveres’ hat haer votu/happ’a bider dolentes esclamende/”mea culpa” sos viles prinzipales/palattos e terrinos dividende. Oltre a denunciare le ingiustizie sociali e i soprusi subiti dal popolo – che in A Genesio Lamberti, invita alla ribellione – Mereu mette a nudo la “colonizzazione” operata dal regno piemontese e dai continentali, cui è sottoposta la Sardegna: Sos vandalos chi cun briga e cuntierra/benint dae lontanu a si partire/sos fruttos da chi si brujant sa terra/s’istranzu pro benner cun sa serra/a fagher de custu logu unu desertu.

Il poeta nel Dicembre del 1895 per motivi di salute viene congedato: ritorna così al suo paese. La sua produzione poetica se da una parte è pervasa da motivi melanconici, dall’altra accentua la critica ai rappresentanti della Chiesa e del potere locale; se da una parte srotola poesie “della morte”, dall’altra dipana componimenti scherzosi e allegri, brevi ritratti schizzati in punta di penna di figure e fatti di paese, irridente e maledicente come quando in Su Testamentu, sentendo ormai prossima la morte, nel confessarsi accusa e maledice, cantando con tutta l’amarezza di un cuore esacerbato, che raggiunge toni epici di violenza espressiva: pro ch’imbolare unu frastimu ebbia/a chie m’hat causadu custa rutta/vivat chent’annos ma paralizzadu/dae male caducu e dae gutta. Consumato dalla tisi, che candela de chera muore l’11 marzo 1901 a soli 29 anni.

La sua poesia più famosa è Nanneddu meu conosciuto in tutta la Sardegna grazie anche al fatto che è stato musicata e cantata da moltissimi gruppi musicali e cantanti sardi. Tra i componimenti che conosciamo è uno di quelli in cui sono maggiormente presenti finalità satiriche e politiche, civili e sociali, con una netta e precisa presa di posizione del poeta contro la malasorte, le ingiustizie del suo tempo e indirettamente contro la politica nordista e colonialista del governo sabaudo che sarà più esplicita in altri componimenti. Ricordiamo infatti che siamo alla fine dell’Ottocento, quando il nuovo stato unitario, nel tentativo di omogeneizzare gli “Italiani” emargina e penalizza – dal punto di vista economico e sociale ma anche culturale e linguistico – la Sardegna e il meridione, favorendo invece il Nord del paese. Soprattutto in seguito alla rottura dei Trattati doganali con la Francia e al protezionismo, tutto a beneficio delle industrie del Nord e a danno del commercio dei prodotti agro-pastorali dell’Isola.

Il quadro che emerge da Nanneddu meu è quello di un’Isola dominata da tempos de tirannias; assediata da carestias che producono fame, costringendo il popolo a nutrirsi cun pane, castanza e lande; devastata da catastrofi naturali che distruint campos e binzas con sa filossera e sas tinzas; popolata da avvocadeddos ispiantados e quindi facilmente ricattabili; da preti avidi, tristos corvos/ pienos de tirrias/ e malas trassas. Il tono è ora di denuncia, aspro, acre e amaro; ora disincantato, malinconico e perfino tenero.

Leonardo Sole a proposito di Nanneddu meu  scrive che Mereu “offre un bell’esempio di poesia sociale, aspra e pungente contro gli sfruttatori continentali che hanno disboscato l’isola e continuano a spogliarla con l’aiuto dei printzipales sardi”. Mentre Francesco Masala sostiene che “Si comprendono bene l’importanza e l’affetto che ebbe Peppinu Mereu nella comunità di Tonara e la permanenza della sua poesia nella tradizione orale della società barbaricina: su cantadore malaittu, ripudiato dai ricchi parenti borghesi, viene assunto dalla comunità popolare tonarese, a coscienza critica dell’ingiustizia sociale e dell’egoismo di classe. Presso le fonti di Galusè, il poeta malato, pallido, vestito coi tristi panni della malinconia e dell’ironia, bizzarro, selvatico, non bello, non simpatico, già vecchio a venticinque anni, appoggiato all’inseparabile bastone, sembra un asfodelo roso dal male, in attesa di un improbabile riscatto di giustizia, di salute e di amore”.

Sempre a parere di Masala, “per capire la poesia e la figura di Peppinu Mereu, spirito inquieto e ribelle, non si tratta di frugare fra gli archivi, dove gli storici di professione trovano sos papiros, i documenti lasciati dai vincitori a futura memoria della loro bontà e della loro civiltà, ma si tratta di frugare dentro le viscere della nostra tradizione popolare, dentro la tradizione orale dei nostri pastori, dei nostri contadini, dove è rimasta la memoria collettiva dei nostri dolori, dei nostri terrori, dei nostri rancori, insomma della nostra di storia di vinti ma non convinti”.

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LA SARDEGNA CHE VORREI/1 ENERGIA E LAVORO

          LA SARDEGNA CHE VORREI/1 ENERGIA E LAVORO

di Vincenzo  Sardu

Vi siete chiesti come mai in Sardegna c’è una disoccupazione così radicata? Colpa della crisi certo, ma questo problema esiste da sempre. Siamo diventati un popolo di emigranti, terra di gente che va via perché non c’è speranza e terra di gente che, se resta, soffre. Perché?

Escludendo i trattamenti pensionistici, abbiamo un Pil che fa ridere persino greci, portoghesi, spagnoli, figuriamoci gli altri europei. Vuol dire che non c’è niente di niente, che non ci sono imprese, aziende industrie. Gran parte del problema, nasce da qui. E perché non ci sono queste strutture produttive? Perché fare impresa in Sardegna costa più che in qualsiasi altra parte e non per il costo della manodopera. Ma per due variabili: trasporti e, soprattutto, energia.

Paghiamo l’energia mediamente il quaranta per cento in più rispetto a qualsiasi altra parte nello stivale. Il motivo? Non si sa ma di certo non per una ragione industriale: produciamo in Sardegna 1,3 volte il fabbisogno. Se il costo industriale fosse elevato, non se ne produrrebbe così tanta in più. Il fatto curioso è che quel trenta per cento di extra viene incanalato via cavo sottomarino verso la penisola e a prezzi non certo allineati a quelli che si pagano in Sardegna. Cosa provoca tutto questo, oltre alla beffa? Che le imprese non hanno alcuna convenienza a fare azienda e a produrre in Sardegna, togliendo quindi alla nostra economia uno sfogo importantissimo. Ecco spiegato come mai da noi la disoccupazione galoppa.

Ma attenzione, perché un po’ ce la cerchiamo. Ogni volta che si parla di energia i sardi non sanno bene di cosa parlano e si limitano a riprendere slogan che sentono in giro. Per esempio, può essere più inquinante una centrale a carbone o unaa olio oppure un campo eolico o un campo fotovoltaico? Neanche a dirlo, sono migliaia di volte più nefaste le prime due. Allora perché tutta questa paura? Non sarà per caso che a qualcuno fa comodo agitare certi spauracchi per indottrinare l’opinione pubblica a pensare in un certo modo?

Svezia e Uruguay, due paesi lontanissimi e con caratteristiche differenti, hanno fatto la stessa scelta: energia pulita e rinnovabile per tutti gli usi non di grande locomozione. Per il cento per cento del fabbisogno nazionale. Avete una minima idea del potenziale che ha la Sardegna con le fonti rinnovabili? In tutta Europa è difficilissimo trovare una condizione migliore per sole, vento e mare. Abbiamo 24mila km quadrati di territorio e siamo poco più di un milione e cinquecentomila abitanti. La densità abitativa è talmente bassa che ci sono ampie porzioni di territorio dove non passa nessuno, neanche la fauna. Perché si dovrebbe avere paura di un prodotto che può dare tanta ricchezza?

Tra chi obietta c’è anche la diffidenza verso i soggetti produttori. Basterebbe una legge: i titolari e i controllanti di qualsiasi punto di produzione di energia rinnovabile devono essere sardi, incensurati loro e i loro familiari più stretti, e in caso di cessione di quote o di proprietà possono farlo soltanto a soggetti analoghi. Imponendo per legge anche una filiera interamente sarda, si terrebbero lontani fenomeni di infiltrazioni poco gradite. Ci sarà sicuramente chi troverà da obiettare con le storielle sulla concorrenza eccetera: me ne frego. In Sardegna è arrivato il momento di cominciare a dire anche qualche “no” e a imporre la nostra volontà. Se a Roma o a Bruxelles questo non piace, è un problema loro.

Sintetizzando: un piano energetico regionale che inizia con l’acquisizione della rete distributiva. Il gestore non è d’accordo? Si fa la legge e lo si obbliga. Anche in questo caso è giunta l’ora di far prevalere la nostra volontà. Piano energetico basato su uno sviluppo totale per la produzione di energie rinnovabili da istituire con un piano di attenzione ambientale, utilizzando in primo luogo le maestranze delle attuali centrali, che saranno formate al riguardo, ma anche creando nuove opportunità di lavoro. L’obiettivo può e deve essere una produzione anche 2-2,5 volte il fabbisogno attuale, per abbattere il costo pagato dalle famiglie e rendere molto più vantaggiosa per le imprese la produzione dei loro prodotti in Sardegna. E magari anche vendendo le eccedenze energetiche.

Pensateci. Finora ci siamo fatti abbindolare ma in realtà abbiamo sempre avuto al collo un guinzaglio con il quale siamo stati costretti a fare il percorso che qualcuno voleva che noi facessimo. L’energia è nostra, prendiamone possesso. E soprattutto diffidate dagli allarmi gratuiti. Ci possono essere la massima attenzione e rispetto per l’ambiente, ci possono essere strumenti per impedire che questo comparto diventi remunerativo per la criminalità importata, ci possono essere straordinari benefici in termini di occupazione. Da qui nasce il futuro

Università della Terza Età di Quartu 10° lezione a cura di Francesco Casula

Università della Terza Età di Quartu 10° lezione a cura di Francesco Casula

DIEGO MELE

Il principe dei satirici sardi in lingua sardo-logudorese (1797-1861)

Nasce a Bitti (Nuoro) il 22 Gennaio 1797 da Anna Casu Delogu e Salvatore. Il padre, contadino, muore nel 1808, lasciandolo orfano a 11 anni, insieme ai fratelli, più giovani di lui, Maria Rosa e Battore. Il giovane Diego, a causa delle precarie condizioni economiche della famiglia, non può proseguire gli studi regolarmente: dopo due anni a Cagliari sarà costretto a ritornare a Bitti. Grazie alla vendita di un piccolo appezzamento di terreno, completerà gli studi in teologia a Sassari, dove si manterrà facendo da istitutore ai tre figli –Ignazio, Pietro e Gaetano- di un certo cavalier Ballero, comandante militare della piazza. Si laurerà in teologia nel 1826 e il 19 Marzo 1827 riceverà gli ordini sacerdotali. Giovanni Spano, archeologo nonché storico e studioso della Lingua sarda, suo compagno di scuola a Sassari, lo ricorda affettuosamente come faceto e improvvisatore vernacolo…di poesie giocose e satiriche. Le cui canzoni popolari, erano, come lo sono ora in bocca di tutti. Sempre lo Spano pubblicherà una decina di composizioni nelle sue antologie mentre alcune verranno riprese sporadicamente da altri, in particolare da due viaggiatori stranieri: il francese Auguste Boullier(In Le dialecte et les chants populaires, Paris 1865) e il tedesco Heinric F. Von Maltzan (In Reise auf der Insel Sardinien, Leipzig, 1869).

Diego Mele ha legato il suo nome soprattutto a Olzai, villaggio della Barbagia di Ollolai di cui fu parroco per 25 anni. Ma prima, dopo aver preso gli ordini sacerdotali gli fu affidata la reggenza della piccola parrocchia di Lodè, fu poi aiutante del parroco a Bitti, vicerettore a Oliena e vice parroco a Mamoiada dove prende aperta posizione contro la Legge delle Chiudende che abolivano le terre comuni per privatizzarle, creando così quella che allora veniva chiamata la “proprietà perfetta”, con cui si abolivano i diritti comunitari, penalizzando soprattutto i pastori, che non a caso saranno quelli che la combatteranno più duramente. In seguito a questa sua presa di posizione, fu confinato in un convento dei cappuccini ad Ozieri (Dicembre 1832-Febbraio 1833). “Ove –scrive Pietro Meloni Satta-  addolorato di tanta ingiustizia e oppresso da crudo malore, sfogava i suoi lamenti colla Musa diletta, destando lagrime di compassione”. Scriverà infatti in una sua poesia nel 1832: “O pena dolorosa/De custu coro afflittu/Senza fagher delittu/Est pianghende”.

Rientra poi a Mamoiada, ma a Novembre viene destinato come prorettore a Lodè. Infine nel 1836 diviene rettore di Olzai dove rimarrà fino alla sua morte avvenuta il 16 Ottobre 1861.

“Una caratteristica del suo ministero –ricorda Salvatore Tola, curatore di un volume di Satiras- era la rigida osservanza delle disposizioni dei superiori, che lo spinse a far cessare la consuetudine del compianto funebre, s’attitidu, condannato come incitamento alla vendetta; e una netta inclinazione all’austerità, che finiva per scoraggiare l’uso del costume, i balli e ogni manifestazione che potesse sembrare pericolosamente profana”.

Il miglior necrologio per la sua scomparsa –ricorda Bachisio Porru- è quello che Giorgio Asproni, deputato e suo compaesano, annotò nel suo diario: “L’interno dolore che io provo per questa perdita non è esprimibile…era uomo nato per amare e amò sempre. Nato povero non resisteva alla vista delle miserie altrui e dava il suo necessario per soccorrere i bisognosi: morì povero. Era senza contrasto il miglior ecclesiastico della provincia di Nuoro”. ((Diario politico, III, 1980, p. 145).  

Questo per quanto attiene alla sua figura; per quanto invece concerne la sua opera occorre tener presente che le sue poesie per decenni circolano solo oralmente, solo un anno prima della morte accetta di dettarle al figlioccio, Pietro Meloni Satta. Siamo nel 1860: ma l’edizione a stampa avverrà nel 1922 nel volumetto Il Parnaso sardo del poeta bernesco estemporaneo Teol. Diego Mele.

 

IN OLZAI NON CAMPAT PIUS MAZZONE

1.In Olzai non campat pius mazzone

ca nde l’hana leadu sa pastura,

sa zente ingolumada a sa dulzura

imbentat sapa dae su lidone.

2.De nou han bogadu cust’imbentu

pro sedare veementes appetitos,

leadu han a mazzone s’alimentu

però l’han a piangher sos caprittos:

no li faghen a isse impedimentu

nemancu de Dualchi sos iscrittos,

de mazzone aumentare sos delittos

non podiat porcheddu ne anzone.

3.Sas puddas e caprittos e porcheddos

pianghen de sa zente sos errores

e de sos affligidos anzoneddos

mi paret de intender sos clamores;

a dolu mannu de sos pastoreddos

chi nde proan e sentire sos dolores,

custos sun sos gustos e sabores

de sa sapa de noa invenzione.

4.Totta canta sa zent’est post’in motu

pro fagher sos coccones de bennarzu,

c’han isperimentadu e han connottu

chi superat sa sapa de su varzu.

Pera Marras accudi a s’abbolottu,

no istes pro fadiga e pro incarzu

ischi chi tue puru ses procarzu

non ti dormas in custa occasione

5.Amigu, non ti dormas tue puru

si tenes calchi pudda in su puddile,

ca mazzone caminat a s’iscuru

e pesat dae lettu a s’impuddile.

Chi t’hat a visitare ista seguru

cando tenes porcheddos in predile,

si ti dormis in martu e in abrile

cun sa mere has a tenner chistione.

6.Pera meu, cunsidera su male

chi nos han custa orta causadu.

Unu forte nimigu capitale

pro sa sapa de nou han irritadu;

mazzone pro istintu naturale

contra de sos porcheddos hat juradu,

como dae su famen apprettadu

furat e tenet doppia rejone.

7.S’omine, si s’agatat in apprettu

zenza provvista e privu de recattu,

si furat dae famen inchiettu

non cummittit culpabile reatu.

Su chi leat e pigat in cuss’attu

tenet de lu pigare su derettu;

e nades chi mazzone est indiscrettu

si famidu si leat un’anzone?

8.Si furat in cuss’attu l’iscusade

ca su famen lu privat de sa vista;

postu mazzone in sa nezessidade

de fagher sa figura brutta e trista

cun piena e cun totta libertade

a ue podet si faghet provvista,

e isfidat su primu rigorista

a li negare s’assoluzione.

[…]

 

 

 

IN OLZAI FIUDA E NEN BAJANA

1.SAS BAJANAS DE OLZAI.

In Olzai viuda ne bajana

non nde cojuat pius, est cosa intesa,

sa levata nos faghet grav’offesa

però chie nos bocchit est Ottana.

2.Feminas chi maridu disizamus

nois semus andende malamente,

de cust’affare gasi nos nd’istamus,

non pensamus remediu niente?

Si custu male avanzare lassamus

pianghimus, creide, inutilmente;

eo bido s’infilu de sa zente

ch’est in catza e in pisca fittiana.

3de nos torrare dae caddu a pè

est sa idea chi jughent in testa:

sas de Ottana dividint cun su re

et omine pro nois non nde resta’.

Si leades consizu dai me

nde faghimus formale una protesta:

chi de issas non benzant ad sa festa,

antis ne mancu a comporare lana…

4.Si non ponimus rimediu prestu

Non codian de omine carrone

Su nde pigat una porzione

E issas si nd’acollini su restu.

Chi benin pro servir est su pretestu

però jughen diversa intenzione:

dae ‘ucca nos lean su buccone

lassende nois a morrer de gana.

 […]

 

Traduzione

IN OLZAI VEDOVA NE’ NUBILE

1. LE NUBILI DI OLZAI. In Olzai vedova né nubile si sposa piú, è risa­puto: la leva (militare) ci fa un grande danno, ma chi ci getta a ter­raè Ottana.

2. Va male per noi donne che desideriamo maritarci: restiamo co­sì (indifferenti) verso questa questione, non cerchiamo di trovare rimedio? Se lasciamo avanzare questo male non faremo altro che piangere, credete, senza scopo; io guardo (piuttosto) all’affaccen­darsi delle persone che con tenacia si danno alla caccia ed alla pe­sca.

3. Il progetto che hanno in mente è di toglierci da cavallo per ri­durci a piedi: quelle di Ottana dividono col Re e per noi non resta­no uomini. Se accettate un consiglio da me eleviamo per questo una vera e propria protesta: quelle non possano venire alla festa, e neppure a comprare lana.

4. Se non mettiamo subito rimedio non lasciano (neppure) un cal­cagno d’uomo, il Re ne prende una parte e loro catturano il resto. Quello di venire come domestiche è un pretesto, in effetti hanno tutt’altra intenzione: ci tolgono il boccone di bocca lasciandoci a morire dal desiderio.

Presentazione del libro “Sardegna” di Pantaleo Ledda

Oristano Venerdì 8 gennaio 16.30 
Presentazione del libro “Sardegna” di Pantaleo Ledda
con Italo Ortu e il critico letterario Francesco Casula 

II Centro SeImagervizi Culturali Unla di Oristano e la casa editrice Edpo venerdì 8 alle 16.30, presso l’Unla di Via Carpaccio, 9 a Oristano, presentano il libro “Sardegna” di Pantaleo Ledda, copia anastatica dell’originale dell’Almanacco per ragazzi del 1924. Intervengono Presentazione Italo Ortu l’ex consigliere regioinale sardista e Francesco Casula, nativo di Ollolai, residente a Quartu, uno dei più autorevoli storici sardi e critici letterari contemporanei. Francesco Casula – docente di Lettere nelle scuole superiori – è autore di apprezzate e fortunate pubblicazioni fra le quali “Letteratura e civiltà della Sardegna”: un’opera antologica che raccoglie le opere di scrittori e poeti bilingui, scrittori e poeti in lingua italiana, scrittori e poeti in lingua sarda. La prefazione al libro di Pantaleo Ledda è firmata proprio da Casula.
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Giacomo Mameli

PRSENTAZIONE A ORISTANO DEL LIBRO “SARDEGNA” di Pantaleo Ledda

PRSENTAZIONE A ORISTANO DEL LIBRO “SARDEGNA” di Pantaleo Ledda
II Centro Servizi Culturali Unla di Oristano e la casa editrice Edpo venerdì 8 alle 16.30, presso l’Unla di Via Carpaccio, 9 a Oristano, presentano il libro “Sardegna” di Pantaleo Ledda, copia anastatica dell’originale dell’Almanacco per ragazzi del 1924.

Lo presentano Italo Ortu già consigliere e assessore regionale nonché leader storico sardista e  Francesco Casula storico e scrittore, autore il primo dell’Introduzione storica e il secondo della Prefazione.

Ma ecco qui di seguito la mia prefazione

 

Prefazione a SARDEGNA,  sussidiario di Pantaleo Ledda

di Francesco Casula

La Lingua sarda, dopo essere stata lingua curiale e cancelleresca nei secoli XI e XII, lingua dei Condaghi e della Carta De Logu, con la perdita dell’indipendenza giudicale, si tenta di ridurla al rango di dialetto paesano, frammentata ed emarginata, cui si sovrapporranno prima i linguaggi italiani di Pisa e Genova e poi il catalano e il castigliano e infine di nuovo l’italiano con i Savoia prima e l’Italia unita poi.

Nel 1720, quando i Savoia prendono possesso della Sardegna,la situazione linguistica isolana è caratterizzata da un bilinguismo imperfetto: la lingua ufficiale – della cultura, del Governo, dell’insegnamento nella scuola religiosa riservata ai ceti privilegiati – è il castigliano, mentre la lingua del popolo, in comunicazione subalterna con quella ufficiale è il Sardo.

Ai Piemontesi questa situazione appare inaccettabile e da modificare quanto prima, nonostante il Patto di cessione dell’Isola del 1718 imponga il rispetto delle leggi e delle consuetudini del vecchio Regnum Sardiniae. Per i Piemontesi occorre rendere ufficiale la lingua italiana. Come prima cosa pensano alla Scuola per poi passare agli atti pubblici.  Ma evidentemente le loro preoccupazioni non sono di tipo glottologico. Attraverso l’imposizione della lingua italiana vogliono sradicare la Spagna dall’Isola, rafforzare il proprio dominio, combattere il “Partito spagnolo” sempre forte nell’aristocrazia ma non solo. Questo il vero motivo: non quello “ideologico” della civilizzazione, accampato da Carlo Baudi di Vesme  che nell’ opera Considerazioni politiche ed economiche sulla Sardegna, scritta, su incarico del re Carlo Alberto tra l’ottobre e il novembre 1847 ma completata nel febbraio 1848, scrive che “Una innovazione in materia di incivilimento della Sardegna e d’istruzione pubblica, che sotto vari aspetti sarebbe importantissima, si è quella di proibire severamente in ogni atto pubblico civile non meno che nelle funzioni ecclesiastiche, tranne le prediche, l’uso dei dialetti sardi, prescrivendo l’esclusivo impiego della lingua italiana…E’ necessario inoltre scemare l’uso del dialetto sardo ed introdurre quello della lingua italiana anche per altri non men forti motivi; ossia per incivilire alquanto quella nazione, sì affinché vi siano più universalmente comprese le istruzioni e gli ordini del Governo…”.

Pensano allora di elaborare “Il progetto di introdurre la Lingua italiana nella scuola“ affidandone lo studio e la gestione ai Gesuiti. Nella prima fase il progetto coinvolgerà comunque pochi giovani: appartenenti ai ceti privilegiati. Il problema diventa molto più ampio ai primi dell’Ottocento, quando il Governo inizia a interessarsi dell’Istruzione del popolo. I bambini poverelli ricevono gratuitamente due libri in lingua italiana: Il Catechismo del cardinal Roberto Bellarmino e il Catechismo agrario, giacchè l’agricoltura è precipuo sostegno di ogni stato e in particolare della Sardegna.

Per quanto attiene all’insegnamento della storia la situazione è analoga: a Pietro Martini –  e siamo in pieno ‘800! – intenzionato a introdurre fra gli studenti dell’Isola l’insegnamento della Storia sarda, capitò di sentirsi rispondere seccamente dalle autorità governative piemontesi che “nelle scuole dello Stato debbasi insegnare la storia antica e moderna, non di una provincia ma di tutta la nazione e specialmente d’Italia”.

Tale concezione, da ricondurre a un progetto di omogeneizzazione culturale, – che per l’Isola significherà dessardizzazione – la ritroviamo pari pari nelle Leggi sull’istruzione elementare obbligatoria nell’Italia pre e post unitaria: del Ministro Gabrio Casati (1859), Cesare Correnti (1867) e Michele Coppino (1877).

I programmi scolastici, impostati secondo una logica rigidamente nazional- statale o statalista che di si voglia – e italocentrica, sono finalizzati a creare una coscienza “unitaria“, uno spirito “nazionale“, capace di superare i limiti – così si pensava – di una realtà politico-sociale estremamente composita sul piano  storico, linguistico e culturale.

Questo paradigma fu enfatizzato nel periodo fascista, con l’operazione della “nazionalizzazione-italianizzazione” dell’intera storia italiana.

A onor del vero, proprio nel periodo iniziale del Fascismo (negli anni 19221924) Giuseppe Lombardo Radice, alle dirette dipendenze dell’allora ministro della Pubblica IstruzioneGiovanni Gentile come direttore generale dell’Istruzione primaria e popolare, provvide alla stesura dei programmi ministeriali per le scuole elementari o primarie, prevedendo fra le altre anche l’uso delle lingue regionali nei testi didattici per le scuole con il programma Dal dialetto alla lingua, nel rispetto delle differenze storiche degli italiani e per facilitare l’apprendimento e lo sviluppo intellettuale degli scolari, partendo dalla lingua viva.

Questo volume di Pantaleo Ledda, un vero e proprio sussidiario per il triennio delle scuole elementari è frutto di quella temperie culturale, pedagogica e didattica favorita e ispirata dal pedagogista Giuseppe Lombardo Radice.

Con questo “Almanacco” nelle scuole elementari della nostra Isola irrompe l’intero universo culturale sardo: dalla cultura materiale e dalle risorse e attività economiche e produttive (agricoltura, pastorizia, miniere, pesca, saline, acque termali) alla cultura immateriale (letteratura in primis); dalla geografia alla storia: dalle origini alla civiltà nuragica alle invasioni straniere. Con gli uomini sardi più famosi e de gabale (di valore): da Amsicora a Mariano IV, da Eleonora d’Arborea a Leonardo d’Alagon; da Giovanni Maria Angioy a Gianbattista Tuveri; da Grazia Deledda e Montanaru. Ma anche da uomini (poeti, scrittori, storici, letterati, vescovi e giuristi, scienziati e medici) meno conosciuti ma ugualmente illustri e che comunque hanno fatto la storia della Sardegna, arricchendola con la loro opera. Catalogati per singole città e paesi nativi, e ricordati in brevi ritratti, i Sardi li conoscono oggi quasi esclusivamente perché hanno loro intitolato qualche via, piazza o qualche scuola: penso a Sigismondo Arquer (l’intellettuale cagliaritano vittima dell’Inquisizione  e condannato al rogo in Spagna, il primo autore di una monografia sulla Sardegna Sardiniae brevis historia et descriptio, cui era allegata una carta dell’isola e una veduta di Cagliari (Tabula corographica insulae ac metropolis illustrata), che viene inserita nella Cosmografia di Sebastian Münster, uil più famoso geografo e cartografo tedesco del ‘500); o penso a Vincenzo Sulis e Domenico Millelire, due dei protagonisti nella lotta vittoriosa contro i Francesi nel 1793: a Cagliari il primo contro il generale Truguet e il secondo a La Maddalena contro Napoleone. O penso ancora al bosano Nicolò Canelles che introdusse la stampa in Sardegna;  al medico di Arbus Pietro Leo, che contribuì grandemente alla rigenerazione della medicina sarda; allo storico Pietro Martini, uno dei fondatori della storiografia isolana; all’archeologo e linguista ploaghese Giovanni Spano (autore di un dizionario sardo-logudorese); all’oristanese Salvator Angelo de Castro, che si adoperò per l’istituzione delle scuole elementari in molti comuni della Sardegna. E a tanti altri ricordati in questo sussidiario.

Insieme alla storia, la protagonista assoluta del libro di Pantaleo Ledda è la lingua sarda: nelle sue varianti e varietà ma anche nelle Isole alloglotte (è presente il Gallurese come il Sassarese). Il Sardo viene utilizzato nelle poesie: ad ogni stagione ne viene dedicata una. Ma anche  nelle preghiere e nei precetti, nelle canzoni e canzoncine, nei proverbi e nei motti, negli scongiuri e nei dicius, negli scioglilingua,nelle cantilene e nelle ninne nanna, nei giochi, negli indovinelli e nelle leggende. Ad esprimere una vastissima e ricchissima tradizione culturale, soprattutto orale, una saggezza antica che ha sostenuto e guidato i sardi nella loro millenaria storia.

Con la storia e la lingua sarda sono presenti le città, le località e i paesi sardi: con le feste e le sagre, i costumi e i riti. E le attività produttive, specie quelle legate alla campagna e all’agricoltura: con l’aratura e la semina, la fienagione,la mietitura e la trebbiatura, la raccolta delle ortaglie, la vendemmia e la panificazione. Ma anche la pesca: soprattutto del tonno.

Il sussidiario rappresenta così per gli scolari del triennio delle elementari una vera e propria full immersione nelle cultura locale e nella sua economia: la scuola in tal modo non si pone come “altro” e separato rispetto alla vita e al contesto socio-economico-culturale-linguistico da cui il fanciullo proviene.  

Purtroppo questa ventata liberalizzatrice di lingua e cultura locale durò pochissimo: con il consolidarsi del regime fascista nel 1924, specie dopo l’assassinio di Matteotti, prevalse l’enfasi unificatrice, omologatrice  e livellatrice tanto che fu avviata un’azione repressiva nei confronti degli alloglotti e, per quanto ci riguarda, della lingua e cultura sarda: fu vietato non solo  l’uso della lingua sarda ma le stesse gare poetiche estemporanee. Anzi, il Fascismo ben presto, ad iniziare dagli anni trenta, imboccata la strada dell’imperialismo e dell’autarchia, tenterà di cancellare il concetto stesso di

 

civiltà regionale e di regione e abolirà l’uso del Sardo, in nome dell’italianità, minacciata a suo dire da tutto quanto era “locale”.

Sul’uso del Sardo abbiamo una vasta eco in una polemica scoppiata nel 1933 fra un certo Gino Anchisi,  giornalista dell’Unione Sarda e il nostro grande poeta Antioco Casula (più noto come Montanaru), in occasione della pubblicazione dei suoi Sos cantos de sa solitudine., In un articolo Anchisi esortava Montanaru a scrivere in Italiano perché un poeta come lui “che ha maturato l’ingegno alla severa discipline degli studi e considera la poesia come una cosa seria”, aveva diritto a un pubblico più vasto. E concludeva affermando che la poesia dialettale era “anacronistica, roba d’altri tempi” e come tale andava relegata “nel regno d’oltretomba”.

Montanaru rispondeva, sullo stesso giornale, affermando che “i rintocchi funebri” per la fine dei dialetti, da qualunque parte venissero, erano per lo meno immaturi.

Seguiva la replica dell’Anchisi che ribadiva l’anacronismo e la fine dei dialetti e della regione: “Morta o moribonda la regione, è morto o moribondo il dialetto”.

Nella disputa intervenne fra gli altri Antonio Scano, scrittore e valente giornalista letterario ,  il quale dopo aver polemizzato con l’Anchisi sulla vitalità della regione e della lingua sarda, così concludeva: “La Regione non può morire, come non può morire il dialetto che ne è l’insegna”.

Replicherà anche Montanaru ma il suo articolo non verrà pubblicato né sull’Unione né su L’Isola di Sassari, che però giustificò il garbato rifiuto con la seguente lettera del 18 Settembre 1933: “Non si è potuto dare corso alla pubblicazione del suo articolo in quanto una parte di esso esalta troppo evidentemente la regione: ciò ci è nel modo più assoluto vietato dalle attuali disposizioni dell’ufficio stampa del capo del Governo che precisamente dicono: “In nessun modo e per nessun motivo esiste la regione”. Siamo molto dolenti. Però la preghiamo di rifare l’articolo limitandosi a parlare di poesia dialettale senza toccare il pericoloso argomento”. Evviva la verità!

Nella replica – non pubblicata – Montanaru farà, in merito al Sardo, una serie di osservazioni estremamente interessanti e in qualche modo profetiche: ricorderà infatti che la lingua dei padri sarebbe diventata la lingua nazionale dei Sardi perché “non si spegnerà mai nella nostra coscienza il convincimento che ci vuole appartenere a una etnia auctotona”.

Finito il Fascismo e affermatasi la “Repubblica democratica e antifascista”  l’idiosincrasia – uso volutamente un termine eufemistico – nei confronti di tutto ciò che è Sardo, e in modo particolare della lingua, continuerà comunque anche nel dopoguerra. Nel 1955,nei programmi elementari elaborati dalla Commissione Medici si introduce l’esplicito divieto per i maestri di rivolgersi agli scolari in “dialetto”. E in tempi a noi più vicini, con una nota riservata del Ministero della Pubblica Istruzione  – regnante Malfatti – del 13-2-1976 si sollecitano Presidi e Direttori Didattici a  controllare eventuali attività didattiche- culturali riguardanti l’introduzione della lingua sarda nelle scuole. Una precedente nota riservata dello stesso anno del 23-1 della Presidenza del Consiglio dei Ministri aveva addirittura invitato i capi d’Istituto a  schedare  gli insegnanti. E non si tratta di “pregiudizi“ presenti solo negli apparati statali e ministeriali romani: il segretario provinciale di un Partito politico, allora ferocemente centralistico, sia pure di un “centralismo democratico“, invitava, con una circolare spedita a tutte le sezioni, di non aderire, anzi di boicottare la raccolta di firme per la Proposta di legge di iniziativa popolare sul Bilinguismo perché separatista e attentatrice all’Unità della Nazione!

Oggi fortunatamente la situazione sta cambiando: le lingue locali e minoritarie hanno avuto un formale riconoscimento giuridico e normativo prima a livello europeo con la “Carta Europea per le lingue regionali e minoritarie” poi a livello regionale con la Legge n.26 del 15 Ottobre 1997 sulla “Promozione e valorizzazione della cultura e della lingua della Sardegna” e infine a livello statale con la Legge n.482 del 15 Dicembre 1999 riguardante “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche” in cui è presente la Lingua sarda.

Tutto ciò a livello giuridico e formale ma purtroppo a livello pratico e sostanziale la cultura, la storia ma soprattutto la lingua sarda, per quanto riguarda la scuola e i libri scolastici, è ancora del tutto assente. La scuola italiana in Sardegna infatti ancora oggi

 

 

è rivolta a un alunno che non c’è: tutt’al più a uno studente metropolitano, nordista e maschio. Non a un sardo. E’ una scuola che con i contesti sociali, ambientali, culturali e linguistici degli studenti non ha niente a che fare. Nella scuola la Sardegna non c’è: è assente nei programmi, nelle discipline, nei libri di testo. Si studia Orazio Coclite, Muzio Scevola e Servio Tullio: fantasie con cui Tito Livio intende esaltare e mitizzare Roma. Non si studia invece – perché lo storico romano non poteva scriverlo –  che i Romani fondevano i bronzetti nuragici per modellare pugnali e corazze; per chiodare giunti metallici nelle volte dei templi; per corazzare i rostri delle navi da guerra.

Nella scuola si studia qualche decina di Piramidi d’Egitto, vere e proprie tombe di cadaveri di faraoni divinizzati, erette da centinaia di migliaia di schiavi, sotto la frusta delle guardie;ma non si studiano le migliaia di nuraghi, suggestivi monumenti alla libertà, eretti da migliaia comunità nuragiche indipendenti e federate fra loro.

Si studia Napoleone, piccolo e magro, resistentissimo alla fatica!, ma non si spende una sola parola per ricordare che il tiranno corso, venuto in Sardegna, bombardò La Maddalena e sconfitto da Domenico Millelire, con la coda fra le gambe dovette ritirarsi e abbandonare “l’impresa”.

Si studia insomma l’Italia dalle amate sponde e dell’elmo di Scipio, ma la Sardegna, con le sue vicissitudini storiche, le dominazioni, la sua civiltà e i suoi tesori ambientali, culturali e artistici è del tutto assente: un diplomato sardo e spesso persino un laureato, esce dalla scuola senza sapere nulla dell’architettura nuragica, della Carta de Logu, di Salvatore Satta e della lingua sarda. Quest’ultima pare addirittura cancellata.

Eppure essa è la più forte ed essenziale componente del patrimonio ricchissimo di tradizioni e di memorie popolari e sta a fondamento – per usare l’espressione dell’archeologo Giovanni Lilliu – dell’Identità della Sardegna e del diritto ad esistere dei Sardi, come nazione e come popolo, che affonda le sue radici nel senso profondo della sua storia, atipica e dissonante rispetto alla coeva storia e cultura mediterranea ed europea.

Senza sa Limba i Sardi rischiano di essere Sardi dimezzati, sradicati, deprivati di un intero universo di suoni e di saperi. Dunque senza storia, senza memoria, senza identità. Persino quasi afasici. Soprattutto i giovani. Semiparlanti che non conoscono più la lingua sarda e parlano (e scrivono) un italiano frammentario, disorganizzato, improprio, gergale; la cui parola dice di sé solo le accezioni selezionate dal Piccolo Palazzi: senza metafore, senza natura,senza storia, senza vita.

Lingua sarda che è soprattutto valore simbolico di autocoscienza storica e di forza unificante, il segno più evidente dell’appartenenza e delle radici che dominatori di ogni risma e zenia hanno cercato di recidere.

Ma anche quella lingua che pedagogisti come linguisti e glottologi, psicologi come psicoanalisti e perfino psichiatri, ritengono che nel curriculum scolastico si configuri non come un fatto increscioso da correggere  e controllare ma come elemento indispensabile di arricchimento, di addizione e non di sottrazione, che non disturba ma anzi favorisce lo sviluppo comunicativo degli studenti perché agisce positivamente nelle psicodinamiche dello sviluppo. Essa infatti serve: per allargare le competenze degli studenti, soprattutto comunicative, di riflessione e di confronto con altri sistemi; per accrescere il possesso di una strumentalità cognitiva che faciliti l’accesso ad altre lingue; per prendere coscienza della propria identità etno-linguistica ed etno–storica, come giovane e studente prima e come persona adulta e matura poi; per personalizzare l’esperienza scolastica, umana e civile, attraverso il recupero delle proprie radici; per combattere l’insicurezza ambientale, ancorando i giovani a un humus di valori alti della civiltà sarda: la solidarietà e il comunitarismo in primis; per superare e liquidare l’idea del “sardo“ e di tutto ciò che è locale come limite, come colpa, come disvalore, di cui disfarsi e , addirittura, “vergognarsi“; per migliorare e favorire, soprattutto a fronte del nuovo “analfabetismo di ritorno“, viepiù trionfante, soprattutto a livello comunicativo e lessicale, lo status linguistico. Che oggi risulta essere, –  dicevo –  in modo particolare nei giovani e negli stessi studenti, povero. Con un numero di parole ormai ridotto al minimo. E poiché tra il pensiero e il linguaggio c’è un’interazione ne deriva che il pensiero stesso si è anchilosato, come il linguaggio.

Nasce da queste considerazioni l’esigenza non più procrastinabile dell’inserimento della lingua sarda come materia curriculare nelle scuole di ogni ordine e grado.

 

 

E un sussidiario come questo di Pantaleo Ledda, rivisitato e depurato della retorica patriottarda e italocentrica di quel periodo storico, sarebbe ancora utile, specie per l’apprendimento della lingua sarda.

Quando a scuola si insegnava la lingua sarda

Quando a scuola si insegnava la lingua sarda

2 gennaio 2016

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Francesco Casula

Pochi sanno che c’è stato un periodo della nostra storia in cui a scuola si insegnava la cultura, la storia e la lingua sarda. Paradossalmente proprio durante i primi anni di quel regime, che poi sarebbe stato il nemico più brutale e feroce nei confronti di tutto quello che atteneva al locale e alla specificità sarda.

Siamo negli anni 19221924 quando il valente e avveduto pedagogista Giuseppe Lombardo Radice, alle dirette dipendenze dell’allora ministro della Pubblica IstruzioneGiovanni Gentile, come direttore generale dell’Istruzione primaria e popolare, provvide alla stesura dei programmi ministeriali per le scuole elementari, prevedendo fra le altre anche l’uso delle lingue regionali nei testi didattici per le scuole con il programma Dal dialetto alla lingua, nel rispetto delle differenze storiche degli italiani e per facilitare l’apprendimento e lo sviluppo intellettuale degli scolari, partendo dalla lingua viva: a questo proposito rimando alle sue magistrali Lezioni di Didattica, (l’ultima edizione, in versione anastatica, è del 1970).

In seguito all’approvazione dei nuovi Programmi per le scuole elementari (17 novembre 1923) in Sardegna furono adottati per l’anno scolastico 1924-25 testi scolastici di vari autori ma uno in particolare, Sardegna-Almanacco per ragazzi di Pantaleo Ledda.

Con questo sussidiario nelle scuole primarie della nostra Isola irrompeva l’intero universo culturale sardo: dalla cultura materiale e dalle risorse e attività economiche e produttive (agricoltura, pastorizia, miniere, pesca, saline, acque termali) alla cultura immateriale (letteratura in primis); dalla geografia alla storia: dalle origini alla civiltà nuragica alle invasioni straniere. Con gli uomini sardi più famosi :da Amsicora a Mariano IV, da Eleonora d’Arborea a Leonardo d’Alagon; da Giovanni Maria Angioy a Gianbattista Tuveri; da Grazia Deledda e Montanaru. Ma anche da uomini (poeti, scrittori, storici, letterati, vescovi e giuristi, scienziati e medici) meno conosciuti ma ugualmente illustri e che comunque hanno fatto la storia della Sardegna, arricchendola con la loro opera.

Catalogati per singole città e paesi nativi, e ricordati in brevi ritratti, i Sardi li conoscono oggi quasi esclusivamente perché hanno loro intitolato qualche via, piazza o qualche scuola: penso a Sigismondo Arquer (l’intellettuale cagliaritano vittima dell’Inquisizione e condannato al rogo in Spagna), o penso a Vincenzo Sulis e a Domenico Millelire, due dei protagonisti nella lotta vittoriosa contro i Francesi nel 1793. O penso ancora al bosano Nicolò Canelles che introdusse la stampa in Sardegna; al medico di Arbus Pietro Leo, che contribuì grandemente alla rigenerazione della medicina sarda; allo storico Pietro Martini, uno dei fondatori della storiografia isolana; all’archeologo e linguista ploaghese Giovanni Spano (autore di un dizionario sardo-logudorese); all’oristanese Salvator Angelo de Castro, che si adoperò per l’istituzione delle scuole elementari in molti comuni della Sardegna. E a tanti altri ricordati in questo sussidiario.

Insieme alla storia, la protagonista assoluta del libro di Pantaleo Ledda è la lingua sarda: nelle sue varianti e varietà ma anche nelle Isole alloglotte (è presente il Gallurese come il Sassarese). Il Sardo viene utilizzato nelle poesie: ad ogni stagione ne viene dedicata una. Ma anche nelle preghiere e nei precetti, nelle canzoni e canzoncine, nei proverbi e nei motti, negli scongiuri e nei dicius, negli scioglilingua,nelle cantilene e nelle ninne nanna, nei giochi, negli indovinelli e nelle leggende. Ad esprimere una vastissima e ricchissima tradizione culturale, soprattutto orale, una saggezza antica che ha sostenuto e guidato i sardi nella loro millenaria storia.

Con la storia e la lingua sarda sono presenti le città, le località e i paesi sardi: con le feste e le sagre, i costumi e i riti. E le attività produttive, specie quelle legate alla campagna e all’agricoltura: con l’aratura e la semina, la fienagione,la mietitura e la trebbiatura, la raccolta delle ortaglie, la vendemmia e la panificazione. Ma anche la pesca: soprattutto del tonno. Il sussidiario rappresenta così per gli scolari del triennio delle elementari una vera e propria full immersione nelle cultura locale e nella sua economia.

Purtroppo questa ventata liberalizzatrice di lingua e cultura locale durò pochissimo: con il consolidarsi del regime fascista specie dopo l’assassinio di Matteotti, inizia a prevalere l’enfasi unificatrice, omologatrice e livellatrice tanto che fu avviata un’azione repressiva nei confronti degli alloglotti e, per quanto ci riguarda, della lingua e cultura sarda: fu vietato non solo l’uso della lingua sarda ma le stesse gare poetiche estemporanee. Anzi, il Fascismo ben presto, ad iniziare dagli anni trenta, imboccata la strada dell’imperialismo e dell’autarchia, tenterà di cancellare il concetto stesso di civiltà regionale e di regione e abolirà l’uso del Sardo, in nome dell’italianità, minacciata a suo dire da tutto quanto era “locale”.

Sul’uso del Sardo abbiamo una vasta eco in una polemica scoppiata nel 1933 fra un certo Gino Anchisi, giornalista dell’Unione Sarda e il nostro grande poeta Montanaru, in occasione della pubblicazione dei suoi Sos cantos de sa solitudine. In un articolo Anchisi esortava Montanaru a scrivere in Italiano perché un poeta come lui aveva diritto a un pubblico più vasto. E concludeva affermando che la poesia dialettale era anacronistica, roba d’altri tempi e come tale andava relegata nel regno d’oltretomba.

Montanaru rispondeva, sullo stesso giornale, affermando che i rintocchi funebri per la fine dei dialetti, da qualunque parte venissero, erano per lo meno immaturi. Seguiva la replica dell’Anchisi che ribadiva l’anacronismo e la fine dei dialetti e della regione: Morta o moribonda la regione, è morto o moribondo il dialetto.

Scriverà Cicitu Masala: E’ morto il fascismo ma la lingua sarda, bene o male continuò a vivere. E quel sussidiario di Pantaleo Ledda, un vero e proprio frutto fuori stagione, rivisitato e depurato della retorica patriottarda e italocentrica del Fascismo, sarebbe ancora utile, anche per l’apprendimento della lingua sarda.

Nell’immagine: Sa pandela sarda, di Cici Peis

 

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Questo articolo è stato pubblicato sabato, 2 gennaio 2016 alle 10:09 e classificato in Interventi e Opinioni. Puoi seguire i commenti a questo articolo tramite il feed RSS 2.0. Puoi inviare un commento, o fare un trackback dal tuo sito.

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