Garibaldi

Garibaldi e l’unanimismo sospetto                                     

 

di Francesco Casula

Sull’Unione Sarda del 4 Luglio scorso, in una bella intervista a Mario Birardi, Giancarlo Ghirra in occasione del bicentenario della nascita di Garibaldi, ricorda l’eroe e il combattente della libertà, in Italia ma anche in Francia e in Sudamerica. Sempre il 4 Luglio, su Repubblica lo storico Lucio Villari omaggia Garibaldi come protagonista nella lotta per il suffragio universale, per l’emancipazione femminile, per la diffusione dell’istruzione obbligatoria, laica e gratuita. Bene. Ma facciamo qualche passo indietro: durante il “ventennio” Garibaldi fu santificato ed eletto “naturalmente” come padre putativo di Mussolini e del regime e dunque fu “fascista”. Come fu santificato il Risorgimento, cui il Fascismo si collegava strettamente perché visto “come il periodo di maturazione del senso dello Stato, uno Stato forte, realtà <etica> e non naturale, che subordina a sé ogni esistenza e interesse individuale”. Dopo il fascismo, nel ’48, alle elezioni politiche, la sua icona fu scelta come simbolo elettorale  del Fronte popolare e dunque divenne socialcomunista. Negli anni ‘80 fu osannato da Spadolini –e dunque divenne repubblicano– “come il generale vittorioso, l‘eroico comandante, l’ammiraglio delle flotte corsare e l’interprete di un movimento di liberazione e di redenzione per i popoli oppressi”. Ma soprattutto  fu celebrato da Craxi – e dunque divenne socialista – “come il difensore della libertà e dell’emancipazione sociale che univa l’amore per la nazione con l’internazionalismo in difesa di tutti i popoli e di tutte le nazioni offese”. Infine fu persino rivendicato da Piccoli che lo fece dunque diventare  democristiano.

 

 Ecco, è proprio questo unanimismo, questa unione sacra –fra destra, sinistra e centro-  intorno a Garibaldi, al Risorgimento e ai suoi personaggi simbolo, che non convince. E’ questa  intercambiabilità ideologica dei suoi “eroi” che rende sospetti. E non basta sostenere, come già fece ben cento anni fa l’allora sindaco di Roma, Ernesto Nathan, in occasione del centenario, che occorreva sottrarre Garibaldi “a ogni incameramento negli angusti confini di persone, di partiti o di scuole”.

 

Quello che occorre è invece iniziare a fare le bucce al Risorgimento, sottoponendo a critica rigorosa e puntuale  tutta la pubblicistica tradizionale – ad iniziare dunque dai testi di storia – intorno a Garibaldi, -come a Mazzini- per liquidare una buona volta la retorica celebrativa del Risorgimento. Per ristabilire, con un minimo di decenza un pò di verità storica occorrerebbe infatti, messa da parte l’agiografia patriottarda, andare a spulciare fatti ed episodi che hanno contrassegnato, corposamente e non episodicamente, il Risorgimento e Garibaldi stesso: Bronte e Francavilla per esempio. Che non sono, si badi bene, episodi né atipici né unici né lacerazioni fuggevoli di un processo più avanzato. Ebbene, a Bronte come a Francavilla vi fu un massacro, fu condotta una dura e spietata repressione nei confronti di contadini e artigiani, rei di aver creduto agli Editti Garibaldini del 17 Maggio e del 2 Giugno 1860 che avevano decretato la restituzione delle terre demaniali usurpate dai baroni, a chi avesse combattuto per l’Unità d’Italia. Così le carceri di Franceschiello, appena svuotate, si riempirono in breve e assai più di prima. La grande speranza meridionale ottocentesca, quella di avere da parte dei contadini una porzione di terra, fu soffocata nel sangue e nella galera. E la loro atavica, antica e spaventosa miseria continuò. Anzi: aumentò a dismisura. I mille andarono nel Sud semplicemente per “traslocare”, manu militari, il popolo meridionale dai Borboni ai Piemontesi. Altro che liberazione! Così l’Unità d’Italia si risolverà sostanzialmente nella piemontesizzazione” della Penisola e fu realizzata dalla Casa Savoia, dai suoi Ministri –da Cavour in primis- dal suo esercito in combutta con gli interessi degli industriali del Nord e degli agrari del Sud -il blocco storico gramsciano– contro gli interessi del Meridione e delle Isole e a favore del Nord; contro gli interessi del popolo, segnatamente del popolo-contadino del Sud;  contro i paesi e a vantaggio delle città, contro l’agricoltura e a favore dell’industria.    C’è di più: si realizzerà un’unità centralista e accentrata, tutta giocata contro gli interessi delle periferie e delle mille città e paesi che storicamente avevano fatto la storia e la civiltà italiana. E a dispetto della gran parte degli intellettuali che erano allora federalisti e non unitaristi.  

(Pubblicato sull’Unione Sarda del 6-7-07)

Termovalorizzatore

Il termovalorizzatore della Giunta regionale e il no delle popolazioni nuoresi.

 

di Francesco Casula

In poche settimane, il comitato popolare sorto per contrastare la realizzazione del termovalorizzatore nella piana di Ottana ha raccolto 5.000 firme ed è fortemente intenzionato a proseguire la sua battaglia. Per la verità non in solitudine: nei giorni scorsi anche il Sindaco di Ottana ha rotto gli indugi e si è schierato con la popolazione chiedendo un Referendum e l’intero Consiglio Comunale minaccia il ricorso al TAR per annullare la gara già espletata dalla Giunta per l’assegnazione dei lavori di realizzazione del megaimpianto.

Gli esperti insistono che quel progetto è pericoloso: produce residui da combustione che è difficile smaltire anche con  le nuove tecnologie né esistono soluzioni efficaci per le polveri sottili che producono danni irreversibili tra le popolazioni, inquinando il territorio e rendendo impossibile la qualità dei prodotti delle numerose Aziende agropastorali presenti. Inoltre trattando biomasse, si aprono le porte al raddoppio dei volumi dei rifiuti che passerebbero da 200 mila  a 400 mila tonnellate. Non basterebbero i rifiuti di tutta la Sardegna a soddisfare l’economicità dell’impianto e ciò preluderebbe all’importazione di altre quantità di rifiuti da altri paesi e località. La Confederazione sindacale sarda -che sostiene la lotta delle popolazioni barbaricine- insiste sugli effetti disastrosi sull’ambiente, sulle pochissime ricadute positive in termini di occupazione e di energia prodotta, sulla raccolta differenziata come alternativa al Termovalorizzatore.   (Pubblicato su Il Sardegna del 4-7-07)

Aboliamo le province?

Aboliamo le province? 

 

di Francesco Casula  

 

Il dibattito sui costi della politica riaccende la polemica su una vecchia e “vexata quaestio”: l’abolizione delle province. L’occasione è stata offerta -fra l’altro- dai dati elettorali del 27-28 maggio scorso, in cui alle provinciali ha votato il 58,8% dei cittadini interessati, il 6% in meno rispetto al 64% di cinque anni fa. Segno di grande disaffezione per un Ente, considerato inutile. E dunque da eliminare. In questa direzione si sono espressi oltre a Montezemolo, autorevoli esponenti sia del centro-destra: Fini lo ha detto a chiare lettere nella trasmissione televisiva di Ballarò il 28 Maggio scorso; sia del centro-sinistra: da Di Pietro a Mussi, da Salvi ad Amato, che ha opportunamente avvertito: ”fatevi pure le vostre province ma lo stato non vi aprirà più alcun organo periferico”. Ovvero nuove prefetture, questure, intendenze di finanza, direzioni provinciali del tesoro, ragionerie provinciali dello stato etc. In Sardegna, da mesi il Presidente Soru ha fatto capire l’intenzione di liquidare le Province . La partitocrazia sarda ha reagito stizzita e scomposta : e c’è da comprenderla. Le province, vero e proprio cascame dello stato ottocentesco, centralista e accentrato, oggi sono utili solo per i “mestieranti della politica”, come trampolino di lancio per più magnifiche e lucrose sorti o per la “sistemazione” degli stessi, una volta fallito l’obiettivo tanto desiderato del Consiglio regionale, del Parlamento o di altri Enti più appetibili. Il nome stesso di “provincia” evoca fantasmi inquietanti per i Sardi e per la storia della Sardegna: la fine della libertà e dell’indipendenza nuragica e il passaggio dell’Isola sotto il dominio romano; lo sfruttamento, i soprusi e le angherie dei Governatori, consoli o pretori. Uno per tutti, il famigerato M. Emilio Scauro, autore di tre gravissimi reati: omicidio, violenza e concussione, ma assolto grazie a Cicerone che, non avendo argomenti, gettò semplicemente fango sui Sardi e la Sardegna.  Nate nella forma attuale con lo Stato unitario, sul modello della Francia napoleonica, le province –inizialmente erano 59, ma oggi si sono moltiplicate all’inverosimile e la Sardegna le ha recentemente raddoppiate- dovevano servire per amministrare e soprattutto controllare il Paese, segnatamente attraverso la figura del prefetto di nomina regia, in rappresentanza del potere centrale. Si trattava dunque, come poi sosterrà Lussu in un Saggio sul Federalismo pubblicato nel 1933, “di superficiali e forzate costruzioni burocratiche”, “di centri fittizi e corruttori di vita locale”, “di equivoche strutture politiche, fatte per mascherare una armatura governativa e poliziesca che non dava alla rappresentanza popolare locale altro diritto che quello di occuparsi dei manicomi e di strade di secondo ordine”. Si dirà che il pensiero di Lussu su questo versante è ormai datato: almeno per quanto attiene alle competenze della provincia. Si dirà inoltre che un Ente intermedio fra Regione e Comuni occorrerà pur che ci sia, altrimenti fra loro si creerebbe un iato troppo profondo. Ma soprattutto si sosterrà –un po’ demagogicamente- che le Province rispondono al bisogno di decentramento, di autonomia, di autogoverno del territorio. Certo, un Ente intermedio fra la Regione e i Comuni è necessario: ma potrebbe  essere semplicemente composto dai sindaci della zona compresa nel territorio delle attuali province, come sembra ipotizzare Soru. O meglio, da liberi consorzi di Comuni, corrispondenti alle regioni storiche sarde, come già sosteneva Lussu. Quelle regioni che sono state smembrate, divise e accorpate artificiosamente in province senza identità, senza omogeneità né economiche né culturali, ma solo in base agli interessi –spesso puramente elettoralistici- degli oligarchi, piccoli e grandi, dei partiti. Quello che occorre evitare e combattere è la costruzione e la moltiplicazione artificiosa e burocratica di strutture dispendiose e autoreferenziali, che servono solo per alimentare un ceto politico, con la proliferazione di presidenti, vicepresidenti, assessori, consiglieri, consulenti, personale vario. Che serve solo per aumentare ulteriormente gli altissimi costi della politica di cui parlavo all’inizio e in cui l’Italia detiene il primato assoluto. Con una spesa totale che supera quella di Francia, Spagna, Germania messe insieme. E che serve per mantenere, oleare e ingrassare quel gigantesco e vorace esercito di “politici” –o che vivono comunque della politica- che ormai sfiora il milione di persone.   (Articolo ancora non pubblicato- dovrebbe uscire sull’Unione Sarda)    

Limba sarda: novas bellas!

Limba sarda: novas bellas!

 

di Francesco Casula

 

Novas bellas pro sa Sardinna intrea ma mescamente pro sa cultura e sa limba e duncas pro sa creschida de s’identidade etno-natzionale de totu sos Sardos: la Giunta regionale ha deliberato di adottare un modello di lingua scritta chiamata “Limba sarda comuna” per gli usi ufficiali dell’Amministrazione regionale. Si tratta di una scelta coraggiosa il cui merito va soprattutto al Presidente Soru e all’Assessore Pilia che rompendo gli indugi e superando dubbi e opposizioni hanno imboccato la strada dell’ufficializzazione concreta della Lingua sarda scegliendo uno standard linguistico.

 

Come nel passato anche recente –penso alle polemiche contro la proposta di Limba sarda unificata- anche questa volta ci saranno i fusionisti, gli integrazionisti ma specie gli ascari che grideranno allo scandalo: si tratta di ragli che non incantano ormai più nessuno, di zaulos de canes de isterzu e di appeddos scarrabecciaos, movidos dae sa tirria chi faghent solu stragazzu e carraxu; allegos scoscimingiaus chi non spreviant nemos ma allocchiant sa zente.

 

Come nel passato –qualche eco l’abbiamo già sentita in questi giorni- qualcuno parlerà di lingua costruita a tavolino, di esperanto, di affossamento della ricchezza e varietà linguistica sarda. Si tratta di obiezioni che non reggono, di preoccupazioni fuori luogo. Nelle Norme della “Limba sarda comuna” si afferma con chiarezza che “le forme adottate non sono nuove creazioni, frutto di invenzione, ma forme reali, riscontrabili nell’uso orale. Ne risulta una varietà linguistica con elementi di naturalità, punto di mediazione ma non frutto di una media artificiale…”.  Di qui un esempio molto calzante e convincente: “Tra un esito limba e un altro lingua non si è trattato di inventare un ipotetico ibrido (come sarebbe lingba) ma di scegliere un risultato linguisticamente più identitario: limba”.

 

Lo standard scelto dunque –da utilizzarsi in via sperimentale per la redazione dei documenti della Regione sarda e rivolto a tutti i sardi – “non è una nuova lingua che si sostituisce alle varietà parlate, ma semplicemente una norma scritta di riferimento ad esse complementare che propone una mediazione fra le differenze che costituiscono la irrinunciabile ricchezza e multiformità della Lingua sarda”.

 

Ricchezza e multiformità che proprio in virtù dello standard non solo a mio parere non saranno penalizzate ma verranno esaltate e rinvigorite: senza una lingua ufficiale scritta infatti il rischio reale è che il Sardo nel giro di qualche decennio muoia o venga marginalizzato e ghettizzato nel semplice folclore e nelle feste paesane.

 

Certo occorre avere chiara la consapevolezza che si tratta solo di un primo e parziale passo verso il Bilinguismo perfetto: ma in questo caso non è il quantum che conta ma la direzione di marcia. E quella indicata da Soru e Pilia è quella giusta.

 

Perché lo standard, oggi previsto solo per i documenti della Regione sarda, venga utilizzato ufficialmente nei mass-media, nella pubblicità, in tutta la pubblica amministrazione ma soprattutto nella Scuola e nell’insegnamento, probabilmente ci vorranno altre battaglie.

 

Il dado comunque è tratto e indietro non si torna: il medioevo della proibizione e della censura della Lingua sarda dobbiamo considerarlo definitivamente consegnato al passato, specie dopo la decisione fausta della Giunta regionale e le posizioni a favore espresse fin’ora oltre che dal Partito sardo, dai Ds e da Progetto Sardegna. A cui – son sicuro- ne seguiranno molte altre. Anche da parte di Partiti contrari all’attuale maggioranza.