CHI LO DICE (E LO SPIEGA) ALLA MELONI LA DIFFERENZA FRA “NAZIONE” E “STATO”

CHI LO DICE (E LO SPIEGA) ALLA MELONI LA DIFFERENZA FRA “NAZIONE” E “STATO

di Francesco Casula
La Presidente del Consiglio dello Stato italiano, quotidianamente e in modo ossessivo ci ammorba con la sua “Nazione”. Ma chi le spiega che sta confondendo Nazione con Stato? E che nella Repubblica italiana ci sono più Nazioni? E che fra queste c’è sicuramente la Nazione sarda?
Dovrebbe infatti sapere che i sardi sono sardi non italiani. O forse che prima eravamo spagnoli? E ancor prima catalano-aragonesi? O fenici durante la loro “colonizzazione”? O cartaginesi, o romani, o vandali o bizantini durante la loro dominazione?
Noi Sardi siamo certo cittadini italiani, ma di nazionalità sarda.
Ho l’impressione che Lei confonda Stato con Nazione. Quando la differenza è ciclopica e pure evidente. E, come recita l’apoftegma latino, De evidentibus non est disputandum!
Ricordo comunque che la Sardegna, storicamente, è entrata ed è stata incorporata (e finanche coattivamente) nell’orbita italica – a parte la breve parentesi pisana e genovese nei secoli XI-XIII – solo nel 1720 quando venne ceduta al Piemonte, per un baratto di guerra, ai Savoia che diventarono re e si dimostrarono in 226 anni di dominio e sgoverno, tiranni oltremodo reazionari ma soprattutto ottusi famelici e sanguinari.
Siamo Sardi e siamo, da sempre una Nazione: per storia, diversa e dissonante rispetto alla coeva storia italiana ed europea; per lingua (nata e affermatasi quasi 300 anni prima della lingua italiana e per più di 400 anni lingua ufficiale e cancelleresca nei regni giudicali ); per cultura e tradizioni, peculiari e specifiche.
Il “sentimento” nazionale sardo è viepiù largamente presente fra i sardi, oggi: alla faccia di chi ha sempre tentato di “snazionalizzarci” e “dessardizzarci”, privandoci della nostra Identità etno-nazionale.
Ricordo che nel 2012, in una indagine, voluta e finanziata dalla Giunta regionale e svolta dal Dipartimento universitario di ricerche economiche e sociali di Cagliari e da quello di Scienza dei linguaggi dell’Ateneo di Sassari, è emerso che il 27% si sente sardo e non italiano; il 38% più sardo che italiano; il 31% tanto l’uno che l’altro e solo il 3% più italiano che sardo e l’1% esclusivamente italiano.

Ma si tratta solo di un “sentimento”, di un “umore”? O, meglio, di un ri-sentimento e di un malumore nei confronti dello Stato italiano, storicamente ostile nei confronti dell’Isola? No, c’è di più: a mio parere sta maturando una nuova consapevolezza e coscienza della propria “diversità” e “specificità” e dunque dell’essere “Nazione”. Che ha il diritto storico all’Autodeterminazione – peraltro garantita da tutti i Trattati e Convenzioni internazionali – e all’Indipendenza.
La smetta dunque la Presidente del Consiglio italico di persistere nel chiamare lo stato italiano “Nazione” o , peggio ancora, Patria.
Deve sapere che per noi Sardi. la nostra Patria (e Matria) è la Sardegna non l’Italia.
E volgio sperare che anche a Lei non venga la tentazione di rivolgere agli indipendentisti sardi la becera accusa di “separatismo”. Siamo noi Sardi che accusiamo lo Stato Italiano di essersi, da sempre, “separato” dai nostri bisogni, materiali, culturali e linguistici, E di volerci ancora dominare – e con quale spocchia! – sia culturalmente che linguisticamente!
Noi vogliamo semplicemente la nostra liberazione nazionale. Aperti al mondo e al suo respiro. Da sempre euromediterranei, vogliamo andare in Europa, senza passare per la prigione italica, in una Europa dei popoli, sociale, solidale e multiculturale e plurilingue.

Onore a Francesco Pilu

Onore a Francesco Pilu suggestivo cantore, con i Cordas e Cannas, della Sardegna.
Chi sa terra ti siat lebia!
di Francesco Casula

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Dopo lungo e doloroso calvario,oggi è morto Francesco Pilu : la voce, l’anima, il leader dei CORDAS E CANNAS. Una immane perdita per tutta la Sardegna: di cui ha cantato, in modo passionale ed energico la sua malefadada storia, la sua poesia, la sua civiltà: con la nostra lingua nadìa. Orgogliosamente, convintamente.
Qualche anno fa ho avuto occasione di conoscerlo personalmente, in occasione del Premio che come Giuria dell’Ozieri avevamo assegnato a lui e al suo Gruppo, come migliore band musicale sarda.
Amavo ascoltare le sue canzoni, la sua musica, sua e del suo Gruppo,“quattro ragazzi dalle radici affondate nell’alveo profondo delle culture neolitiche e civiltà nuragiche, orientate a una visione futura”, scrivono opportunamente in un bellissimo libro, «Terra Muda», Decimo Lucio Todde e Bruno Piccinnu.
Cordas e Cannas è la più longeva formazione della World musica sarda che da oltre quarant’anni ha deliziato con la sua musica il pubblico sardo e non solo sardo: la band infatti ha fatto conoscere e portato le sue canzoni in varie parti del mondo, dall’Australia agli Stati Uniti, dal Sud America al Nord Europa.
Dei loro canti e della loro musica scrivono ancora e in modo struggentemente lirico, gli Autori di «Terra Muda»:“I Cordas e Cannas liberavano nell’etere musiche e canti profusi in echi risuonanti, sprofondati in abissi primordiali; evocanti i palpiti dell’incanto e dell’ignoto per innalzarsi in riverberi di pietra sulla volta agli orizzonti futuri”.
Una musica, quella della band olbiese che ha saputo attingere dalle sonorità ancestrali dimenticate, per condurle nel vivere di tutti i giorni, al fine di raccontare in musica la storia della Sardegna e nel contempo della stessa più alta letteratura e poesia sarda tradizionale, ad iniziare dai sublimi Peppino Mereu e Montanaru, Francesco Ignazio Mannu e Melchiorre Murenu di cui hanno musicato e cantato i loro più bei cantici. Ma anche di Sergio Atzeni, Fabrizio de Andrè, Marisa Sannia e Pinuccio Canu.
Una musica che ha saputo recuperare sonorità indigene, coniugandole e intrecciandole con saund moderni, europei e non solo, di alto livello, proponendosi nel solco di altre esperienze musicali intrernazionali: in tal modo i Cordas e Cannas, proiettano e risvegliano sonos antigos, per condurli nel linguaggio musicale aperto alle espressioni di culture diverse. Rimanendo in tal modo fedeli alla tradizione, ad iniziare da quella orale, ma aperti al mondo, a culture «altre», viepiù arricchenti quella etnica. Così, grazie alla sensibilità musicale, al rispetto di Su Connotu,alla innata creatività e a una grande capacità compositiva, che sono solo alcuni degli affluenti di un prezioso fiume sonoro, in questi quarant’anni la band di Olbia ha potuto soddisfare quel bisogno di musica del nostro popolo, del popolo sardo.
Una musica, quella dei Cordas e Cannas, scrivono ancora gli Autori di «Terra Muda», in termini suggestivi e fascinosi, mitici e fortemente lirici, “concepita nel segno di una nuova coscienza musicale e ambientalista; fiorita fra gli orditi di janas tessitrici, vestite di giungo e paglia, adornate di collane e diademi. Nel suo destino soffia il vento della musica etnica isolana sospinta nei microcosmi musicali di culture diverse, per comporre con evoluti intarsi sonori il mosaico dei popoli minori”.
Un gruppo musicale, quello dei Cordas e Cannas che un poeta come Pinuccio Canu (autore fra l’altro di due testi da loro musicati e cantati (Che foza in su ‘entu e A Manu tenta), «zustamente gosi contat e cantat»: Dae cando at comintzadu, su sòtziu leat una filada e ponet conca a una cherta musicale chi esseret a bessu de ‘ettare a unu e ponner in ispiccu cantu b’aiat in comunu tra su connotu sardu carradu dae ‘ucca in bucca e ateras musicas populares europeas e de atterùe, fintzas a ch’imbatter in sa musica nòdida e famada e in su jazz. S’oriolu e su bisu de sos Cordas e Cannas est cussu de pertziare comente si devet e de suguzare cun afficcu tottu su chi sa musica sarda podiat narrer (siat cussa a boghe sola, siat cussa strumentale) e de nde ‘ogare a pizu totu sos segnales prus semodados e galu aggradessidos a sos de como.
A tali caratteristiche occorrerà aggiungere – ma si sarà ampiamente capito – quella che a mio parere è fondamentale e prioritaria per una band che canta e fa musica etnica isolana: l’utilizzo della lingua sarda. Essendo essa, la nostra lingua materna, la nostra lingua nadìa l’elemento più pregnante e alto della nostra identità. Quella lingua che è soprattutto senso, suoni, musica. Lingua di vocali. Dunque corporale e fisica e insieme aerea, leggera e impalpabile. E le vocali sono per il poeta l’anima della lingua, sono il nesso fra la lingua e il canto; fra la poesia, i numeri della musica, il ritmo e il ballo.
Tanto che, storicamente, i confini fra poesia e musica e danza, sono sempre stati labili e sfumati a tal punto che gli antichi poeti – gli aedi greci per esempio – non scrivevano poesie ma le cantavano, accompagnandosi con la lira: non a caso nasce il termine «lirica» e «aoidòs» in greco significa cantore.
Ma «cantano” anche Dante e Petrarca, Ariosto e Tasso, Leopardi e un poeta del ‘900 come Dino Campana (Canti Orfici).

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E i cantadores sardi, ad iniziare dai poeti improvvisatori che cantano con la lingua materna che riassume la fisionomia, il timbro, l’energia inventiva, la cultura, la civiltà peculiare del nostro popolo. Una lingua – il Sardo – che è insieme memoria e universo di saperi e di suoni. Che sottende – talvolta in modo nascosto e subliminale – senso e insieme oltresenso, musica, ritmo e ballo. Segnatamente il ballo tondo: momento magico in cui l’intera comunità, «tott’umpare, si pesat a ballare, si muove in cerchio. E con questo esprime una molteplicità di segni, significati, simboli e riti: l’armonia dell’universo, il movimento dell’acqua e del fuoco, il Nuraghe. E con esso tutta la civiltà e la cultura nuragica che evoca e richiama: la democrazia federalista e comunitaria, il rifiuto del capo, del gerarca, del sovrano, del tiranno – la Sardegna è sempre stata acefala – la difesa intransigente dell’autonomia e dell’indipendenza di ogni singola comunità, di ogni singolo villaggio.
Quella lingua che è soprattutto espressione della nostra civiltà e della nostra storia dunque, ma nel contempo, strumento per difendere e sviluppare la nostra identità e la nostra coscienza di popolo e di nazione. Una lingua, i cui lemmi che la compongono, infatti, prima di essere un suono sono stati oggetti, oggetti che hanno creato una civiltà, oggetti che hanno creato storia e «paristoria, lavoro, tradizioni, letteratura, cultura. E la cultura è data dal battesimo dell’oggetto.
Quella lingua che è ancora libera, popolana, vera, indipendente, ricca: istinto e fantasia, passione e sentimento. A fronte delle lingue imperiali, viepiù fredde, commerciali e burocratiche, viepiù liquide e gergali,invertebrate e povere, al limite dell’afasia: certo indossano cravatta e livrea ma rischiano di essere solo dei manichini. Come la stessa lingua italiana.

LA CIVILTA’ DEI SARDO_NURAGICI E DINTORNI

LA CIVILTA’ DEI SARDO-NURAGICI E DINTORNI
di Francesco Casula
(Ripubblico questo mio Intervento nonostante le contumelie su di esso piovute da parte di faniciomani, archeologi di stato, accademici autodileggiatori e negatori dell’Identità sarda)
La Biblioteca del Quotidiano Repubblica, nel 2005 ha pubblicato e diffuso a migliaia di copie un volume di 800 pagine sulla preistoria nel quale nuraghi e Sardegna non vengono citati, neppure per errore. Un’occasione mancata per la cultura italiana che pur pretende, – e con quale spocchia e albagia – di dominare sull’Isola. Per contro, uno dei redattori più influenti del quotidiano romano, Sergio Frau, da tempo sostiene, producendo una grande messe di indizi e di prove, che al tempo dei nuraghi la Sardegna altro non era se non Atlantide. La tesi, se verificata fino in fondo, sconvolgerebbe la storia del Mediterraneo così come la conosciamo; anche per questo è avversata con veemenza da accademici, sovrintendenti, geologi e antropologi poco disposti a mettere in discussione se stessi e le certezze su cui hanno fondato carriere e fortune. E’ la stessa veemenza usata nel passato contro il dilettante scopritore di Troia, anch’essa come Atlantide considerata un semplice “mito”.
Se il Quotidiano “La Repubblica” ha compiuto un semplice peccato di omissione, qualcuno ha fatto di peggio: certo Gustavo Jourdan, uomo d‘affari francese, deluso per non essere riuscito dopo un anno di soggiorno in Sardegna, a coltivare gli asfodeli per ottenerne alcool, in “l’Ile de Sardaigne” (1861) parla della Sardegna rimasta ribelle alla legge del progresso, terra di barbarie in seno alla civiltà che non ha assimilato dai suoi dominatori altro che i loro vizi.
Mentrel’inglese Donald Harden, archeologo, filologo e storiografo di fama, dopo aver visitato molte contrade della Sardegna, agli inizi del Novecento, tra gli anni ’20 e ‘30, espresse giudizi poco lusinghieri sulla tradizionale cultura del popolo sardo che lo aveva ospitato e in una sua opera “The Fhoenician” parlerà della Sardegna come regione sempre retrograda.
Ma tant’è: accecati dall’eurocentrismo, evidentemente costoro dimenticano che quella nuragica è stata la più grande civiltà della storia di tutto il mediterraneo centro-occidentale del secondo millennio avanti Cristo. Con migliaia di nuraghi (8.000 secondo le fonti ufficiali: l’Istituto geografico militare, che però li censisce secondo modalità militari e non archeologiche; 20.000 secondo Sergio Salvi e 25–30.000 secondo altre fonti non ufficiali) costruzioni megalitiche tronco-coniche dalle volte ogivali con scale elicoidali; pozzi sacri, betili mammellari, terrazze pensili, androni ad arco acuto, innumerevoli dolmens e menhir, migliaia di statuette e di navicelle di bronzo. Con un’economia dell’abbondanza: di carne, pesce, frutti naturali. Che produce oro, argento, rame, formaggi, sale, stoffe, vini. e la musica delle launeddas. Che produce e lavora il vetro. Che conosce la scrittura. E inaugura la grande statuaria molto prima della Grecia con i Giganti di Mont’ ‘e Prama.
Quella Sardegna, (per Omero la Scherìa, la terra dei Feaci, abitanti di un’Isola su tutte felice), posta a Occidente nel mezzo del Mediterraneo, aperta al mondo, che combatte, alleata con i Popoli del mare contro i potenti eserciti dei Faraoni e dei re di Atti che tiranneggiano e opprimono i popoli.
La Sardegna, l’Isola sacra in fondo al mare di Esiodo, l’Isola dalle vene d’argento (Argyròflebs) di Platone poi Ichnusa Sandalia ecc. oltre che Isola “felice” è infatti Isola libera, indipendente e senza stato. Organizzata in una confederazione di comunità nuragiche mentre altrove dominano monarchi e faraoni, tiranni e oligarchi. E dunque schiavitù. Non a caso le comunità nuragiche costruiscono nuraghi, monumenti alla libertà, all’egualitarismo e all’autonomia; mentre centinaia di migliaia di schiavi, sotto il controllo e la frusta delle guardie, sono costretti a erigere decine di piramidi, vere e proprie tombe di cadaveri di faraoni divinizzati.
Per sfuggire alle carestie, alla fame e alla miseria ma anche alle tirannidi e alla schiavitù molti si rifugeranno nell’Isola, che accoglierà esuli e fuggitivi. Venti mila – secondo il linguista sardo Massimo Pittau – scampati alla distruzione della città-stato di Sardeis in Anatolia, da parte degli invasori Hittiti. Altri arriveranno dalla stessa Troia.
Finchè i Cartaginesi non invasero la Sardegna, per fare bardana, depredare e dominare l’Isola. Ma con il dominio romano fu ancora peggio. Fu un etnocidio spaventoso. La nostra comunità etnica fu inghiottita dal baratro. Almeno metà della popolazione fu annientata, ammazzata e ridotta in schiavitù.
Chi scampò al massacro fuggì e si rinchiuse nelle montagne, diventando dunque “barbara” e barbaricina, perché rifiutava la civiltà romana: ovvero di arrendersi e sottomettersi. Quattro-cinque mila nuraghi furono distrutti, le loro pietre disperse o usate per fortilizi, strade cloache o teatri; pare persino che abbiano fuso i bronzetti, le preziose statuine, per modellare pugnali e corazze, per chiodare giunti metallici nelle volte dei templi, per corazzare i rostri delle navi da guerra.
Le esuberanti creatività e ingegnosità popolari furono represse e strangolate. La gestione comunitaria delle risorse, terre foreste e acque, fu disfatta e sostituita dal latifondo, dalle piantagioni di grano lavorate da schiere di schiavi incatenati, dalle acque privatizzate, dai boschi inceneriti. La Sardegna fu divisa in Romanìa e in Barbarìa. Reclusa entro la cinta confinaria dell’impero romano e isolata dal mondo. E’ da qui che nascono l’isolamento e la divisione dei sardi, non dall’insularità o da una presunta asocialità.
A questo flagello i Sardi opposero seicento anni di guerriglie e insurrezioni, rivolte e bardane. La lotta fu epica, anche perché l’intento del nuovo dominatore era quello di operare una trasformazione radicale di struttura “civile e morale”, cosa che non avevano fatto i Cartaginesi. La reazione degli indigeni fu fatta di battaglie aperte e di insidie nascoste, con mezzi chiari e nella clandestinità. “La lunga guerra di libertà dei Sardi – è Lilliu a scriverlo – ebbe fasi di intensa drammaticità ed episodi di grande valore, sebbene sfortunata: le campagne in Gallura e nella Barbagia nel 231, la grande insurrezione nel 215, guidata da Amsicora, la strage di 12.000 iliensi e balari nel 177 e di altri 15.000 nel 176, le ultime resistenze organizzate nel 111 a.c., sono testimonianza di un eroismo sardo senza retorica (sottolineato al contrario dalla retorica dei roghi votivi, delle tabulae pictae, dei trionfi dei vincitori)”.
La Sardegna, a dispetto degli otto trionfi celebrati dai consoli romani, fu una delle ultime aree mediterranee a subire la pax romana, afferma lo storico Meloni. Ma non fu annientata. La resistenza continuò. I sardi riuscirono a rigenerarsi, oltrepassando le sconfitte e ridiventando indipendenti con i quattro Giudicati: sos rennos sardos.

IL NATALE SARDO IL NATALE DI CAMBOSU

IL NATALE SARDO IL NATALE DI CAMBOSU
di Francesco Casula.
Salvatore Cambosu in Miele Amaro, il suo capolavoro, -che possiamo, considerare un’antologia, un catalogo generale dell’identità sarda, della sua storia e della sua civiltà – ora come etnologo e antropologo, ora come demologo e storico, ma soprattutto come narratore e poeta, racconta dall’interno, dal sottosuolo, facendosi portavoce del popolo, una sardità non mitizzante ma ancorata alla realtà. E con essa descrive riti e tradizioni. Fra i tanti temi a lui molto cari e tra i più frequentati vi è il Natale. Ecco cosa scrive in proposito nel capitolo Poesie Natalizie liete e tristi :« Da secoli, ogni anno, nella notte di Natale, il popolo sardo dalle contrade pastorali alle pianure dei contadini, nelle chiese illuminate, nenie anonime, ora langui¬de ora dolorose. Esse si arrestano alle porte delle nostre città, in qualcuna sono ospitate, appena come curiosità pit¬toresche. Certo, ci vuole proprio un villaggio perché un bambino come Gesù possa nascere ogni anno per la prima volta. In città non c’è una stalla vera con l’asino vero e il bue; non si ode belato, e neppure il gri¬do atroce del porco sacrificato, scannato per la ricorrenza. In città è persino tempo perso andar cer¬cando una cucina nel cui cuore ne¬ro sbocci il fiore rosso della fiamma del ceppo. E infine, con tante luci che vi oscurano le stelle, è troppo pretendere attecchisca la speranza che, alla punta di mezzanotte, i cie¬li si spalancheranno e dallo squar¬cio s’affaccerà una grotta azzur¬ra con den¬tro il trono di Dio, e Dio come il sole. Aria da Vangeli apocrifi nei villaggi, e l’attesa dei prodigi non è turbata dagli antichissimi canti. Dal nord al sud, da levante a ponente. Chi voglia ascoltare le launeddas non vada tra i pastori, che non le conoscono, e sembra una stranezza: vada invece tra i contadini dei Campidani. Lassù, tra i monti, a Martis e Aggius, una stella si muove da un punto all’altro della chiesa. Nurchis delega San Giuseppe a cantare questo fram¬mento d’un dramma sulla Natività (o sulla fuga in Egit¬to?): Alluggetemi Maria / molta di fritt’e istracca; / vi lassu in pren¬da la acca / fatta de maccia spinosa. / Semu Giuseppe e la Sposa / cun Gesù in compagnia … Alloggiatemi Maria / morta di freddo e sfinita / vi lascio in pe¬gno un cancello / fatto di rovo spinoso. / Siamo Giuseppe e la Sposa / con Gesù in compagnia. Alcuni di questi frammenti si sono associati ai canti delle feste pagane delle Calende, formando un genere di poesia ibrida che in qualche villaggio viene ancora canta¬ta ed eseguita mimicamente per le strade. Gruppi di per¬sone percorrono le vie cantando e fermandosi alla porta d’ogni casa, in attesa del «donum calendarium». Dàtemi su calendariu / chi siat bonu e manno / chi mi duret un’annu / un’annu e una chida / chi a posta so’ bennìda / pro bo lu cherre’ cantare. / Già isco chi lu tenides / si mi nde cherides dare / de su chi hazis in domo … Datemi il dono calendario / che sia buono e grande / che mi du¬ri un anno / un anno e una settimana / che apposta san venuta / per volervelo chiedere in canto. / So di certo che lo avete (che ne dispone¬te) / se me ne volete dare / di quanto avete in casa … E continua con l’episodio della Natività: Otto dies est a como / chi su Segnore est naschìdu / a cantare est bessìdu / minoreddu e tantu abbistu. / In nomen de Gesù Cristu e de sa mama Maria … Otto giorni fa a oggi / il Signore è nato / è uscito (di casa) a cantare / bambinello e (già) tanto vispo. / In nome di Gesù Cristo e di sua madre Maria. Qua e là si cantano i gosos natalizi – i quali sono quasi certamente derivati dai «Cori» che rappresentava¬no una parte importantissima nei drammi sacri dei secoli scorsi e formavano due gruppi: uno di quelli che erano veri e propri cori; l’altro dei «Ninnidos de Nostra Sennora» canti della culla, eseguiti da un solo personaggio nelle an¬tiche rappresentazioni, e precisamente dalla Madonna. E, per quanto oggi si cantino in coro, essi hanno conservato la forma dell’antica ninnananna religiosa. (Secondo lo Spa¬no, antichissimo è in Sardegna il senario, perché adatto a una naturale modulazione e al suono delle launeddas). Senario ritornello Celesti, tesoru / d’eterna allegria / dormi vida e coru / riposa nnia. Celeste tesoro / d’eterna allegria / dormi vita e cuore / riposa ninna nanna. ————————— Dormi cun riposu / dormi fillu miu / divinu pippiu / de su mundu gosu / fillu graziosu / de s’anima mia. Dormi con riposo / dormi figlio mio / divino bambino / del mon¬gaudio / figlio grazioso / dell’anima mia. Secondo ritornello in settenari: Su veru Redentore / passat da-e sas alturas / cagliadebos crea¬: / ca dormit su Segnore. Il vero Redentore / passa dalle alture / fate silenzio creature / hé dorme il Signore. ———————————- Strofe sole lustrosu / Ninnia, sole ermosu / lassa su lagrimare / ca est ora de lis dare a sos ojos reposu / dormi d’eternu resplendore. Ninna nanna sole splendido / cessa di lacrimare / ché è tempo di dare / agli occhi riposo / dormi sole abbagliante / d’eterno splen¬dore. E invece in un Racconto, Il Natale in Sardegna scrive «Nei miei ricor¬di non c’è posto per un Natale senza neve. Il Bambino nasceva ogni anno, in quella chiesa pisana, intie¬pidita dal calore della folla, tra una sparatoria, un abbaiare e uno scam¬panio frenetico. Nevicava. Le donne, inginocchiate sul pavimento nudo, cantavano …. Tutto ormai era a po¬sto. La stella d’Oriente, che aveva viaggiato per gioco di fili dal porto¬ne al tabernacolo, dove c’era il pre¬sepe nascosto da una tendina, ades¬so era a perpendicolo sulla testa del celebrante. La tendina rimossa, il Bambino sgambettava nudo, e Ma¬ria era china sulla culla di paglia. La felicità poco durava. Di punto in bianco le donne intonavano, in no¬me suo, un’altra ninna nanna: il cuore materno, a tanto breve di¬stanza dal primo vagito del Bambi¬no, già presagiva tra i ceri accesi e il profumo degli incensi, l’ombra della Croce sul nudo Calvario».
 
 
 
 
 
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GLI IDOLA FORI SULLA LINGUA SARDA

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Francesco Casula
 di Francesco Casula
Sul Sardo sono presenti – e spesso vengono circuitati ad arte – una serie di pregiudizi e di luoghi comuni. Una sorta di Idola fori, per dirla con il forbito lessico del filosofo e politico inglese Francesco Bacone. Essi si sono creati e sedimentati nel tempo, frutto insieme dell’ignoranza e persino della malafede dei nemici della lingua sarda. Eccone alcuni: 1.Il sardo è un dialetto. Il pregiudizio e il luogo comune più diffuso è che il sardo sia un dialetto. Occorre rispondere e chiarire con nettezza che nessun linguista o intellettuale rigoroso e serio ritiene che il sardo sia un dialetto: dal massimo studioso Max Leopold Wagner (che scriverà una monumentale opera dal titolo inequivocabile: La lingua sarda. Storia, spirito e forma) a un intellettuale come Antonio Gramsci che in una lettera dal carcere del 26 marzo del 1927 alla sorella Teresina scriverà: “Devi scrivermi a lungo intorno ai tuoi bambini, se hai tempo, o almeno farmi scrivere da Carlo o da Grazietta. Franco mi pare molto vispo e intelligente: penso che parli già correttamente. In che lingua parla? Spero che lo lascerete parlare in sardo e non gli darete dei dispiaceri a questo proposito. È stato un errore, per me,non aver lasciato che Edmea, da bambinetta, parlasse liberamente il sardo. Ciò ha nociuto alla sua formazione intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia. Non devi fare questo errore coi tuoi bambini. Intanto il sardo non è un dialetto ma una lingua a sé…” . Ma oggi è lo stesso Stato italiano a riconoscere al sardo lo status di lingua: nella Legge del 15 dicembre 1999, n.482 concernente “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche” l’art.2 recita testualmente: “In attuazione dell’art. 6 della Costituzione e in armonia con in principi generali stabiliti dagli organismi europei e internazionali, la Repubblica tutela la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino , l’occitano e il sardo”. Il sardo è una lingua con proprie strutture sintattiche e grammaticali, espressioni foniche e semantiche, peculiari, autonome e distinte da tutte le altre lingue neolatine o romanze, ad iniziare dall’italiano. D’altronde basta leggere un qualsiasi manuale, non di linguistica ma di storia, basta andare a Marc Bloch, per esempio, per sapere che la lingua sarda è nata ben 300 prima della lingua di Dante: come si può pensare dunque che sia un dialetto italiano? Ciò premesso occorre anche aggiungere che la linguistica moderna, scientifica, non distingue né fa differenze tra ciò che comunemente si chiama lingua da ciò che si chiama dialetto e, a maggior ragione, non distingue tra lingua egemone e lingua subalterna. Ciò che rende differente ciò che noi chiamiamo lingua da quello che chiamiamo dialetto non è qualcosa di insito nel sistema linguistico ma l’uso e l’importanza sociale dello stesso. In altra parole fra lingua e dialetto non ci sono differenze culturali ma politiche e giuridiche. Per cui schematicamente potremmo affermare che la lingua è un dialetto che nella storia “vince” politicamente: così è stato per l’attico di Atene in Grecia; per il castigliano di Madrid in Spagna; per il francese che da “dialetto” di Parigi, in seguito alla supremazia della città, è stato adottato come idioma di tutto lo stato francese; per lo stesso italiano che da “dialetto” di Firenze, diviene idioma comune a tutta la penisola per il prestigio culturale degli scrittori fiorentini,e via via elencando. O pensiamo ai “dialetti” dei vari paesi africani e asiatici ecc., che una volta decolonizzati e ottenuta l’indipendenza, diventano “lingue”. Così il Kiswahili – ma è solo un esempio – considerato “dialetto” nel Kenya sotto il dominio inglese fino al 1964, è oggi la lingua ufficiale di questo paese africano. È cambiata qualcosa? Sì. Lo status politico e giuridico, non altro. Ed è proprio lo status politico, in buona sostanza, a distinguere una lingua da un dialetto. A questo proposito è quanto mai opportuno ricordare la famosa definizione di Max Weinreich: “Una lingua è un dialetto con un esercito e una flotta”. 2. Il Sardo non è unitario. Un altro diffuso e ubiquitario pregiudizio e luogo comune attiene all’unità e unitarietà del Sardo. Non c’è un Sardo, si dice, ma molti Sardi. Si sostiene in genere che il Sardo consti di due fondamentali varianti: il logudorese e il campidanese. Si tratta di una mera semplificazione. In realtà esistono tante parlate quanto sono i paesi della Sardegna e, addirittura, in qualche città, parlate diverse da un Quartiere a un altro: come a Cagliari. Ma il fatto che esistano due (o meglio tante) parlate non mette minimamente in discussione l’esistenza di una lingua sarda sostanzialmente unitaria, in quanto la lingua, per la linguistica scientifica è considerata un sistema o un insieme di sistemi linguistici. Inoltre la struttura del campidanese e del logudorese è sostanzialmente identica: quando vi sono delle differenziazioni di tratta di differenziazioni o lessicali (dovuta alla diversa penetrazione delle lingue dei popoli dominatori, soprattutto spagnolo e italiano) o differenze fonetiche, di pronuncia. Cioè differenze minime. Peraltro presenti anche nei diversi paesi della stessa “zona linguistica”. Ma non differenze sostanziali a livello grammaticale o sintattico. Del resto, qualcuno può affermare che l’Italiano non sia una lingua unitaria perché viene parlata con una pronuncia che varia – e molto! – da regione a regione, da paese a paese, da città e città? Qualcuno può pensare che la lingua sarda non sia unitaria perché “adesso” in campidano risulta “immoi” e nel logudoro “como”? Che dire allora dell’italiano “unito” a fronte di adesso, ora, mo’ per indicare lo stesso termine? Il fatto che in sardo per indicare asino si utilizzino molti lessemi (ainu, molente/i, poleddu, burricu, bestiolu, burriolu, burragliu, chidolu, cocitu, unconchinu) non è forse segno di ricchezza lessicale piuttosto che di disunità del Sardo? Una lingua fatta di somme e di accumuli in virtù delle influenze plurime indotte dalla presenza nei secoli, di svariati popoli, ognuno dei quali ha influenzato e contaminato la lingua sarda? Ma poi, dopo essere stata riconosciuta anche giuridicamente e politicamente come lingua, chi impedisce al Sardo di assurgere al piano e al ruolo anche pratico, di lingua unificata? Così come è successo storicamente a molte lingue, antiche e moderne, nel mondo e in Europa, prima pluralizzate in molte parlate e dialetti e in seguito unificate? Negli ultimi 150 anni della nostra storia è successo nell’800 e nel primo ‘900, tanto per fare qualche esempio, al rumeno, all’ungherese, al finlandese, all’estone; e recentemente al catalano, le cui varietà (il barcellonese, il valenzano, il maiorchino per non parlare del rossiglionese, del leridano e dell’algherese) erano assai diverse fra loro e assai più numerose delle varietà del Sardo di oggi. Dopo l’incerto procedere, fra molte incomprensioni e non pochi pregiudizi, che accompagnò una prima proposta di standardizzazione della lingua, dal 2006 la Regione si è dotata di Sa limba sarda comuna, uno standard linguistico per i documenti in uscita dall’Amministrazione e di riferimento per le decine di varietà del sardo. Si tratta non di un cocktail di varianti ma di una lingua effettivamente parlata nel centro dell’Isola, qualcosa che sta al sardo come il lucchese stava all’italiano nascente. È un primo incoraggiante inizio: occorrerà proseguire in tale direzione. Si potrà ancora obiettare che tra logudorese e campidanese potrebbero esserci differenze poco sostanziali, ma come la mettiamo con il Catalano di Alghero, il Tabarchino di Carloforte e Calasetta, e lo stesso Gallurese e Sassarese? I linguisti rispondono a questa obiezione con chiarezza e scientificità: si tratta di Isole alloglotte. Ovvero di lingue e dialetti diversi dalla Lingua sarda, pur presenti nello stesso territorio sardo. Un fenomeno del resto presente in tutto il territorio italiano – e non solo – dove vi sono molte isole alloglotte in cui si parla: albanese, catalano, greco, sloveno e croato oltre che francese, franco-provenzale, friulano, ladino e occitano. Questo fenomeno ha radici storiche precise: per quanto attiene al catalano di Alghero è da ricondurre al fatto che nel 1354 Alghero fu conquistata dai catalani che cacciarono i Sardi e da quella data si parlò il catalano, appunto. Il Tabarchino parlato a Carloforte (Isola di San Pietro) e a Calasetta (Isola di Sant’Antioco) è ugualmente da ricondurre a motivazioni storiche: alcuni pescatori di corallo provenienti dalla Liguria e in particolare dalla città di Pegli (a ovest di Genova, ora quartiere del comune capoluogo) intorno al 1540 andarono a colonizzare Tabarca (un’isoletta di fronte a Tunisi) assegnata dall’imperatore Carlo V alla famiglia Lomellini. Nel 1738 una parte della popolazione si trasferì nell’Isola di San Pietro. Nel 1741 Tabarca fu occupata dal bey di Tunisi. La popolazione rimasta fu fatta schiava, Carlo Emmanuele di Savoia, re di Sardegna, ne riscattò una parte portandola ad accrescere la comunità di Carloforte. Di qui il tabarchino. Diverso è invece il discorso che riguarda il sassarese, considerato dai linguisti un sardo-italiano e il gallurese ritenuto un corso-toscano. E da ricondurre ugualmente a motivazioni storiche. 3. Il sardo è una lingua “arcaica” inadatto a esprimere la “modernità” Il sardo secondo alcuni sarebbe rimasto “bloccato”, cioè ancorato alla tradizione agropastorale, perciò incapace di esprimere la cultura moderna: da quella scientifica a quella tecnologica, dalla filosofia alla medicina ecc. ecc. Intanto non è vero che il sardo sia completamente “bloccato”: termini e modi di dire dell’italiano dovuti allo sviluppo culturale scientifico e sociale impetuoso negli ultimi decenni sono entrati nella lingua sarda, così come termini e modi di dire stranieri – soprattutto inglesi – sono entrati nella lingua italiana che li ha giustamente assimilati. Questo “scambio” è una cosa normalissima e avviene in tutte le lingue e tutti i sistemi linguistici, sia quelli di società “più avanzate”, scientificamente ed economicamente, sia di società “più arretrate”, sono in grado di esprimere i più moderni concetti e le più moderne e complesse teorie, prendendo in prestito terminologia e lessico da chi li possiede: come il contadino, che se ha finito l’acqua del proprio pozzo, l’attinge dal pozzo del vicino. A rispondere, del resto, a chi parla di «blocco» e di incapacità di alcune lingue a esprimere l’intero universo culturale moderno, sono due intellettuali e linguisti di prestigio. Scrive Sergio Salvi, gran conoscitore della Sardegna e delle minoranze etniche e linguistiche: “La rimozione del «blocco» è pienamente possibile. Farò soltanto l’esempio, così significativo ed eloquente della lingua vietnamita, storicamente e politicamente dominata, fino a tempi recenti, prima dalla cinese e poi dal francese, una lingua che non solo ha brillantemente rimosso il proprio «blocco» dialettale, ma che pur non possedendo ancora un completo vocabolario tecnico-scientifico, ha creato « una grande corrente di pensiero», eppure settant’anni fa il vietnamita era soltanto un « dialetto» o meglio un gruppo di dialetti”. Sullo stesso crinale si muove e risponde l’americano Joshua Aaron Fishman, il più grande studioso del bilinguismo a base etnica (è il caso della Sardegna) che scrive: “Qualunque lingua è pienamente adeguata a esprimere le attività e gli interessi che i suoi parlanti affrontano. Quando questi cambiano, cambia e cresce anche la lingua. In un periodo relativamente breve, la lingua precedentemente usata solo a fini familiari, può essere fornita di ciò che le manca per l’uso nella tecnologia, nell’Amministrazione Pubblica, nell’Istruzione”. Il problema se una lingua “arcaica” possa o no esprimere concetti moderni è dunque un falso problema. Ogni lingua può “parlare” e raccontare l’Universo. Anche quella della più sperduta tribù dell’Africa, immaginiamo una lingua neolatina come quella sarda. In più c’è da rilevare che in ogni lingua “egemone” o “ufficiale” o “media” (che chiameremo per la complessità della sua struttura, Macrolingua) si formano dei linguaggi “specifici”, i tecnoletti,che tendono sempre più a internazionalizzarsi, per mezzo di una terminologia che si esprime per parole “rigide”, per formule, in termini greco-latini o inglesi. I tecnoletti si caratterizzano per essere costituti da segni linguistici depurati da qualsiasi connotazione. I tecnoletti sono monosemici e referenziali, uniti da un legame biunivoco a un concetto ben determinato. Esso infatti deve significare una cosa ben precisa e non veicolare significati collaterali di nessun genere, ad esempio la linguistica moderna ha elaborato una serie di termini internazionali: struttura, funzione, significante, significato, diacronico, sincronico ecc: oppure li ha presi in prestito. In questi casi si possono operare dei traslati come è avvenuto dall’inglese all’italiano. Nessun problema quindi: il sardo può acquisire e prendere a prestito parole e modi di dire elaborati altrove. 4. Il sardo non lo parla più nessuno Forse è il luogo comune che ha meno basi nella realtà vera. Che ci documenta esattamente il contrario. I risultati scaturiti da una indagine voluta dalla Giunta Regionale e svolta dal Dipartimento universitario di Ricerche economiche e sociali di Cagliari e da quello di Scienza dei linguaggi dell’Ateneo di Sassari non lasciano infatti dubbi in merito alle opinioni dei Sardi su sa Limba: il 68,4% degli abitanti dell’Isola dichiara di conoscere e parlare una qualche varietà della lingua sarda; una percentuale ancora più alta, il 78,6%, si dichiara d’accordo sull’insegnamento del Sardo a scuola; e addirittura l’81,9% vorrebbe che si insegnasse il Sardo insieme all’Italiano e a una lingua straniera. La percentuale dei sardi che conoscono e parlano sa Limba sale ancora all’85,5% se ci si riferisce agli abitanti dei paesi con meno di 4.000 abitanti. Questi dati parlano chiaro e sono ancora più eloquenti e significativi e in qualche modo persino miracolosi se si pensa che ancora oggi il Sardo di fatto è ancora una lingua “alla macchia”. Nonostante un risveglio e una serie di leggi (a livello europeo con la “Carta Europea per le lingue regionali e minoritarie”; a livello regionale con la Legge n.26 del 15 ottobre 1997 sulla “Promozione e valorizzazione della cultura e della lingua della Sardegna” e infine a livello nazional-statale italiano con la Legge n.482 del 15 dicembre 1999 riguardante “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche” in cui è presente la Lingua sarda: come abbiamo già visto e documentato). Certo, non più, come nel passato quando era «proibita»: pensiamo a quando nel 1955, nei programmi elementari elaborati dalla Commissione Medici si introduce l’esplicito divieto per i maestri di rivolgersi agli scolari in dialetto. Proibita e addirittura «criminalizzata» non solo ai tempi dei tiranni sabaudi ma anche in tempi a noi più vicini. Ricordo che, con una nota riservata del Ministero – regnante Malfatti – del 13-2-1976 si sollecitano Presidi e Direttori Didattici a “controllare eventuali attività didattiche-culturali riguardanti l’introduzione della Lingua sarda nelle scuole”. E una precedente nota riservata dello stesso anno del 23-1 della Presidenza del Consiglio dei Ministri aveva addirittura invitato i capi d’Istituto a “schedare” gli insegnanti. È una lingua “alla macchia” inoltre perché non è ancora insegnata organicamente nelle scuole e tanto meno è stato inserita nei curricula, non viene utilizzato nei media (TV-Radio-Internet-Giornali) tanto meno nella pubblicità o nella toponomastica. Pensiamo solo a come sarebbe – parlato e scritto – il sardo se solo godesse dei “diritti” di cui gode oggi la lingua italiana!
 
 
 
Francesco Casula
5. Il sardo ha prodotto “poco” È un altro luogo comune che non risponde a verità: in realtà, dalle origini del volgare sardo fino ad oggi, non vi è stato periodo nel quale la lingua sarda non abbia avuto una produzione letteraria. Certo, qualcuno potrebbe obiettare, che essa, rispetto ad altre lingue romanze, ha prodotto pochi frutti: può darsi, ma – dato e non concesso – si poteva pensare che un cavallo per troppo tempo tenuto a freno, legato e imbrigliato potesse correre? La lingua sarda, dopo essere stata lingua curiale e cancelleresca nei secoli XI e XII, lingua dei Condaghi e della Carta De Logu, con la perdita dell’indipendenza giudicale, viene infatti ridotta al rango di dialetto paesano, frammentata ed emarginata, cui si sovrapporranno prima i linguaggi italiani di Pisa e Genova e poi il catalano e il castigliano e infine di nuovo l’italiano. Nonostante questo, tutta la storia sarda è stata contrassegnata dalla presenza di una letteratura in lingua sarda: da Antonio Cano e Sigismondo Arquer a Gerolamo Araolla, Antonio Maria da Esterzili e Gian Matteo Garipa. Per non parlare della poesia in limba nel ‘700-‘800, una poesia fra umorismo, satira e impegno politico: dal capolavoro anonimo di Sa scomunica de Predi Antiogu arrettori de Masuddas, apprezzato da Gramsci e da Wagner, a poeti come il cagliaritano Efisio Pintor Sirigu; da Francesco Ignazio Mannu, autore del monumentale Su patriotu sardu contra sos feudatarios, più noto come “Procudad’ ‘e moderare” a Padre Luca Cubeddu, a Diego Mele o a Peppino Mereu o a quello che è considerato forse il più grande poeta sardo del Novecento, Antioco Casula (Montanaru), elogiato dallo stesso Pier Paolo Pasolini. E ancora a Pedru Mura, Aquilino Cannas, Benvenuto Lobina, lo stesso Michelangelo Pira (con Sinnos), Antonio Cossu, Francesco Masala, tradotto in molte lingue europee, Faustino Onnis,. Per arrivare infine ai giorni nostri con romanzieri come Gianfranco Pintore, Antonimaria Pala e Giuseppe Corongiu, o poeti come Franco Carlini, Giovanni Piga, Eliano Cau, Nanni Falconi, Maddalena Frau e Paola Alcioni, Ai nostri giorni: ma soprattutto agli ultimi 30 anni in cui c’è stata l’esplosione della letteratura sarda, sia in poesia che in prosa. Antoni Arca (in Benidores, Literatura, limba e mercadu culturale in Sardigna, Condaghes, Cagliari 2008) ha censito i libri di narrativa in lingua sarda pubblicati in meno di 30 anni. Nei primi dieci anni (1980-1989) le pubblicazioni sono state 22, fra cui 11 romanzi. Il primo a rompere il ghiaccio della incomunicabilità fra la lingua sarda e il romanzo (quella con il racconto, soprattutto orale non c’è mai stata) è Larentu Pusceddu con S’àrvore de sos tzinesos. Il libro scatenò, quando uscì nel 1982, una lunga querelle letteraria che ebbe per alcuni il merito e per altri la colpa di portare alla ribalta la questione della lingua sarda. Nei secondi dieci anni (1990-1999) le pubblicazioni sono più che raddoppiate: dalle 22 del primo decennio passano a 57. Nei terzi dieci anni (2000-2007) le opere narrative in sardo sono ben 107. “Si casi otanta titulos in binti annos, nos sunt partos cosa manna – scrive Antoni Arca – prus de chentu in nemmancu in sete annos, ite sunt? Fatzile: sa proa de l’acabbare de nàrrere chi sa narrativa in sardu galu no esistit. Una narrativa in sardu b’est, e como toccat a l’istudiare, sena pensare de àere giai in butzaca su modellu pro l’ispertare, ca, comente amus cunsideradu dae su 1980 a su 1999, in sardu sunt istados iscritos contos e romanzos chi tocant onni genere e onni edade, cun resurtados de onni manera, dae òperas feas a òperas bellas, passende pro unu livellu medianu de bona legibilidade” (Se quasi 80 titoli in 20 anni ci sono sembrati una gran cosa – scrive Antonio Arca – più di 100 in meno di sette anni, che cosa sono? Chiaro: la dimostrazione che occorre smetterla di dire che una narrativa in lingua sarda non esiste ancora. Una narrativa in sardo c’è e ora occorre studiarla, senza pensare di avere in tasca un modello da interpretare, perché come abbiamo analizzato per il periodo 1980-1999, in sardo sono stati scritti racconti e romanzi che attengono a ogni genere e a ogni età, con risultati diversi: con opere mediocri ma anche belle, e dunque complessivamente con un livello medio di buona qualità). Dal 2007 fino ad oggi 2020 c’è stata addirittura una vera e propria esplosione di letteratura (sia poesia che prosa) in lingua sarda. Per quanto attiene alla prosa, voglio ricordare in modo particolare due recenti romanzi che ritengo di grande valore e interesse: “Sa vida cuada” di Giovanni Piga e “S’Intelligentzia de Elias” di Giuseppe Corongiu; per quanto riguarda la poesia segnalo la bellissima silloge di Eliano Cau, “Ojos de amore”. 6. Il sardo non serve E’ l’unico luogo comune che ci sentiamo di condividere:la lingua sarda non serve nessuno. Nel senso che non è serva di nessuno. Caso mai serve solo per liberarci dall’oppressione coloniale linguistica e culturale impostaci dai dominatori del passato e del presente. Serve per liberarci dagli atavici complessi di vergogna e di inferiorità. Serve per restituirci l’orgoglio e la dignità di Sardi. Ma poi: è proprio vero che la Lingua sarda non possa essere anche uno strumento formidabile per creare lavoro e occupazione se adeguatamente valorizzata e diffusa: ad iniziare dall’insegnamento a scuola e dall’uso nei media come nella toponomastica e nella pubblicità?

Carlo Felice e i tiranni sabaudi? Un libro straordinario.

Carlo Felice e i tiranni sabaudi? Un libro straordinario.
di Stèvini Cherchi
Su lìburu de Frantziscu Casula fait diaveras a ddu disciniri straordinàriu, in su sentidu literali de su fueddu. Sa stòria chi si contat difatis abarrat no sceti foras de s’ordinàriu, ma andat inderetura contras a comenti si-dd’ant sèmpiri contada: scrita de is bincidoris, in totu allenus a sa vida de s’ìsula, prena de arretòrica po sa grandu pàtria gloriosa chi at fraigau sa “natzioni” italiana (cunfundendi custu cuntzetu cun su de “stadu”); stòria chi totus eus studiau me is lìburus ofitzialis de scola, chi si contant is Savojas comenti a is chi ant fatu intrai sa Sardìnnia in sa grandu stòria, cultura e lìngua italiana (lìngua chi mancu issus chistionànt a primìtziu, ca fiant francòfonus).
Lassendi chi siant su Prof. Melis e Frantziscu etotu a bosi contai de is arroris de su guvernu de Carlo Felice e de is àterus tirannus sabàudus (est aici etotu, si funt cumportaus che a tirannus beriderus), deu m’ia a bolli stentai narendi calincunu fueddu asuba de lìngua e cultura.Depeus nai ca is chistionis de sa lìngua e de sa cultura caminant sèmpiri a costau de is fatus de sa stòria. Mancai siat issa difatis, cun is acuntèssius detzìdius de is chi cumandant, a stabilessi sa preneta de is pòpulus e finsas pensamentus e parris chi cuddus etotu si faint de issus matessi (chi iaus a podi nai “cuscièntzia de s’identidadi”), a bortas intamis sutzedit chi potzat essi custa cuscièntzia de sei, mancai scuta de malivatus e ingiustìtzias, a arrennesci a movi is acadessimentus fadendi de manera chi siant is pòpulus etotu a impelli sa stòria de parti de bàsciu. Naru custu cun sa fiantza e sa spera chi siat mancai sa connoscèntzia de sa stòria sarda comenti si-dda contat Frantziscu a s’agiudai a cumprendi poita sa natzioni nosta beridera, màrtura e scabudada, si siat pòtzia scaresci de sa cultura sua plurimillenària; una cultura trasmìtia in is ùrtimus 12 sèculus de una lìngua, su sardu, chi mancai nàscïa de una lìngua furistera imposta amarolla de is dominadoris romanus a is bividoris primàrgius Shardana, costruidoris de sa tzivilidadi nuràgica, at tentu sa fortza de lompi finsas a nosu chena si sperdi e arrichendi-sì de totu su chi àterus dominadoris furisteris ant innestau aìnturu de issa chena arrennesci a dda sderrui.
Tocat a nai a sa dereta ca nci funt casi arrennèscïus, su perìgulu est mannu chi pensaus ca chi sigheus a no dda trasmiti a is fillus nostus, in pagus dexenas de annus at a scumparri de sa faci de sa terra. Comenti seus lòmpius a custu sciacu? Chi pensaus a su momentu chi is Savojas funt arribbaus innoi in su 1720, totu su pòpulu chistionàt in sardu sceti, bogau su spanniolu po is àutus ofitzialis e po sa pagu genti studiada chi nci fiat. Est s’inghitzu de unu domìniu chi in totu is fainas de custus urreis, innantis e apustis de s’unificadura italiana de su 1861, lassat arrastu de bisura coloniali, de meris chi sfrùtuant is chi tenint asuta. Pensaus a sa chistioni linguìstica-culturali, chi no fait a cerri de sa polìtica de fura e spollamentu sèmpiri persighida de totu is Savojas, poita ca ndi benit a essi mèdiu e fundamenta; ca prus de is fatus polìticus e econòmicus, est sa bisura linguìstica e culturali chi at giogau meda asuba de is pensamentus e is parris chi nosu sardus teneus de nosu matessi.
A arreprimi is “dialetus sardus” e a imponni sa lìngua italiana che a mèdiu de “intzivilimentu” dd’ant fatu luegus, asuba de unu pòpulu chi giai de s’inghitzu bidiant cumpostu “per sua natura, da nemici della fatica, feroci e dediti al vizio”, Sardìnnia “paese maledetto”, cun su sardu chi est “più selvaggio del selvaggio, perché il selvaggio non conosce la luce e il sardo la conosce”. Ita ddi podit abarrai a unu pòpulu po s’intendi pòpulu, chi ddi naras aici e ndi-ddi lias sa lìngua? E comenti ant fatu? “Proibendo severamente l’uso del dialetto sardo in ogni atto pubblico civile non meno che nelle funzioni ecclesiastiche tranne le prediche”; “si prescrive l’esclusivo uso della lingua italiana per incivilire alquanto quella nazione, sì affinché vi siano più universalmente comprese le istruzioni e gli ordini del Governo”.
Luegus duncas s’italianu est impostu me is scolas e chi a s’inghitzu lompit sceti a pagus assortaus, in s’800 cumintzat a si spainai po s’imparamentu de su pòpulu puru. Aici est nàscïa sa desardisadura de is sardus, in d-unu progetu de aparixamentu culturali tìpicu de is potèntzias colonialis. Si ti nant: “La’, deu t’impòngiu una lìngua nòbili e de grandu cultura ca ti-ndi bollu pesai de su stadu de primitivu nioranti, no ti fatzu fueddai prus cussu dialetu aresti fatu e lassau po ti fai intrai in su mundu de is pòpulus tzivilis”; e custu sighint a ti-ddu nai dònnia dii, in dònnia manera, e funt aici abbistus narendi-ti-ddu e aici fortis proibendi-tì sa lìngua tua, chi a s’acabbu tui nci as a crei amarolla. Ma ddu faint po t’assugetai a sa boluntadi insoru, po t’imponni sa lei insoru e sfrutuai su territòriu tuu, po ti-ndi furai totu is arrichesas, sciuscendi-tì is padentis po ndi fai craboni o linna po is bias ferradas de is partis arricas de s’arrènniu, furai is mineralis de sa terra po fai arricai is stràngius, mancai fadendi-tì morri de silicosi o sparendi-tì chi t’atrivis a scioperai po is deretus tuus de traballadori, pighendi-tì povintzas sa vida de sodrau po is miras imperialis de alladiamentu in Europa e Àfrica.
Est po fai totu custu chi ti depint fai crei ca no balis a nudda, ca ses sceti un’arestatzu chena lìngua, unu chi est bonu sceti a achichiai unu dialetu grezu, un’èssiri bàsciu chi “chena de issus no ti-ndi podis scabbulli de nudda” e ca si intamis ddus sighis t’as a agatai parti de unu pòpulu forti e grandiosu chi fait luxi de sei sa stòria de s’umanidadi.
Duncas is Savojas (e apustis su fascismu puru), comenti si contat Frantziscu, ndi strantaxant unu sistema coloniali chi cun custa polìtica contras a sa cultura e sa lìngua sarda arrennescit a nosi-ndi liai su sentidu de identidadi nostu prus sintzillu e cumbintu. E no nc’est de pensai chi cun sa democratzia siat cambiada meda custa manera de guvernai. It’eus connotu apustis de su 1948 e pruschetotu de is primus annus ’60, antis cun sa scola de massa e pustis cun sa televisioni po totus? Sa stòria ant sighiu a si-dda contai sèmpiri a bisura de colonisadoris, cuendi-sì totu su chi iaus tentu de importu, sa tzivilidadi nuràgica stravanada, froria millennus innantis de sa grandu Roma, sa tzivilidadi manna de is giugis, chi est stètia capassa de si donai in su 1300 unu còdixi de leis che sa Carta de Logu, abarrada bàlida finsas a metadi de s’800; totu su chi s’iat pòtziu donai fama me is sèculus passaus si-dd’ant cuau cun stùdiu e coidu, e nosu no ndi scideus nudda. Si biint oindii tambeni lìburus italianus de scola po pipius chi amostant s’Itàlia cun is monumentus famaus de is tzitadis mannas suas e sa Sardìnnia populada sceti de brebeis e pastoris. E sighint sèmpiri a si proibiri de fueddai sa lìngua nosta, sa primu nàscïa de is fillas de su latinu e chi po sèculus at espressau sa manera nosta de pensai e de fai, sa cultura spirituali e materiali de is sardus; unu mundu de arrelatas personalis e comunidàrias fundudas, de ètica de su traballu, de solidaridadi in s’abisòngiu, de agiudu torrau, de allirghia e sunfrimentu bìvius a cumoni, cun is fueddus de sa poesia e de su càntidu me is prus espressadas sintzillas de s’arti nosta. Cussa lìngua est totu su chi seus stètius me is sèculus, carriada de totu su prexu, su dolori, su sentidu, su chi ant bìviu totu is chi me is sèculus ant imperau cussa lìngua po essi in su mundu, po comunicai a paisanus o stràngius ideas talladas cun cussa lìngua e chi issas etotu tallant su mundu cun cussa lìngua a manera in totu ùnica. Custa lìngua prena de totu su sànguni de is chi dd’ant imperada, funt arrennèscïus a si ndi-dda furai, ca eus bòfiu crei a is fàulas chi s’at contau unu stadu chi tenit totu s’interessu a chi nosu sigaus a achichiai una lìngua po nosu stràngia, in d-una scola chi no si contat nudda de nosu e de sa terra nosta (castiai puru s’arrori de is datus de su sperdìtziu scolàsticu de is piciocus nostus, chi est su peus de Itàlia). Unu stadu chi, in d-unu mundu aundi sa connoscèntzia est totu, si bolit fai abarrai arfabetus de sa stòria e sa lìngua nosta, proibendi-sì de dda studiai e de dda imperai in is sètius formalis de sa sotziedadi e finsas liendi-sì cussu bantaxu de connoscèntzia chi donat su bilinguismu e chi sa scièntzia at amostau oramai de annus meda. Unu stadu chi, cun s’acotzu de is classis dirigidoras de logu, asserbidas che canis de strexu prontus a boddiri incàrrigus e dinai, agatat prus discansosu a imponni sceberus polìticus e tzerachias militaris e econòmicas, aicetotu che unu stadu imperiali cun is colònias suas, candu ndi liat a su pòpulu sa possibilidadi de pensai e sentiri in sa lìngua sua, sa chi at formau de sei sa stòria sua.
E duncas eus a depi cumprendi ca sa lìngua si serbit finsas po arraxonis econòmicas, ca unu pòpulu chi arraxonat cun sa conca sua, cun sa lìngua sua, no si fait imponni mòllius de strobeddu econòmicu chi faint sceti is interessus econòmicus de is stràngius, chi cun sa trassa ca funt donendi-sì, bontadi insoru, su traballu (ma ita calidadi de traballu?), s’imbrutant sa terra bella nosta, si-dda faint bendi a stracu baratu oru-oru de mari po fai arricai is ‘palatzinarus’, si-ndi sciorrocant totinduna is mèdius de produsi chi funt sa cultura nosta, si-ndi furant is prus logus bellus ponendi-nci fàbricas chi andant faddias in dex’annus, tzerachias militaris chi si bitint càntziru e strupius, arrafinerias chi s’imbrutant su mari e dònnia tanti si bocint puru is traballadoris nostus.
Insaras creu chi siat lòmpia s’ora de pigai cussa cuscièntzia chi at a essi capassa de movi sa stòria nosta, arrèscïa in su sutasvilupu, su disimpreu e su disterru po si fai acabbai de essi sèmpiri prangi-prangi pedendi sa limòsina de s’assistentzialismu o sa brulla de s’insularidadi in costitutzioni (cosa de arriri chi serbit sceti a cuai e straviai de is problemas berus), sighendi mancai su bravanteri de sa dii o chescendi-sì ca “chena s’Itàlia no si-ndi scabbulleus”; ca cussa stòria fait a dd’aderetzai conca a una preneta abundosa, si sceti eus a essi bonus a ponni a frutu is arrichesas naturalis e culturalis chi teneus, is liòngius tecnològicus chi s’acàpiant a su mundu e s’abilèntzia nosta de imprendidoris e annoadoris, chi oindii si tocat a imperai foras de Sardìnnia a bantaxu de is àterus. Ma po custu depeus pretendi chi is chi guvernant si torrint sa connoscèntzia chi eus pèrdiu de sa stòria, sa lìngua, is espressadas culturalis e artìsticas nostas. Si eus a podi torrai a sciri a chini seus diaderus e no comenti s’ant fatu crei is àterus, eus a podi torrai a nai su fueddu nostu in su mundu, paris a totu is àterus.
(E’ la versione in sardo che il Dottor Stefano Cherchi ha pubblicato nel giugno 2020 nel sito www.bideas.org [in seguito purtroppo andato perduto per un incidente informatico] del testo integrale del discorso fatto a Mogoro introducendo la presentazione del libro il 14 gennaio 2020, nell’Università delle Tre Età)

LA FUSIONE PERFETTA: Una data infausta per i sardi e la Sardegna…

 di Francesco Casula
Avant’ieri 29 novembre ricorreva il 175° Anniversario di una data infausta per la Sardegna e i Sardi: la Fusione perfetta della Sardegna con gli stati sabaudi di terraferma,. Con essa l’Isola veniva deprivata del suo Parlamento e con essa finiva il Regnum Sardiniae. Se si è scritto che siano stati i Sardi stessi a rinunciarvi. Si tratta di una grossa balla: non è assolutamente vero. A chiedere la Fusione, che verrà decretata da Carlo Alberto, furono membri degli Stamenti di Cagliari e di Sassari, senza alcuna delega né rappresentatività né stamentaria né, tanto meno, popolare. Il Parlamento neppure si riunì. Tanto che Sergio Salvi, lo scrittore e storico fiorentino gran conoscitore di “cose sarde” ha parlato di “rapina giuridica”. Mi si potrà obiettare : e le manifestazioni pubbliche che si svolsero a Cagliari (dal 19 al 24 novembre) e a Sassari nel 1947 non servono come titolo di rappresentanza e rappresentatività popolare? Non sono esse segno e testimonianza che la popolazione sarda voleva e richiedeva la Fusione? Per intanto occorre chiarire che quelle pubbliche manifestazioni, erano poco rappresentative della popolazione sarde in quanto i partecipanti appartenevano quasi sostanzialmente ai ceti urbani. Ma soprattutto esse rispondevano esclusivamente agli interessi della nobiltà ex feudale, illecitamente arricchitasi, con la cessione dei feudi in cambio di esorbitanti compensi, che riteneva più garantite le proprie rendite dalle finanze piemontesi piuttosto che da quelle sarde. Nella fusione inoltre vedevano una possibile fonte di arricchimento la borghesia impiegatizia e i ceti mercantili. Dentro la cortina fumogena del riformismo liberale europeo, avanzavano inoltre anche in Sardegna, spinte ideologiche e patriottarde – rappresentate soprattutto dalla borghesia intellettuale (avvocati, letterati, professionisti in cerca di lustrini) e dagli studenti universitari – che vedevano nella Fusione la possibilità che venissero estese anche alla Sardegna riforme liberali quali l’attenuazione della censura sulla stampa, la limitazione degli abusi polizieschi e qualche libertà commerciale e persino un primo passo verso l’unificazione degli Stati italiani. “Per la ex nobiltà feudale – scrive Girolamo Sotgiu – la conservazione delle vecchie istituzioni non aveva alcun interesse. La possibilità di conservare un peso politico era ormai data soltanto dalle posizioni da conquistare nelle istituzioni militari e civili del regno sabaudo e dalla conservazione di una forza economica fondata non più tanto sul possesso della terra, quanto delle cartelle del debito pubblico, e « le cedole di Sardegna – come afferma il Baudi di Vesme – colla riunione delle due finanze [avrebbero acquistato] il dieci e più per cento di valore commerciale, ed il capitale che dava cinque lire di entrata, e [che si vendeva ] a lire 108 sarebbe immediatamente salito alle 120 e più» 1 Comunque se le stesse Manifestazioni contengono una serie di ambiguità, specie rispetto agli obiettivi che si proponevano, in ogni caso ben altre e diverse erano le aspirazioni delle masse popolari, urbane come quelle dei pastori e contadini e difforme l’atteggiamento verso il Piemonte. Scrive ancora Girolamo Sotgiu: ”Che gli orientamenti più largamente diffusi fossero diversi è dimostrato da molti fatti. L’ostilità contro i piemontesi era forte come non mai, e le riforme erano viste anche come strumento per alleggerire il peso di un regime di sopraffazione politica che era tanto più odioso in quanto esercitato dai cittadini di un’altra nazione; per ottenere cioè non una fusione ma quanto più possibile di separazione”. 3 Tanto che lo storico piemontese Carlo Baudi di Vesme scrive che “correvano libelli sediziosi forieri della tempesta e quasi ad alta voce si minacciava un rinnovamento del novantaquattro”. 4 Ovvero una nuova cacciata dei piemontesi, considerati i responsabili principali della drammatica situazione economica aggravata dalla crisi delle campagne ( fallimento dei raccolti) e dall’esosità del fisco. Lo stesso Vesme ricorda ancora che “un sarto, per nome Manneddu, sollevò il grido di Morte ai Piemontesi in teatro, nel colmo delle manifestazioni di esultanza per la concessione delle riforme”. 5 E sulla Torre dell’Elefante, a Cagliari, il giorno della partenza per Torino di alcuni membri degli Stamenti, il 24 novembre, per chiedere la sciagurata fusione, apparve un manifesto con la scritta:Viva la lega italiana/e le nuove riforme/Morte ai Gesuiti e ai piemontesi/Concittadini:ecco il momento disiato/della sarda rigenerazione. Giovanni Siotto Pintor inoltre scrive che nei giorni delle dimostrazioni “Moltissimi contadini di Teulada traevano a Cagliari credendo a una rivolta” per sostenerla e rafforzarla e che “cinquecento armati del vicino paese di Selargius stavano pronti a venire al primo avviso” e che “v’erano uomini di Aritzo, d’Orgosolo, di Fonni mandati per sapere se [c’era] mestieri d’aiuto nel qual caso [sarebbero venuti] otto centinaia di uomini armati”. 6 Con la Fusione Perfetta con gli stati del continente, la Sardegna perderà ogni forma residuale di sovranità e di autonomia statuale per confluire nei confini di uno stato più grande e il cui centro degli interessi risultava naturalmente radicato sul continente. L’Unione Perfetta non apportò alcun vantaggio all’Isola, né dal punto di vista economico, né da quelli politico, sociale e culturale. Tale esito fallimentare, fu ben chiaro sin dai primi anni con l’aggravamento fiscale e una maggiore repressione che sfociò nello stato d’assedio, – che divenne sistema di governo – sia con Alberto la Marmora (1849) che con il generale Durando (1852) Gli stessi sostenitori della Fusione, ad iniziare da Giovanni Siotto-Pintor, scrissero “fummo presi da una follia collettiva”, riconoscendo l’errore. “Errammo tutti e ci pentimmo amaramente”, ebbe a dire Pintor. Visti anche i risultati fallimentari di quella scelta, due immediati: il servizio militare obbligatorio, guarda caso proprio in occasione della cosiddetta Prima Guerra di Indipendenza, con i giovani sardi mandati al massacro: E il “sequestro” di tutte le risorse del sottosuolo sardo da parte del Piemonte. Gianbattista Tuveri scrisse che dopo la Fusione “La Sardegna era diventata una fattoria del Piemonte, misera e affamata di un governo senza cuore e senza cervello”. Ad esemplificare l’estraneità della Sardegna al Piemonte basta un episodio paradigmatico: Giovanni Siotto Pintor, uno di quegli intellettuali sardi che nel novembre del 1847 più si era adoperato perché si raggiungesse l’obiettivo della fusione con il Piemonte, all’ingresso di Palazzo Carignano viene fermato dal portiere. Il suo abbigliamento ( si era presentato con il costume caratteristico dei sardi , con sa berritta, orbace e cerchietto d’oro all’orecchio) contrastava con l’eleganza e severità dei suoi colleghi piemontesi o liguri o savoiardi della Camera di nomina regia. Per questo si dice che entrò nell’aula del Senato solo dopo aver vinto con la forza le resistenze del portiere che evidentemente aveva una qualche difficoltà a riconoscere in lui un Senatore. Il secondo episodio venne denunciato con una lettera al Presidente della Camera dal deputato di Sassari Pasquale Tola, che, quando nel maggio del 1848 in occasione di una riunione con i colleghi delle altre province, rimarcò l’assenza dell’emblema della Sardegna nell’aula dove, invece, erano dipinti e diversamente raffigurati quelli delle altre province del Regno. Note Bibliografiche 1. Girolamo Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda, Edizioni Laterza, Roma.Bari, 1984, pagina 306. 2. Ibidem, pagina 306 3. Ibidem, pagina 307-308 4. Carlo Baudi di Vesme, Considerazioni politiche ed economiche sulla Sardegna, Stamperia reale, Torino 1848 pag.181. 5. Ibidem, pagina 189. 6. Giovanni Siotto Pintor, Storia civile dei popoli sardi dal 1798 al 1848, Casanova, Torino, 1877, pagina 518.
 
 
 
 
 
Visualizzato da Francesco Casula alle 10:55
 
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