Carlo Felice (più noto come Carlo Feroce) fu vice re e re ottuso, famelico e crudele.

Carlo Felice, ottuso e famelico, sia da principe vice re che da re sarà il più crudele persecutore dei Sardi, che letteralmente odiava e contro cui si scagliò con tribunali speciali, procedure sommarie e misure di polizia, naturalmente con il pretesto di assicurare all’Isola “l’ordine pubblico” e il rispetto dell’Autorità. Soprattutto fu persecutore dei rivoluzionari, dei democratici e dei giacobi

ni.
Per quanto riguarda “l’odio” lo aveva appreso da unu cane de isterzu come Giuseppe de Maistre che arrivato in Sardegna nel 1800 per reggere la reale cancelleria, non pensa nei tre anni di reggenza, che ai propri interessi denotando uno sviscerato disprezzo per i sardi je ne connais rien dans l’univers au-dessous (sotto) des molentes,soleva affermare nei loro confronti e in una lettera da Pietroburgo al Ministro Rossi nel 1805 scrive : Le sarde est plus savage che le savage , car le savage ne connait la lumiere e le Sarde la connait.

Ma ecco alcuni esempi della repressione violenta da parte di Carlo Feroce:
-“Una congiura ordita nel 1799 da un certo avvocato Serra di Sinnai e da un tale Pasquale Bartolo finì con due condanne a morte” .
-“Pene gravi furono inflitte al frate Gerolamo Podda che aveva creato nel suo convento un gruppo di giacobini filofrancesi”
-“L’ergastolo fu comminato a Vincenzo Sulis, accusato di alto tradimento e rinchiuso nella Torre dello Sperone ad Alghero” nel 1796.
-“16 condanne alla forca furono pronunciate nel 1800 quando a Thiesi scoppiò una rivolta provocata dall’oppressione del feudatario Antonio Manca duca dell’Asinara”.
-“Rapida e violenta fu la repressione nei confronti del notaio cagliaritano Francesco Cilocco e del prete terralbese Francesco Sanna Corda quando quando nel 1802 tentarono, dalla Gallura, con una insurrezione di proclamare la repubblica sarda dipendente dalla Francia. Il cilocco fu preso, linciato e frustate e appiccato. Il Sanna cadde nello scontro a fuoco coi soldati regi”
-“Nel luglio 1802 fu giustiziato Domenico Pala, condannato in contumacia, l’anno precedente”. (Vedi F. C. Casula in Il Dizionario storico sardo, Carlo delfino editore,Sassari, 2003 pagina 330).

E poi le condanne contro i rivoltosi di Palabanda
Condannati all’impiccagione: Salvatore Cadeddu, Raimondo Sorgia, Giovanni Putzolo;
Condannati a morte per contumacia Gaetano Cadeddu, Giuseppe Zedda, Francesco Garau, Ignazio Fanni.
Condannati all’ergastolo: Giovanni Cadeddu, Antonio Massa.
Al remo a vita: Giacomo Floris, Pasquale Fanni.
Banditi dall’isola o esiliati all’interno gli altri imputati.

La Letteratura in lingua sarda in un Convegno a Orosei

Convegno sulle Lingue minoritarie Orosei 28 Ottobre 2012

 

La Letteratura in lingua sarda

di Francesco Casula

 

L’umore esistenziale del proprio essere sardo, – di cui parla Lilliu – come individui e come gruppo che, in ogni momento, nella felicità e nel dolore delle epoche vissute, ha reso i Sardi costantemente resistenti, antagonisti e ribelli, non nel senso di voler fermare, con l’attaccamento spasmodico alla tradizione, il movimento della vita e della loro storia, ma di sprigionarlo il movimento, attivandolo dinamicamente dalle catene imposte dal dominio esterno” pur in presenza di forti elementi di integrazione e di assimilazione, nella società, nell’economia e nella cultura continua a segnare profondamente, sia pure con gradazioni diverse, oggi come ieri, l’intera letteratura sarda che risulta così, autonoma, distinta e diversa dalle altre letterature. E dunque non una sezione o, peggio, un’appendice di quella italiana: magari gerarchicamente inferiore e comunque da confinare nella letteratura “dialettale”. Il sistema linguistico e letterario sardo infatti, come sistema altro rispetto a quello italiano, è sempre stato, come tale, indipendente e contiguo ai vari sistemi linguistici e letterari che storicamente si sono avvicendati nell’Isola, da quello latino a quello catalano e castigliano, e, per ultimo, a quello italiano, con tutte le interferenze e le complicazioni e le contaminazioni che una simile condizione storica comporta. Una situazione ricca e complessa, propria di una regione-nazione dell’Europa e del mediterraneo.

Nasce anche da qui l’esigenza di un’autonoma trattazione delle vicende letterarie sarde, scritte in Lingua sarda. Da considerare non “dialettali” ma autonome, nazionali sarde, vale a dire.

A questa stessa conclusione arriva, del resto, un valente critico letterario (e cinematografico) italiano come Goffredo Fofi, che nell’Introduzione a Bellas Mariposas di Sergio Atzeni scrive:”Sardegna, Sicilia. Vengono spontanei paragoni che indicano la diversità che è poi quella dell’insularità e delle caratteristiche che, almeno fino a ieri, ne sono derivate, di isolamento e di orgoglio. E’ possibile fare una storia della letteratura siciliana o una storia della letteratura sarda, mentre, per restare in area centro-meridionale non ha senso pensare a una storia della letteratura campana, o pugliese, o calabrese, o marchigiana, o laziale…

Il mare divide e costringe: La letteratura siciliana e la letteratura sarda possono essere studiate come “Letterature nazionali”. Con un loro percorso, una loro ragione, loro caratteri e segni”.

Segnatamente per due ordini di motivazioni:

1.Il sardo non può essere considerato un dialetto;

2. Difficilmente la Sardegna a causa della sua posizione decentrata e della sua peculiarissima storia, specifica e dissonante rispetto alla coeva storia  europea, segnata com’è dall’incontro con diverse culture, può essere integrata in un discorso di storia  e dunque di Letteratura italiana.

 Da una analisi attenta della letteratura in Sardo potremmo vedere che dalle origini del volgare sardo fino ad oggi, non vi è stato periodo nel quale la lingua sarda non abbia avuto una produzione letteraria.

Del resto a riconoscere una Letteratura sarda è persino  un viaggiatore francese dell’800, il barone e deputato Eugene Roissard De Bellet che dopo un viaggio nell’Isola, in La Sardaigne à vol d’oiseau nel 1882 scriverà :”Si è diffusa una letteratura sarda, esattamente  come è avvenuto in Francia del provenzale, che si è conservato con una propria tradizione linguistica”

Certo, qualcuno potrebbe obiettare, che essa, rispetto ad altre lingue romanze, ha prodotto pochi frutti. E’ questa  – per esempio – la posizione dello stesso Gramsci, che dopo aver detto una sacrosanta verità “ il sardo non è un dialetto, ma una lingua a sé”, afferma che esso non ha prodotto “ una grande letteratura”.

In realtà Gramsci non conosce la letteratura sarda: e per molti versi, non poteva neppure conoscerla, dati i tempi e le condizioni storiche – e personali – in cui viveva e operava. Come la conosceva poco lo stesso Wagner. E non la conosciamo appieno neppure oggi tanto che è urgente una grande operazione di scavo e di recupero del nostro patrimonio letterario e poetico, molto del quale è ancora inedito, numerosissimi testi sono ancora ignorati dagli stessi  critici o sepolti in biblioteche e in archivi privati e pubblici. E occorre tener conto non solo dei testi scritti ma anche di quelli orali – abbondantissimi, pensiamo solo alla poesia improvvisata o alle Preghiere (Pregadorias) o Gosos – quando ne siano recuperate le testimonianze.

Faccio solo un’esempio : abbiamo potuto conoscere Giovanni Matteo Garipa, – non lo conosceva neppure Wagner – solo recentemente, grazie alla ripubblicazione della sua opera su Legendariu de Santas Virgines et Martires de Jesu Cristu (1627) da parte dalla casa editrice Papiros di Nuoro nel 1998 con l’introduzione di Diego Corraine e la presentazione di Heinz Jürgen Wolf  e Pasquale Zucca. Eppure si tratta del più grande scrittore in lingua sarda del secolo XVII  (1575/1585-1640). Eppure molti motivi avrebbero dovuto spingere gli studiosi a conoscere e valorizzare il Garipa, ma soprattutto due:

1.la tesi del sacerdote orgolese, oggi quanto mai attuale, della necessità dell’insegnamento della lingua sarda – definita “limba latina sarda” come prerequisito per il corretto apprendimento, da parte degli studenti, anche delle altre lingue;

2.la sua convinzione che fosse urgente dotare la Sardegna di una tradizione letteraria «nazionale» sarda, ossia, come si direbbe oggi, di una lingua letteraria uniformemente usata in tutto il territorio dell’Isola e sorretta da un repertorio di testi in grado di competere con quelli delle altre lingue europee.

E’ stato anche obiettato che la lingua sarda ha prodotto “cultura bassa”. Rispetto a questa accusa occorrerebbe finalmente iniziare a liquidare certi equivoci gerarchici sulla cultura e sulle sue forme, per cui ci si attarda ancora a parlare di cultura “alta” e cultura “bassa”, di cultura “materiale” (miniere, artigianato, agricoltura, pastorizia, turismo) inferiore e subordinata alla cultura “immateriale” (lingua, letteratura, arte, musica, diritto ecc. ecc) o di cultura orale inferiore alla cultura “scritta” e dunque meno degna di essere conosciuta e studiata. La cultura, senza gerarchie, deve essere intesa in senso antropologico, ovvero nei valori sottostanti alle scelte collettive e individuali e quindi agli ideali che orientano i comportamenti, con particolare riferimento a quelli sociali.

Anche il termine “letteratura”, secondo il dettato dei più moderni e aggiornati orientamenti di studi, va inteso nel senso di scrittura o produzione di opere di cultura che occupano spazi non tradizionali quali gli atti giuridici, le costituzioni politiche, la poesia e la tradizione orale e finanche le opere di carattere didascalico o divulgativo per le quali veniva usata la lingua sarda al fine comunicare meglio con il popolo: I Catechismi come i Manuali medici-scientifici (ricordo a questo proposito Brevis lezionis de ostetricia po usu de is levatoras de su regnu de su rettori chirurgu collegiali Efis Nonnis),

Ma anche dato e non concesso che la lingua sarda abbia prodotto poco, si poteva pensare che un cavallo per troppo tempo tenuto a freno, legato  imbrigliato e impastoiato potesse correre e correre velocemente? La lingua sarda, certo, deve crescere, e sta crescendo: ha soltanto bisogno che le vengano riconosciuti i suoi diritti, che le venga proprio riconosciuto il suo “status” di lingua, e dunque le opportunità per potersi esprimere, oralmente e per iscritto, come avviene per la lingua italiana.

La Lingua sarda, dopo essere stata infatti lingua curiale e cancelleresca nei secoli XI e XII, lingua dei Condaghi e della Carta De Logu, con la perdita dell’indipendenza giudicale, viene infatti ridotta al rango di dialetto paesano, frammentata ed emarginata, cui si sovrapporranno prima i linguaggi italiani di Pisa e Genova e poi il catalano e il castigliano e infine di nuovo l’italiano.

Contrariamente a ciò che comunemente si dice e si pensa da parte degli stessi sardi, la letteratura in Sardo che l’isola ha espresso nei secoli, oltreché variegata nei diversi generi, è ricca di opere e di autori anche quando superata la fase esaltante del medioevo, all’indomani della sconfitta del regno di Arborea, mancando un centro politico indipendente, le lingue dominanti (catalano, castigliano e infine italiano) assunsero via via il ruolo di lingue ufficiali accolte in toto dal ceto dirigente isolano. La lingua sarda restò praticata dai cantori che diedero vita a una lunga tradizione poetica orale, ma anche da scrittori con riflessi di tipo colto.

Nei secoli si succedettero tentativi, da parte degli intellettuali sardi più vicini al popolo (in particolare uomini di Chiesa), di normalizzare l’uso scritto della lingua. Uno sforzo ancora oggi attuale, nel momento in cui, per effetto di una nuova coscienza linguistica, si è assistito alla nascita della prosa narrativa in lingua sarda.

Occorre comunque sottolineare che è soprattutto a partire dall’ultima metà del Novecento che i poeti e gli scrittori in lingua sarda hanno offerto risultati non solo quantitativamente ma anche qualitativamente di grande rilievo.

Recentemente sono stati censiti, in modo rigoroso – vedi Antoni Arca (in Benidores, Literatura, limba e mercadu culturale in Sardigna, Condaghes editore, Cagliari 2008) i libri di narrativa in lingua sarda pubblicati in meno di 30 anni. Ebbene nei primi dieci anni (1980-1989) le pubblicazioni sono state 22, fra cui 11 romanzi. Nei secondi dieci anni (1990-1999) le pubblicazioni sono più che raddoppiate: dalle 22 del primo decennio passano a 57. Nei terzi dieci anni (2000-2007) le opere narrative in sardo sono ben 107. E da quell’anno sono ancora cresciute enormemente. Certamente ci sono anche opere modeste e persino mediocri – come in tutte le lingue! – ma molte sono di spessore e di gran vaglia. segnatamente quando gli autori esprimono una condizione specifica sarda, per ottica e palpitazioni, per weltanschaung, per il modo con cui intendono e contemplano la vita e per tante altre cose, razionali e irrazionali, che derivano dai misteri e dalle iniziazioni dell’arte, compresa la nostalgia, che, a dispetto dei politici «realisti», come dice Borges, è la relazione migliore che un uomo possa avere con il suo paese.

Ovvero quando la produzione letteraria esprime una specifica e particolare sensibilità locale, “una appartenenza totale alla cultura sarda, separata e distinta da quella italiana” diversa dunque e “irrimediabilmente altra”, come scrive il critico sardo Giuseppe Marci.

O ancora – come scrive Antonello Satta – quando “gli autori sappiano andare per il mondo con pistoccu in bertula, perché proprio in questo andare per il mondo, mostrano le stimmate dei sardi e, quale che sia lo scenario delle loro opere, vedono la vita alla sarda”.

Ma soprattutto quando la letteratura sarda ha, come ogni letteratura, i tratti universali della qualità estetica.

Fra questi, voglio ricordare in questa sede e non a caso, Gianfranco Pintore, recentemente scomparso e che altrimenti sarebbe stato qui a parlare proprio di Letteratura sarda. Lo voglio ricordare non solo perché lo ritengo uno dei più valenti e significativi romanzieri in Sardo, ma anche perché nella sua scrittura, ha preso a roncolate, liquidandoli, inveterati pregiudizi e luoghi comuni che ancora vengono circuitati ad arte, segnatamente dai nemici del Sardo. Ovvero che la Lingua sarda sia  lingua agro-pastorale, strumento di esclusivo recupero memoriale del passato, arcaica e inadatta a esprimere la modernità. Gianfranco Pintore come ha scritto recentemente  Vittorio Sella non est pro una limba sarda museificata, arressa a su tempus colatu, ma, senne limba sarda intro sa modernitate, de custu nos dat contu chin sas istorias suas, sos protagonistas, sas novitates, presentannelas a chi leghet operas de litteratura. Non cheriat una limba intro unu baule, prontu a s’interru.

Nei suoi romanzi infatti almanacca e descrive la modernità: parlando di rebellias telematicas,-ribellioni telematiche, cavos otticos-cavi ottici, carculadores -computer, enerzia atomica –energia nucleare (vedi Su Zogu) o di intrighi politici e istituzionali (vedi Morte de unu Presidente) o di questioni storiografiche, storiche e archeologiche (vedi Sa Losa de Osana).

Ma c’è di più. Soprattutto in Sa Losa de Osana Pintore  utilizza Sa Limba sarda comuna. A questo proposito e mi avvio alla conclusione – voglio ricordare un episodio successo a Sinnai in occasione della presentazione proprio di Sa Losa de Osana.  A un certo punto della discussione intervenne un nemico feroce della LSC, caricandola di tutti i misfatti della Sardegna e concludendo che si trattava di una lingua costruita a tavolino, artefatta e artificiosa, povera, burocratica e senza vita. Occorreva invece scrivere ciascuno nella propria parlata locale. Come aveva fatto Pintore nel romanzo Sa Losa de Osana. Di cui lui apprezzava il ritmo nonché la musicalità ed espressività del lessico. Il “nostro” critico non si era accorto che il romanzo era scritto proprio in quella lingua, la LSC appunto, contro cui aveva lanciato i suoi improperi e le sue contumelie!  

 

 

 

 

 

 

 

 

Un Concorso letterario per adolescenti a OLLOLAI

Ollolai, un concorso sull’adolescenza

OLLOLAI. Parte la seconda edizione del concorso letterario dal titolo “L’adolescenza degli adolescenti”, organizzato, a Ollolai, dall’associazione culturale “Divergenze”, di cui è presidente…

 

di Giovanni Maria Sedda

OLLOLAI. Parte la seconda edizione del concorso letterario dal titolo “L’adolescenza degli adolescenti”, organizzato, a Ollolai, dall’associazione culturale “Divergenze”, di cui è presidente Antonello Guiso. Il concorso letterario è rivolto ai ragazzi di età compresa tra i 13 e i 22 anni che vorranno presentare i loro racconti brevi (massimo 10 cartelle da 1800 battute), inediti, scritti in lingua italiana o sarda.

Il bando è stato già diffuso anche a mezzo stampa e trasmesso a tutte le scuole superiori dell’isola.

«Il concorso _ precisa Antonello Guiso _ si può considerare unico in quanto gli altri esistenti relegano i giovani a una sezione secondaria, a una sorta di premio B. Noi invece abbiamo deciso di dare la massima importanza e tutto lo spazio solo ai giovani adolescenti. Creare e realizzare un premio letterario ai giorni nostri è una grande impresa, vista la scarsa attenzione riservata dalle istituzioni, sia ai giovani che ai percorsi culturali». E anche per questo motivo l’associazione “Divergenze”, sin dal 2010 ha studiato il bando , con la stesura di un suo regolamento e l’organizzazione di una giuria della quale lo “zoccolo duro” è costituito dagli intellettuali Gian Carlo Bruschi, Tonino Bussu, Tonino Uselli e dal presidente Francesco Casula scrittore di Ollolai. I racconti potranno pervenire entro il 28 dicembre 2012, per raccomandata all’associazione Divergenze, via Lamarmora 31, 08020 Ollolai”.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

La Nuova Sardegna 26 ottobre 2012

 
   
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Sulla Nuova Sardegna una eccellente recensione dell’antropologo e scrittore Giulio Angioni sul I volume della “Letteratura e civiltà della Sardegna” di Francesco Casula (Edizioni Grafica del Parteolla, Dolianova, 2011, Euro 20)

 mille percorsi dell’identità Una mappa per ritrovarsi

Nel primo volume dell’opera “Letteratura e civiltà della Sardegna” Francesco Casula riflette sul ruolo giocato dall’isola nella storia europea

 
   
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di GIULIO ANGIONI

di GIULIO ANGIONI

Francesco Casula, potrebbe dirsi, si è dedicato alla sua ultima fatica storico-letteraria con lo stesso piglio, aggiornato, del canonico Giovanni Spano rispetto alla mole dei suoi studi, cioè sentendo desiderio e dovere di “illustrare la patria” sarda. Casula ha dato finora, tra l’altro, molte prove di quanto anche un sardismo molto risentito possa essere supporto e spinta verso operazioni che meritano, come questa sua di proseguire una tradizione anche sarda ormai quasi bisecolare di storiografia letteraria, se si può considerare un inizio la “Storia letteraria di Sardegna” che Giovanni Siotto Pintor pubblicava nel 1843-1844.

Da allora non sono mancate le storie anche complessive della scrittura letteraria in Sardegna, come la “Storia della letteratura di Sardegna” di Francesco Alziator, di un secolo dopo, datata ma forse ancora utile per il materiale raccolto e messo a disposizione.

Un tema qui subito trattato e risolto è quello di quale sia l’oggetto dell’opera e che si debba intendere con l’espressione letteratura sarda o di Sardegna. Anche su questo tema, da ultimo anche una storia della letteratura in sardo, di Salvatore Tola, “La letteratura in lingua sarda”. Testi, autori, vicende, del 2006, è anch’essa da considerare propedeutica a questo grosso lavoro di Casula, che dà ampio spazio e risalto alla produzione in sardo e la considera quella più autentica, anzi la più identitaria, auspicandone lo sviluppo: ma, come non può non accadere a chi affronti sensatamente un compito come il suo, le scritture letterarie dei sardi “dobbiamo valutarle non tanto per la lingua che scelgono, quanto per l’uso che ne fanno e per il modo di collocarsi esteticamente e non solo, in Sardegna” (p. 11). Del resto, secondo gli intendimenti del nostro autore, «l’intera letteratura sarda… risulta… autonoma, distinta e diversa dalle altre letterature. E dunque non una sezione di quella italiana: magari gerarchicamente inferiore» (p.10).

“Letteratura e civiltà della Sardegna” si intitola quest’ultima corposa opera di Francesco Casula, di cui è uscito, nelle Edizioni Grafica del Parteolla, il primo dei due volumi previsti. Questo primo volume tratta dell’attività letteraria in Sardegna negli ultimi mille anni, dalla prima carta sarda rimastaci, quella cagliaritana del 1070, fin oltre il nostro quasi contemporaneo Salvatore Cambosu, che moriva nel 1962, arrivando alla nostra contemporaneità con Salvatore Satta, Giuseppe Dessì e Giuseppe Fiori che ci lasciava nel 2003. E ne tratta appunto come cosa a sé, soprattutto perché «è proprio l’Identità sarda il tratto che accomuna gli Autori che abbiamo scelto e trattato in questo volume” (p.11), dove la nozione di identità sarda sembra significare un comune modo di sentire che va con costanza ineguagliata, anche in quanto ereditato da epoche preistoriche lontane come quella nuragica, dagli scrivani delle corti giudicali ai romanzieri in italiano e in sardo del Novecento e del Duemila.

Alla nozione di “civiltà della Sardegna” usata nel titolo Casula tiene fede lungo tutto il suo percorso, dalla ‘libertà’ giudicale ai vari modi di egemonia pisana e genovese, all’invasione iberica, all’acquisto sabaudo, al triennio rivoluzionario settecentesco, al risorgimento italiano, alla prima guerra mondiale, al primo sardismo, al fascismo, alla seconda guerra mondiale, alla rinascita, all’industrializzazione malfatta e fallita nei modi e negli scopi: tutti momenti e temi che situano nella temperie dei loro tempi i vari prodotti letterari e i loro autori. Un fatto importante è che Francesco Casula è stato uomo di scuola per quarant’anni, perché in quest’opera l’intento didattico è strutturante, sebbene non proprio nuovo, se si ricorda almeno il recente manuale per le scuole superiori di Giovanni Pirodda, “Sardegna”, per non dire della fortunata antologia di Giuseppe Dessì e Nicola Tanda, “Narratori di Sardegna”, del 1973. In queste pagine di Casula l’impianto didattico si organizza in un dialogo propositivo costante con i giovani, secondo una formula che offre inquadramenti storici, letture, commenti autorevoli, inviti a proseguire la ricerca. Il tutto dentro un orizzonte, costantemente ridefinito, in cui il giovane studente sardo è invitato all’identificazione di sé sulla scorta della nostra attività letteraria.

Non è raro in Sardegna chi agisce in vari ambiti, compreso quello degli studi storici, mosso e sostenuto dalla convinzione risentita che l’antica diversità dell’isola debba certe sue negatività non solo alla storia millenaria di sudditanze ma anche a una sorta sottovalutazione, di conventio ad excludendum, persino di un complotto o, quando va bene, di costante distrazione del resto del mondo rispetto alla Sardegna, che così risulta al mondo molto meno di quanto convenga anche al resto del mondo. Casula partecipa in questa opera di questo modo di sentire il bene e il male dell’essere sardi. Ciò che più vi si apprezza è che esso sostiene, anche in quanto risentimento, a volte imprese meritorie che forse altrimenti non si darebbero. Bisogna augurarsi che il piglio rivendicativo sardista guadagni a quest’opera più lettori e abili utilizzatori nella scuola di quanti non ne renda perplessi.

21 ottobre 2012

 
   
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Amsicora chi era? Un ascaro o un eroe sardo alla guida della resistenza sarda antiromana nel 215 a.C.?

L’Associazione ITA MI CONTAS in collaborazione con la Biblioteca di Flumini organizza per il prossimo giovedì 18 ottobre una Conferenza del Professor Francesco Casula su Amsicora (ore 17.30 nella Biblioteca di Flumini).

Amsicora: chi era costui?

Un ascaro o un eroe sardo?

di Francesco Casula .

La fonte fondamentale della storia e della figura di Amsicora, è costituita in buona sostanza dall’opera dello storico romano “Ab urbe condida, XXIII, 40”.

   Ebbene il più grande latinista italiano, Ettore Paratore, nella sua monumentale <Storia della Letteratura latina> (1) scrive, in modo impietoso, che “chi volesse farsi un’idea precisa delle campagne militari romane attraverso Livio, finirebbe per non capire nulla”. Perché?

   Perché Livio intende la storia come diletto e ammaestramento che lo portano ad alterare le vicende storiche: di qui –per esempio- il prevalere degli interessi letterari e morali su quelli storici, soprattutto nella narrazione del periodo più arcaico.

   Livio è persuaso che quella di Roma fosse una storia provvidenziale, una specie di <storia sacra>, quella del popolo eletto dagli dei.

   Deriva da questa convinzione la più attenta cura a far risaltare tutti gli atti e tutte le circostanze in cui la virtus romana abbia rifulso. Tutto ciò è chiaramente adombrato anche nel proemio dell’opera “Ab urbe condita” dove si insiste sul carattere tutto speciale del dominio romano, provvidenziale e benefico anche per i popoli soggetti: “Se a qualche popolo è opportuno permettere che circondi le proprie origini col fascino della sacralità e le attribuisca agli dei, è anche da rilevare che la maggior gloria del popolo romano in guerra è che, sebbene esso vanti particolarmente Marte come primogenitore suo e del suo fondatore Romolo, le nazioni della terra sopportino questo vanto con la medesima buona disposizione con cui si assoggettano al suo dominio”.

   Di qui l’impegno politico che porta Livio ad esaltare i grandi valori etici, religiosi e patriottici dell’antica Roma sulla base del “Tu regere imperio populos, Romane, memento” (Ricordati, Romano, che tu devi dominare gli altri popoli) e del “Parcere subiectis et debellare superbis” (Occorre perdonare chi si sottomette e distruggere chi osa resistere).

   Livio scrive dunque una storia “ideologica”, senza alcun rigore storico, con svarioni colossali e immani contraddizioni: Eccone alcune: 

1)    Iosto, figlio di Amsicora, mentre il padre si trovava presso i Sardi Pelliti, preso dalla baldanza giovanile avrebbe attaccato sconsideratamente i Romani e sarebbe stato sconfitto e ucciso,volto in fuga l’esercito dei Sardi con 3.000 morti e 1.300 prigionieri.

Dopo tale colossale disfatta inflitta ai Sardi il console Tito Manlio Torquato invece di inseguire il resto dell’esercito e occupare Cornus – aveva ben quattro legioni! – volge le spalle al nemico e si trincera a Cagliari. A questo proposito c’è da chiedersi – come si domanda il Carta Raspi (2) in <Storia della Sardegna>: “Perchè Manlio non attacca i Cartaginesi che sbarcavano non lontano dagli accampamenti romani con circa 10.000 fanti e alcune centinaia di cavalieri mentre il console romano aveva il doppio di effettivi 22.000 fanti e 1.200 cavalieri?”

2)    Nella seconda battaglia, svoltasi pare, nei pressi di Assemini, dopo la morte di Iosto, i Sardi e i Cartaginesi ebbero 12.000 morti, persero 27 insegne e circa 3.700 prigionieri.

Sempre, naturalmente secondo Livio o meglio – in questo caso – secondo Valerio Anziate, (3) da cui pare, abbia attinto i dati. E Amsicora, quando seppe della morte del figlio si sarebbe ucciso.

      Dopo tale vittoria Manlio Torquato – che a parere di Teodor Mommsen  (4) in < Storia di Roma antica>: “ distrusse interamente l’esercito sbarcato dei Cartaginesi e conservò di nuovo ai Romani l’incontrastato possesso dell’Isola – trionfante, parte per Roma a portarvi il lieto annuncio della Sardegna “ vinta e domata per sempre”.

      Dopo poco più di 30 anni – è lo stesso Livio a dircelo – questa Sardegna vinta e domata per sempre insorge di nuovo: “ In Sardinia magnum tumultum esse cognitum est….Ilienses adiunctis Balanorum auxiliis pacatam provinciam invaserant…”.

       Evidentemente era stata “conquistata ma non convinta nè domata” – intendendo per Sardegna, la regione della montagna, “perché questa fu la ribelle…con i fierissimi Iliesi e Balari” almeno secondo Salvatore Merche,(5) storico sardo dell’inizio del ‘900.

Ci saranno infatti rivolte sia nel 181 che nel 178 a.c: gli Iliesi con l’aiuto dei Balari avevano attaccato la Provincia, la zona controllata da Roma  e i Romani non potevano opporre resistenza perchè le truppe erano colpite da una grave epidemia, forse la malaria.

Nel 177 e 176 nuove e potenti sommosse costringeranno il Senato romano ad arruolare sotto il comando del console Tiberio Sempronio Gracco – lo stesso console della conquista romana del 238-237 – due legioni di 5.200 fanti ciascuna, più di 300 cavalieri, 10 quinquiremi cui si associeranno altri 12.000 fanti e 600 cavalieri fra alleati e latini.

Commenta Salvatore Merche nell’opera citata (6): “La grandezza di questa spedizione militare e lo sgomento prodotto nell’urbe dal solo accenno a una sollevazione dei popoli della montagna, dimostra quanto questi fossero terribili e temuti, anche dalla potenza romana, quando si sollevavano in armi. Evidentemente poi, perdurava in Roma la terribile impressione e i ricordi delle guerre precedenti con i Pelliti di Amsicora e di Iosto, nelle quali i Romani avevano dovuto constatare d’aver combattuto con un popolo d’eroi, disposti a farsi ammazzare ma non a cedere”.

      Alla fine dei due anni di guerra – ne furono uccisi 12 mila nel 177 e 15 mila nel 176- nel tempio della Dea Mater Matuta a Roma fu posta dai vincitori questa lapide celebrativa, riportata da Livio: “Sotto il comando e gli auspici del console Tiberio Sempronio Gracco la legione e l’esercito del popolo romano sottomisero la Sardegna. In questa Provincia furono uccisi o catturati più di 80.000 nemici. Condotte le cose nel modo più felice per lo Stato romano, liberati gli amici, restaurate le rendite, egli riportò indietro l’esercito sano e salvo e ricco di bottino, per la seconda volta entrò a Roma trionfando. In ricordo di questi avvenimenti ha dedicato questa tavola a Giove”.

      Gli schiavi condotti a Roma furono così numerosi che “turbarono“  il mercato degli stessi nell’intero mediterraneo, facendo crollare il prezzo tanto da far dire a Livio “Sardi venales “: da vendere a basso prezzo. 

       Ma le rivolte non sono finite neppure dopo il genocidio del 176 da parte di Sempronio Gracco. Altre ne scoppiano nel 163 e 162. Non possediamo – perchè andate perse le Deche di Tito Livio successive al 167 – sappiamo però da altre fonti che le rivolte continueranno: sempre causate dalla fiscalità esosa dei pretori romani e sempre represse brutalmente nel sangue. Così ci saranno ulteriori guerre nel 126 e 122: tanto che l’8 Dicembre di quest’anno viene celebrato a Roma il trionfo “ex Sardinia“ di Lucio Aurelio; nel 115-111, con il trionfo il 15 Luglio di quest’anno di Marco Cecilio Metello ben annotato nei Fasti Trionfali, e infine nel 104 con la vittoria di Tito Albucio, l’ultima ribellione organizzata che le fonti ci tramandano, ma non sicuramente l’ultima resistenza che i Sardi opposero ai Romani.

        Lo stesso Livio, che scriveva alla fine del I secolo a.c., affermerà – soprattutto a proposito degli Iliesi – che si tratta di “gente ne nunc quidem omni parte pacata “. Il che trova conferma in un passo di Diodoro Siculo (7), da riportarsi a questo stesso periodo, secondo il quale gli abitanti delle zone montuose sarde, ai suoi tempi :”Ancora hanno mantenuto la libertà”.

Altro che Sardegna pacificata o Sardi “avvezzi ad essere battuti facilmente”! (facile vinci) come sostiene Livio e di cui ora parlerò.

3)    I Sardi dunque – secondo Livio – erano avvezzi ad essere facilmente battuti. Ma come fa a sostenere ciò? A parte quanto succederà dopo il 215 – e che ho testè documentato – non conosce forse lo storico romano quanto è successo prima, dal 238 almeno?

Fin dal 236 infatti, due anni dopo la conquista da parte romana del centro sardo-punico della Sardegna, i Romani – come annota brevemente Giovanni Zonara (8), risalendo a Dione Cassio (9) – condussero operazioni contro i Sardi che rifiutavano di sottomettersi.

Nel 235, sobillati –a parere di Zonara– dai Cartaginesi che “agivano segretamente“ i Sardi si ribellano e vengono repressi nel sangue da Manlio Torquato – lo stesso console che sarà scelto per combattere Amsicora –  che celebrerà il trionfo sui Sardi, il 10 Marzo del 234, come attesteranno i Fasti trionfali capitolini.

Nel 233 ulteriori rivolte saranno represse dal Console Carvilio Massimo, che celebrerà il trionfo il Primo Aprile del 233.

Nel 232 sarà il console Manio Pomponio a sconfiggere i Sardi e a meritarsi il trionfo celebrandolo il 15 Marzo.

Nel 231 vengono addirittura inviati due eserciti consolari, data la grave situazione di pericolo, uno contro i Corsi, comandato da Papirio Masone e uno, guidato da Marco Pomponio Matone, contro i Sardi. I consoli non otterranno il trionfo, a conferma che i risultati per i Romani furono fallimentari. E a poco varrà a Papirio Masone celebrare di sua iniziativa il trionfo negatogli dal senato, sul monte Albano anzichè sul Campidoglio e con una corona di mirto anzichè di alloro. In questa circostanza il console Matone –la testimonianza è sempre di Zonara– chiederà segugi addestrati nella caccia e adatti nella ricerca dell’uomo per scovare i sardi barbaricini che, nascosti in zone scoscese e difficilmente accessibili, infliggevano dure perdite ai Romani.

Nel 226 e 225 si verificherà una recrudescenza dei moti, ma ormai – come sottolinea Piero Meloni (10) “ Roma è intenzionata fortemente al dominio del Mediterraneo e dunque al possesso della Sardegna che continua ad essere di decisiva importanza” e l’Isola unita con la Corsica – come la Sicilia – dopo il 227 ha avuto la forma giuridica di Provincia con l’invio di due pretori per governarla.

4)    Livio parla di “Sociorum populi romani“ (alleati di Roma) e in un’altro passo di “Comunità sarde, amiche di Roma che contribuirono <benigne> con tributi e con la decima, visto che non si poteva pagare il soldo ai militari nè distribuire viveri”. Ma a chi allude? Ma non è lui stesso, in altri passi delle sue “Storie“ a sostenere che le popolazioni vennero multate per aver partecipato al conflitto? Obbligate a pagare gravi tributi in denaro e frumento? E non in base alle possibilità contributive ma semplicemente per aver partecipato alla rivolta a fianco di Iosto e Amsicora? La verità è che in Sardegna non esistevano popolazioni amiche dei Romani: del resto è lo stesso Cicerone (11)a confermarlo nell’Orazione “Pro Scauro“ in cui afferma che non vi era fino a quel tempo <215> in Sardegna neppure una città amica dei Romani:” …quae est enim praeter Sardiniam provinciam, quae nullam habeat amicam populo romano ac liberam civitatem? 

5)    Livio parla di Iosto ucciso in battaglia, Silio Italico (12) scrive che fu ucciso dal poeta latino Ennio (13). Questi nella sua opera “ Annales “ non fa cenno di questo episodio.

6) Livio scrive di Amsicora come di un  sardo-cartaginese per i suoi interessi di grande latifondista, integrato nell’aristocrazia punicizzata. Insomma una sorta di ascaro. Ma come spiegare in questo caso la sua “auctoritate“, il suo prestigio persino presso le popolazioni delle tribù nuragiche dell’interno, tanto da recarsi presso di loro per chiedere e sollecitare il loro aiuto nella guerra contro Roma?  Non si tratta forse degli stessi sardi che intorno alla metà del VI secolo avevano lanciato una grande offensiva contro i Cartaginesi, fino a distruggere la fortezza di Monte Sirai?

E allora?

Allora bisogna concludere che la versione Liviana non è assolutamente credibile e la storia di Amsicora occorre riscriverla, partendo a mio parere da un’ipotesi fondamentale: che esso era non solo un sardo verace ma addirittura un barbaricino, come ci testimonia Silio Italico secondo cui Amsicora si gloriava di essere iliense, discendente dei coloni venuti da Troia e quindi un montanaro del più nobile sangue e assai coraggioso e fiero.Versione questa di Silio Italico, fatta propria da uno storico sardo del 1600, Giovanni Proto Arca di Bitti (14) che chiama Amsicora “dux barbaricinorum”: “erat dux Barbaricinorum Hampsagoras et eius filius Oscus”.

Del resto, Amsicora, fin dal tempo di Cicerone non è stato sempre raffigurato con tanto di barba, pugnale e mastruca, tipico dei Sardi Pelliti?

     Ed è un caso che nell’immaginario collettivo, soprattutto degli artisti e dei poeti Sardi, venga considerato come un eroe sardo che difende la Sardegna contro il romano invasore e non un ascaro? Si tratta solo di fantasie e sogni?

Può darsi.

Ma forse che l’Amsicora liviano non è ugualmente costruito e disegnato sulle fantasie dello storico latino tutto proteso a magnificare la stirpe romana, piegando a tale filosofia dati, date e avvenimenti come ormai ci risulta con certezza?    

 

Riferimenti bibliografici

1)    Ettore Paratore, Storia della Letteratura latina, Sansoni editore, pag.455

2)    Raimondo Carta-Raspi, Storia della Sardegna, ed. Mursia, pag.212

3)    Valerio Anziate, storiografo romano vissuto nell’Età di Silla (1° secolo a.c.) Scrisse 75 libri di “Annales”, quasi completamente perduti. Godeva già presso gli storici antichi  e ancor più ne gode oggi presso gli storici moderni  fama di grande falsario o comunque   di faciloneria, mancanza di scrupoli ed esagerazioni.

4)    Theodor Mommsen, Storia di Roma antica, vol.I, tomo I, pag.143.

5)    Salvatore Merche, Barbaricini e la Barbagia nella storia della Sardegna pag.26 segg.

6)    Salvatore Merche,op. cit. pag. 28.

7)    Diodoro Siculo (90 a.c.- 20 d.c.) Vive ai tempi di Cesare e nei primi anni di Augusto. Storico greco scrive in 40  libri la “Biblioteca storica”.

8)    Giovanni Zonara (1080-1118) storico e scrittore ecclesiastico bizantino, autore di un’opera “Epitome storica” che tratta dalle Origini alla morte di Alessio Commeno.

9)    Dione Cassio, storico greco. Autore di “La storia di Roma” dalle origini al 229 d.c. in 80 libri.

10) Piero Meloni, “La Sardegna romana”, Chiarelli editore.

11) Cicerone (106-43 a.c.) Parla della Sardegna – sempre in termini dispregiativi – in più opere, fra l’altro nell’orazione “ Pro Scauro”. Diventerà per altri scrittori e storici che parleranno successivamente della Sardegna, la principale fonte.

12) Silio Italico, (25-101 d.c.) Poeta latino. La sua opera principale è il poema epico “Punica” in 17 libri e 12.200 versi.Tratta della 2° Guerra Punica: dall’assedio di Sagunto fino a  Zama. Fu lui che attribuì al poeta Ennio la morte in duello di Iosto, il figlio di Amsicora.

13) Ennio (239-169 a.c.) poeta latino, autore degli “ Annales”, poema epico in 18 libri e in 30.0 00 versi, per la gran parte andati persi in cui celebra la Storia di Roma dalle Origini ai suoi giorni, ispirati ad entusiastica ammirazione per l’espansionismo romano, tanto da essere ammiratissimo da Cicerone.

14) G. Proto Arca, “Barbaricinorum libri”, Ed. Sarda Fossataro

 

 

Questo breve saggio storico è stato pubblicato nella Rivista “L’Obiettivo” ed è la base su cui è stato costruito la monografia in lingua sarda della Collana “Omines e feminas de gabbale”:

Amsicora, Frantziscu Casula-Amos Cardia (Alfa editrice, Quartu, 2007)

 

Ora anche in Italiano, inserita nel volume (pagine 9-30): 

Uomini e donne di Sardegna, Francesco Casula, (Alfa editrice, Quartu, 2010)