Per una nuova Carta de Logu

francesco.jpg L’Indipendentismo dei sardisti

Per una nuova Carta de Logu

di Francesco Casula*

 

Nel PSD’Az il tema dell’indipendenza, carsicamente, scompare e riappare. Nei giorni scorsi è ritornato alla ribalta con una mozione  che invita la Giunta al “disimpegno con lo stato”. A presentarla l’intero gruppo consiliare sardista. I maligni e gli avversari la giudicheranno strumentale e propagandistica: finalizzata a comporre i conflitti interni e a sedare i malumori che iniziano a serpeggiare nel corpo del partito, soprattutto fra i militanti più severi ed esigenti che mal sopportano l’appiattimento sulla alleanza con il centro destra e sulla Giunta, che non tutti hanno ancora metabolizzato e che è stata causa di una dolorosa scissione prima delle elezioni. Sia come sia, è da valutare positivamente il colpo di reni con cui Maninchedda, Sanna e compagni, fuoriescono dalla palude della semplice gestione e amministrazione della miseria dell’esistente e mettono all’ordine del giorno l’obiettivo della Indipendenza della Sardegna: individuando con  nettezza il neocolonialismo dello Stato italiano responsabile “dell’inquinamento dei siti industriali, della desertificazione del settore manifatturiero, dell’eccesso di pressione fiscale che sta consegnando la Sardegna a poche imprese dominanti, con il tentativo di scaricare sul bilancio regionale i costi del welfare, della scuola e degli enti locali…e con la spoliazione culturale derivante da un sistema scolastico monolingue, ostile alla cultura e alla lingua dei sardi “. Bene. Che il Consiglio discuta e subito la mozione ma soprattutto metta mano al Nuovo Statuto come vera e propria Carta costituzione di sovranità, strumento indispensabile per iniziare a porre fine alla dipendenza e al dominio dello Stato sull’Isola. Ma nessuno si illuda di poter riscrivere lo Statuto sardo nel chiuso delle aule del Consiglio regionale: occorre una grande Assemblea Costituente del popolo sardo che coinvolga e incroci la gente, i lavoratori, in una discussione collettiva in cui oltre a stabilire i nuovi poteri e competenze dello Statuto, emergano i bisogni, gli interessi, le idealità e le finalità di cui i sardi vogliono impregnare la nuova Carta de Logu.

*storico

(Pubblicato su il Sardegna del 26-5-09)

 

Studi Angioy

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ultima parte

dalla programmazione autonoma, e la delega anche all’attuazione, in sostanza la legge stessa prevede una serie di blocchi per cui sembra piuttosto doversi parlare di una programmazione e di una attuazione condizionate. Può dirsi, questa, una programmazione autonomista, dinamica, effettivamente (non soltanto verbale) democratica, sinceramente regionalista? Si tratta d’una pianificazione “arbitraria”, di vertice, non di base, senza controllo sociale né all’origine né per i risultati. Se poi si guarda al rapporto tra la programmazione regionale sarda (nella specie della legge 588) e la programmazione macroeconomica nazionale, la prima è stata egemonizzata e condizionata dalla seconda alla quale – volente o nolente – si è dovuta arrendere nella logica del sistema centralistico e autoritario dello Stato. Circa la sfera di attuazione del Piano, i blocchi non sono stati meno cogenti. La progettazione è conformata su schemi fissi, su “modelli nazionali”. L’assistenza tecnica in agricoltura delegata delle Regioni agli organi burocratici della Cassa del Mezzogiorno, senza che possa intervenire nelle direttive e nel controllo in quanto si interferirebbe su organi e direttive riservate allo Stato. L’Ente di sviluppo, strumento “estraneo alla Regione”, un tabù dello Stato dal quale dipende in orientamenti e forme di intervento tecnico (e non soltanto tecnico). Dove e come possono dunque manifestarsi la capacità politica, la volontà autonomistica, la responsabilità direzionale e di controllo, in definitiva l’autodeterminazione e l’autogoverno che sono caratteri fondamentali e obiettivi finali delle autonomie regionali? Nell’articolo 13 dello Statuto ne è contenuto e consacrato il logos, la ratio, ma, nello stesso tempo, ne risaltano i limiti e l’incompiutezza. Vi appare un’indicazione della “specialità”, dell’autonomia esclusivamente economica. Si tende a raggiungere una parità economica e di condizioni di vita con il resto del Paese, ma non un vero e proprio autogoverno. Si ignora che la storia d’un popolo non progredisce soltanto con i fatti economici e che lo sviluppo non si riduce a una semplice crescita economica. Dunque una “Rinascita” materialistica, senza anima, senza identità, senza il supporto di valori immateriali (di stirpe, di lingua, di costumi). Un’attenzione volta soltanto al plafond strutturale, senza la base etnico – etico – culturale, non avrebbe potuto realizzare progresso, emancipazione, protagonismo, il “fare da sé” in libertà pur senza chiudersi al respiro del mondo. A parziale discolpa di questo Statuto “moderato”, va detto che nasceva come una sorta di acquisizione ereditata, un punto di arrivo, un passato, quasi la definizione politica d’un processo concluso. Radici, ma non ali. Per di più si usciva da una guerra perduta, da macerie, da lacerazioni dei partiti riemersi, dalla presenza nella Costituente di esponenti d’un tessuto sociale polimorfo, prevalentemente piccolo borghese, con dirigenza costituita in maggior parte da elementi di borghesia intellettuale e professionale, e da rappresentanti, tutt’altro che coesi, del mondo contadino e operaio; l’insieme, se non impreparato, scarsamente attrezzato a realizzare il sogno ambizioso dell’autogoverno. 21 – L’attenzione dei primi governi regionali fu indirizzata alla valorizzazione delle tradizionali risorse locali, agro-pastorali e miniere. Non poté esperirsi, per opposizioni del governo nazionale e interne, l’offerta americana della Fondazione Rockfeller, in tecnici, attrezzature e liquidità per concorrere a realizzare in certi settori il Piano di Rinascita. Ci vollero dodici anni per l’evento di questo Piano, col disegno di legge del Consiglio dei Ministri del 17 giugno 1961, modificato con legge del 17 giugno 1962. Il Piano fu accolto con favore, nonostante gli obiettivi si appiattissero sui contenuti generali della politica meridionalistica, fossero troppi e scarsamente coordinati gli organi che vi avevano parte e fosse dislocato il potere decisionale locale riguardo al tipo di industrializzazione rivolta in modo prevalente se non esclusivo alla monocoltura chimica e petrolchimica, chiusa in alcuni “poli di sviluppo”. Altri erano gli enunciati originali del Piano che teneva conto dell’equilibrio tra il comparto industriale e quello agricolo ora penalizzato, come limitata a poche aree l’occupazione, ipotizzata diffusa. La Regione non risultava preminente soggetto di attuazione né completi erano gli strumenti attuativi, scarso il decentramento, insiti nell’organizzazione i pericoli di burocratizzazione e lunghi (venti anni) i tempi di realizzazione. Nel modello dei “poli” petrolchimici, calato dall’alto e dall’esterno, senza l’accertata congruità ambientale e culturale, il sottosviluppo che si voleva nelle intenzioni eliminare, non poteva uscire dalla sua condizione in quanto antitesi necessaria dello sviluppo. Difatti, acquisite le relazioni della Commissione speciale per il Piano di Rinascita sull’indagine della situazione economica e sociale delle zone interne a prevalente economia pastorale e sui fenomeni di criminalità ad esse connessi, nel 1968, il Consiglio regionale, dibattendo nella primavera del 1969 il IV Programma esecutivo del Piano di Rinascita a chiusura della V° legislatura, costatava che gli interventi attuativi non avevano procurato che una crescita di pura facciata. Il Piano non faceva giustizia, con effetto liberante, anzi nascondeva l’insidia d’una ulteriore subordinazione dell’isola. Il che non era davvero esaltante per l’autonomia. Né rincuorante sullo stato dell’isola appariva la relazione generale presentata alle Camere il 29 marzo 1972, dalla Commissione parlamentare d’indagine sui fenomeni di criminalità in Sardegna. La Commissione rilevava la mancata “aggiuntività” che era tassativa nella legge 11 giugno 1962, n. 588, dei 400 miliardi; il mancato coordinamento tra tutte le iniziative programmando tutte le risorse per cui gli squilibri territoriali e sociali si erano aggravati a causa della politica dell’accentramento in poli di sviluppo; la lentezza della spendita dei 400 miliardi, con gli investimenti proiettati soprattutto sull’industria di base petrolchimica (dei 330 miliardi programmati fino al 31/12/1970: 116 all’industria dei poli petrolchimici contro i 92.500 per l’agricoltura); lo svuotamento anche demografico delle zone interne che si è ipotizzato di frenare col terzo polo petrolchimico della media valle del Tirso a Ottana; la marginalizzazione sulle coste del turismo, escludendo quasi del tutto il turismo montano. 22 – Di grande rilievo l’avvertimento sulla necessità di evitare l’impatto violento tra cultura locale e cultura industrializzata per cui la crescita pastorale potrebbe diventare un meccanismo contro la conflittualità causa pur essa di comportamenti devianti. Posizioni ben diverse, per non dire di condanna, queste della Commissione parlamentare, da quella di un alto teorico della programmazione isolana, nel 1968, in periodo di pieno trionfalismo industrialistico. Egli afferma perentoriamente la necessità e l’urgenza di travolgere il mondo pastorale legato a pratiche delittuose e di puntare esclusivamente su industrie ad alta tecnologia; di evitare il ricorso alle tradizionali industrie trasformatrici dei prodotti agricoli; di procurare un intervento moderno completamente alienato dall’ambiente circostante; di travolgere i gruppi di potere locale, la “piccola borghesia economica locale”. Il “miracolo industriale” unico mezzo ed esclusivo termine di sviluppo e di rinascita della Sardegna e dei sardi. Si oppone, d’altra parte, che l’industrialismo è un fatto nuovo, una realtà, che non va esaltata ma nemmeno denigrata da posizioni arretrate e conservative. Bisognerà introdurvi una misura morale che superi il gretto economicismo per coordinarsi in un rapporto corretto, col retroterra umano contadino e pastorale che è pronto anche a contrastarlo e rifiutarlo. Si auspica un’interazione pacifica tra le due culture urbana e rurale, l’una borghese – capitalistica e l’altra preborghese e comunitaria. Da evitare un’acculturazione violenta così da essere immaginata – e di fatto realizzata – come un fatto di colonizzazione. Il discorso si riferiva in particolare e soprattutto al terzo polo petrolchimico, quello della piana di Ottana, area destinata in origine ad agricoltura irrigua e pastorizia stanziale. L’evento industriale di base – di Stato e privato – vi si era intromesso in modo improprio, per non dire traumatico. Ottana nello scenario petrolchimico era un’anomalia, una scheggia deviata, e già all’origine a rischio. La collocazione nel cuore d’una struttura antropologica “arcaica” con una società comportante valori ma anche disvalori che l’industria avrebbe dovuto risanare, ancorata a codici e a regole comportamentali, a ritmi di vita e di lavoro diversi se non contrastanti la cultura di “fabbrica”, non poteva non porre dei problemi al di là delle speranze e dello stesso ottimismo che pure si erano ingenerati in molti (non in tutti). L’anomalia, l’eccezione “Ottana”, e la mescolanza e la divaricazione, il contrasto interiore e intellettuale sino alla polemica accesa tra le due culture (tra padroni e operai) si rivelarono via via nel percorso dell’attività industriale. Il personale operaio, derivante dal bacino “barbaricino”, portava nella fabbrica lo spirito di indipendenza e il mito eroico del balente che, uniti alla socialità di classe, lo rendevano naturalmente “antagonista” rispetto alla dirigenza. Non accettava la sudditanza al sindacato avendo punto di riferimento e di azione, assai dura, nel Consiglio di fabbrica. Vivevano in lui due anime, quella dell’operaio e del pastore. Alternava la tuta al gambale, alla frontiera tra stivale e mocassino. Rifiutava l’albergo operaio a bocca di fabbrica per riportarsi quotidianamente al focolare domestico nel paese anche lontano dove si è mantenuto un po’ di pecore caso mai servissero in tempi bui (ciò che poi è avvenuto). Aperto alle ali del nuovo, non tradisce le radici. La gente dice che Ottana è una “cattedrale nel deserto”, ma lui si conforta perché la vede circondata, in funzione salvifica da “cori” di pecore. L’eccezione Ottana fallisce nel processo di “verticalizzazione”, nelle industrie derivate “a valle” del “polo”. Queste vengono rifiutate (Lula), o vedono presto spente le ciminiere (Bitti) o le fabbriche iniziate sono subito interrotte, configurando con i lacerti murari un paesaggio ruderistico (Sarcidano). Il “miracolo industriale” a Ottana diventa luttuoso, tale da meritare un epicedio. 23 – Proprio quando, nel 1968, si presenta nell’isola la novità dell’industrialismo, che accende entusiasmi di sviluppo e di progresso, si avverte un allarmante abbassamento della temperatura regionalistica. Una parabola discendente, un grave momento di crisi proveniente dall’esterno e complicato da difficoltà interne che determinano confusione e scetticismo nella gente. L’Istituto autonomistico, la Regione statutaria è sfiduciata dalle popolazioni scarsamente sensibili ai suoi problemi fondamentali e alle attività delle sue rappresentanze politiche. Alla perdita della vocazione regionalistica e autonomistica corrisponde, all’opposto, qualunquismo e nostalgie “unitariste”. Vale la pena registrare alcune voci del dissenso autonomistico, nel 1969. Un esponente cagliaritano del movimento studentesco: “La Regione con l’autonomia è un organismo di mediazione e di equilibrio per la classe degli sfruttatori”…”L’autonomia appare come il simbolo del potere, e non come una meta da raggiungere”… “Parlare di rilancio dell’autonomia non ha interesse”. Altre definizioni dell’autonomia: “folklore”, “pseudoproblema”, “svago di colletti bianchi”, “strumento di repressione”, “necessità dello Stato borghese”. Infine la contestazione alle linee politiche autonomistiche tradizionali. Ecco la critica d’una frangia deviazionistica del maggior partito dell’opposizione di sinistra alla politica “di unità autonomistica”: “E’ fallita la politica di unità autonomistica basata sull’ipotesi di derivazione sardista di unità di tutto il popolo sardo contro lo Stato sfruttatore”. Questa frase rimbalza, come tolta di peso, in un recente documento di un noto “Centro di cultura” cagliaritano, che raccoglie gruppi di intellettuali dei vari “dissensi”. Più in generale, tra i giovani, vi è indifferenza, per non dire noia, verso il tema autonomistico. La loro tensione si indirizza ai grandi universali temi di fondo del mondo contemporaneo, stemperando il regionalismo e il nazionalismo (e lo stesso concetto di nazionalità) nell’ecumenismo, nuovi ideali comuni alla gioventù intellettuale di quasi tutti i Paesi, sviluppati e sottosviluppati. 24 – Posizioni e dichiarazioni queste (ed altre negative) che non possono non allarmare e preoccupare gli autonomisti, intellettuali e politici, lo stesso Consiglio regionale direttamente investito dalla querelle. Esse invitano al dibattito e sollecitano misure di guardia e di rinnovamento. Sono gli intellettuali di diversa estrazione ideologica, a muovere per primi, già dal 1967, la discussione nelle loro Riviste: “Rinascita sarda”, “Il Democratico”, “Ichnusa”, “Autonomia Cronache”. Il tema in discussione è ancora una volta, la “questione sarda” e la costituzione regionalistica fondata sull’autonomia e la democrazia. In “Rinascita sarda”, si pone l’esigenza di superare il regionalismo inteso nella funzione soltanto negativa di argine di resistenza allo Stato italiano, ed emergono tre teorizzazioni in proposito: regionalismo come strumento per rafforzare l’unità dello Stato (G. Sotgiu), sardismo – paraindipendetismo (A. Congiu), “questione” nell’esclusivo spazio culturale fuori dalle ortodossie ideologiche e partitiche. L’esperienza del “Democratico” è volta a introdurre nella politica regionale e nel contesto culturale dell’autonomia forze giovani urbane e rurali (e specie rurali) superando la vecchia generazione politica di estrazione soprattutto cittadina (“Giovani turchi”). “Ichnusa” si propone di aprire un dialogo culturale sui problemi molteplici della “questione” e farla andare avanti in un marcato e sempre presente rapporto politica – cultura. Necessità di sprovincializzare la politica tradizionale e accettare l’industrialismo e la civiltà tecnologica, denunziando, nel contempo, i pericoli per la società sarda del neocapitalismo avanzato, giunto anche nell’isola. In “Autonomia – Cronache”, la “questione” è vista come ricerca all’interno dell’isola di concezioni, motivi e fattori validi originali per rinfrescare e vivificare, oltre che caratterizzare di sardo, l’autonomia. Punto nodale è quello dell’individuazione e del riconoscimento d’una realtà storico – culturale nativa, quale è l’area arcaica delle zone interne e, più in particolare, l’area barbaricina, cioè l’area dell’autentico sardismo etnico e culturale, incrostato di folklore, cioè di cultura popolare. 25 – Nella seduta del Consiglio regionale del 2 ottobre 1967, il Presidente, democristiano, Giovanni del Rio pone in termini espliciti ed ufficializza il tema del separatismo sardo. Questo viene ripreso nel quotidiano sassarese del 10 ottobre dall’intellettuale leader del Partito sardo d’azione Antonio Simon Mossa, inteso come ratio per una nuova spinta autonomistica del popolo sardo. Autonomia politica, indipendentismo e separatismo – egli scrive – hanno lo stesso significato. Più tardi, in “Sardegna Libera”, (Sassari, a.1, n.2, aprile 1971, p.8 sgg.), precisa il suo pensiero politico che in parte ricalca quello di C. Bellieni e E. Lussu. Vi si riconoscono anche stimoli dell’azionismo risorgimentale applicato alla Sardegna e fermenti di oltranzismo sindacale – rivoluzionario, in una prospettiva di Stato repubblicano italiano federalista, tendenzialmente proteso all’autonomia politica (quasi all’indipendentismo) dell’isola, fondata sulla riforma sociale di tipo “laborista”. Il movimento di riscatto sardo, la rivoluzione sarda, coincide con quello mondiale dei popoli oppressi dal colonialismo. Ha il significato non solo di emancipazione economica e sociale di una classe (il proletariato sardo) ma anche, se soprattutto, di libertà dell’intero popolo sardo: cioè ha senso etnico, etico e culturale, oltre che politico. Se ciò non si potrà ottenere con una riforma costituzionale, è da realizzare per altre vie: la resistenza passiva e la non obbedienza (violenza armata). Accogliendo in parte queste tesi del Simon Mossa, la frazione degli indipendentisti del Partito sardo d’azione si danno appuntamento a Lula, il 26 novembre 1967. Qui viene definita la linea ideologica e strategica del sardismo in seno istituzionale e sociale, concependo l’unificazione sul terreno degli schieramenti e legittimando la posizione indipendentistica. La maggioranza dello stesso Partito, assente la minoranza, nel congresso, celebratosi nel salone della Fiera di Cagliari nel 24/25 febbraio 1968, approva un nuovo statuto del Partito in senso federalistico che abbia come meta il riconoscimento dell’autonomia statuale della Sardegna nell’ambito dello statuto italiano concepito come Repubblica federale, e nella prospettiva della Confederazione europea. 26 – Se con la riforma statutaria del proprio partito i Sardisti non si riconoscono più, in conseguenza, nello Statuto regionale del 26 febbraio 1948, questo viene contestato e ritenuto superato da loro e da altre forze e voci politiche nel Consiglio regionale. Uno Statuto speciale – si dice – involutosi e degradato, “normale”, anzi più normale degli statuti normali delle Regioni ordinarie, da poco costituitesi e già funzionanti con poteri maggiori e adeguati ai tempi, di quelli – infimi – contenuti nella Carta sarda. Nel raggiunto assetto regionalistico dello Stato italiano, perché la specialità sarda abbia senso e prospettive sicure e manovra di libertà, urge rompere la situazione di stallo e di conservazione delle strutture politiche – giuridiche in atto con mutamenti costituzionali. Occorre seguire una nuova via e stabilire un ordine nuovo, dare vero significato ed effetto all’autonomia, alla rinascita, alla liberazione, uscendo dall’esperimento dell’autonomia statutaria conseguita, ormai lontana ed obsoleta, prevalentemente burocratica e di mediazione, per attingere un vero potere, governare in stato di sovranità. Con questi intenti, in seduta del Consiglio regionale del 22 ottobre 1971 (IV Legislatura), furono presentati, da varie parti, ordini del giorno a conclusione del dibattito sui rapporti tra Stato e Regione. Vi si espressero istanze per prospettare al Parlamento nazionale i problemi relativi alla mancata attribuzione alla Regione sarda delle maggiori competenze di cui all’art. 117 della Costituzione al fine di predisporre adeguate iniziative politiche e giuridiche. Nel ripensamento critico dell’autonomia legato strettamente alla revisione dello Statuto speciale sardo, anche per rendere integrale l’attuazione dell’ordinamento regionalistico dello Stato previsto dall’art. V della costituzione repubblicana, si faceva sollecitudine per costituire un Comitato di esperti di diritto costituzionale da affiancare a una Commissione della Regione. Ciò al fine di elaborare un nuovo testo di Statuto speciale per la Sardegna da proporre alla discussione e alla approvazione dell’Assemblea. 27 – Il 28 febbraio del 1971, mentre nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Ateneo cagliaritano va sbollendo l’ira devastante degli studenti del ’68, il Consiglio dei docenti – sardi e peninsulari unanimi – firma un documento in allora esplosivo e che richiama l’attenzione dei servizi segreti. La Facoltà è invitata, al fine di promuovere i valori autentici della cultura isolana, primo fra tutti quello dell’autonomia e provocare un salto di qualità senza un’acculturazione di tipo colonialistico ed il superamento dei dislivelli di cultura, ad assumere l’iniziativa di proporre alle autorità politiche della Regione autonoma e dello Stato il riconoscimento della condizione di minoranza etnico – linguistica per la Sardegna e della lingua sarda come lingua “nazionale” della minoranza. Di conseguenza è opportuno disporre tutti i provvedimenti a livello scolastico per la difesa e la conservazione dei valori tradizionali della lingua e della cultura sarde. In ogni caso tali provvedimenti dovranno comprendere, a livelli minimi dell’istruzione, la partenza dall’insegnamento del sardo e dei vari dialetti parlati in Sardegna, l’insegnamento nelle scuole dell’obbligo riservato ai sardi e a coloro che dimostrino un’adeguata conoscenza del sardo, e di tutti quegli altri provvedimenti atti a garantire la conservazione dei valori tradizionali e della cultura sarda. La delibera del Consiglio vuole essere un’iniziativa motivata per realizzare in Sardegna una vera scuola, una vera rinascita, in un rapporto di competizione culturale con lo Stato, che arricchisce la nazione. La delibera dei docenti della Facoltà di Lettere anticipava di un anno le considerazioni sulla cultura e la scuola in Sardegna, fatte dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sui fenomeni di criminalità nell’isola. Sarebbe un errore – si scriveva – il ritenere che il compito della scuola in Barbagia, debba essere quello di mortificare o addirittura di uccidere la cultura barbaricina, opponendo modelli stranieri i quali, adeguati ad altre realtà, servirebbero soprattutto ad acuire i contrasti. Si giudicava necessario che i sardi conservassero e facessero agire le esperienze e le tradizioni, cioè confrontandola col patrimonio culturale del mondo contemporaneo. E si auspicava una scuola che non sradicasse i sardi dal loro ambito, ma, al contrario, li mettesse nelle condizioni di meglio comprendere gli autentici valori, anche ai fini professionali e di lavoro da esercitare in un particolare terreno quale quello isolano. Il giorno 27 settembre del 1971, stimolati dal documento del Consiglio della Facoltà di Lettere, sardisti di ogni colore decidevano a Nuoro, nel circolo culturale “L. Milani” di costituire l’ “Associazione per la difesa della lingua e della cultura sarda”. Al termine dei lavori, fu approvato un testo nel quale, fra l’altro, si richiamava il Governo nazionale ad applicare alla Sardegna l’art. 6 della Costituzione italiana che “tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”. 28 – L’autorità politica e il Consiglio regionale non potevano rimanere estranei al nuovo clima che per l’autonomia e la rinascita poneva a fondamento e spinta la cultura sarda, ignorata in precedenza. Nella seduta del Consiglio regionale del 24 marzo 1970, consiglieri di parti diverse considerano essere giunto il momento di attivarsi per avocare alla Regione, con la modifica dello Statuto, almeno la competenza in materia dell’istruzione primaria e della scuola dell’obbligo. Nelle scuole di Stato non si tiene conto delle radici, anzi le si ignora e le si disprezza. Vi è in atto una sottile manovra di desardizzazione, con l’emarginare la lingua, la cultura, i costumi, i valori locali che costituiscono la sorgente primitiva dell’autonomia politica e di tutte le libertà. Una scuola di base regionalizzata può scongiurare i pericoli di attentato alla nostra entità minoritaria. Può, inoltre, risolvere il problema congiunturale dell’occupazione intellettuale e quelli sostanziali che si riferiscono all’organizzazione e alla diffusione della scuola in Sardegna, secondo ben precisi parametri fissati dalla Regione sulle linee d’una politica avanzata e aperta, salva l’autonomia della docenza. Insomma una nuova cultura per una nuova Regione, impegnata e calata nella realtà della società sarda sin nei luoghi più remoti, a livello di popolo che sente e sa il valore culturale, fondamento della sua identità. Vanno oltre l’istanza di competenza primaria nelle scuole elementari e dell’obbligo le sollecitazioni per l’autonomia emerse nella seduta del Consiglio del 25 gennaio 1972. Si chiede la pari dignità di lingua sarda e lingua italiana, il bilinguismo perfetto; il riconoscimento della Sardegna come entità etnolinguistica minoritaria, in base all’articolo 6 della Costituzione italiana; la liberazione del colonialismo dei mass media nazionali e la regionalizzazione della TV. 29 – Nell’intento di restaurazione dell’autonomia languente, il Governo regionale, conta anche su due strutture culturali. Con la legge 11 agosto 1970, n. 20, sostenta con specifico finanziamento, la scuola di specializzazione in studi sardi annessa alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Cagliari, istituita con D.P.R. del 20 maggio 1966, n. 431. La scuola si propone di studiare la realtà sarda negli aspetti culturali e politici, promuovendo le conoscenze con una corretta divulgazione che esca fuori dalle chiuse accademie. Vuole concorrere alla formazione di quadri intellettuali, su base regionale, dai quali estrarre elementi d’una nuova classe dirigente atta a risolvere la crisi dell’autonomia e a rilanciarla dando un tono alto alla politica di rinascita. Con la legge regionale n. 26 del 5 luglio 1972 nasceva a Nuoro l’Istituto superiore regionale etnografico con gli annessi Musei del Costume (avente il nuovo titolo di Museo della vita e delle tradizioni popolari) e della Casa Grazia Deledda, nel centenario della nascita della grande scrittrice nuorese. L’Istituto voleva essere una risposta culturale alle indicazioni della Commissione parlamentare sui fenomeni di criminalità nell’isola, e in particolare nelle zone interne, con una struttura destinata a studiare i problemi che affannavano il cammino di quell’area arcaica, a cultura barbaricina, e a dipanare le cause della sua questione all’interno della generale questione sarda. Si trattava di approfondire lo studio di quella singolare zona antropologica, a forte connotazione tradizionale, che, nel momento, veniva a incontrarsi e scontrarsi con la cultura dell’industrialismo, con effetti positivi ma anche perversi. 30 – Da quanto detto appare che gli anni 1968/1972 segnano da una parte il tormento dell’autonomia e dall’altra la percezione della crisi e il proporsi di intenti, taluni radicali, e di atti, se pur pochi, ora fondati sulla base culturale, che si ritengono rigeneratori, per nuovi percorsi, dell’istanza autonomistica. In questa prospettiva, pur permanendo la crisi generale del meccanismo di sviluppo, l’insufficienza dei programmi, la stretta internazionale, il governo regionale del tempo, abbandonata la linea politica remissiva, della così detta “contestazione” del”66, nel 1974 apriva decisamente la vertenza Sardegna nei confronti dello Stato diventato “separatista” alla rovescia rispetto alla Regione. Si poneva in veste nuova la “questione sarda” non ancora risolta. Nonostante così buoni auspici, il quadriennio 1974-1978 non riesce a produrre e a stabilire un diverso e più avanzato rapporto con lo Stato, una dialettica efficace. L’incipiente degenerazione del tessuto dei partiti tendenti ad accordi di vertice, l’assemblearismo, i blocchi strumentali portano i governi a impigliarsi in una rete regressiva da cui non riescono a uscire, adagiandosi in un alternarsi di pure formule: dal centro sinistra al monocolore, in quelle della “non sfiducia”, dell’intesa, della “unità autonomistica di base sardista”, del “compromesso in fiore”. Condizione, dunque, di governo regionale di instabilità e di indecisione, se non di stallo, indisponibile a raccogliere, non si dice a soddisfare, la domanda di autonomia che saliva forte e diffusa dall’esterno: da circoli di intellettuali “disorganici”, da movimenti politici estrapartitici, da frange volontaristiche della società sarda. 31 – In data 16 dicembre 1974 il Preside inviava una lettera ufficiale a tutti i Sindaci dei Comuni della Sardegna, richiamando l’attenzione sul documento della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Ateneo di Cagliari del 19/02/1971, per esprimere un parere o un’adesione all’iniziativa della Facoltà. Nel corso del 1975 e 1976 pervennero delibere di adesione di 28 Consigli comunali delle 4 Province dell’isola. Si dovevano inoltre registrare una serie di altri consensi e iniziative del mondo della scuola e dei circoli e federazioni culturali. Nell’autunno del 1975, a Ozieri, si costituiva un Comitato provvisorio di iniziativa e coordinamento per la lingua e la cultura sarda con successivi incontri a Ozieri, San Sperate e Bauladu. All’atto della costituzione il Comitato predispone una bozza di statuto della costituenda “Associazione per la lingua e la cultura sarda”. Negli anni 1975 e 1976 è stato vivo e notevolmente animato il dibattito, a serrato confronto, nei quotidiani e periodici dell’isola, con interventi assai significativi e incidenti sulla conoscenza della questione. In questi atti di istituzioni decentrate, a livello locale, e nelle iniziative nelle sedi scolastiche e negli spazi culturali, si coglie da una parte una posizione politica e dall’altra il formarsi d’una opinione di massa che preme sull’istituto regionale perché si attivi nel rivendicare il riconoscimento di minoranza etnica – linguistica per la Sardegna e la tutela, anche attraverso l’insegnamento nelle scuole di ogni ordine e grado, della lingua e della cultura sarda. Ma ben più forte e decisiva è l’azione di stimolo e di spinta propulsiva alla Regione, dovuta al sorgere e costituirsi del movimento “nazionalitario” o “movimento di autocoscienza nazionale sardo”. Vengono infatti superati il sardismo storico del partito sardo d’azione e il sardismo concepito come base dell’unità autonomistica dei sardi. Il movimento si nutre di contenuti etnici, morali, politici, storici, dei valori della “diversità” e di “identità”, caratteristici e fondanti in una terra riconosciuta quale “nazione” a sé stante nello Stato italiano. E’ questo movimento, sono i gruppi di estrazione ideologica e culturale diversa che lo compongono – Su Populu Sardu, Sa Sardigna, Nazione Sarda, Sardegna Europa, “Forze Nuove” che fa capo al periodico “Il Popolo Sardo”-, i “paladini”, i “cavalieri”, i “signori dell’autonomia”, in termine di autodeterminazione del popolo sardo. E’ dal Movimento nazionalitario sardo che, elaborata e poi presentata e approvata a Nuoro nel dicembre del 1977, viene la proposta di legge “Iniziativa legislativa del Consiglio regionale della Sardegna dinanzi al Parlamento a norma dell’articolo 51 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. l, a presentare al Parlamento una proposta di legge per la tutela della Minoranza linguistica sarda in applicazione dell’art. 6 della Costituzione della Repubblica. Si chiedeva il riconoscimento al sardo degli stessi diritti della lingua italiana nonché il suo uso non soltanto nella scuola ma anche negli organi e uffici della pubblica amministrazione e nelle adunanze degli stessi (Regione, Province ed altri enti locali). Il 13 luglio del 1978 la proposta di legge fu presentata al Consiglio regionale, accompagnandola con 13.540 firme di elettori. Ma in aula non ebbe il consenso dei Consiglieri. Veniva così a scoprirsi (al di là degli infingimenti) quanto in basso fosse scesa la temperatura dell’autonomia divenuta un orpello in quel consesso e la pochezza dei componenti privi di cultura autonomistica e, peggio, senza coscienza nazionale, senso di appartenenza e orgoglio di sardi. Lo stesso Consiglio credette di rimediare il malfatto, dopo 4 anni, il 9 aprile 1982, con un provvedimento legislativo di iniziativa consiliare, anodino, criptico e già in partenza inefficace, affermante il principio di parità giuridica della lingua sarda rispetto a quelle italiana. Chiedeva inoltre al Parlamento italiano il riconoscimento del sistema del bilinguismo e la sua attuazione successiva con la legge della Regione, cosa costituzionalmente impraticabile. Netto rifiuto, a stragrande maggioranza, nella prima Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati, in quanto la legge regionale andava oltre il concetto di tutela dell’articolo 6 della Costituzione e anche – è da presumere – per “l’imbroglio” di quel tardivo e immaturo parto legislativo. 32 – Tale era la situazione quando, svegliata dalla Commissione europea, la Regione si indusse a celebrare a Nuoro e poi ad Alghero, dal 2 al 5 di ottobre del 1986, un convegno con tema “Lingue diffuse e i mezzi di informazione: problemi delle radio – televisioni”. Il convegno fece voti perché il governo italiano volesse ascoltare le istanze prodotte da movimenti di minoranze etnolinguistiche, come la sarda, aspiranti ad un appagamento delle ragioni della loro identità storica e al loro riconoscimento. Ciò si chiedeva tenuto conto anche del voto del Parlamento europeo che, nella seduta del 16 ottobre 1981, aveva approvato la proposta di risoluzione su d’una Carta comunitaria delle lingue e delle culture regionali e una Carta dei diritti delle minoranze etniche. Il parlamento europeo si rivolgeva ai governi nazionali e ai poteri regionali invitandoli a porre in opera una politica nei campi dell’istruzione, dei mezzi di comunicazione di massa, della vita pubblica e dei rapporti sociali. Indicava inoltre alla Commissione (ossia al Governo) della Comunità europea di prevedere, nel quadro dell’educazione linguistica, progetti – pilota destinati a verificare i metodi di educazione plurilinguistici e raccomandava che il Fondo regionale finanziasse progetti rivolti a sostenere le culture regionali e popolari e a soddisfare le aspettative delle minoranze etniche e linguistiche europee. Per di più, il Parlamento europeo riteneva che la presenza dei mezzi di comunicazione di massa, tanto potenti, fossero indispensabili per un buon esito e, in generale, perché le minoranze etniche – linguistiche avessero strumenti di sostegno e di comunicazione delle loro culture. Si doveva assicurare, dove non ancora possibile, il diritto delle minoranze ad accedere alla radio e alla televisione con programmi autonomi e nella propria lingua, non limitati ai notiziari, ma estesi a tutti i settori nei quali le minoranze possono manifestare, nel confronto aperto, le loro specifiche culture. Nonostante le istanze, raccomandazioni, proposte emerse nel Convegno internazionale di Nuoro – Alghero, l’odissea della lingua sarda continuò senza ascolto. Soltanto nel 1989 fu presentato al Consiglio regionale della Sardegna un disegno di legge su “Lingua e cultura sarda”. Cadde in assemblea. Sui consiglieri più che la lingua poté la caccia al voto per la successiva legislatura. Nuova proposta su “Lingua e cultura” nel 1994, approvata dal Consiglio regionale con risicata maggioranza, respinta dal Governo italiano e dalla Corte Costituzionale alla quale la Regione aveva ricorso. Infine, nuovo testo di disegno di legge nel febbraio del 1995, approvato dal Consiglio con i voti dell’intera maggioranza e di gran parte della minoranza. Approvato anche dal Governo italiano nel 1997, dopo venti anni dalla prima proposta di legge nazionale di iniziativa popolare del 13 luglio 1978. 33 – La legge regionale n. 26 del 15 ottobre del 1997, consente di riconoscere qualche merito alla Regione, dopo tante incomprensioni, opposizioni e demeriti. Al fine ha risposto agli stimoli e alle insistenze venute da forze culturali e politiche, dai media, dai sindacati e da esponenti avvertiti della società civile sarda. Insomma, la coscienza dei valori di radice ha toccato anche l’istituto regionale per lungo tempo inerte e sordo agli appelli. E’ riemerso dal profondo delle origini il valore dell’identità del popolo sardo. Una vittoria dell’autonomia innata nel codice genetico dei sardi. A fondamento della legge n. 26 sta “l’assunzione dell’identità del popolo sardo come bene da valorizzare come presupposto fondamentale di ogni intervento rivolto al progresso personale e sociale”. Come “bene fondamentale” la lingua sarda è inscritta nell’articolo 2 del titolo I, riconoscendole “pari dignità rispetto alla lingua italiana”. La Regione pone la lingua sarda quale parte integrante della sua azione politica con impegno conforme ai principi di pari dignità e del pluralismo linguistico sanciti dalla Costituzione e a quelli che sono alla base della Carta dei diritti delle minoranze etniche. Il dispositivo della legge, quanto all’insegnamento della lingua nelle scuole sarde, prevede soltanto una forma di sperimentazione sullo studio della stessa con progetti formativi da adottare nelle scuole materna, elementare e superiore, nell’ambito dell’esercizio dell’autonomia didattica. Si potrà inoltre usare la lingua sarda come strumento veicolare in tutte le aree formative, in tutti gli ambiti disciplinari, e formulare programmi educativi biculturali e bilingui. Quanto ottenuto non è di certo tutto quello che si chiedeva e si chiede. Non è appagata l’istanza primaria, cioè l’insegnamento della lingua e la lingua sarda usata anche nell’apprendimento delle varie discipline. Insomma il bilinguismo è ben lontano dalla realizzazione. Ma lingua e cultura sarda escono dalla clandestinità e sono riconosciute e garantite con un atto formale che consente di operare legittimamente nella scuola e altri spazi, seppure angusti. L’orizzonte operativo in autonomia viene ora allargato e la ragione fondamentale della rivendicazione per la Sardegna di entità etnica – linguistica minoritaria è stata soddisfatta dalla legge nazionale sulla tutela delle minoranze etniche linguistiche nel nostro paese, approvata dai due rami del Parlamento e promulgata in questo anno 1999: anno “benedetto” per lo specifico, ultimo dello sciagurato “secolo breve”. Ce ne è voluto del tempo – ventotto anni – per vincere una giusta causa sollevata dalla delibera, ormai diventata storica, della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Ateneo cagliaritano adottata il giorno 28 febbraio del 1971. Questi due provvedimenti legislativi, tanto sofferti nella lunga attesa, e che ora ci sono, segnano eventi memorabili nella storia della autonomia sarda. Essi vengono a compensare amarezze e delusioni per le non poche defaillances alternate a non molti successi della Regione statutaria di cui or e da poco, si è celebrata la ricorrenza cinquantennale con toni purtroppo non esaltanti. L’autonomia regionale, arricchita da questi nuovi e fondati contenuti, può aprirsi a compiuti traguardi, segnare una svolta uscendo dal buio che oggi la avvolge per circostanze ambientali e debolezze politiche, e rilanciarsi per operare per il bene dell’isola. Occorre superare l’attuale sconcerto, richiamandosi, per conforto, alla memoria storica e al suo percorso millenario su due “costanti”: la “costante resistenziale” e la “costante autonomistica”. Quest’ultima è assimilabile a un corso d’acqua in un terreno carsico, che per lo più fluisce all’aperto e ravviva la terra e la gente e la fa crescere liberamente, ma a tratti si ingrossa sfuggendo a cose estranee che tendono a corromperlo e ad essicarlo, per riemergere quando il pericolo è cessato. Nel senso di questa metafora, va l’augurio che la Regione sarda si imbarchi, navigando serenamente verso il III millennio, e che, giunta a quel porto, riprenda il cammino, per vie nuove, e le opere sino a quando, sentendosi giunta al termine, si tramuti da Regione in Nazione. La rifondazione dell’Università di Sassari e il rinnovamento degli studi nel Settecento di Piero Sanna 1. La crisi culturale e l’assolutismo sabaudo Nei primi anni sessanta del Settecento, mentre il governo sabaudo si disponeva a completare la riforma delle scuole del Regno di Sardegna1, le inchieste sulle Università di Cagliari e di Sassari mettevano definitivamente a nudo le condizioni di crisi in cui versavano i due antichi atenei dell’isola. La crisi aveva radici comuni, ma la situazione dell’Università di Sassari, nella quale il locale Collegio dei gesuiti monopolizzava la direzione e la gestione accademica dello Studio generale, apparve ben presto politicamente più spinosa di quella cagliaritana, governata dalla municipalità e da una pluralità di corpi e istituzioni che finiva per renderla più permeabile all’iniziativa regia. In effetti la realtà sassarese presentava alcune vistose distorsioni che i funzionari sabaudi non esitavano a ricondurre alla debolezza delle risorse locali e soprattutto al pesante condizionamento dei gesuiti nel governo dell’ateneo: non era un caso che l’autonomia delle facoltà laiche di leggi e medicina fosse ridotta al lumicino e che l’unica parvenza di attività didattica riguardasse i corsi di filosofia e teologia. A Sassari, infatti, in base agli atti fondativi dell’antico Studio, il rettore del Collegio massimo di San Giuseppe era anche, di diritto, il rettore dell’università: sicché, in virtù della duplice carica, l’energico padre Francesco Tocco non si faceva scrupolo di governare l’ateneo come una semplice appendice della comunità gesuitica. Dalla direzione dell’università risultava pertanto sostanzialmente emarginato quell’organo collegiale, il Magistrato della riforma, composto dal governatore del Capo settentrionale dell’isola, da due giudici togati e da due rappresentanti della municipalità, che era stato istituito nel 1738 da Carlo Emanuele III proprio per imbrigliare l’operato del rettore e far sentire la giurisdizione regia negli indirizzi e nel concreto funzionamento dello Studio generale. Peraltro, nello stesso provvedimento che disponeva la costituzione del Magistrato della riforma l’assenza di un adeguato contrappeso regio all’autorità del rettore era esplicitamente indicata come il vero punto debole – naturalmente secondo l’ottica del sovrano sabaudo – degli originari statuti di età spagnola: «essere l’Università di Sassari da’ Reali nostri predecessori […] eretta nel Collegio massimo di San Giuseppe de’ padri gesuiti, senza che […] il bon governo de’ studi dipenda da un Magistrato il quale ne promuova sempre il bene, e in un tempo protegga li professori e la studiosa gioventù»2. Certo, negli anni seguenti il Magistrato della riforma fu convocato ogniqualvolta il suo parere era obbligatoriamente prescritto, ma le disposizioni che dovevano consentirgli di esercitare l’autorità regia furono sordamente osteggiate dal rettore e dai docenti gesuiti che le vivevano come indebite interferenze3. Il predominio della piccola ma agguerrita comunità gesuitica locale si faceva sentire soprattutto sul piano didattico. Appannaggio indiscusso dei membri della Compagnia erano infatti non solo le due cattedre di teologia scolastica e quelle di filosofia, di teologia morale e di sacra scrittura, ma anche quella, assai disputata e contesa, di sacri canoni, che nel passato veniva assegnata a docenti secolari, o anche ecclesiastici ma non appartenenti alla Compagnia, e che invece era ormai diventata prerogativa esclusiva dei membri del locale collegio dell’ordine. Accanto alle sei cattedre riservate ai gesuiti, solo quattro, due di ius civile e due di medicina, erano affidate a docenti laici, spesso discrezionalmente ingaggiati dal rettore e direttamente pagati dal Collegio, che dalle sue rendite era tenuto a ricavare gli «stipendia quatuor cathedraticorum externorum qui in hac Universitate ius civile medicinamque exponunt ac interpretantur»4. Raramente, però, nello Studio sassarese si tenevano lezioni pubbliche. Secondo le informazioni pervenute a Torino, alcuni corsi andavano totalmente deserti, mentre altri erano frequentati unicamente dai pochi studenti interni al collegio; i docenti gesuiti non redigevano i trattati prescritti per le lezioni, e i professori laici di legge e medicina si limitavano a ricevere gli studenti «nelle proprie case». Ce n’era abbastanza per far inorridire i magistrati e i funzionari sabaudi che avevano ben presente l’ordinato sistema dei corsi e degli esami pubblici su cui si fondava la vita accademica dell’Ateneo torinese. Eppure il distacco della concessione dei gradi accademici da un’effettiva attività di insegnamento e la sostituzione dei corsi ufficiali con un praticantato professionale basato su lezioni domestiche rappresentavano una caratteristica comune a molti atenei italiani alla vigilia delle riforme universitarie del secondo Settecento5. Era semmai l’Ateneo torinese precocemente riformato da Vittorio Amedeo II a costituire una vistosa anomalia rispetto all’infiacchita attività didattica che caratterizzava non soltanto gli atenei minori o periferici ma anche le università più importanti da Pavia a Milano, da Bologna a Roma a Napoli. Ma due particolari assai significativi, al di là dello svuotamento dei corsi universitari, attiravano l’attenzione dei funzionari sabaudi: nell’organico docente dello Studio sassarese non erano previste «né la cattedra di Chirurgia né quella di Geometria»; e – punto particolarmente dolente – il delicato insegnamento del diritto canonico era in mano a «soggetti in apparenza insufficienti»6. Insomma, la situazione, come riferiva l’autorevole funzionario della segreteria di guerra Antonio Bongino, appariva così compromessa da giustificare l’idea, attentamente esaminata dal ministero torinese, che convenisse sopprimere le facoltà di leggi e medicina per concentrare le risorse e gli interventi sull’Università di Cagliari, facendovi convergere gli studenti di ogni parte dell’isola7. La proposta presentava diversi inconvenienti, ma era la riprova del tentativo, che stava già maturando negli ambienti governativi, di affrontare la crisi dell’Ateneo sassarese all’interno di un ripensamento complessivo del sistema dell’istruzione superiore del Regno. È, in sostanza, la grande novità che contraddistingue le riforme scolastiche e universitarie degli anni sessanta del Settecento: per la prima volta nella storia del Regno i problemi della formazione delle élites dirigenti erano oggetto di un approccio tendenzialmente unitario che differenziava alcune soluzioni, ma puntava a un intervento organico e uniforme. In effetti il degrado degli studi nelle Università di Sassari e di Cagliari rifletteva una crisi culturale più profonda che durava ormai da molti decenni. I primi segni della crisi (un crescente disorientamento che aveva contemporaneamente colpito l’ateneo di Napoli e i principali centri intellettuali dell’Italia spagnola) si erano manifestati nella seconda metà del Seicento, quando il declino della monarchia cattolica e la diminuita capacità di integrazione delle sue istituzioni politiche e culturali avevano innescato un processo di decadenza che si era inevitabilmente accentuato con le tumultuose vicende della guerra di successione spagnola, dell’occupazione austriaca dell’isola, della riconquista borbonica e dell’insediamento sabaudo8. Ma, al di là delle vicissitudini dei primi decenni del XVIII secolo, la crisi d’identità dei due atenei divenne irreversibile sotto la dominazione piemontese, quando la definitiva rottura di tutti i vincoli che legavano gli ambienti culturali sardi al mondo iberico determinò il progressivo inaridimento di quei canali di scambio e di circolazione delle idee da cui la cultura accademica e le élites intellettuali dell’isola avevano tradizionalmente tratto stimoli e sollecitazioni9. In diverse occasioni, tra gli anni venti e gli anni cinquanta del Settecento, il governo sabaudo aveva dovuto registrare lo scadimento delle attività didattiche, il prevalere delle diatribe provinciali e il progressivo indebolirsi delle funzioni formative delle due università. E tuttavia i rarissimi interventi governativi non erano mai andati al di là di qualche palliativo finalizzato per lo più alla salvaguardia delle prerogative regie di volta in volta minacciate dal particolarismo municipale o dalle pretese dei gesuiti. Il problema della formazione dei ceti intellettuali dell’isola assunse un’importanza del tutto nuova a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, quando il ministro Bogino andò concentrando sotto la sua direzione la trattazione di tutti gli affari riguardanti il regno di Sardegna. Fu allora che la necessità d’intervenire sul sistema dell’istruzione superiore divenne uno dei punti nevralgici di quel disegno riformatore che faceva leva sul potenziamento dell’economia locale e che spingeva ad affrontare con uno spirito radicalmente mutato i principali problemi della società sarda. Un nuovo protagonista, che aveva recitato fino a quel momento una parte marginale, s’imponeva prepotentemente al centro della scena: superate le incertezze e le molteplici cautele del periodo precedente, l’assolutismo sabaudo mostrava di voler mettere a frutto il suo possedimento d’oltremare e di volervi realizzare quelle trasformazioni politiche e sociali che gli ideali della pubblica felicità muratoriana e il cattolicesimo riformatore sabaudo indicavano come architravi dell’azione del principe. Nel corso degli anni Cinquanta la rassicurante fiducia nella praticabilità di un cauto e ordinato riformismo, imperniato sul ruolo dello stato nel rinnovamento dell’istruzione e nell’educazione della gioventù, aveva via via conquistato diversi settori delle élites dominanti subalpine. Sicché all’inizio del decennio successivo il governo di Torino aveva già maturato un chiaro interesse per il buon funzionamento delle università del Regno da cui dipendeva la formazione di una nuova generazione di sudditi, laici ed ecclesiastici, professionalmente preparati e capaci di collaborare con lealtà ed efficacia ai progetti di valorizzazione delle risorse dell’isola10. La stessa riforma delle scuole inferiori, affidata nel 1760 ai gesuiti e agli scolopi, richiedeva una nuova leva di maestri che padroneggiassero la lingua italiana e fossero in grado d’insegnarla insieme con le regole della grammatica e con i contenuti culturali dei nuovi programmi. Di qui la necessità di valorizzare, sulla scorta dell’esperienza subalpina più recente, non solo le facoltà tradizionali di teologia, leggi e medicina, ma anche il Magistero delle arti, nella sua duplice funzione di canale privilegiato per la formazione dei maestri e di strumento di trasmissione di saperi che, utili per diverse figure tecnico-professionali, erano insieme propedeutici agli studi specialistici11. 2. Le linee della riforma Le decisioni che condussero alla rifondazione dell’Ateneo sassarese maturarono in concomitanza con la definizione delle nuove Costituzioni dell’Università di Cagliari, promulgate il 28 giugno 1764, che vennero poi estese all’Università di Sassari con il Diploma e con il Regolamento «particolare» emanati dal sovrano il 4 luglio 176512. Le nuove Costituzioni, elaborate sul modello di quelle dell’Ateneo torinese, ridisegnavano gli organi di governo e l’organizzazione della didattica universitaria, disciplinando i compiti del Magistrato sopra gli studi e regolando la vita delle facoltà, l’organizzazione dei corsi, il conseguimento dei gradi, l’assegnazione delle cattedre e perfino i criteri per la definizione del calendario accademico. Ai ventiquattro articoli del Regolamento «particolare» era affidato il compito di integrare le Costituzioni cagliaritane, adattandole alle peculiarità della realtà sassarese, per la quale occorreva tener conto delle prerogative e del ruolo svoltovi dai gesuiti. Nel caso dell’Università di Sassari l’impostazione regalistica della riforma aveva dovuto infatti fare i conti con la strenua resistenza della comunità gesuitica locale, che richiamandosi agli antichi regolamenti dello Studio, ma più ancora a una tradizione ben consolidata, puntava a conservare la guida e il governo delle istituzioni universitarie. All’opposto, nelle segreterie torinesi e tra i magistrati del Supremo consiglio di Sardegna si era subito radicata la convinzione, saldamente ancorata all’esperienza delle riforme universitarie amedeane (e infine rinforzata dalle incoraggianti esperienze asburgiche), che l’affermazione delle prerogative del principe nel campo dell’istruzione superiore costituisse il presupposto irrinunciabile dei nuovi ordinamenti universitari. La situazione di stallo che si era profilata nel corso del 1763 (e che ritardò notevolmente la riforma sassarese rispetto a quella cagliaritana) si sbloccò soltanto nell’autunno del 1764, quando il ministro Bogino riuscì a costituire un apposito tavolo di trattative a Torino, impegnandovi direttamente un rappresentante della Provincia gesuitica sarda (che a quel tempo faceva ancora parte dell’Assistenza di Spagna), e contemporaneamente scavalcando il Collegio turritano per cointeressare al buon esito dei negoziati la Provincia lombarda, l’Assistenza d’Italia e lo stesso generale della Compagnia. Fu la mossa vincente che consentì di aprire la strada alla riforma che in base alle intese dell’aprile del 1765 poggiava su due punti fondamentali: da un lato l’impegno del sovrano a nominare sei professori gesuiti nelle cattedre assegnate alla Facoltà di teologia (sacra scrittura e lingua ebraica, teologia scolastico-dogmatica e storia ecclesiastica, teologia morale e conferenze) e al Magistero delle arti (geometria e matematiche, e logica e metafisica e fisica sperimentale, i cui titolari ad anni alterni dovevano tenere anche il corso di filosofia morale); dall’altro la rinuncia da parte dei gesuiti alla direzione della vita accademica, affidata ora, in linea con le Costituzioni cagliaritane, al Magistrato sopra gli studi e all’arcivescovo di Sassari, che assumeva la carica di cancelliere dell’ateneo, mentre la Compagnia si obbligava a mettere a disposizione le aule e gli arredi del collegio13. Si delineava, dunque, il singolare paradosso di una riforma universitaria che, all’indomani dell’espulsione dei gesuiti dalla Francia e nel pieno dell’offensiva anticuriale che agitava tutta l’Europa cattolica, riconosceva come colonna portante della funzione docente quella tanto criticata Compagnia di Gesù che era stata definitivamente estromessa dall’Ateneo torinese con le riforme amedeane e che era ormai apertamente osteggiata da diversi governi europei che la indicavano come una pericolosa centrale di sovversione e di oscurantismo. Eppure il capolavoro diplomatico del ministro Bogino, che consentiva di vincere le resistenze dei gesuiti con l’aiuto dei gesuiti, gettava le basi di una riforma largamente innovativa e rigorosamente assolutistica, in cui l’Ordine ignaziano accettava di mettersi a disposizione del sovrano sabaudo offrendogli di attingere al proprio patrimonio, ancora assai cospicuo, di energie intellettuali, di studiosi, di scienziati e soprattutto di insegnanti. Si trattava in realtà di una soluzione molto simile a quella adottata qualche anno prima, nel 1759, dal governo austriaco per la riforma degli studi a Vienna e poi riproposta da Kaunitz, come schema di riferimento per il riordinamento degli studi in Lombardia: non a caso le direttive impartite dal cancelliere austriaco nei primi mesi del 1765, prendendo le distanze dalla radicale offensiva dei regni borbonici, suggerivano di conservare ai gesuiti l’insegnamento delle lettere e delle scienze e di sopprimere la loro semi-università sciogliendo la Facoltà filosofico-teologica e privandoli della possibilità di conferire i gradi accademici14. Il primo anno accademico dell’università riformata fu inaugurato il 4 gennaio del 1766, ma la gran parte dei corsi era già iniziata nell’autunno del 1765: anche la piccola e antica Università di Sassari entrava a far parte del nutrito gruppo degli atenei italiani che nei decenni centrali del secolo furono trasformati e rimodellati dalle riforme dell’assolutismo. Ben presto accanto alle esperienze di Cagliari e di Sassari presero corpo altre incisive riforme universitarie, come quelle di Pavia, di Parma, di Ferrara, di Modena e di Catania15. Ma quali fattori caratterizzarono l’esperienza dell’Università di Sassari e resero possibile quella felice stagione d’intensa operosità e di rinnovamento degli studi che si aprì nel 1765 e si protrasse per quasi un decennio? Innanzitutto la riforma dovette reperire le risorse che, almeno sulla carta, assicurassero all’ateneo l’indispensabile autosufficienza economica, consentendogli di contare sulle proprie forze, su appositi finanziamenti, su un proprio organico docente, su locali specificamente destinati. Ma i principali fattori che dettero impulso al rinnovamento degli studi furono sostanzialmente tre: in primo luogo la profonda trasformazione degli ordinamenti che ridisegnava gli organi di governo dell’ateneo, riservando al ministero ampi poteri di direzione e di supervisione; in secondo luogo l’introduzione di nuovi programmi d’insegnamento, l’attivazione di nuove cattedre e soprattutto l’imposizione dell’effettivo svolgimento dei corsi; in terzo luogo il radicale ricambio del corpo docente che fu prevalentemente costituito da professori forestieri (ben 9 su 11), «arruolati» in Piemonte e in altri Stati della penisola. Inoltre la concomitanza con il processo di attuazione della riforma delle scuole inferiori fece sì che la rifondazione dell’ateneo s’inserisse nelle trasformazioni in atto contribuendo a rivitalizzare l’intero sistema educativo locale, che consolidava il suo originario impianto verticalizzato e fortemente unitario: non a caso i due insegnanti di retorica, che erano anche i prefetti delle scuole inferiori dei gesuiti e degli scolopi, erano chiamati ad alternarsi nel delicato incarico di recitare l’orazione di apertura dell’anno accademico e facevano parte, di diritto, del Collegio delle arti che inizialmente era composto soltanto dai professori di filosofia e di fisica sperimentale e di geometria e altre matematiche16. Nell’esperienza dell’università riformata confluivano due solide tradizioni: da un lato il modello accademico e scientifico dell’Università di Torino a cui s’ispiravano tanto le Costituzioni e il Regolamento quanto la struttura degli organi di governo, i programmi dei corsi e soprattutto i valori di riferimento che erano quelli tipici della meritocrazia educativa sabalpina; dall’altro la robusta tradizione della Ratio studiorum che si riproponeva rinnovata e filtrata attraverso le esperienze culturali e le pratiche educative dei collegi piemontesi, veneti, emiliani e soprattutto lombardi, in cui si erano formati i gesuiti forestieri chiamati a insegnare sia nell’università, come il piemontese Giuseppe Gagliardi o il comasco Francesco Cetti, sia nelle scuole inferiori, come il vicentino Angelo Berlendis, che, entrato nella Compagnia di Gesù a Novellara (Reggio Emilia), aveva studiato nel Collegio di Santa Lucia a Bologna, insegnato grammatica, umanità e retorica in quello di San Rocco a Parma e dal 1762 al 1765, nel periodo immediatamente precedente al suo trasferimento a Sassari, aveva ricoperto l’incarico di ripetitore nel prestigioso Collegio dei nobili della stessa città, proprio negli anni in cui la capitale del Ducato borbonico veniva rivoluzionata dalle politiche neogiurisdizionalistiche del ministro Du Tillot. Certo, verso la metà del XVIII secolo la tradizione pedagogica e culturale della Ratio studiorum era da tempo in crisi, eppure la sua impronta, ben riconoscibile nei metodi didattici, nel frequente ricorso alle esercitazioni pubbliche, alle accademie, alla poesia e al teatro, finì per segnare i momenti più vivi e dinamici dell’università riformata17. La fisionomia culturale del nuovo corpo docente era, dunque, assai variegata. Al di là della prevalente appartenenza alla Compagnia di Gesù, i professori chiamati a dar vita all’ateneo riformato presentavano profili biografici molto differenti per età, provenienza geografica, esperienze formative e interessi culturali. Tra i docenti forestieri si segnalavano il cipriota Simone Verdi, gesuita, titolare della cattedra di Sacra scrittura e lingua ebraica (nato a Monte Libano nel 1714, era uno dei docenti più anziani: si era formato nel Collegio maronita romano e aveva alle spalle un singolare trascorso di studio e di predicazione presso la missione della Compagnia a Costantinopoli); il gesuita torinese Giuseppe Gagliardi, chiamato a ricoprire la nuova cattedra di fisica sperimentale (aveva fatto il noviziato in Piemonte, ma avrebbe preso i voti solenni in Sardegna, dove arrivò, nel 1764, poco più che trentenne); il gesuita valdostano Gaetano Tesia, professore di teologia scolastico-dogmatica, studioso di solida formazione (al suo arrivo a Sassari, a trentasei anni, aveva al suo attivo una notevole esperienza d’insegnamento nei collegi piemontesi); il gesuita di Chieri Giovanni Battista Ceppi, docente di teologia morale, già professore di eloquenza a Genova (si ammalò gravemente appena giunse nell’isola dove morì nel gennaio del 1766); il gesuita cuneese Pietro Alpino, professore di logica e metafisica (si era formato nel Collegio dei nobili di Milano e aveva insegnato nelle «scuole basse» a Monza); il saluzzese Giuseppe Della Chiesa, professore di istituzioni canoniche (a soli trent’anni era dottore collegiato dell’Ateneo torinese e come risulta dalle sue patenti aveva dato ottime prove come insegnante); il chirurgo collegiato torinese Giovanni Olivero, titolare della nuova cattedra di chirurgia, che si era trasferito nell’isola al seguito dell’arcivescovo Viancini; il dottore collegiato torinese Felice Tabasso, professore di materia medica, che si era già fatto apprezzare anche come studioso di anatomia e di botanica; e infine il gesuita lombardo Francesco Cetti, titolare della nuova cattedra di geometria e matematiche, che rappresentava la figura di maggior spicco nella nutrita pattuglia dei nuovi professori. Cetti, infatti, si era già segnalato nella Provincia lombarda sia come insegnante che come valente studioso: nato a Mannheim nel 1726 da genitori comaschi, aveva compiuto i primi studi nel collegio gesuitico di Monza; nel 1742 era entrato come novizio nella Compagnia a Genova; si era poi dedicato agli studi scientifici e aveva perfezionato la sua preparazione universitaria a Milano nel Collegio di Brera di cui faceva parte l’autorevole ingegnere e matematico Antonio Lecchi; aveva professato i voti solenni nel 1760, e nel 1765, quando accettò di trasferirsi nell’isola, poteva vantare una lunga e qualificata esperienza d’insegnamento maturata nei collegi di Bormio, Monza, Arona e infine nel Collegio dei nobili di Milano, dove da oltre sei anni ricopriva la cattedra di filosofia e appariva ormai integrato nell’ambiente culturale delle scuole di Brera, caratterizzato da una significativa presenza di studiosi di notevole levatura scientifica, da una robusta tradizione di studi di filosofia e di matematica pura, e infine dall’entusiasmante esperienza dell’osservatorio astronomico che era stata da poco avviata da Ruggero Boscovich18. Un fattore che diede notevole slancio al rinnovamento degli studi fu il passaggio dalla dimensione dello Studio gesuitico alla nuova temperie culturale dell’Università regia, che segnò la nascita di una comunità accademica particolarmente coesa e ben consapevole della propria identità e del proprio ruolo. Del resto, le stesse modalità di reclutamento, la nomina regia e la stretta dipendenza dal ministero conferivano ai docenti dell’Ateneo riformato uno status professionale abbastanza particolare, che in linea con le riforme da tempo avviate nell’Università torinese tendeva a trasformarli in funzionari statali, distaccandoli nettamente dall’esperienza dell’antico Studio19. Non dovette però esser facile amalgamare provenienze così eterogenee com’erano quelle del nuovo corpo docente dell’ateneo. In realtà, per riuscire a impiantare, in un ambiente in parte prevenuto e ostile, una tradizione accademica così fortemente connotata in chiave assolutistica, diventava indispensabile che la nuova università mostrasse subito la propria superiorità sul piano dell’efficienza didattica e organizzativa rispetto all’esperienza dell’antico Studio. La sfida era ben chiara agli artefici della riforma, che non a caso indicavano nell’allineamento dei nuovi ordinamenti a quelli dell’Ateneo cagliaritano il provvedimento che avrebbe finalmente assicurato anche al Capo settentrionale gli stessi «vantaggi di uno Studio ben ordinato» e un assetto universitario «d’egual lustro e floridezza»20. Di qui l’attenzione quasi ossessiva con cui il ministro seguiva tutti gli aspetti della vita universitaria, dall’organizzazione dei corsi al funzionamento dei collegi dottorali, dall’andamento del bilancio ai contenuti delle lezioni. Tanta cura riservata perfino ai dettagli non era però solo una tipica manifestazione del centralismo assolutistico sabaudo, né un’ulteriore testimonianza del solido e pragmatico riformismo boginiano, bensì la riprova dell’importanza che veniva attribuita al buon funzionamento dell’organizzazione didattica come cardine della nuova Università restaurata. In realtà, a scorrere il fittissimo carteggio che Bogino intrattenne sui più disparati aspetti della vita universitaria non si può non restare colpiti dal ruolo di sapiente regista che il ministro svolse nella rifondazione dell’Ateneo sassarese e nella delicata fase della prima attuazione della riforma. Al di là del viceré e delle autorità locali, il principale interlocutore del ministro fu l’arcivescovo di Sassari, Giulio Cesare Viancini, che fin dal suo ingresso nella diocesi divenne suo fidato consigliere e insieme attivo «guardiano» della riforma. Tuttavia il ministro, consapevole che il successo dell’Università riformata era strettamente legato al grado di identificazione in essa del corpo docente, non esitò ad intraprendere rapporti epistolari con gli stessi professori e a profondere tutte le sue cure nel proteggere, incoraggiare e valorizzare i docenti forestieri che sperimentavano le difficili condizioni di vita nell’isola. Così il carteggio ci mostra un ministro preoccupato di preannunciare il loro arrivo alle autorità del Regno, di illustrarne qualità e competenze, di raccomandare che fossero accolti con tutti i riguardi. Inoltre il ministro non trascurava di far giungere a ciascun docente un piccolo incoraggiamento per la futura permanenza nell’isola: «Posso avanzarle – scriveva per esempio a Francesco Cetti in procinto di partire per la Sardegna – che troverà in quei giovani ingegni felici, e disposizioni tali a farvi rapidi progressi, e sorgerne allievi distinti, tostoché adattandosi in sui princìpi alla loro abilità, e portata, vi si insinui l’amore, ed il genio, che ne è il primo requisito»21. Le lettere di Bogino rivelano infine il suo costante interessamento per le condizioni di vita e di lavoro dei docenti forestieri, e le sue partecipi attenzioni per ogni loro disagio o per la loro salute22. Probabilmente anche la disponibilità del ministro a prendersi cura della comunità universitaria favorì il coagularsi di quello spirito di corpo che caratterizzò la stagione inaugurata dalla riforma. Del resto si era fatto di tutto per rimarcare lo stacco rispetto al passato, e perché fosse chiaro che s’intendeva voltare pagina. Un segnale preciso era stato dato nel febbraio del 1765 (prima della promulgazione dei nuovi ordinamenti), quando il viceré Balio della Trinità aveva imposto al rettore dello Studio turritano l’immediata sospensione del conferimento dei gradi, ormai distribuiti con evidente generosità nel timore di una rinnovata severità degli studi23. D’altra parte anche il ministro continuò ad insistere, all’indomani della riforma, sulla necessità di riqualificare l’Ateneo e sulla scarsa affidabilità delle «lauree, che costì conferivansi in passato […]. Le dirò ora chiaramente – confidava a Viancini – che le ho sempre riputate tali a non potersi fissare il menomo capitale su di esse, massimamente dopo l’esempio che mi si è presentato di chi avendo già preso costì i gradi, confessò con ingenuità di non saper il latino»24. Colpisce la fermezza con cui vengono respinte, sotto il ministero Bogino, le richieste di grazie avanzate dai sudditi privi di titolo universitario, mentre per converso la promessa d’impieghi e di future promozioni da riservare ai laureati dell’Ateneo riformato aveva finito per riportare sui banchi universitari diversi laureati degli anni accademici precedenti. Così il sovrano apprendeva «con gradimento», riferiva il Bogino, «che i laureati di legge abbiano continuato nel corso de’ due ora scaduti anni ad intervenire con esemplare assiduità alle lezioni della legale in codesta Università». Ma perché i loro nominativi potessero esser presi in considerazione per la concessione di grazie o impieghi il sovrano chiedeva che il Magistrato sopra gli studi ne trasmettesse l’elenco insieme con una dettagliata «informativa non meno della capacità di ciascuno d’essi, che de’ maggiori o minori progressi che avranno fatti»25. 3. Le difficoltà e le resistenze L’attuazione della riforma fu accompagnata da una lunga serie di opposizioni e resistenze, in cui si esprimevano le molteplici riserve degli ambienti sociali legati al vecchio Studio. In effetti le ostilità, iniziate ben prima del varo dei nuovi ordinamenti, si radicalizzarono all’indomani dell’accordo tra la corte sabauda e i superiori dell’Ordine. Il malumore della comunità gesuitica locale non tardò a indirizzarsi contro l’arcivescovo Viancini, consigliere e portavoce del ministro, che veniva indicato come l’eminenza grigia della riforma. Ma i sospetti giunsero a coinvolgere anche il provinciale dell’Ordine, il sardo Pietro Maltesi, accusato di abbandonare gli interessi della Compagnia di fronte alle lusinghe del governo. D’altra parte anche il ministro aveva colto la pericolosità del focolaio di resistenza che si annidava all’interno dell’antico Collegio: «Non lasci di fare attenzione al contegno del padre Tocco, che […] esige d’esser guardato da vicino», raccomandava all’arcivescovo26. Con il varo dei nuovi ordinamenti l’antagonismo tra le due personalità religiose locali divenne insanabile: il padre Tocco, costretto a dimettersi dalla carica di rettore del Collegio, aveva perso la guida dello Studio generale che era stata assegnata all’arcivescovo in qualità di cancelliere e presidente del Magistrato sopra gli studi. Il conflitto non nasceva però da questioni di mero potere. La posta in gioco era, in realtà, l’intero processo di trasformazione del sistema scolastico e il controllo dei meccanismi di formazione e di selezione delle élites locali. Le vivaci reazioni dei gesuiti riflettevano un’insofferenza e un disagio frutto della repentina radicalità delle innovazioni che essi stessi erano chiamati a interpretare e ad assecondare. Non era un caso peraltro che le resistenze ai nuovi piani di studio riguardassero anche le scuole inferiori, dove tanto i gesuiti quanto gli scolopi stentavano ad adeguarsi ai nuovi programmi e alle direttive della riforma. Si possono d’altra parte comprendere le difficoltà, le frustrazioni e i risentimenti che allignavano tra i maestri sardi, spesso anziani, che improvvisamente dovevano riconvertire il proprio insegnamento, impadronirsi dei contenuti dei nuovi libri di testo e d’un colpo abbandonare la lingua spagnola, fino ad allora in uso nelle scuole, per passare a quella italiana. E del resto nel 1765, dopo alcuni anni di sperimentazione della riforma, la situazione delle scuole sassaresi appariva ancora così incagliata che si dovette far ricorso a due maestri forestieri, lo scolopio valsesiano Giacomo Carelli e il gesuita vicentino Angelo Berlendis, entrambi chiamati a insegnare nella classe di retorica e a dirigere le scuole inferiori27. Con l’infoltirsi della colonia dei docenti forestieri, le reazioni alla riforma rischiarono di assumere coloriture xenofobe. Ma l’ostilità di molti ambienti locali derivava dalla contrapposizione di diverse sensibilità religiose e di diversi modelli sociali e ideologico-culturali. Il fatto è che le riforme scolastiche e universitarie mettevano in discussione tutto il sistema di rassicuranti certezze e convinzioni su cui poggiavano gli assetti della società e della cultura locali. La ventata di aria nuova introdotta nelle aule scolastiche e universitarie metteva a nudo i limiti di una cultura spagnolesca finita ormai su un binario morto, priva di contatti vitali con l’esterno dell’isola e arroccata su posizioni di nostalgica difesa del passato e di astiosa chiusura alle innovazioni. Non era un caso che gli ambienti conservatori individuassero nei nuovi programmi di studio diramati dal ministero, nelle lezioni tenute dai docenti forestieri e nelle direttive ecclesiastiche dei prelati piemontesi una pericolosa minaccia al loro mondo di valori. «S’è introdotta nuova università – denunciava un anonimo “Lamento del Regno” – dove si insegna una filosofia inventata dagli eretici, opposta alla ragione e alla Scrittura de’ Santi Padri, sendo di tutto ciò la colpa, i prelati piemontesi»28. D’altra parte il severo rigorismo religioso dell’arcivescovo Viancini era arrivato al punto di vietare le tradizionali processioni notturne della Settimana santa e di mettere al bando i gosos, gli antichi canti religiosi popolari locali, condannando le prime come pericolose occasioni di licenziosità e promiscuità e i secondi come riti indecorosi29. Il fatto è che la scuola e l’università costituivano un naturale crocevia di delicate questioni religiose e linguistiche. D’altra parte il problema della formazione di una nuova leva di ecclesiastici sardi preparati nel campo dottrinale, colti e soprattutto ben orientati verso la monarchia sabauda, rappresentava uno degli obiettivi nevralgici della riforma dell’istruzione. Di qui l’importanza che veniva assegnata all’educazione civile dei futuri sacerdoti e alla «vera istruzione» degli ecclesiastici, «da’ quali poi si diffonde – ricordava il ministro – nel resto del popolo»30. Passando a esaminare le caratteristiche del rinnovamento prodotto dal nuovo sistema universitario, si possono individuare tre principali aspetti: la valorizzazione dell’impegno didattico dei docenti; l’adozione di nuovi piani ufficiali di studio con programmi decisamente più moderni e aggiornati; l’impianto di un modello pedagogico che faceva del sistema scolastico e universitario il canale privilegiato di selezione e di parziale ricambio dei gruppi dirigenti. La rilevanza assunta dalle attività didattiche appare legata al ruolo attribuito al sistema scolastico come leva del cambiamento dei costumi e delle mentalità e come principale strumento di trasmissione delle conoscenze, in linea con l’idea che le stesse ostilità manifestatesi nell’ambiente locale sarebbero state alla lunga vinte proprio dal magistero didattico e scientifico delle nuove istituzioni. «Mi lusingo di credere […] – dichiarava Bogino – che i lumi delle scienze gioveranno assai nel dissipare i radicati pregiudizi e condurre i nazionali a una diversa maniera di pensare e di vivere»31. Oltre alla significativa novità di un regolare svolgimento dei corsi, la differenza rispetto all’epoca precedente era data da un tipo d’insegnamento tendenzialmente uniforme, rigorosamente pianificato, basato sulla ripresa di tradizioni didattiche consolidate, ma soprattutto vivacizzato dal ricorso a nuove pratiche pedagogiche e dal fervore d’iniziative che accompagnavano l’attività didattica: esercitazioni, esperimenti scientifici, componimenti poetici, accademie teatrali. Peraltro, era proprio contro il fiorire di queste efficaci innovazioni dell’insegnamento che si appuntava lo sferzante scetticismo dei detrattori delle nuove scuole: «S’insegna una grammatica sproporzionata alla capacità de’ figlioli – denunciava il “Lamento del Regno” –, e con le accademie (le di cui spese si pagano dai padri d’essi) loro s’insegna ad essere piuttosto commedianti e buffoni con indecoro della Chiesa»32. Riecheggiavano tra gli avversari delle riforme scolastiche alcune delle critiche più insistenti della polemica rigorista e antigesuita di cui si era fatto campione il teologo domenicano Daniele Concina con le sue animose dissertazioni De spectaculis theatralibus (1752), con il suo fortunato trattato De’ teatri moderni contrari alla professione cristiana (1755), con la sua intransigente condanna del teatro come fonte di comportamenti licenziosi e come emblema della dilagante corruzione della cristianità33. 4. Il rinnovamento didattico e scientifico La prima spinta al rinnovamento fu determinata dall’adozione di piani di studio ufficiali organici e aggiornati, pensati sul modello dei corsi impartiti nell’Università di Torino. Si trattava di un sensibile salto di qualità sia rispetto alla proposta didattica e culturale che aveva caratterizzato il vecchio Studio gesuitico, sia rispetto all’angusta dimensione provinciale in cui esso aveva vivacchiato negli ultimi decenni. In effetti i piani di studio predisposti dal ministero, sebbene concedessero assai poco alle tendenze scientifiche più recenti e ai grandi temi del dibattito filosofico contemporaneo, avevano il grande pregio d’immettere nel circuito accademico locale non solo nuovi contenuti e nuove discipline, ma anche metodi abbastanza solidi e relativamente aggiornati, che finivano per sollecitare ulteriori interessi di studio e nuove curiosità intellettuali. Nelle principali aree disciplinari l’orientamento dei nuovi programmi lasciava intravedere alcune prudenti ma chiare opzioni culturali: l’umanesimo giuridico e il giusnaturalismo per l’insegnamento dei diritti, il galileismo e il newtonianesimo per le matematiche e per la fisica, un cauto razionalismo per le filosofie, un duttile ma convinto riformismo d’ispirazione giurisdizionalistica per la teologia morale. Le istruzioni ministeriali per i corsi della Facoltà di legge prevedevano programmi abbastanza tradizionali che raccomandavano uno studio sistematico della dottrina classica più accreditata, ma trascuravano le nuove branche in cui si stava già strutturando il sapere giuridico contemporaneo con la nascita del diritto criminale, del diritto pubblico e del diritto patrio34. Si trattava in realtà di programmi d’insegnamento sostanzialmente simili a quelli adottati nella Facoltà di giurisprudenza dell’Ateneo torinese, che tuttavia assumevano, nel contesto culturale della periferia sarda, valenze innovative e talvolta dirompenti, come nel caso dell’impianto rigorosamente giurisdizionalistico e anticuriale che caratterizzava il corso di Istituzioni canoniche: Specialmente si avrà riguardo a spiegare – raccomandava il ministero – que’ diritti particolari che competono, o per indulti pontifici, o per privilegi particolari, o per consuetudini inveterate del Regno, acciocché gli studenti ben ammaestrati in tal parte possano a suo tempo essere, come ottimi sudditi al principe, così fedeli custodi delli singolari diritti del Regno […]. E siccome le materie più scabrose sono quelle dell’immunità, sia personale, sia reale, sia locale, […] il professore non ometterà d’insinuare opportunamente quelle massime che sono convenienti allo stato, […] affinché dalla Università ne escano soggetti liberi affatto da quei pregiudizi che ha prodotti in molte provincie la soverchia maniera di ragionare de’ scrittori troppo propendenti a favorire le Curie vescovili e specialmente la Curia di Roma35. Anche le istruzioni ministeriali per i corsi di Medicina riprendevano, seppure con numerosi tagli e con alcune semplificazioni, i programmi adottati nelle Università di Cagliari e di Torino. Per l’Università di Sassari si trattava però di programmi assai gravosi che non tenevano conto dell’esiguo organico della Facoltà medica che era stato limitato soltanto a due docenti (com’è noto la nuova cattedra di chirurgia costituiva una sorta di scuola professionale autonoma). In base ai nuovi ordinamenti, infatti, il professore di medicina teorico-pratica, oltre al suo corso triennale dedicato alle sintomatologie, alla fisiologia e alla patologia, doveva impartire anche il corso annuale di istituzioni mediche, e il professore di materia medica, che nel suo insegnamento triennale aveva il compito di passare in rassegna le principali risorse del regno minerale, vegetale e animale, era tenuto a svolgere ogni anno anche un apposito ciclo di cinquanta lezioni sulle «piante officinali indigene della Sardegna», pur dovendo parallelamente impartire un corso annuale di anatomia con la «pubblica dimostrazione sul cadavare»36. E tuttavia i nuovi programmi dei corsi e il notevole impegno didattico dei due professori (il Magistrato sopra gli studi aveva «commendato» le premure del professore di medicina teorico-pratica, Giacomo Aragonese, «nell’adempiere ai doveri della cattedra» e «nell’aggiungere alle pubbliche esercitazioni altre private per viemeglio addestrare agli esami i suoi studenti»)37 non riuscirono ad assicurare il decollo della neoriformata Facoltà medica, che ancora per molti lustri, con pochi studenti e pochissimi laureati, stentò a svolgere le sue essenziali funzioni formative. Le innovazioni più significative rispetto all’esperienza precedente riguardavano però i corsi della Facoltà teologica e del Magistero delle arti. Non a caso le istruzioni ministeriali insistevano polemicamente sulla necessità di liberare gli insegnamenti teologici «dalla misera pompa di tante sottigliezze e vanità metafisiche» che li avevano fino ad allora avviliti38. La Storia ecclesiastica diventava la disciplina principale che consentiva di accedere a «uno studio sodo e profondo della teologia». Rispetto al passato mutavano sensibilmente i riferimenti storiografici e culturali: oltre ai testi classici della storiografia cattolica postridentina i programmi ministeriali raccomandavano infatti Mabillon e la tradizione annalistica maurina, Fleury e la letteratura d’impronta gallicana e diversi «autori celebri», soprattutto francesi e italiani, i cui testi, «più o meno abbreviati», potevano offrire un valido supporto didattico39. All’impianto assai prudente e tradizionale del corso di teologia scolastico-dogmatica imperniato sulla Summa teologica di san Tommaso, si contrapponeva invece il taglio dichiaratamente innovativo del corso di teologia morale pensato come fondamentale pilastro della formazione di una nuova generazione di ecclesiastici partecipi degli ideali e dei progetti riformatori della monarchia sabauda40. I corsi di filosofia e arti rappresentavano nel contesto locale una delle novità più significative, non solo perché introducevano discipline precedentemente non insegnate o molto trascurate, ma anche perché si caratterizzavano per l’evidente tentativo di offrire una solida formazione di base e di trasmettere un sapere aggiornato e veramente attento alle acquisizioni scientifiche del secolo. Spiccava in particolare il taglio pragmatico del piano di insegnamento di geometria e matematiche in cui si suggeriva di affiancare all’esposizione dei fondamenti speculativi della disciplina l’uso dello «squadro», della «tavola pretoriana, ossia tavoletta del quadrante geometrico» e del «livello». Le istruzioni per l’insegnamento della fisica, elaborate sulla falsariga dei corsi torinesi di Giambattista Beccaria, raccomandavano di dare conto delle teorie e degli esperimenti più significativi facendo ricorso agli atti delle Accademie delle scienze di Berlino, Pietroburgo, Parigi, Londra, Bologna e Torino, secondo un piano che, come ha osservato Marina Roggero, risultava aperto al «meglio della scienza dell’epoca»41. Anche i piani di studio di etica e logica e metafisica tenevano conto degli sviluppi del pensiero filosofico europeo della prima metà del Settecento. Il professore di logica e metafisica doveva aprire il corso con una «breve istorica dissertazione de’ progressi della filosofia […] per mostrare quanto acquisto di lumi si è fatto nelle scienze, da poiché alle spinose astrazioni degli scolastici si è surrogato un modo di filosofare più sodo e più conforme alla natura delle cose». Così tra le opere che potevano «somministrare maggiori lumi», oltre a quelle dell’empirismo e del razionalismo secentesco, i programmi ministeriali consigliavano alcuni testi settecenteschi di particolare interesse come quelli di Pierre de Crousaz, del giurista tedesco Johann Gottlieb Heinecke (Heineccius), del fisico e filosofo olandese Willem Jacob ‘s-Gravesande, del filosofo Christian Wolff, di Locke e dei suoi studi sull’intelletto umano, di Condillac e, infine, di Genovesi per i suoi fortunati manuali di logica42. Il razionalismo cartesiano e il giusnaturalismo ispiravano, infine, il programma del corso di etica, che si configurava come una sorta di premessa alle scienze del Jus naturale e delle genti, e che raccomandava una fitta schiera di autori rappresentativi del razionalismo francese, della scuola tedesca del diritto naturale e del pensiero riformatore italiano, dagli scritti di Muratori fino alla recentissima Filosofia morale secondo l’opinione dei peripatetici di Francesco Maria Zanotti apparsa a Venezia nel 176343. Perfino l’incalzante meccanismo di controllo degli insegnamenti impartiti, di cui il ministro puntualmente chiedeva conto, costituiva un incentivo a elevare il tenore dell’offerta didattica. Regolarmente l’arcivescovo Viancini si prendeva cura di inviare al ministro le “prelezioni” svolte all’inizio dell’anno dai docenti alla presenza dei colleghi e delle autorità accademiche, vere e proprie prolusioni che illustravano le linee generali o un particolare tema del corso. È significativo il caso del gesuita algherese Maurizio Puggioni il quale, trovatosi improvvisamente a dover ricoprire per supplenza la cattedra di teologia morale, si era impegnato con Viancini ad attenersi ai contenuti del trattato De actibus humanis, il corso universitario del filosofo e pedagogista barnabita Sigismondo Gerdil, ex professore dell’Ateneo torinese, che lo stesso arcivescovo dichiarava di aver portato con sé dalla capitale subalpina44. Certo, il confine tra la verifica della qualità delle lezioni impartite e la sorveglianza censoria era molto labile. Emblematico di questo penetrante controllo appare il caso delle severe critiche espresse da Bogino a proposito della “prelezione” tenuta nel febbraio del 1770 dal professore di Istituzioni canoniche Giuseppe Vacca. Il ministro, pur premettendo di non avervi trovato alcuna «proposizione meritevole di censura», rilevava però la grave sottovalutazione del ruolo dei «romani pontefici», che a suo dire non venivano mai presentati nella loro funzione di «veri legislatori della Chiesa universale», quando invece, obiettava Bogino, il docente includeva tra i legislatori «i vescovi e i padri dispersi e i congregati in concilio». Il ministro escludeva che il giovane professore sardo intendesse divulgare tesi eterodosse o dichiaratamente conciliariste: cionondimeno si mostrava deciso a non permettere che «una tal dottrina fosse proposta in insegnamento», sia perché la «podestà legislativa» costituiva elemento essenziale del «primato di vera giurisdizione che appartiene al papa di diritto divino», sia perché senza di essa, puntualizzava Bogino, «non può reggersi qualunque governo di comunità perfetta». In questo caso vi era però, da parte del ministro, una particolare diffidenza verso quell’ex convittore sardo del Collegio delle province di Torino che nell’ottobre del 1768 si era aggiudicato l’esito delle «pubbliche opposizioni» per la cattedra delle Istituzioni canoniche; anche in quella occasione, infatti, il ministro aveva a lungo esitato prima di conferirgli la cattedra, avendo appreso per via riservata che Vacca aveva gettato «lo scompiglio fra gli altri professori», spargendo «proposizioni poco circospette e poco religiose» ed esprimendosi «senza riguardo sui primi personaggi ecclesiastici e secolari della città»45. Nel contesto locale, inoltre, la decisa apertura verso le discipline scientifiche, la sistematica attenzione nei riguardi delle nuove acquisizioni del pensiero filosofico sei-settecentesco, la mutata impostazione di alcuni insegnamenti di importanza cruciale come il Diritto canonico segnarono un cambiamento profondo. In realtà i nuovi programmi d’insegnamento fissati dal ministero proponevano un sapere ben sedimentato e oculatamente depurato non solo delle nuove idee d’Oltralpe ma anche di ogni spunto che potesse dar luogo a critiche e polemiche nei confronti delle istituzioni politiche ed ecclesiastiche. Ciononostante i nuovi contenuti dei corsi rappresentavano un considerevole allargamento degli orizzonti culturali, che consentì agli studenti e alle élites locali di acquisire una formazione di buon livello e insieme relativamente aggiornata. Il nuovo sistema universitario, grazie alle relazioni culturali dei docenti e al serrato collegamento con il ministero e con il mondo accademico torinese, veniva messo in contatto con alcuni significativi centri di elaborazione intellettuale esterni all’isola da cui filtravano i temi culturali più dibattuti e le nuove acquisizioni scientifico-filosofiche. A partire dagli anni sessanta del Settecento gli ambienti universitari divennero così un canale importante di scambi culturali tra l’isola e gli Stati sabaudi di terraferma, facendo registrare un sensibile intensificarsi di opportunità di comunicazione e di circolazione d’idee. Era frequente, per esempio, che le pubblicazioni dei professori dell’Università di Torino venissero tempestivamente inviate in Sardegna e messe a disposizione dei docenti delle due Università. Così Bogino nella primavera del 1767, nel comunicare all’arcivescovo di Sassari che l’«insigne professor matematico» Francesco Michelotti aveva appena dato alle stampe le «esperienze idrauliche da lui fatte all’oggetto specialmente di agevolare le misure delle acque correnti» (si trattava del primo volume degli Sperimenti idraulici pubblicati dal docente torinese, studioso del moto delle acque e direttore della Scuola pratica di Idrostatica), gli faceva sapere di avergliene inviato una copia, convinto che potesse «sempre servire di lume» e che il «padre Cetti» l’avrebbe consultata «particolarmente volentieri»46. Anche per gli scritti del celebre canonista dell’Università di Torino, Carlo Sebastiano Berardi, era stato il ministro a raccomandarne l’adozione, e a disporre l’invio di «dieci esemplari del primo tomo, già uscito dai torchi», per venderli agli studenti del corso di Diritto canonico, insieme con una copia destinata al docente Giuseppe Pilo47. Nell’ambito degli scambi scientifici instancabilmente promossi dal ministro tra gli ambienti accademici torinesi e quelli delle Università sarde si deve infine ricordare l’invio a Torino di alcuni campioni d’insetti che Cetti aveva individuato nelle sue ricognizioni naturalistiche nell’isola e che avevano suscitato l’interesse del botanico Carlo Allioni, a cui Bogino li aveva segnalati48. Il trapianto del sistema educativo piemontese e l’affermazione delle istituzioni universitarie come canale privilegiato di promozione sociale influirono sensibilmente nel rilancio degli studi. In particolare l’idea che l’apprezzamento del merito e del talento potesse rappresentare un correttivo a una selezione dei gruppi dirigenti altrimenti basata esclusivamente sui privilegi di ceto ebbe l’immediato effetto di attrarre verso gli studi nuove energie intellettuali. Nei primi anni di attuazione della riforma, finché il conte Bogino rimase alla direzione del Ministero, il richiamo ad una sistematica applicazione delle regole e il riferimento ai valori del modello pedagogico-meritocratico dell’assolutismo sabaudo furono martellanti. Gli orientamenti ministeriali apparivano univoci nel valorizzare le competenze e l’impegno di docenti e studenti: dai criteri di reclutamento del nuovo corpo docente alla scelta di attribuire le cattedre universitarie per «opposizione e concorso» (fatta eccezione per le sei cattedre riservate ai professori gesuiti), dalla segnalazione degli studenti migliori, sistematicamente richiesta dal ministro, alla continua valorizzazione delle esperienze didattiche che potevano favorire un clima di emulazione. Di qui il moltiplicarsi delle occasioni di pubblica esibizione dei risultati dell’insegnamento e dei progressi degli studi con i frequenti saggi degli allievi, con le prove di geografia e gli esperimenti di fisica, le accademie letterarie, le esercitazioni poetiche, le rappresentazioni teatrali e musicali. Già nel 1767 l’ampiezza e la novità del fervore degli studi che caratterizzava la realtà sassarese avevano colpito il padre Emanuele Rovero, visitatore dei gesuiti. È quasi incredibile – scriveva al ministro – che in sì poco tempo si sia potuto fare sì gran mutazione […]. Ho assistito da che son qui a più funzioni letterarie tutte fatte con molto decoro […]. Il padre Cetti ne ha fatt’una di geometria elementare e ne apparecchia qualche altra […]. Il padre Berlendis m’ha fatto sentire una funzione di geografia in cui v’erano 8 o 10 scolari pronti ad additar sulla carta qualunque viaggio e a dar le notizie dei diversi climi, costumi e proprietà delle città e paesi che s’incontrano sul cammino, parlando or italiano or latino […]. La gioventù di questo paese – commentava Rovero – è assai vogliosa d’imparare, e vi riesce assai bene, e merita perciò che le se ne dia tutto il comodo49. Ma nel mondo studentesco e nelle élites locali un vero fremito di entusiasmo per i progressi delle moderne scienze era stato suscitato dagli esperimenti e dalle pubbliche dimostrazioni promosse dai professori di fisica e di matematica, Gagliardi e Cetti, che avevano destato un’inedita e sincera attenzione per le acquisizioni della scienza sei-settecentesca. Se ne fece appassionato cantore Angelo Berlendis, che in un festoso componimento poetico sulla restaurazione dell’Università di Sassari offriva una vivida testimonianza del clima di curiosità (e di convinta fiducia) con cui si guardava ai progressi delle nuove scienze introdotte nell’Ateneo riformato dal «dotto stuolo» dei docenti forestieri: «È scritto in ciel, – recitavano i versi arcadici di Berlendis – che a Sassari,/ Come a la bella Italia,/ Un nuovo ed aureo secolo/ Si veda germogliar». Così, il provvido «ristabilimento» dell’Ateneo lasciava filtrare nella realtà locale i benefici lumi delle scienze moderne, capaci di mettere in fuga «l’ombre e gli errori veteri». Con essi arrivavano, inoltre, perfezionati strumenti scientifici: «tubi, cristalli e macchine» per comprendere gli «arcani di natura», e l’«ottico cristallo» per studiare da vicino «E gli astri, e il ciel volubile,/ Qual dalle mani artefici/ Del Divin Fabbro uscì». Sicché il docente vicentino poteva poeticamente giocare con allusioni argute alle esperienze didattiche e alle dimostrazioni scientifiche che avevano maggiormente appassionato il mondo studentesco e lo stesso pubblico locale: le affollate dimostrazioni realizzate con la macchina pneumatica di Robert Boyle, che faceva parte della dotazione scientifica inviata da Torino («E il ceco orror del vacuo/ Che abominava Boile/ Sorpreso in luce limpida/ Se stesso abominò»), e i brillanti saggi di Geografia che avevano impegnato i suoi stessi studenti («Il mondo in poca carta/ Distinto ancor si svela;/ Si vola e si fa vela/ Con l’agile pensier»)50. 5. Il risveglio culturale Gli effetti del rinnovamento degli studi e del nuovo fervore intellettuale che avevano colpito il padre Rovero non tardarono a tradursi in una rinnovata attenzione verso le tradizioni locali, la storia della Sardegna e i suoi problemi. Perfino la produzione poetica, in particolare quella del filone encomiastico e d’occasione che tra gli anni Sessanta e Settanta conobbe in Sardegna una straordinaria fioritura, appare animata da aneliti di impegno civile e da una nuova sensibilità per i temi più attuali. Sono emblematici i versi composti da Berlendis per l’«inondazione seguita intorno a Sassari l’anno 1766», nei quali il docente vicentino, dopo aver descritto i danni causati dalla calamità, stigmatizzava il fatalismo del «volgo insano» e incitava i sardi a prevenire gli effetti delle avversità atmosferiche con opere di sistemazione idraulica e la periodica manutenzione dei corsi d’acqua51. Ho pur veduto con vera soddisfazione – scriveva Bogino al governatore di Sassari – il poetico componimento dato fuori dal valoroso padre Berlendis […]. Esso è pieno di verità che dovrebbono pur convincere ad aprire gli occhi a’ nazionali, e insieme condotto con tutta la prudenza e l’arte desiderabile. Naturalmente il ministro, nel far sentire il suo apprezzamento all’autore, non mancava d’incoraggiarne il fervido impegno civile: «Farà sempre cosa grata ed anche di vero merito per lei nel profittare delle occasioni d’eccitar l’industria e l’impegno d’attività in codesti regnicoli che tanto ne abbisognano»52. In effetti diversi docenti forestieri, lungi dal chiudersi nella torre d’avorio di un sapere accademico astratto, nutrirono un sincero interesse per la realtà dell’isola a cui dedicarono particolare attenzione sia nell’insegnamento che nelle attività di studio e di ricerca. Alcuni ebbero un ruolo determinante nel trasmettere agli allievi, insieme con un solido bagaglio di conoscenze umanistiche e scientifiche, una rinnovata curiosità e un’autentica passione per la storia del proprio paese. Per esempio, Francesco Gemelli compose nel 1769, suo primo anno d’insegnamento a Sassari, un «compendio», purtroppo perduto, «della geografia profana e sacra della Sardegna»53. Nello stesso anno aveva recitato e pubblicato «un panegirico sul martire San Gavino», e con orgoglio faceva presente al ministro, che lo aveva molto incoraggiato a coltivare la storia dell’isola, di aver illustrato, soprattutto nelle numerose note erudite accluse nell’edizione a stampa, «vari punti della storia di Torre, di Sassari e di tutto il Regno»54. La Sardegna d’altronde si prestava bene a diventare oggetto di ricerca e di studio sotto diverse angolature. Il gesuita lombardo Francesco Cetti aveva manifestato il proposito di studiare la storia naturale dell’isola fin dal primo momento in cui aveva accettato d’insegnare a Sassari; e tuttavia quando vi giunse, nel gennaio del 1766, rimase così colpito dalla variegata realtà linguistica del Regno che si dedicò a tracciare un dettagliato quadro delle caratteristiche delle lingue «usate abitualmente nel commercio delle persone» nelle principali regioni dell’isola55. Negli anni Settanta gli scritti pubblicati dai professori dell’Università di Sassari costituirono non solo una delle novità più significative del panorama editoriale sardo, ma anche una componente importante di quel vivace risveglio culturale che era stato avviato dalle riforme universitarie e che nutrì la cosiddetta stagione del «rifiorimento» della Sardegna. Nel 1772 vide la luce, presso la Reale stamperia di Cagliari, L’onest’uomo filosofo, un impegnativo trattato controversistico composto dal gesuita piemontese Giuseppe Gagliardi, professore di filosofia nell’Ateneo sassarese56. Quattro anni dopo, il gesuita bellunese Giuseppe Mazzari, professore di teologia scolastico-dogmatica pubblicava presso l’editore sassarese Giuseppe Piattoli le Odi scelte di Pindaro sui giuochi dell’antica Grecia tradotte dal greco in versi italiani. Ma la testimonianza più eloquente dell’innalzamento della qualità della produzione scientifica dell’Ateneo riformato venne dalle due più importanti opere sulla Sardegna apparse nel secondo Settecento: il Rifiorimento della Sardegna proposto nel miglioramento di sua agricoltura, pubblicato a Torino da Francesco Gemelli nel 1776, e i tre volumi della Storia naturale di Sardegna di Francesco Cetti, apparsi a Sassari tra il 1774 e il 1778. Le due opere, caratterizzate da un solido impianto scientifico e da un approccio culturalmente aggiornato e nient’affatto provinciale, ebbero il merito di far conoscere l’isola al più vasto pubblico europeo. Per entrambe era stato determinante l’incoraggiamento del ministro Bogino. Nel caso del Rifiorimento ne aveva addirittura suggerito il tema, commissionando al gesuita piemontese, già nel 1770, un’opera divulgativa sui problemi dell’agricoltura sarda, e ne aveva poi seguito passo passo l’elaborazione raccomandandone costantemente il carattere didascalico. In realtà l’opera si era via via trasformata in un autorevole e ponderoso trattato sull’economia agricola dell’isola che teneva conto della letteratura tardomercantilistica e fisiocratica e delle elaborazioni delle accademie agrarie italiane ed europee: tuttavia il Rifiorimento conservava l’originario impianto militante, configurandosi come una battagliera e persuasiva monografia che si prefiggeva di sensibilizzare il lettore sui problemi della modernizzazione del Regno, e di conquistare l’ambiente locale ai progetti di rinnovamento agrario avviati dal governo sabaudo57. Anche i tre volumi della Storia naturale di Cetti, i Quadrupedi (1774), gli Uccelli (1776), gli Anfibi e pesci (1778), erano espressione di un’intensa attività di ricerca e di studio fortemente incoraggiata e sostenuta dal conte Bogino. L’opera dell’ex gesuita lombardo descriveva gli animali nel loro ambiente naturale, contemporaneamente analizzandone le specifiche caratteristiche alla luce delle teorie di Buffon e delle classificazioni di Linneo. La Storia naturale era così destinata a segnare una tappa fondamentale nella conoscenza scientifica dell’isola58. Paradossalmente entrambe le opere, così legate al disegno riformatore promosso dal ministro Bogino, videro la luce all’indomani del suo brusco licenziamento, avvenuto nel 1773. Giungevano intanto a maturazione i primi significativi frutti dei nuovi programmi e dell’intenso impegno profuso nell’insegnamento dai professori dell’Università riformata. Nel 1774, al primo posto nella lista dei quattordici studenti che in quell’anno si erano particolarmente distinti nel conseguimento dei gradi presso l’Ateneo di Sassari, figurava l’algherese Domenico Simon, che – appena sedicenne – aveva brillantemente superato l’esame finale del Magistero delle arti: si trattava di un traguardo a cui il giovane Simon era arrivato sotto la guida di maestri come Cetti e Gemelli, che ne avevano saputo valorizzare le inclinazioni e il talento59. Già nel 1772 Domenico Simon, a soli quattordici anni, si era segnalato come autore di due saggi scolastici (composti sotto la direzione di Gemelli), che aveva anche recitato in pubblico: il Trattenimento sulla sfera e sulla geografia, dedicato al governatore di Sassari, e il Trattenimento sulla storia sacra, in onore del nuovo arcivescovo Giuseppe Maria Incisa Beccaria. Le due «esercitazioni letterarie», ben presto date alle stampe, avevano suscitato ammirazione e interesse, mettendo in luce non solo l’ingegno ma anche la solida preparazione del giovanissimo studente del Seminario canopoleno: «Posso assicurare – scriveva Gemelli – che questo Domenico Simon ha una capacità singolare e uguale facilità di spiegarsi massimamente in pubblico». Anche il gesuita veneziano Antonio Giuseppe Regonò, da poco trasferitosi da Cagliari a Sassari come professore di logica e metafisica, con alle spalle una lunga esperienza d’insegnamento maturata a Bologna, a Parma, a Mantova e in altre città italiane, esprimeva un giudizio lusinghiero sul giovane Simon, giungendo ad affermare, secondo Gemelli, di «non averne conosciuto l’eguale»60. Perfino il ministro, colpito dall’eccezionale prova fornita dal giovanissimo studente («Mi ha incantato – scriveva – la felicità e il buon garbo con cui […] ha esso giovane corrisposto alle cure del professore») aveva voluto manifestare il suo compiacimento per «questi frutti dei buoni studi», che testimoniavano inequivocabilmente dell’impegno di buoni docenti («Sono rimasto edificato – affermava a proposito di Gemelli – dell’applicazione che questi ha impiegata nell’esercitare il signor don Domenico Simon»)61. Ma i frutti di questa capacità di formazione si vedranno anche a lungo termine nelle carriere civili ed ecclesiastiche e nelle esperienze intellettuali di coloro che ebbero in quegli anni la fortuna di studiare in quell’ambiente culturale. Lo stesso Simon, dopo aver completato gli studi in Leggi nell’Università di Cagliari, nel 1779 pubblicò Le Piante, un dotto poema didascalico sul rifiorimento dell’agricoltura sarda, che recitò in occasione della sua aggregazione al Collegio di filosofia e arti dell’Ateneo cagliaritano. Gli eleganti versi del giovane letterato algherese illustravano l’origine, la cura e l’utilità delle piante, rivelando le ampie conoscenze e le aggiornate letture scientifiche a cui era stato avviato negli anni della sua prima formazione intellettuale. Il lascito del qualificato e competente magistero di Gemelli e l’impronta della tradizione letteraria e filologica subalpina appariranno inoltre evidenti nei Rerum Sardoarum Scriptores, la prima raccolta di testi e fonti di storia della Sardegna, un’opera di chiara ispirazione muratoriana, che Simon, ormai diventato vicecensore del Regno, pubblicherà a Torino nel 1787-8862. Non è questa la sede per seguire le vicende biografiche dei molti studenti di quegli anni che successivamente si misero in luce ricoprendo un ruolo di primo piano nella vita pubblica del Regno. Basterà accennare ad alcune figure di spicco: Giovanni Maria Angioy, uno dei principali protagonisti, insieme con Domenico Simon, del triennio rivoluzionario sardo; Domenico Alberto Azuni, brillante giurista e letterato che collaborò alla stesura del codice napoleonico; il latinista, poeta e letterato Francesco Carboni; e naturalmente un nucleo consistente di ecclesiastici, avvocati, notai e insegnanti che incisero significativamente nella vita civile e nelle vicende politiche locali degli ultimi decenni del Settecento63. In questo quadro un’attenzione particolare meritano gli studenti che avevano frequentato l’Università nei primi anni della riforma e che, avviati alla carriera universitaria, contribuirono ad assicurare il ricambio del corpo docente nei decenni successivi. Alcuni, come Giovanni Pinna Crispo e Gavino De Fraya, erano giunti alla cattedra universitaria nel periodo del ministero boginiano64. Altri, come Angelo Simon, Giuseppe Luigi Pinna e Pietro Bianco, vi giunsero negli anni successivi. 6. L’autunno della riforma Negli anni settanta e ottanta del Settecento, mentre le prime generazioni dei nuovi laureati si affermavano nella vita pubblica del Regno, la spinta propulsiva della riforma andò via via affievolendosi e la felice stagione dell’innovazione didattica e del fervore degli studi lasciò il posto all’abitudine e alla routine. Le cause di questo declino, decisamente più marcato che nell’Università di Cagliari, sono riconducibili al concorso di almeno quattro fattori: 1) l’improvviso licenziamento del ministro Bogino giubilato nel febbraio del 1773; 2) lo scioglimento cinque mesi dopo della Compagnia di Gesù; 3) il ritorno a un meccanismo di esclusiva autoriproduzione del corpo docente; 4) l’esaurirsi della carica riformatrice dell’assolutismo sabaudo. Nel 1773, all’indomani della scomparsa di Carlo Emanuele III, il brusco allontanamento del ministro Bogino ad opera del successore Vittorio Amedeo III privava l’Università riformata non solo di un premuroso protettore, ma anche della solida e autorevole guida di un ministro che si era riservato amplissimi poteri di direzione della vita universitaria in funzione del buon esito di un più vasto e organico progetto di trasformazione del Regno. In realtà, con l’uscita di scena di Bogino, cambiavano anche le linee della politica sabauda verso la società isolana, e la centralità delle scuole e dell’università come leva del cambiamento cedeva il passo a una calcolata politica di stabilizzazione degli equilibri esistenti. Di qui il rapido affievolirsi di quell’impulso dal centro che aveva sorretto il rinnovamento degli studi fino ai primi anni Settanta e che iniziò a venir meno sotto la nuova direzione degli affari di Sardegna affidati al nuovo ministro – reggente Giovanni Andrea Giacinto Chiavarina65. Lo scioglimento della Compagnia di Gesù non sembrò provocare ripercussioni immediate nel corpo accademico. Lo stesso sovrano diede chiare disposizioni perché i docenti ex gesuiti rimanessero al loro posto. Dal generale terremoto che investì la comunità degli oltre duecentottanta gesuiti residenti nell’isola, i professori universitari furono apparentemente risparmiati, conservando le loro cattedre e il loro ruolo di funzionari al servizio della monarchia66. Nell’Università di Sassari soltanto l’ex gesuita Francesco Gemelli chiese e ottenne di poter ritornare in Piemonte; gli altri professori continuarono a insegnare fino alla fine della loro carriera. Ma lo scioglimento dell’Ordine ignaziano indebolì l’ateneo sassarese almeno su tre diversi piani: sul piano economico-finanziario, perché le rendite e le risorse della Compagnia di Gesù rappresentavano la componente più importante del bilancio dell’Università restaurata (l’amministrazione dell’Azienda ex gesuitica si rivelò subito perfino più complessa e più farraginosa di quanto si fosse inizialmente temuto); sul piano dell’attività didattica, perché la condizione di precarietà economica ed esistenziale dei professori ex gesuiti finiva per smorzare lo slancio del corpo docente, ridotto sulla difensiva anche nel contesto civile e culturale locale; e infine sul piano della circolazione delle idee e dei canali di comunicazione con l’esterno dell’isola, perché lo scioglimento della Compagnia determinò non solo un complessivo impoverimento delle relazioni e dei contatti tra la comunità docente e altre realtà della penisola, ma anche il venir meno di un prezioso bacino di reclutamento di validi professori, e quindi il drastico restringersi delle opportunità di ricambio dall’esterno del corpo docente (un meccanismo che era stato ancora utilizzato nel 1772 con l’ingaggio dei professori gesuiti Giuseppe Mazzari per la cattedra di teologia scolastico-dogmatica, e Gaudenzio Dotta per quella di Sacra scrittura e lingua ebraica)67. Rispetto al rapido ricambio, ai frequenti avvicendamenti e alla giovane età del corpo docente che avevano caratterizzato i primi anni di vita dell’Università riformata, negli anni Settanta e Ottanta l’Ateneo sassarese andò progressivamente ripiegandosi su se stesso. Accanto a un buon numero di docenti che conservarono il loro insegnamento fino all’inizio degli anni Novanta, i pochi professori chiamati a ricoprire le cattedre che via via si rendevano libere risulteranno in gran parte di estrazione locale, ex studenti della stessa Università e solo in pochi casi con qualche esperienza di studio fatta fuori dell’isola68. All’esiguità delle risorse economiche e alla fragilità delle strutture didattiche si aggiunsero così i problemi dell’invecchiamento del corpo docente e dello scarso apporto dall’esterno di nuovi stimoli e di altri modelli di didattica e di ricerca, in un quadro caratterizzato dal complessivo arretramento delle discipline matematiche e scientifiche e da un crescente isolamento culturale che alla fine del secolo tenderà a diventare irreversibile. Inoltre con il passare degli anni entrò definitivamente in crisi quell’efficace strumento di gratificazione dell’impegno profuso negli studi che prevedeva la preferenza per i laureati sardi nell’attribuzione di uffici, magistrature e dignità ecclesiastiche: da un lato l’istruzione superiore perse la sua iniziale capacità di attrazione (anche in rapporto all’onerosità del mantenimento agli studi), dall’altro l’offerta di sbocchi professionali per i laureati delle Università sarde si rivelò ben presto molto inferiore alle aspettative. Di fatto gli impieghi attribuiti ai sardi a ricompensa del merito e del talento rappresentavano una parte relativamente modesta rispetto a quelli riservati a piemontesi o attribuiti soltanto per censo. In questo quadro un vero interesse a sostenere con impegno e con risorse adeguate lo sviluppo dell’Ateneo stentava in realtà a maturare sia sul versante locale, dove la società civile era ancora priva di una sua autonomia e di un suo dinamismo, sia sul versante governativo, dove la politica della monarchia sabauda non puntava più su un’effettiva crescita dell’istruzione nell’isola. Dopo la vivace primavera inaugurata dalla riforma boginiana l’Università di Sassari si preparava ad attraversare un lungo autunno da cui avrebbe stentato ad uscire.

Studi Angioy

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continua decima parte

costruiti il castello e la splendida Cattedrale romanica di Santa Maria del Regno. Verso la fine dell’anno mille, il Giudice Mariano I iniziò una politica di apertura verso le due potenze marittime, concedendo la costruzione di Castelgenovese (Castelsardo) ed Alghero ai Doria, mentre alla famiglia pisana dei Malaspina diede il permesso di fortificare Bosa ed Oschiri. Furono fatte concessioni anche al clero, in favore del quale vennero innalzate chiese e monasteri, tra i quali quello di Sant’Andrea nell’isola dell’Asinara e la Basilica di Saccargia nei pressi di Codrongianus. Nei primi decenni del 1100 iniziò ad ingrandirsi il piccolo borgo di Thathari (Sassari), che divenne ben presto il capoluogo della curatoria di Fluminargia. Il Giudicato attraversò in quegli anni una serie di alti e bassi, dovuti alle alterne vicende dei conflitti tra Genova e Pisa, oltre a quelli dello stesso giudicato con gli altri regni. Nel 1200 il Logudoro conobbe il suo massimo splendore, guidato da Mariano II, il quale avrebbe potuto regnare legalmente anche sui giudicati di Arborea e Calari, diritto che comunque non esercitò. Sassari intanto era diventata una modesta città, popolata da ricchi mercanti, che utilizzavano Porto Torres come scalo per i loro affari; anche Castelgenovese cresceva d’importanza, aiutato dallo spopolamento della vicina Ampurias, a seguito dell’impaludamento del fiume Coghinas; i Doria assimilarono nei territori anche l’isola dell’Asinara, di primaria importanza per il controllo del porto. Il fiorire della realtà sassarese sembrò coincidere con la decadenza del giudicato. I primi giudici del regno di Torres erano stati i Lacon-Gunale, i quali avevano imposto la discendenza dinastica per l’elezione del re in tutti i giudicati. Per tale legge il discendente al trono doveva essere scelto dal parlamento giudicale (Corona de Logu) tra i possibili eredi del Re, anche se solitamente veniva preferita la linea diretta maschile (il primogenito). Adelasia di Torres in punto di morte, nel 1259, donò il regno alla chiesa, in quanto mancava una qualsiasi discendenza da far salire al trono. Le sue volontà non furono rispettate, infatti i Doria e il Giudicato d’Arborea si diedero battaglia per quei territori, arrivando alla pace solo nel 1293, anno in cui il regno fu equamente diviso tra le due fazioni, segnando l’ingloriosa fine del Giudicato di Torres. La Repubblica Comunale di Sassari Sassari invece sfuggì alla spartizione del regno, diventando una repubblica comunale, governata da un podestà. A questo punto il centro iniziò ad assumere la fisionomia che ha mantenuto fin quasi i nostri giorni, crescendo economicamente, culturalmente e strutturalmente, grazie alla costruzione della cinta muraria, di numerose chiese e del palazzo comunale (vedi Sassari). Nel 1295 intanto venne firmato un accordo ad Anagni, che pose fine alla Guerra tra i Catalano-Aragonesi e i Franco-Angioini. L’artefice di tale pace fu il Papa Bonifacio VIII, che con una bieca manovra fondò il regno di Sardegna e di Corsica e lo diede in feudo agli aragonesi, a patto che questi restituissero alla chiesa il regno di Sicilia. Ovviamente il misfatto consistette nel non tenere conto che la Sardegna aveva un assetto politico-istituzionale già conformato. Gli aragonesi avanzarono i loro diritti solo diversi anni più tardi, nel 1324 sconfissero il decadente regno pisano, annettendo gli antichi giudicati di Gallura e di Calari. I sassaresi si schierarono dalla parte degli aragonesi, anche se in breve tempo la popolazione iniziò a risentire del famigerato malgoverno iberico, provocato da sregolata politica feudale. I Sassaresi insorsero per ben due volte nell’arco di un solo anno, la prima rivolta fu repressa, mentre la seconda costò la vita al governatore aragonese ed a tutta la guarnigione. La situazione tornò alla normalità solo quando i sassaresi videro riconosciuti i vecchi privilegi. La tranquillità non durò a lungo e nel 1329, tutta la popolazione insorse nuovamente. La repressione stavolta fu schiacciante, la cittadina fu devastata ed i suoi abitanti allontanati e sostituiti da cittadini spagnoli, a parte quei sassaresi ancora fedeli alla corona. Gli Aragonesi entrarono presto in conflitto con i Doria, i quali governavano un piccolo regno che comprendeva il Golfo dell’Asinara e quello di Alghero. In un aspra lotta con gli spagnoli, i Doria persero e riconquistarono i loro possedimenti; durante le operazioni di guerra Sorso fu rasa al suolo dalle forze di Castelgenovese, il quale fu una roccaforte della famiglia ligure fino al 1346, anno in cui venne ceduta ai giudici d’Arborea. La peste diede uno stop a quei lunghi anni di guerra. Al cessare dell’epidemia gli abitanti dell’isola erano stati quasi dimezzati, ma lo spirito d’indipendenza era ancora vivo. Gli aragonesi furono piegati prima da Mariano IV e successivamente da Brancaleone Doria a fianco della famosa consorte, Eleonora d’Arborea. Dopo questo periodo di grande splendore per la politica isolana, nel 1420, gli Iberici approfittarono di un periodo oscuro per l’antica potenza sarda, priva dei grandi condottieri del passato; fu la fine ultima dei giudicati e la nascita del regno di Sardegna. Sassari sotto gli Aragonesi Dopo la caduta dei giudicati Sassari era tornata sotto gli aragonesi e la sua crescita sembrava inarrestabile, sennonché i feudatari osteggiarono nuovamente il potere dei mercanti e la fiorente cittadina cadde in una profonda crisi economica, trascinando con se lo scalo di Porto Torres, ormai inagibile. Il 1500 viene ricordato come il secolo delle incursioni barbaresche, durante il quale i pirati musulmani, che usarono probabilmente l’Asinara come punto d’appoggio, attaccarono indistintamente le coste italiane, sarde e spagnole, coadiuvati dall’esercito francese. Vennero colpiti il Castelaragonese (ex Castelgenovese), Alghero, Santa Teresa, Porto Torres, nel 1527 Sassari fu assalita e saccheggiata dai francesi di Francesco I, in lotta contro l’Imperatore Carlo V (vedi guida: Alghero). In questo difficile periodo di guerra, pestilenza e carestia, la religiosità popolare crebbe all’inverosimile, con la nascita di numerose cerimonie sacre ancora esistenti. Alcuni esempi di queste celebrazioni sono: la Settimana Santa, come quella di Lunissanti celebrata a Castelsardo; I Candelieri, la festa più sentita del popolo Sassarese (vedi Avvenimenti). Il 1600 fu il periodo della rinascita culturale, a Sassari fu aperto un convento di Gesuiti, i quali istituirono l’università, anche se la situazione sociale fece decadere in seguito l’ateneo. Nel 1720 si concluse il penoso regno aragonese, ma i feudatari mantennero i loro diritti, il che non fece migliorare la situazione sociale nell’isola e quindi nel Golfo dell’Asinara. Porto Torres venne risistemata, ma la precarietà dell’intervento la riportò ben presto all’inagibilità, ad Ardara i moti antifeudali scuotevano la popolazione; Sorso e Sennori versavano nelle stesse condizioni, ma ormai da tempo non avevano più le sembianze del paese. I Savoia e la Rivoluzione Sarda Quando la Sardegna passò in mano ai Savoia, si ebbe un avvio abbastanza deludente, il mantenimento dei diritti feudali, nobiliari e del clero, creava notevoli scompensi nella società, che risentiva fortemente dell’oppressione spagnola. Si registrarono però anche una serie d’iniziative importanti, come la nascita delle poste, la rifondazione dell’Università, la decentralizzazione del potere, con la quale ogni Villa (comune, paese) si dotava di un amministrazione capeggiata da un Sindaco. Tali interventi non sopperirono al malessere diffuso ed a partire dal 1780, si ebbero dei moti di protesta che sfociarono nella “Rivoluzione Sarda”. A seguito della resistenza opposta all’esercito rivoluzionario francese, intenzionato a conquistare l’isola, i sardi presentarono al Re una serie di proposte, quasi come ricompensa, volte a dimettere l’antico sistema feudo-nobiliare. Al rifiuto del Re si scatenò una tremenda rappresaglia, che portò all’allontanamento da tutta l’isola dei funzionari piemontesi e del viceré. Per frenare gli attriti tra feudatari e popolo, fu mandato a Sassari il Giudice della Reale udienza Giovanni Maria Angioy. Mentre studiava il caso, il Magistrato si fece coinvolgere dalla causa a favore degli antifeudatari, che lo avevano osannato come capo. Angioy iniziò a preparare un piano eversivo, ma nel mentre il Re accolse gran parte delle richieste fatte precedentemente dai sardi ed il viceré destituiva il magistrato rivoluzionario, al quale non rimase che ritirarsi in esilio. I moti antifeudali, a questo punto contro i Savoia, non si spensero (vedi guida:Gallura). La svolta tanto attesa arrivò nel 1836, durante il regno di Carlo Alberto, il quale soppresse le curie feudali e nel 1848, diede il via alla “fusione perfetta”, su richiesta dello stesso popolo sardo, abbracciando tutto il territorio sotto un solo potere e mettendo le basi per la futura “Italia unita”. L’Età Moderna Nello stesso anno la Sardegna venne frazionata in 3 divisioni, una delle quali era l’attuale provincia di Sassari (dal 2003 privata della Gallura). Lo scalo di Porto Torres fu finalmente riattivato e a seguito della sua rapida espansione, gli fu concessa nuovamente l’autonomia comunale. In quegli anni l’Asinara aveva visto la sua popolazione di pastori, pescatori e contadini, crescere discretamente, sviluppo che fu arrestato nel 1885, quando l’isola fu destinata a Lazzaretto ed a colonia penitenziaria. Questa decisione portò alla nascita di Stintino, dove furono ubicate buona parte delle famiglie sfrattate dall’isola. Nel 1997 l’Asinara fu dichiarata parco nazionale, dopo un lungo utilizzo come carcere di massima sicurezza. Intanto Sassari iniziò la sua grande stagione mineraria (1864-1963), aprendo le cave dell’Argentiera e di Canaglia; quasi contemporaneamente si svilupparono una rete ferroviaria e una linea di traghetti tra Porto Torres e la penisola. A discreti fattori positivi si contrapponevano i mali della deforestazione, dei conflitti tra agricoltori e pastori, del banditismo e del rinnovamento urbanistico, il quale portò alla distruzione delle antiche mura sassaresi. Durante il primo conflitto mondiale il mondo intero conobbe il valore dei sardi, grazie alle eroiche imprese della Brigata Sassari, i cui uomini furono presto soprannominati i diavoli rossi. Va ricordata l’eroica impresa nella quale la Brigata fermò gli austriaci sul Piave, dopo che questi avevano sfondato le altre linee italiane a Caporetto. Nel dopoguerra, il sentimento dei reduci si trasformò ben presto in identità popolare, dalla quale scaturirono numerosi dibattiti per la discussione dell’arretratezza economica sarda. In questa situazione fu fondamentale anche La Nuova Sardegna, il primo quotidiano Sassarese, nelle cui fila contava menti illustri come Mario Berlinguer, (padre del grande statista Enrico). All’avvento del fascismo il Coghinas fu sbarrato da una diga, sulla quale fu installata una centrale idroelettrica, le acque del nuovo invaso diventarono vitali per gran parte della provincia sassarese, una tra le più grandi d’Italia. L’intervento diede anche una mano notevole all’agricoltura, per cui in breve tempo si formarono diversi centri abitati, che furono inglobati nell’attuale comune di Valledoria. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, Sassari iniziò finalmente ad espletare il suo ruolo di Capitale del Capo di Sopra, vi fu uno sviluppo di tutti i settori economici, compreso quello dell’industria, grazie alla nascita del mastodontico polo industriale di Porto Torres. A questo progetto si deve la scomparsa del lunghissimo litorale di Marinella, una splendida spiaggia che partiva da Porto Torres ed arrivava fino a Stintino; inoltre venne intrappolato il Rio Mannu, che smise di trascinare le candide sabbie artefici degli splendidi litorali, oggi in grave pericolo di estinzione; per concludere bisogna ricordare il riscaldamento delle acque antistanti il complesso industriale, colpevole di aver modificato la flora e la fauna nei fondali del Golfo. La crescita di Sassari non risentì del tracollo industriale degli anni ’90: università, uffici, artigianato, istituzioni pubbliche e militari, agricoltura, pastorizia e turismo, portarono la città e il golfo dell’Asinara ad uno splendore mai conosciuto. Anche la politica si ritagliò il suo spazio, sfornando ben due Presidenti della Repubblica: Antonio Segni e Francesco Cossiga. Attualmente Sassari è un centro in continua espansione, impegnato a rispolverare il suo patrimonio storico, culturale e ambientale, rimasto un po’ in disparte negli anni ’70 e ’80, ma mai abbandonato o lasciato rovinare. http://www.marenostrum.it/tappa.php?itinerario=9&tappa=85 GIOVANNI LILLIU La costante autonomistica sarda (Relazione svolta a Cagliari presso l’ITIS “Giua” il 26 febbraio 1999) 1 – Dopo i lunghi tempi dell’indipendenza, la Sardegna ha avuto uno strano marchio storico: quello di essere stata sempre dominata (in qualche misura ancor oggi), ma di avere sempre resistito. Un’isola sulla quale è calata per secoli la mano oppressiva del colonizzatore a cui ha opposto, sistematicamente, il graffio della resistenza. In questa dialettica perenne i Sardi sono riusciti a mantenere, anzi a sviluppare, l’identità di popolo e, da ciò sostenuti, a percorrere, senza sosta, un cammino di autonomia, per il riscatto e per il ritorno alla libertà dell’origine. Si discute, dagli storici, sul quando e sul come sia nato questo sforzo di organizzarsi secondo il proprio genio, corrispondendo a un diritto di natura e di gente sarda specificamente e diversamente connotata. Vi è chi opina di riconoscere il punto iniziale della coscienza e del moto autonomistico nel periodo giudicale, quando in una vasta parte dell’isola – quella dell’Arborea – si era realizzata l’autonomia statuale, al punto che gli stessi dominatori stranieri della parte restante vi riconoscevano la nacion sardesca. Altri storici sono d’avviso che i presupposti della questione sarda, in termini di autonomia, stiano nel cosiddetto “triennio rivoluzionario sardo”, cioè nei fatti verificatisi in Sardegna dal 1793 al 1796. Ma vi è infine chi pensa – io tra questi – che il punto critico del riscatto autonomistico vada collocato già al momento in cui la Sardegna fu spaccata in due dall’imperialismo cartaginese, alla fine del VI secolo a. C., perdendo l’unità nazionale morale e reale: il più grande dramma storico dell’isola. Allora fu travolta la lunga e feconda stagione dell’autonomia del popolo sardo e cominciò la storia millenaria della dipendenza isolana. Il modello cartaginese ha funzionato attraverso tanti altri troni e dominazioni per tutto il percorso storico della Sardegna sino al nostro tempo. Infatti dalla dipendenza, per quanto si vadano cogliendo annunzi e attese liberatorie, i Sardi non ne sono ancora usciti, interamente. In quella drammatica circostanza sono nate le due culture che ancora distinguono e tormentano l’isola e i suoi popoli, è nata la dicotomia continente – mare, lo scontro libertà – integrazione, la questione della Sardegna. Fu allora che gli indigeni fuggiaschi, diventati veramente barbaricini per spazio geografico e per psicologia, dovettero pronunziare per la prima volta, nella genuina lingua sarda del ceppo basco – caucasico, il detto barbaricino “furat chie venit da e su mare”, “ruba chi viene dal mare”. A quel nocciolo storico può risalire la formazione del tessuto culturale, il contesto socio – economico, la struttura spirituale e l’ordinamento giuridico (non ancora del tutto spento) dell’attuale mondo sardo delle “zone interne”: un mondo, come tutti sanno (e meglio, dopo le indagini antropogiuridiche del compianto Pigliaru), antico, chiuso ma reattivo, carcerato (come in una “riserva”) ma resistente e sprigionatore di autonomia. 2 – Scorrendo le fonti classiche, i frammenti che ci sono rimasti di quel paesaggio umano remoto della Sardegna in conflitto perenne con Cartagine e Roma dal VI secolo a. C. sino al I d. C., indicano la ripulsa del dominio e la determinazione di tornare a “su connotu”, la stagione dell’autonomia. Gli autori greci e latini ci dicono di capanne sperdute dove i pastori si cibano soltanto di latte e carne, scrivono di loro tecniche militari difensive consistenti nel mimetizzarsi in boschi e caverne e di sortite improvvise per atti di guerriglia di tipo “partigiano”. Ci parlano dei modi repressivi usati dai Romani, volti a snidare i ribelli con i cani poliziotto, quasi antesignani di quelli moderni, adoperati, anni fa, dai “baschi blu” nelle operazioni contro i “banditi” del Supramonte e più in generale nel Nuorese non integrato e resistenziale. Conosciamo, dalla letteratura antica, stragi feroci di sardi, azioni di brigantaggio (così definite dai Romani come i nazisti chiamavano “banditi” i partigiani italiani della Resistenza) che costrinsero Tiberio a inviare nel 19 d. C., quattromila liberti ebrei coercendis illic (cioè tra le tribù montane) latrociniis. Sappiamo delle “bardane” dei Galillenses, annidati nei boschi dell’Ogliastra, che occupano periodicamente per vim i praedia dei Patulcenses Campani (i sardi collaborazionisti africanizzati e semitizati, poi romanizzati, del Basso Sarcidano, della Trexenta e di Parte Dolia), sottraendo messi e greggi dal III a. C. al 69 d. C. Forse è venuto il tempo di spiegare alcuni eventi storici isolani, anche del Medioevo e dell’età moderna oltre alcuni dell’evo antico e contemporaneo, tenendo presenti questi meccanismi resistenziali: del grande scontro delle due culture del VI secolo a.C., della subcultura violenta della legge della montagna che esplode se accerchiata (la “riserva” barbaricina”). Ciò significa moderare i metodi di ricerca della storiografia tradizionale della storia politica – diplomatica che è piena di falsità (è la storia dei vincitori, storia di parte) ed anche quelli di una storiografia che vuole spiegare la resistenza sarda soltanto con ragioni economiche – sociali, in una contrapposizione di classi, senza aver riguardo alle profonde cause della “storia che sta nel non averne”, cioè le cause etniche – etiche intime alla convinzione nei sardi nel valore della propria cultura “minore” o “minoritaria” (in senso di diversità). Si tratta di tener conto dell’importanza determinante dell’elemento “popolo”, dell’elemento “civiltà” nella grande contesa sarda tra le due culture, dove sta il nocciolo vero, il plafond necessitante della resistenza costante, della conflittualità permanente, di una compiuta autonomia che ancora non c’è. 3 – Sono motivazioni etniche ed etiche, il senso e la ragione dell’appartenenza, che, ancora nel VI secolo d.C., tengono salde e compatte le indomite popolazioni dell’interno dell’isola, per un terzo della sua estensione: le civitates Barbariae con a capo Ospitone dux Barbaricinorum. E’ uno stato indipendente e sovrano ancorato alle tradizioni di lingua, cultura e costume e legato dalla religione primordiale nel culto delle pietre e degli alberi. Nel 549 d. C., il papa Gregorio Magno scrive un’epistola al governatore bizantino dell’isola Zabarda, residente a Forum Traiani (Xrisopolis), per ringraziarlo di aver collaborato a concludere l’accordo con Ospitone con la clausola di lasciare libertà di propaganda per il cristianesimo ai missionari pontefici Felice e Ciriaco. Impotente a occupare con le armi il territorio saldamente in mano delle Civitates Barbariae, l’abile funzionario venuto da Bisanzio si era rivolto al papa romano per trovare una soluzione politica, per la via pacifica della religione, d’uno scontro che durava da settant’anni. In tal modo si sarebbe potuto rimuovere il pericolo costante alla frontiera del territorio isolano in possesso dei Bizantini, dovuto alle reiterate violazioni, sconfinamenti e aggressioni delle forze “barbaricine”, imprese ritenute “banditesche” che mettevano in forse lo svolgimento regolare della vita, della società e dell’economia dei possedimenti imperiali. Se Ospitone e la sua gente si convinsero di convertirsi alla nuova religione, non cessarono i conflitti, tanto che il limes venne rafforzato con presidi di milizie locali (limitanei), tutto intorno alla roccaforte della Barbargia di Ollolai, centro del potere indigeno. E il magister militum, il governatore bizantino, dovette ristare ancora al Forum Traiani, capo-saldo della frontiera, ancora per 49 anni, sino al 598, quando la sede, rasserenato il clima, fu trasferita a Cagliari. La conversione al cristianesimo non estirpò tradizioni, costumi e statuti. Si abbatterono le pietre sacre degli antenati, ma restò il “codice barbaricino” (ancora oggi non del tutto rimosso) che punisce il furto in casa propria ma lo considera atto di guerra in terreno altrui e lava le offese e tutela l’onore personale e di gruppo vendicandolo col sangue. Un autogoverno, che può rasentare l’anarchia, un’eguaglitarismo quasi “solidarismo” che non ha radici soltanto nell’effimero scambievole economicistico e volgare, ma anche nel vincolo etico d’un sistema creduto e sofferto sia pure a livello di comunità di villaggio, quando non di regione o di popolo nel comune denominatore dell’antica e comune difesa storica da tutte le dominazioni e colonizzazioni. Un cristianesimo, quello di Ospitone, “libertario” e intriso di paganesimo, che ha lasciato traccia, se non umore, in quello odierno dell’antica “riserva barbaricina”. 4 – Un passo della Vita Ludovici imperatori (MGH, II, 632) fa parola del conte Bonifacio, prefetto della Corsica nominato da Ludovico I e preposto alla difesa generale dei possedimenti franchi nel Mare mediterraneo. Nell’anno 828, allestita una piccola flotta cui si aggiunsero il fratello Bernardo e altri, dopo aver perlustrato il mare senza trovarli, Bonifacio Sardorum insulam amicorum appulit. L’amicizia datava da tredici anni prima, da quando nell’815 legati di Sardegna si recarono alla corte dell’imperatore dei Franchi e d’Occidente per offrire doni non disinteressati. L’interesse stava nella necessità dell’impero d’Oriente, ancora sovrano della Sardegna, di avere aiuto dai Franchi contro gli Arabi per difendere il debole possesso, minacciato anche dai Sardi che già levavano voci di autonomia. Lo sbarco di Bonifacio è una forma di questo aiuto. Ovviamente un soccorso di “amicizia”, non uno stato di dipendenza della Sardegna dai Franchi. D’altra parte, nel quadro delle notizie sardo – franche, si può ravvisare la tendenza dell’isola, se non a staccarsi, non potendolo, dall’Oriente, a orbitare nell’area della nuova grande potenza occidentale, in un sogno di lontana libertà. 5 – La caduta dell’Impero di Bisanzio e la perdita dei collegamenti con l’Occidente (con gli stessi Franchi) danno la speranza ai sardi del riemergere dell’antica nazione. Si forma appunto un governo autonomo, con a capo dei giudici, forse anche per suggerimento della Chiesa bizantina che, a differenza dell’autorità civile, non aveva perso del tutto l’influenza, mantenendo la presenza fisica e il potere spirituale coerente ai tempi e determinante nello sviluppo, per aver riflessi anche di natura economica. In questo libero e in certa misura indipendente periodo di storia sarda, si colgono i presupposti politici e istituzionali della formazione dei giudicati nel secolo XI. Ha scritto Umberto Cardia che il carattere autonomo del regime giudicale deriva dal fondo etnico e da un senso comune sociale e culturale che tende a realizzare l’unità di popolo e nazione. Un ordine “sovrano”, con soggettività statuale, si realizza alla fine del secolo XIV, nell’ambito del libero Giudicato di Arborea. Il quadro normativo è contenuto nella Carta de Logu, scritta il lingua sarda del tempo. Si palesa come un Regno indigeno (Barisone d’Arborea viene incoronato Re di Sardegna, in Pavia, da Federico Barbarossa, nel 1166). La memoria di questo Regno è rimasta nell’immaginario collettivo dei sardi, come istituzione di autonomia e di soggettività autonomistica, sino ai nostri tempi. Questa di Regno è un’idea centrale, un’idea forza che nutre circa centocinquanta anni di guerra d’una parte dei sardi contro lo straniero nell’isola. Un’idea pervasiva e resistente al punto che lo stesso conquistatore aragonese deve riconoscere alla Sardegna le caratteristiche di Regno, come continuum nel tempo della statualità giudicale. Ne mantiene, infatti, la legge e gli ordinamenti propri nel quadro istituzionale della corona di Spagna: i Parlamenti e gli Stamenti. E’ un farsi dell’autonomia come autogoverno, sia pure entro più ampi e dinamici sistemi statuali, con i quali non si confonde in quanto proprio d’un popolo che si identifica con una nazione: la nacion sardesca (così la titola il conquistatore iberico). 6 – Già dopo la conquista catalana – aragonese nel 1324 si manifesta un atteggiamento di opposizione non solo tra stato indigeno e stato invasore, ma tra elementi della società sarda e agenti della potenza dominante che tende ad occupare con suo personale tutti i gangli della vita ufficiale, laici e religiosi. Il nuovo ordine politico e la svolta ideologica ispanica si manifesta nei provvedimenti dell’Infante Alfonso d’Aragona prima e poi di Pietro IV il Giovane (1335) che fanno divieto di residenza e dimora nelle città e dintorni ai frati dell’Ordine dei Minori e dei Predicatori che non siano catalani e aragonesi. Forte la reazione, sino all’ostilità, dei frati sardi e corsi, in un sussulto di identità. Con la fine del regno giudicale e, poi, del Marchesato d’Oristano nel 1478, a fronte della feudalità spagnola si afferma una nobiltà indigena, in specie la Casata dei Marchesi di Laconi (i Castelvì e gli Aymerich). Si fa più robusta la polemica tra il clero locale e quello d’obbedienza ispanica. Nel secolo XVI si avverte una ripresa e maturazione della lotta autonomistica del popolo sardo, nel senso di riserva di cariche e di governo per i sardi. 7 – Nel mondo ecclesiale, il 13 dicembre del 1559, i frati dell’Osservanza del Convento di Santa Maria di Gesù a Cagliari reagirono a un editto pubblico dell’Arcivescovo spagnolo Mons. Antonio Parragues de Castillejo che imponeva a tutti i fedeli di accudire agli uffici divini nelle loro parrocchie, pena scomunica, e non nel Convento degli Osservanti, frati non affidabili nella formazione e nello studio e poco devoti al Re. Questi risposero al Parragues attraverso la voce dal pulpito di fr. Arcangelo Bellid, nella chiesa del monastero femminile di Santa Lucia in Castello, proprio il giorno della festa della Santa. Il frate tra l’altro esortò i fedeli della chiesa di non aver riguardi né di accogliere la censura intimata dall’Arcivescovo, che egli “si gettava dietro le spalle”. Il discorso incauto gli procurò la prigione e la ritrattazione in pubblico. Ma diciotto giorni dopo la predica nel convento di S. Lucia, la replicò nella chiesa del proprio convento con le stesse parole e tono, questa volta protetto dal Viceré D. Alvaro Madrigal, a spregio dell’Arcivescovo che si era opposto alla celebrazione d’un Parlamento straordinario. Il dissenso tra il Parragues (personaggio di vertice ecclesiastico e rappresentante della “grandeur spagnola”) e il Bellid che si oppone interpretando i sensi di “ribellismo” dei confratelli in maggioranza sardi e corsi, non si pone tanto a piano disciplinare quanto in polemica politica. E’ una contestazione che si colloca nel clima del secolo per così dire di “fibrillazione sardista”. Alto clero e autorità regia, per frenare l’egemonia del personale sardo dell’Osservanza, fanno ricorso a flussi di religiosi iberici. Filippo II procederà ad una progressiva e coercitiva desardizzazione socio culturale – ecclesiastica del contesto civile ed ecclesiale del Regno di Sardegna. E se da una parte lo Stamento militare sollecita il Re, in data 8 maggio 1565, ad imporre che gli Statuti Comunali antichi di Sassari, Bosa, e Iglesias, originariamente in lingua sarda e poi tradotti in lingua italiana, siano nuovamente resi, per decreto reale, “en llengua sardesca o catalana” “que los de llengua italiana sien abolits talment que non reste memoria de aquels”, dall’altra lo stesso Filippo II aveva proibito ai giovani sardi di recarsi, per motivi e ragioni di studi, alle Università italiane per costringerli a preferire quelle spagnole e sradicarli dall’area matrice culturale italiana. Ugualmente per il contesto ecclesiastico, e se, nelle chiese particolare o diocesi sarde, non c’era spazio per i prelati sardi e italiani, ma solo per quelli spagnoli, analogamente gli Ordini regolari dovevano essere totalmente integrati e assorbiti nel conteso spagnolo degli stessi Ordini. Il trapasso dalla Provincia di Sardegna a quella Ultramontana e l’incorporamento e l’unione dei frati alla parte spagnola non furono senza una forte resistenza da parte sarda. Il tentativo di riforma, basata sulla sostituzione dei “sardos discolos” con frati spagnoli, ad opera di fr. Vincenzo Ferri, nel 1565, incontrò la ferma opposizione del gruppo di frati sardo – corsi. Non migliore accoglienza toccò al drappello dei trenta prima e quindici frati delle Provincie aragonesi, venuti al seguito del Commissario fr. Vincenzo Angles, nel 1575. A questo i frati corsi, in Sassari, negarono l’obbedienza e, per di più, levandoli contro falsi testimoni, lo accusarono nanti il Generale e Protettore dell’Ordine che lo esonerò dalla Commissaria di Sardegna. L’Angles, in spregio dell’ordine del Ministro Generale, continuò a mantenere l’ufficio, ciò che aumentò lo sdegno dei frati i quali insorsero in aperta ribellione al suo vice fr. Pedro Cortès. E’ verosimile che la ripulsa dei frati sardo – corsi ad essere agiti da superiori esterni per operare in autonomia, non fosse rimasta nascosta al popolo, data la consuetudine con i religiosi, predicatori d’ufficio e padri spirituali. Possibile, dunque, che si fosse ingenerata anche nella gente, una crisi di credibilità, il sospetto di essere suddita d’un potere estraneo e intruso e la voglia di eliminarlo, nel giusto momento, per fare da sé. La rivendicazione “sardista”, nel senso di riserva di cariche o di ruoli di governo per gli indigeni in ogni campo, non viene meno nel secolo XVII. Ma costituì premessa ai moti angioyani della fine del ’700. Moti avversi al dominio piemontese che già all’inizio di secolo, nel 1718, aveva tradito l’impegno politico principale, assunto con il Trattato di Londra, di mantenere le leggi e gli statuti dell’isola, pattuiti con la Spagna; tra l’altro di avere Viceré indigeni. 8 – Il passaggio della Sardegna al Piemonte, frutto d’un baratto, dette occasione al costituirsi d’un partito “patriottico”, e luogo al formarsi d’un nuovo fronte di resistenza e di opposizione contro l’ultimo venuto. Questo era ritenuto un corpo alieno e repressivo, non meno dei precedenti, intento all’integrazione dei sardi e voglioso di istituire, come di fatto fu istituito, uno studiato rapporto di tipo coloniale. Il vantato riformismo del Ministro Bogino, a giudizio di storici di parte non piemontese, non può essere riferito ai quadri concettuali del vero riformismo settecentesco. Non procura una crescita dal basso né rimuove le incrostazioni del passato – soprattutto il feudalesimo – per il cambio democratico. Concesse talune realizzazioni positive (Università, Monti Granatici, pratiche agricole), il quadro strutturale risultò inefficace e tale da ingenerare credibilità nei così detti “riformatori”. Non ne sortì unione tra governanti e governati. La dissennata politica di “integrazione”, aprì un solco, creò un incompatibile dissidio tra le due parti. Era inaccettabile dal partito “patriottico l’inconsulto e incolto tentativo di piemontesizzare culturalmente e linguisticamente la Sardegna e di snazionalizzarla sottraendole quel che rimaneva ancora della propria identità con i diritti di autonomia, seppur “deboli”, acquisiti nel passato. Dal passato rimaneva intatto il quadro negativo: problemi insoluti, le sofferenze del popolo e le angherie dei ceti elevati, l’economia stenta, lo sviluppo zero. Permanevano integri gli ordinamenti feudali, l’oppressione fiscale, l’espropriazione delle risorse del luogo, l’esclusione quasi totale dagli uffici dei “nazionali”. Il campo era tenuto dalle sopercherie del potere politico, civile e militare, da governatori forestieri corrotti e abbietti, circondati da cortigiani in prevalenza piemontesi e nizzardi non meno disonesti e corrotti, da ufficiali e soldati di ventura. Tutto ciò non poteva non indurre i sudditi d’uno Stato tra i più “oscuri” d’Europa, tra i più piccoli ma più “assoluti” e “conservatori”, ad una avversione – specie nel cresciuto ceto borghese e nei pochi magistrati indigeni – e a uno stabile e diffuso sentimento antipiemontese che sfociò, di necessità, nell’azione rivoluzionaria di fine secolo. 9 – I fatti rivoluzionari del triennio 1794-1796, lungi da essere stati, come nell’interpretazione d’una certa storiografia di “palazzo”, jacqueries contadine, senza negare il carattere peculiare sardo, si spiegano nel quadro dei sommovimenti sociali che da Parigi si irradiavano in Europa e nel mondo nel segno repubblicano e autonomistico. La vittoria sui Franchi nel 1793, con azione congiunta e unità d’intenti di aristocrazia, borghesia, clero e popolani indigeni, fu un “trionfo” della volontà di indipendenza dei sardi, il risultato d’un popolo che si compatta nel segno e nella coscienza di appartenere a una nazione che si risveglia e insorge, vincendolo, contro lo straniero. I moti espressi dalla borghesia urbana – leader la magistratura indigena della Reale Udienza in uno ad elementi popolari, usciti alla espulsione di piemontesi e nizzardi della città di Cagliari e di altri luoghi dell’isola (in capo il Viceré Balbiano, nel 1794), trovano l’input nell’onda secolare della rivendicazione di autogoverno dei sardi. All’idea di autogoverno, riscatto dalla servitù al dominio, espressione di libertà democratica, si rifaceva la Carta dei diritti della Sardegna, elaborata e approvata dagli Stamenti quasi all’unanimità. Nell’evento di ribellione, esaltato sino alla cacciata del conquistatore di turno, è da vedere, secondo Umberto Cardia, la prima, per rimanere l’ultima, vendetta storica della nazione sarda. Vendetta effimera in quanto l’unità degli anni 1973 e 1974 si ruppe già nella seconda metà di quest’ultimo anno con il colpo di forza termidoriano del Pitzolo e del La Planargia, circuiti da emissari del governo sabaudo, finito per loro in tragedia. Nel contempo vi fu la secessione della città di Sassari e del Capo di sopra, procurata dalla feudalità sardo-iberica, complice lo stesso governo sabaudo. L’ala moderata della borghesia cagliaritana (i Cabras, i Pintor, il popolano Sulcis), leaders della sommossa autonomista antipiemontese e gli esponenti dell’aristocrazia e della feudalità sarda arretrarono rispetto alle precedenti posizioni unitarie. Gli elementi della borghesia giacobina e repubblicana, fautori dell’indipendenza dell’isola e filofrancese (il Cilocco e il Mundula) si misero a capo dei moti di jacquerie rurale, del movimento popolare antifeudale delle villi del Capo di sopra che, nel 1975, si era concentrato nell’assalto e nel saccheggio di Sassari e concluso con la cacciata dalla città dei “realisti” (esponenti del governo, del clero e della feudalità conservatrice). In questi fatti si inserisce, come moderatore, Giovanni Maria Angioy, il personaggio più eminente (tale resterà anche nel ricordo storico) delle vicende del tempo alimentate dalle speranze di liberazione dell’isola viste in un quadro europeo. Angioy, nato a Bono, nella profonda regione montana di Sa Costera, nel 1751, da genitori nobili e possidenti, era uomo delle zone interne, quella generatrice, per natura, di “ribellismo” e di coscienza “resistenziale”, accetto dunque a un fiero popolo agreste. Uomo grato anche all’ambiente chiesastico; il fratello maggiore arciprete della Cattedrale di Nuoro, lo zio materno canonico della cattedrale di Sassari, per di più il padre fattosi prete in vedovanza. D’altra parte, laureatosi in giurisprudenza nell’Università turritana, aveva attinto in questa città di tradizioni repubblicane stimoli e umori culturali laici. Da ultimo, portatosi a Cagliari per la pratica forense, vi esercitava apprezzata avvocatura e, provvisto di profonda dottrina giuridica, toccava l’apice dell’accademia con l’insegnamento di diritto civile in quell’Ateneo. Impiego, quest’ultimo, parzialmente appagante ma non soddisfacente in pieno le sue ambizioni di soggetto attivo nella classe dirigente, da lui esplicata nel raggiungimento del grado elevatissimo di giudizio di giudice della Reale Udienza, braccio di giurisdizione e di governo in vacanza viceregia. Uomo, dunque, Angioy con radici e interessi negli ambienti culturali, economici e sociali, differenziati, dei due capi dell’Isola. Impegnato anche nella conduzione dei suoi possedimenti terrieri e nel mercato, realizzata secondo gli indirizzi in materia dell’illuminismo. Agli inizi della carriera Angioy non era giacobino né repubblicano. Era un autonomismo, fiero di appartenere a una “nazione minore” e far parte d’un gruppo etnico ben definito: il sardo. Era fautore dell’abolizione del sistema feudale, ma per gradi, nella prospettiva dell’autogoverno da realizzarsi, nel tempo, all’interno della monarchia. A fondare e concretare il governo autonomo sardo avrebbero dovuto concorrere, in unità d’intenti, forze borghesi e popolari urbane, ma fondamentale sarebbe stata la sinergia del mondo rurale di tutta l’isola con le proprie risorse umane ed economiche attivate in un sistema di corretto capitalismo, come quello allora emergente nel contesto europeo. Questo era il progetto dell’Angioy, riformista e illuminista, atto al progresso integrale della Sardegna, quando il Viceré, d’accordo Stamenti e Reale Udienza, gli affidavano una delicata missione. Al giovane e intraprendente leader del partito democratico, a cui cultura e culture della terra sarda stavano in testa e in cuore, veniva dato l’incarico di pacificare il Capo del Nord turbato dalle jacqueries, e di governarlo e normalizzarlo, con titolo e carica di Alternos, munito di pieni poteri. Nel pieno vigore dei suoi quarantacinque anni, con la coscienza d’un grande dovere patriottico e d’una missione quasi salvificata in un certo senso della nazione sarda in attesa di tempi liberatori quali erano quelli che andavano compiendosi nel contorno europeo, l’Alternos partiva da Cagliari dove per un destino infausto quanto fausto l’inizio, non avrebbe fatto ritorno. Era il 13 febbraio 1796. Un viaggio lungo il suo, esaltante, tra speranze e acclamazioni d’un popolo fiducioso del riscatto dopo tanto dominio di padroni esterni e mediatori interni. A Sassari l’Angioy entrava trionfante nella città, alla testa di oltre mille cavalli e uno stuolo di paesani a piedi, in variopinto corteo, per la porta di Sant’Antonio. Qui veniva accolto dai suoi fans con evviva, grida, lazzi contro i baroni feudali e i traditori “realisti” della nazione sarda di cui si osannava la libertà. Nel dare inizio al governo democratico, l’Alternos reintegrava il vuoto di potere adottando alcuni provvedimenti normativi al “nuovo”: atti rivolti alla pacificazione. Quanto all’anarchia e le ribellioni che si erano fatte più forti e organizzate nelle ville, inviava il personale di propria fiducia e vicino politicamente, a temperarne l’emozione. Ma dal contado rispondevano che egli in persona si recasse tra le comunità villatiche per ascoltare le impellenti volontà di riscatto e si ponesse alla guida del movimento. Dalla vasta confederazione antifeudale, formata da rappresentanti del clero, dei consiglieri comunitativi, dei prinzipales, venivano voci su sempre maggiori abusi e danni irreparabili procurati dal regime feudale. Alfine, mosso dall’intento di indurre i rivoltosi alla moderazione e dalla duplice sollecitazione, quella dei vassalli e quella pressante e quasi minacciosa del Viceré, l’Angioy si partì da Sassari verso le ville in agitazione il 2 giugno 1796, con la scorta di miliziani, dragoni e amici. Ai vassalli egli fece balenare la speranza di ottenere dall’autorità preposta il riscatto dei feudi, quando questa fosse la ferma volontà popolare. Si trattava di far constatare al governo regio, del quale non si contestava la legittimità, rinnovando anzi il pieno sentimento di fedeltà al Sovrano sabaudo, la decisa intenzione dei villici di liberarsi dal giogo feudale. E ciò poteva essere reso visibile attraverso una marcia pacifica di popolo verso la sede viceregia guidati dall’Alternos. Pertanto i convenuti si accordarono di accompagnarsi con le loro milizie a cavalli e a piedi, al viaggio dell’Angioy. Il viaggio si svolse non senza difficoltà, a causa di scontri con milizie della parte baronale e insinuazioni d’un sollevamento dei commissari governativi del Marghine e di Bosa. Giunto con i suoi a Oristano, l’Alternos si premurò di inviare un messaggio nel quale diceva di trovarsi colà a capo d’una schiera di vassalli del Logudoro in armi, i quali chiedevano un abboccamento col Viceré, o in sua vece, con una deputazione degli Stamenti in luogo da loro scelto allo scopo di esporre le lagnanze e l’indignazione per non aver avuto alcun riscontro circa provvedimenti atti a rimuovere l’oppressione feudale. La provincia logudorese rimaneva “fedele a Sua Maestà”, ma era altrettanto ferma e risoluta nel difendere diritti, interessi e privilegi della “Sarda Nazione”. La lettera dell’Alternos si incrociava con ben diverse determinazioni del Viceré, avvallate dagli Stamenti. Una missiva viceregia spedita ai ministri di giustizia delle singole comunità del Capo di sopra, li informava che l’Angioy era stato rimosso dalla carica di Alternos, e gli si ordinava di non prestare obbedienza, sotto pene gravi estensibili alla morte. Inoltre il Viceré radunava con urgenza gli Stamenti e le due Sale della Reale Udienza, denunziando il movimento dell’Alternos come rovinoso per la monarchia, al punto di dover essere represso con le armi. Si decideva, in conseguenza, di apprestare un corpo di esercito da mandare incontro alle milizie dell’Angioy prima che si muovessero da Oristano verso la capitale, attivandone la difesa. L’Angioy, avuto sentore delle determinazioni di guerra, decise di arretrare le sue truppe verso il villaggio di Massama, accampandovisi. Al ponte del Tirso venne lo scontro di fucileria tra i contendenti, alla pari per qualche tempo. Ma essendo poi caduto il capo dell’avanguardia angioyana, i restanti combattenti ripiegarono verso il campo di Massama, dove l’Angioy, constatata la situazione di disfatta, sbandati e dispersisi parte dei militari, ordinò la ritirata verso Sassari, con i resti! A Sassari venne ricevuto dal Mundula e dai suoi amici. La città lo accolse ancora con esultanza assiepandosi nelle vie e inneggiando alla libertà, persino col grido francese del ça ira. Un modo, questo, per mascherare la sconfitta e tenere in vita un sogno di futura rivincita. Ma la sera dello stesso giorno del festoso reingresso, Angioy lasciava silenziosamente la città, dirigendosi a cavallo con una piccola scorta armata a Portotorres. A notte, con i fidi amici di ideali e di battaglie democratiche, s’imbarcava su un veliero napoletano diretto ad Ajaccio. Era la prima tappa dell’esilio, per lui senza ritorno. Per la storia l’epilogo del triennio rivoluzionario. Si vanificavano gli empiti di libertà, di autonomia. di autodeterminazione, di orgoglio nazionale espressi con la vittoria sui Francesi, la cacciata dei Piemontesi, l’autogoverno stamentario dopo l’esecuzione popolare dei “realisti” Pitzorno e Paliaccio, i moti antifeudali, la marcia dei vassalli logudoresi per la difesa della nazione sarda. Tutti questi esaltanti avvenimenti, tesi alla liberazione nazionale, diventavano per i democratici rovello di memoria e pena per le battaglie perdute, per i reazionari un oggetto di fastidio da cancellare anche dal ricordo storico. Ancora una volta la Sardegna accumulava la storia delle occasioni perdute per effetto delle divisioni e per una sorta di accettazione d’un ruolo di martire del dominio secolare. Non stupisce che, dopo tale tragica débacle, Giovanni Maria Angioy, nel definitivo esilio a Parigi, non fosse rimasto altro che una vendetta “virtuale”: quella di diventare giacobino e repubblicano e, nel 1799, nove anni prima della morte, di sollecitare il governo francese a procurare la liberazione della Sardegna, occupandola militarmente. 10 – Per effetto della dura repressione dei moti angioyani, nel primo ventennio dell’800 caratterizzato dalla cresciuta integrazione e subordinazione politica ed economica dell’isola al Piemonte, e, poi, dalla ambita e subito deprecata fusione del 1847 conclusa con la Costituzione albertina, gli antichi istituti di autonomia sarda decaddero e l’autonomia stessa, come sentimento, entrò in una grande zona d’ombra. Né valsero a restituire le sorti, i sommovimenti rurali contro le chiudende e il ritorno a su connotu (1832, 1868). Né, tanto meno, il revival romantico della più remota storia patria, l’orgoglio retorico di popolo e nazione, celebrati dagli autori delle false Carte d’Arborea. La fusione aveva addormentato gli spiriti, ma non di tutti. Il senatore Giuseppe Musio, già mentre si costruiva (1848), parlava di “fusione” condizionata, avvertendo la non utilità della “non perfetta mischianza di tutto nostro e di tutto noi con i continentali”. Nell’anno medesimo il canonico Fenu vedeva la soluzione delle sperequazioni tra la Sardegna e il Piemonte nell’istituzione di un Parlamento sardo, il quale “darà ai sardi una capacità di iniziativa che non hanno mai potuto avere perché tutte le cose sono state decise dagli altri”. Una quindicina di anni dopo la fusione, Giovanni Battista Tuveri annunciava una nuova questione, la “questione sarda” e invocava un’insurrezione antipiemontese del popolo sardo a favore dell’Inghilterra. Egli saldava tale questione all’idea repubblicana, democratica e federalista, dello Stato. A questa idea si riferiva anche Giorgio Asproni il quale, però, inclinava al moto di unificazione dello Stato italiano rivolto soprattutto al sostegno delle impoverite plebi meridionali contro lo sfruttamento del capitalismo settentrionale. In lui era la coscienza di una patria isolana con una precisa etnia e una particolare cultura. Ne difese e promosse gli interessi ed esaltò la libertà, tanto da incitare i sardi a “muovere” i loro “Vespri”. Scriveva Giovanni Siotto Pintor che “in ogni tempo i continentali tennero le isole come colonie, come spugne da spremere e da succhiare. Con piede tardo arrivò il 1848 allorché, invasa la popolazione da quella mattezza collettiva della quale più esempi si vedono nella storia, gridò l’unione immediata, la quale contro ogni buon costume confuse le sorti di un infante con quelle di un popolo maturo. Quando sarà che le isole raggiungeranno il continente senza chiedere venia allo statuto, io risponderò che non mai. Dunque, non può essere col continente unione, anzi separazione. Ciò è sentito da tutti gli isolani di ogni parte dell’isola. Se vi si facesse un plebiscito, compresi i ragazzi, senza dubbio nessuno voterebbe per essere lasciati a sé”. Il Siotto Pintor nella Storia civile dei popoli sardi, celebra i moti antipiemontesi dell’ultimo decennio del Settecento e il tentativo di G.M. Angioy e dei suoi seguaci teso a fondare su nuove basi politiche e sociali l’autonomia della Sardegna. In pari tempo (1878), collega l’autocritica collettiva dei sardi alla fusione del 1848, al ricordo degli istituti di antica autonomia e del triennio rivoluzionario. 11 – Nell’ultimo ventennio del secolo XIX la questione sociale, determinata dai turbamenti del mondo rurale e dai moti in quello minerario e operaio urbano, si accomuna alla rivendicazione politica, sostenuta dai partiti socialisti; né mancano riflessi in queste istanze della specificità etnica, storica e culturale dell’isola. Ma gli auspici di liberazione della Sardegna si palesano, più espliciti, con accenti di protesta e di riscossa, nella poesia colta e popolare, nell’arte, nella narrativa a sfondo popolare. La poesia popolare del su connotu, d’intonazione sociale con occhi volti ai valori del passato, prepara il clima culturale in cui produrranno Sebastiano Satta e Grazia Deledda. Il primo attinge l’ispirazione socialista negli anni di studio nell’Università di Sassari: un socialismo di natura “sardista” che non perde le implicazioni borghesi. Satta esalta il popolo sardo con una aggressione verbale di tipo sciovinista. Il suo indipendentismo socialista si alterna al desiderio della bara d’elce in cui porre la Sardegna per sprofondarla in mare . Nella Deledda, che non ha deviazioni socialiste ma non è immune dal positivismo, il “sardismo” è meno drammatico, non impegnato, perché il suo non è il sardismo politico. E’ il “sardismo” di coscienza della diversità. E’ un sardismo “enfatico”, ma sincero. La sardità autentica sta, per lei, nei valori che ripropone la forza fantastica e artistica dei suoi romanzi. Il “sardismo” è recuperato anche attraverso il folklore che non è di cornice ma si sostanzia di valori, è cultura sarda irrinunciabile senza di che i suoi romanzi non hanno senso. 12 – Le aspirazioni autonomistiche riemergono nel movimento di opinione antiprotezionista contro gli industriali del Nord, negli anni 1907 – 1909. Il movimento unisce nell’azione ambienti intellettuali, borghesi ed operai e si rispecchia anche nella stampa quotidiana e periodica del tempo. Nel foglio socialista “La Folla”, nel dicembre del 1907, si svolge un significativo dibattito sul “separatismo”. Altri fogli socialisti, nelle elezioni politiche del 1909, sostengono la candidatura del radicale e autonomista Umberto Cao. Sintomi interessanti di risveglio autonomistico si traducono, negli anni precedenti la prima guerra mondiale, nell’intensa azione di propaganda svolta nel Sassarese e nel Logudoro, dal bonorvese Giovanni Antioco Mura. Egli tentò di sviluppare, operando nel mondo contadino, le idee del socialismo sindacalista con l’innesto di istanze autonomistiche e sardiste, nel solco nell’antico movimento angioyano. Di notevole rilievo nella storia del “rinascimento” dell’autonomia, appaiono la visione teorica e l’attività politica del nuorese Attilio Deffenu. Di educazione anarco – socialista e antiprotezionistica, auspica la nascita d’una borghesia imprenditoriale sarda, autonoma, moderna, da porsi come nuova classe dirigente. Nel capitalismo endogeno e nell’economia liberista vede il “risorgimento” politico, sociale e morale. Dunque, un autonomismo di classe, avulso da un progetto istituzionale e territoriale di autonomia, fondamento di compiuto autogoverno. Nel V° Congresso socialista sardo, governato da Angelo Corsi e Alberto Figus, emerge forte la richiesta d’un regime di autonomia politica, da realizzare con l’istituzione di un Parlamento sardo legiferante; dirigente la classe operaia. Nel 1918, anno di celebrazione del Congresso socialista, Umberto Cao, che ebbe un ruolo di primo piano nelle vicende politiche cagliaritane del primo decennio del secolo, promosse un Manifesto per l’autonomia istituzionale e territoriale della Sardegna. 13 – Nel solco di questa tradizione, finito il conflitto mondiale 1914 – 1918, il movimento autonomistico e sardista fece un grande balzo in avanti. Diventò movimento di massa. Nacque dall’esperienza della guerra che vide “uniti” oltre centomila soldati, proletari e piccoli borghesi, reclutati nell’isola. L’istanza autonomistica fu raccolta dapprima appunto dall’Associazione di militari e reduci fondata nel 1918 da Camillo Bellini e Arnaldo Satta Branca. L’Associazione non fece suo l’appello del Cao per la creazione di un “Partito autonomista sardo che proclami la necessità dell’autonomia, già rivelata nella germinazione improvvisa e vigorosa d’un sentimento comune”. Un partito autonomista, come “Partito sardo d’azione”, dopo l’elaborazione teorica dovuta ai suoi più eminenti rappresentanti (C. Bellieni, E. Pilia, E. Lussu, U. Cao, Fancello e altri), nacque e si costituì nel congresso di fondazione, tenuto a Oristano il 16/17 aprile del 1921. Motivo ideale del Partito era la “conquista dell’autogoverno e della sovranità per il popolo sardo e per il popolo italiano”. Partito di popolo inteso a “dare coscienza di sé al proletariato”. Autonomia regionale da esplicare nelle forme della libertà doganale, del libero mercato e scambio, in regime sociale di uguaglianza economica, da realizzarsi attraverso la costituzione di sindacati. La produzione che ne deriva “sarà tutta dei lavoratori e per i lavoratori”. Il maggior teorico – C. Bellieni – auspica uno Stato federale di Regioni-Stato con potestà d’imperio, con poteri primari nei campi di competenza riservati all’Ente-Regione, espresso dal basso, dall’ambito delle province. Nel Partito trovano rispondenza le aspirazioni di un mondo in prevalenza rurale e pastorale, ma non estraneo alle città e alle zone minerarie, diretto da intellettuali della piccola e media borghesia urbana e delle campagne. Nel Partito sardo d’azione si distingue, sebbene in minoranza, un’ala di sinistra, che fa capo a Emilio Lussu, nella quale l’autonomismo acquista una duplice valenza. Vuole rivendicare un nuovo quadro istituzionale federale o regionale a livello alto di “potere” e, insieme, riscattare le masse lavoratrici sarde indirizzate ad assumere ruolo e funzione di autogoverno. Con l’andare del tempo, nel 1972, Lussu diventa federalista, socialista e internazionalista. D’altronde, lo stesso Bellieni, nel 1925, quattro anni dopo la nascita del Partito, a fronte della crisi dello Stato democratico, affermava l’esigenza di riprendere il contatto con le masse proletarie d’accordo con quei partiti che le rappresentano, e che in questo ritorno alle masse stava il vero significato della parola “autonomia”. 14 – Se il maggior riferimento di appartenenza etnica, cementata dal sentimento unitario autonomistico, va al partito che assume significativamente il nome di sardo, nondimeno l’autonomismo regionale tocca, seppur con minore intensità, altre forze politiche di massa di ampio spettro nazionale. Su d’un moderato autonomismo si fonda il Partito popolare italiano, di derivazione giobertiana e sturziana, con base larghissima nel mondo rurale e nei ceti medi urbani. Un grande partito di contadini, scriveva A. Gramsci nel 1920. In Sardegna attrasse a sé parte dell’aristocrazia post – feudale di tradizione piemontesizzante e sabauda e i transfughi dal coccortismo e dal democratismo radicale. Essenzialmente municipalista, incline alla conciliazione tra Stato e Regione, tendenzialmente monarchico, il partito sturziano è orientato a una semplice riforma dello Stato. L’Ente elettivo, rappresentativo, autarchico e legislativo previsto da Sturzo, non esclude poteri dell’apparato burocratico statale. Nel popolarismo entra pure il meridionalismo come suggestione salveminiana e l’interesse per la classe rurale ha preoccupazioni economiche e religiose a sé stanti. Anche l’ala federalista e municipalista del Partito italiano d’azione propone un discorso autonomista. Rivendica l’indipendenza dell’ente – Regione dallo Stato per tutte le funzioni di natura economica e sociale con potestà d’imperio primario nella propria sfera di competenza determinata dai limiti posti dalla sovranità dello Stato federale costituito dalle Regioni. All’interno del Partito comunista italiano risalta l’ipotesi gramsciana di autonomia. Già nel 1922 Gramsci avanza la parola d’ordine sulla trasformazione dell’Italia in una “Repubblica federale di operai e contadini” e suggerisce l’opportunità di dialogare in Sardegna, a tal fine, con il Partito sardo d’azione. La questione sarda è da risolvere a partire da una rivendicazione etnica – territoriale e dalla remota, diffusa e insistita aspirazione all’autonomia e all’autogoverno, con ripetuti tentativi, peraltro mai riusciti, di sottrarsi al dominio straniero e di darsi proprie istituzioni. Questo storico anelito al riscatto si rifletteva anche nel sovversivismo elementare, sino a forme deviate, delle masse contadine e popolari sarde e nel loro istintivo sentimento anti-continentale. Occorreva, dunque, riunire e organizzare queste forze matrici, implicitamente, dell’autonomia in un insieme di forze regolari da imporsi a guida del riscatto dall’oppressione secolare. Più nettamente, questa questione, di sardismo e autonomismo, è posta fa Gramsci, nel 1936, nello scritto Alcuni temi della questione meridionale. Qui la “questione” da sarda diventa meridionale e nazionale insieme. Il sardismo, cioè il Forza paris dei sardi, viene assunto come forza classista e omogenea dell’intellettualità libera dalla conservazione borghese, in alleanza con i ceti rurali e operai. La “questione” è posta in termini di un “quasi sardismo” che passa alle tesi del socialismo scientifico. C’è, in effetti, il superamento del sardismo e del regionalismo tradizionale e una svolta polemica con quest’ultimo, come nella questione meridionale Gramsci entra in polemica con le tesi salveminiane. 15 – Già all’inizio del formarsi di questo schieramento autonomistico di differente estrazione ideologica, preludio di una felice età dell’autonomia e del conseguente progresso democratico e civile dell’isola, irrompe il fascismo. Il fascismo tentò di attrarre nella sua orbita lo stesso Partito sardo per un confronto sulla base della comune matrice combattentistica e con richiamo ai contenuti meridionalistici e rinnovatori. La trattativa, nel 1923, fu posta sul terreno della concessione alla Sardegna d’un regime di autonomia regionale legislativa e amministrativa in materia economica e non solo economica. Su ciò poteva configurarsi uno schema di patto di fusione del P.N.F e del P. s. d’azione. La risposta di Mussolini fu negativa. Si ruppe la trattativa e si spaccò anche il P. s. d’azione in una destra filofascista o sardofascista e il grosso del personale dirigente e della base di massa del partito, passato all’opposizione, fermo sulle posizioni originarie dell’autonomismo regionale, in aperto e schierato antifascismo. Con le leggi eccezionali del novembre 1926, la dittatura fascista spense tutte le voci libere, interrompendo, per un ventennio, il percorso della stagione felice dell’autonomia diffusa e del sardismo partitico e generalizzato. Ma non cessò il desiderio di autonomismo e di libertà. Nello stesso piccolo mondo del sardofascismo rimase qualcosa del programma del Partito sardo d’azione. Nel terreno economico Paolo Pili, diventato da sardista deputato e segretario del fascio cagliaritano, creò la Federazione delle latterie sociali della Sardegna per sottrarsi al giogo del capitale caseario privato continentale e procurò canali autonomi di credito e commercializzazione in primo luogo negli Stati Uniti d’America. Impresa fatta fallire dal grosso capitale italiano che aveva in prima linea promosso e sostenuto il regime dei fasci. A Pili non toccò migliore sorte all’interno del partito perché fu sostituito in tutti i suoi incarichi economici e politici, riducendosi, alla fine, a vita privata. Uomo retto, rimase nell’animo “sardista”. Egli cadde nell’errore di voler conciliare contenitori di libertà quali l’autonomismo e il sardismo con una espressione di tirannia. Per il resto, il sardismo – autonomismo si ritrasse nella coscienza, nella ricerca e negli atti in favore dell’identità e dei valori isolani da parte degli storici (C. Bellieni, R. Carta Raspi, B.R. Motzo)) degli artisti (Carmelo Floris), di letterati (Egidio Pilia) del diritto (Antonio Marongiu) e in riviste di storia, cultura e tradizioni popolari sarde. 16 – E’ nell’approssimarsi alla fine dell’ultima grande guerra che si risveglia l’istanza sardista e autonomista di segno antifascista, nel tentativo di liberazione della Sardegna. In concomitanza con la guerra civile di Spagna, E. Lussu promosse una cospirazione, cercando di coinvolgere antifascisti sardi (popolari e sardisti residenti nell’isola) e volontari (anarchici, comunisti, sardisti e senza partito combattenti nelle brigate internazionali repubblicane in terra iberica) per uno sbarco in Sardegna che avrebbe dovuto provocare un’insurrezione e un colpo di Stato. Progetto andato a monte a finito con l’arresto di alcuni cospiratori del Nuorese. Il ritiro spontaneo delle truppe tedesche (la 90° divisione corazzata) dall’isola nel 1943, il vuoto di fascismo nella maggior parte del territorio sardo, oltre che la pronta occupazione delle forze anglo – americane al comando del generale Webster, tolse l’occasione al manifestarsi in Sardegna, se non in forme sporadiche senza risonanze, del movimento di liberazione nazionale che, nel 1945, pose fine al conflitto internazionale e alla guerra civile nella penisola italiana. Il potere reale fu assunto dal comando militare alleato. Si formò un Comitato regionale con una giunta consultiva. Il 27 gennaio 1944 il governo fu affidato a un Alto Commissario nella persona del generale di squadra aerea Pietro Pinna, con la somma del potere politico e civile. 17 – Si ricostruirono i partiti dell’antiguerra, con i programmi più o meno variati, ma tutti con l’intento di dotare i sardi di più ampi poteri rispetto al passato. Con l’Appello del Partito comunista di Sardegna nacque il Partito comunista sardo, di orientamento federalista, in tono con i motivi e le parole d’ordine gramsciani presenti già nel programma approvato nel 1920 dal congresso comunista di Lione. Il Partito comunista di Sardegna si dichiara autonomo ma direttamente collegato con l’Internazionale comunista. Ma nel primo congresso del Partito comunista italiano, tenuto a Iglesias l’11/12 marzo del 1944, fu sciolto per averlo ritenuto separatista. Soltanto nel 1947 il P.C.I si incammina sulla via dell’autonomismo di ispirazione gramsciana. Il risorto Partito sardo d’azione, a parte una frangia iniziale separatista con segrete simpatie filoamericane e filobritanniche, nei congressi del 1944 e 1945, fedele al principio d’uno Stato federalista repubblicano italiano, continua a rivendicare un autonomismo regionale forte e radicale, con poteri legislativi sovrani e piena competenza nei settori finanziari ed economici di base liberista. Rispetto al passato emerge l’attenzione a un programma di riforma sociale. Nel partito della Democrazia cristiana, erede del Partito popolare sturziano, si avverte un più attento interesse alla “questione sarda”. Antonio Segni, anticipando le decisioni del Consiglio nazionale sulla necessità d’un ordinamento regionale autonomo del Paese, prese per primo e risolutamente posizione per l’autonomia regionale della Sardegna. L’isola, – scrive – al pari della Sicilia, è una regione prima ancora di qualunque argomentazione politica. E’ regione per aspetti peculiari geografiche, storici, aspirazioni e atti intesi a governarsi da e stessa. Segni, nel maggio del 1944, sostiene le necessità di istituire una Camera delle Regioni in luogo del vecchio Senato. Il gruppo della D.C di Pozzomaggiore, paese nativo dell’Alto Commissario Pinna, rasentava posizioni di radicale autonomia per la Sardegna, ai limiti della secessione. Autonomisti erano nell’isola, pure nelle differenti ideologie, repubblicani, azionisti e persino i liberali radicali del giovane Francesco Cocco Ortu, di orientamento “gobettino”. 18 – Era, questo, il clima politico nel 1945, così che Gonario Pinna, allora militante nel Partito sardo d’azione, poteva affermare che “tutti ammettono la necessità dell’autonomia per l’isola” e il suo correligionario Luigi Battista Puggioni osservava “l’impressionante fenomeno che tutti i partiti, qualunque sia la loro tendenza o colore, si professano autonomisti”. Ma si tratta di puro sentimento, per così dire virtuale, che non porta a una coscienza e a un’azione comune, ad unità reale. Da queste ambiguità e contraddizioni non poté sorgere un compatto movimento sardo per l’autonomia, un fronte unico di sostegno e di realizzazioni, pur auspicato da talune parti. Infatti, non usciranno a buon fine la “Giornata unitaria dell’autonomia” celebrata a Cagliari nel giugno del 1947 per l’emanazione dello Statuto sardo poco dopo l’approvazione da parte dell’Assemblea Costituente della riforma regionalistica dello Stato, né il successivo “Convegno per l’economia” a Macomer, presenti sardisti, democristiani, socialisti, comunisti e repubblicani. Infine, le divisioni dei partiti in campo nazionale indussero gli stessi partiti in Sardegna a separarsi sino a confliggere. 19 – Di questo clima politico incostante soffrì la prima Costituente sarda insediatasi nell’aprile del 1945 e successivamente rinnovata nei suoi componenti nel giugno del 1946, per esprimere, alla fine, un testo statutario approvato a maggioranza il 20 aprile del 1947. Nel corso dei lavori, assai travagliato, si confrontarono vari progetti di Statuto, di diversa misura e peso autonomistico, né si volle accogliere il modello dello Statuto siciliano già approvato dalla Consulta nazionale nel 1946, uno Statuto con ampi poteri di autonomia, a base quasi federale. Ne sortì, al termine dei lavori, uno Statuto sardo già in partenza mutilato e svuotato di poteri, privo d’imperio. Per di più, il testo statutario, trasmesso all’Assemblea costituente nazionale per l’approvazione che si sollecitava immediata, fu rimessa da questa al Governo con l’invito a provvedere un disegno di legge costituzionale che tenesse conto anche del progetto di Statuto elaborato dalla Costituente sarda. Dopo tanta pena, il progetto fu approvato, a larga maggioranza, in extremis, proprio nell’ultima seduta dell’Assemblea costituente, il 31 gennaio del 1948. Diventò legge costituzionale il 26 febbraio 1948, col n. 3, pubblicata nella G.U. n. 58 del 9 maggio di quell’anno. Il 28 maggio del 1949, si insediò il primo Consiglio regionale della Sardegna. Si badi, “Consiglio”, non “Parlamento” come si titola l’Assemblea siciliana. 20 – Questo Statuto, nato zoppo, di parziale autonomia, non consacrava le aspirazioni e le lotte secolari dei sardi per vedere riconosciute ed esaltate, in una solenne Carta costituzionale, la peculiarità etnica, culturale, storica, politica e territoriale d’un popolo distinto, risorto a nazione. Nei suoi limiti e nelle sue mutilazioni era implicito che sarebbe stato faticoso e aspro il cammino per realizzare un sistema efficace e moderno di autogoverno. In uno Statuto “incompiuto” era in nuce una “autonomia incompiuta”, una nazione sarda “dimidiata”. Una Carta con poteri “deboli” rendeva impari il confronto tra la Regione e lo Stato, la prima “suddita” del secondo. Difatti la Regione sarda non aveva le “radici” statutarie, la forza intrinseca costituzionale per agire in proprio, secondo il proprio “genio”, in modo “eccentrico” rispetto allo Stato, bizzarra, fantasiosamente creativa. Non poté farsi e tanto meno mantenersi continuamente in “giro” autonomo e autonomistico. Invece ha dovuto mimare il sistema e gli schemi dello Stato, duplicando competenze, seguendone pedantemente legislazioni e ordinamento. Si è introdotta (o costretta a introdursi) nella morsa d’un ingranaggio “copernicano”, in un sistema di anelli concentrici dove il cerchio minore (la Regione) gira perfettamente concentrico al cerchio maggiore (lo Stato), per cui lo Stato gira in maggiore e la Regione gira in minore, in un rigoroso e astratto sistema matematico. Impigliata nella tela del ragno statale, la Regione finisce col diventare succursalista dello Stato. Si credette di poter soddisfare le antiche passioni e pulsioni di riscatto autonomistico per il progresso, introducendo all’articolo 13 dello Statuto, unico fra tutti gli Statuti di autonomia speciale, un “Piano organico per la rinascita economica e sociale della Sardegna, da predisporre e attuare con concorso della Regione”. E’ vero che l’articolo 13 si rifà a una logica di sussidiarietà, ma anche di corresponsabilità, di compartecipazione, di solidarietà. Ma nel processo dell’attuazione è rimasto mero enunciato giuridico formale, perché non vi hanno corrisposto le garanzie e gli atti delle politiche del governo nazionale. Del resto, le ragioni dello scarso successo del Piano, denunciato già nella relazione generale che introduce il progetto del quarto programma esecutivo del Piano di Rinascita per gli esercizi 1967 – 1969, stanno in realtà nella natura degli interventi previsti dalla legge attuativa del Piano (la n. 588), che si riferisce a intervento straordinario. La legge n. 588 è una legge di “riforma” e della sfera “economica e sociale” generale (per il contenuto politico, l’indirizzo ideologico, le conseguenti forme e tecniche d’attuazione). Perciò lo Stato può richiamare (come più volte ha richiamato suscitando contestazioni e conflitti) l’interesse nazionale, con tutti i vincoli, i limiti e le ingerenze sull’attività regionale che ciò comporta. Sebbene sembri una legge “motoria” dell’attività autonomistica regionale sarda, in quanto legittima la Regione ad essere soggetto e rappresentante degli interessi generali emergenti nell’ambito locale e determinati

Studi Angioy

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continua nona parte

l’inizio di un dispotico regime di sfruttamento. I privilegi feudali, l’iberizzazione dei quadri di governo e del clero, lo spopolamento dovuto alle lunghe guerre e alle epidemie impedirono lo sviluppo di un ceto dirigente locale e gettarono l’isola in uno stato di profonda decadenza. http://www.sardinyarelax.it/spagnola.htm Cavalierato e nobiltà di Francesco Loddo Canepa Il cavalierato ereditario introdotto in Sardegna con la dominazione aragonese del 1323, era concesso dal Re con speciale diploma (privilegio militar, de cavallerat) emanato in forma solenne e munito delle segnature del Supremo Consiglio d’Aragona (sotto la Spagna) o di quello di Sardegna nell’epoca sabauda. I diplomi spagnoli recano il nome e cognome dell’investito (non la paternità) e anche (ma non di frequente) il luogo di nascita. In quelli sabaudi sono contenuti in genere dati più precisi sul concessionario (paternità, luogo di nascita) e più particolari specificazioni circa i motivi che danno luogo alla concessione che, negli spagnoli, sono espressi in formule cavalleresche generiche, comuni a tutti i diplomi. Non mancano però, anche nei diplomi spagnoli, casi di motivazione specifica, specie quando il titolo è concesso in conseguenza di un atto singolarmente gradito alla Corona, come la partecipazione ad un fatto d’armi, o altro che riveli un particolare attaccamento al Re o alla causa regia. Non di rado i motivi personali che danno luogo alla concessione sono di scarso rilievo e hanno bisogno, particolarmente nei diplomi sabaudi e specie in quelli degli ultimi anni della monarchia, di essere integrati dal versamento di una somma , alla Regia Cassa, il cui ammontare (da 1500 a 6000 lire sarde) è indicato nei diplomi stessi. Le motivazioni per il conferimento del cavalierato e della nobiltà sono: particolari servizi resi allo Stato in determinate circostanze speciali, benemerenze acquistate nel campo della scienza, nelle pubbliche cariche, nel Regio servizio e anche, più recentemente, l’incremento dato all’agricoltura nonché le opere edilizie fatte a cura di privati nel pubblico interesse. Un requisito che è sempre specialmente menzionato, è la fedeltà e il particolare attaccamento del concessionario alla causa regia ed alla Corona. Precedeva l’invio del diploma di cavalierato la commissione regia (cartilla de armaçon) diretta al Viceré (o ad altro illustre personaggio che lo rappresentava), per mezzo di particolare lettera regia, perché armasse cavaliere il concessionario. Il Viceré con cerimonia solenne in cui non era neppure dimenticata l’accolade degli antichi tempi, lo cingeva della spada. Dopo tale cerimonia il Re rilasciava il diploma o privilegio in cui approvava l’operato del Viceré, autorizzando il concessionario a chiamarsi cavaliere in tutti gli atti pubblici e privati, e ad adottare le armi gentilizie concessegli (particolarmente descritte nel diploma di concessione), e cioè a farle figurare nella propria casa, a portarle nei tornei, a fregiarsene secondo le norme consuete, col diritto di trasmetterle ai suoi figlie e discendenti maschi. In pari data, o qualche giorno più tardi, veniva rilasciato, all’investito del titolo, anche il diploma di nobiltà, che dava in Sardegna il diritto alla qualifica di Don. Non di rado le armi gentilizie, anziché essere concesse, come di consuetudine, col diploma di cavalierato, erano conferite a parte, mediante speciale diploma. Durante il governo sabaudo, è frequentissimo il caso di conferimenti di cavalierato e di nobiltà non accompagnati dalla concessione di alcuno stemma gentilizio. Nonostante la mancanza di tale concessione, i discendenti dei concessionari si trovano oggi quasi tutti in possesso di uno stemma di famiglia la cui legittimità viene ammessa dalla Consulta Araldica, con la dimostrazione dell’uso ultratrentennale di esso, corroborata, quando è possibile, da altre prove equipollenti quali l’esistenza dell’arma in uso in tombe, monumenti o cimeli familiari. Le formule di concessione della nobiltà erano piuttosto generiche. Nell’Archivio di Cagliari non si conservano concessioni (di cavalierato e nobiltà) anteriori alla prima metà del secolo XV. Nelle più antiche che si possiedono, il titolo di nobile è conferito anche collettivamente, non singolarmente, a più persone, con un unico diploma. Si dà pure il caso che alla concessione del cavalierato non si accompagni quella della nobiltà. Ciò potrebbe dipendere dal fatto che del secondo diploma, per smarrimento o mancata registrazione, non è rimasta traccia; o che il concessionario non fu, sic et simpliciter, gratificato della nobiltà. O infine che il concessionario stesso non adempì, dopo la concessione del cavalierato, alle indicazioni impostegli, purché venisse gratificato di entrambi i privilegi. La nobiltà si estende a tutta la discendenza maschile e femminile dell’investito, ma la donna non la trasmette ai discendenti. Il cavalierato si trasmette ai discendenti maschi (cioè in linea retta), ma non, naturalmente, alle femmine. La donna maritata può portare maritale nobili i titoli di Nobile e Donna, ma non li conserva oltre lo stato vedovile (Ordinamento dello Stato Nobiliare Italiano, del 1929, art.18). Secondo una disposizione, la donna nubile perde le qualifiche nobiliari per effetto del matrimonio e quindi anche quello di Donna, anche se si deve ammettere che la disposizione non abbia effetto retroattivo (cfr. Gazzetta Ufficiale n°55 del 1930, R° D° 14-2-30 n°101). Così il diritto della donna a tali qualifiche derivante dalla nascita, prima personale a vita, viene a subire una grave restrizione, con la conseguenza che le donne nubili non nobili, sposando un nobile, lo diventano; mentre le donne nobili, sposando un non nobile, perderanno la qualifica. Prova del cavalierato e della nobiltà Per provare il cavalierato o la nobiltà, occorre dimostrare l’attacco genealogico cl primo concessionario. A ciò soccorrono gli atti di nascita o di matrimonio dei discendenti, o altri documenti idonei a tal prova. Grande utilità offrono a tale scopo i registri dello stato civile conservati nelle Curie Arcivescovili o Vescovili anteriormente al 1865. Mancando uno degli attacchi genealogici può suffragare, come criterio equipollente, la prova del possesso del titolo di cavaliere o di nobile (congiuntamente ad altre circostanze e documenti), per varie generazioni di ascendenti del richiedente. Costituiscono valido elemento per la prova anche gli elenchi dei cavalieri, nobili, feudatari, compilati dalle singole Prefetture dell’isola nel 1822 per ordine del Governo. Privilegi dei Cavalieri e Nobili I Cavalieri e i nobili che erano esenti dalla giurisdizione del Veghiere e del loro assessore al pari dei loro servi e familiari, erano soggetti da tempo immemorabile, a quella dei Luogotenenti Generali e dei Governatori. L’ingiuria arrecata ad un nobile da una persona di bassa condizione era punita più gravemente che non quella arrecata ad uno del popolo. I nobili potevano liberarsi con denaro dalle ingiurie arrecate ai plebei (v. Dexart). Essi erano colpiti con la deportazione quando ai plebei si applicava la pena di morte, e la relegazione era, in loro riguardo, sostituita alla pena del remo cui era condannato il plebeo. I membri dello Stamento, e cioè i feudatari, i nobili e i cavalieri, dovevano essere giudicato da un Consiglio di Pari. Si eccettuavano i delitti di lesa maestà divina e umana, la sodomia, la falsificazione di moneta, il sacrilegio in monastero. Con Carta Reale 23-8-1633- S.M. confermava il capitolo di corte 18° concesso nel Parlamento celebrato nel 1511, prescrivente che i cavalieri, in materia criminale, venissero giudicati con il voto del Reggente la R. Cancelleria, d’un giudice della Reale Udienza e di sette pari. Godevano del privilegio di portare armi e di non potere essere disarmati (così pure i loro familiari) dagli ufficiali regi. Se poi in teoria i cavalieri non potevano essere torturati se non nei casi citati di lesa maestà, di sodomia, di falsa moneta, ecc…nel Regno di Sardegna, ci dice il Dexart, “no hi ha memoria de homens en contrari que hage vist militar torturat”. Il pregone prescrivente che non si ponesse mano alla spada, non si intendeva esteso ai militari e alle persone dello Stamento. I cavalieri e i militari non potevano essere presi e carcerati per debiti civili. Inoltre i militari erano esenti da molte imposizioni. I cavalieri non feudatari potevano essere imbussolati e estratti a sorte per la carica di consigliere di Cagliari. I cavalieri e i nobili facevano parte dello Stamento Militare e potevano pertanto intervenire di diritto tanto alla riunioni stamentarie dei tre bracci congregati insieme, quanto a quelle separate, che lo Stamento Militare era autorizzato a tenere. Infine i cavalieri potevano in Sardegna attribuirsi la qualifica di Don in quanto fossero pure nobili, essendo essa, come pure oggi, il distintivo della nobiltà sarda, nonché di varie famiglie principesche e di molte famiglie lombarde. Non spettava quindi tale qualifica ai semplici cavalieri. Il Codice feliciano mantenne ancora il giudizio dei pari sancendo che i feudatari, i nobili e i cavalieri fossero esenti dalla giurisdizione ordinaria e che non potessero essere citati se non davanti alla R.Udienza o alla Real Governazione (rispettivamente nel capo di Cagliari e in quello di Sassari). Le sentenze poi che condannavo un nobile o un cavaliere alla pena di morte non potevano eseguirsi senza la regia approvazione. I nobili e i cavalieri che dessero ricetto a banditi, oltreché con la pena pecuniaria sancita dalle prammatiche, erano puniti con quella di dieci mesi di presidio, o con altra maggiore o minore, a seconda dei casi. Quelli che semplicemente li proteggessero, erano soggetti al sequestro della giurisdizione baronale e alla pena di 1000 scudi. Per il codice feliciano i ricettatori di banditi di qualunque stato, grado o condizione, erano puniti con la pena da un anno di carcere a tre anni di galera (Codice Feliciano, art.1752). Esclusione delle nobiltà dalle cariche civili. I feudatari ed i nobili (non i cavalieri) erano esclusi dal reggimento della città di Cagliari, ostandovi i privilegi concessi a questa. Le domande per essere ammessi alle cariche cittadine, fatte nei parlamenti, non furono accolte. L’influenza dei feudatari e dei nobili con tutti i loro grandi privilegi avrebbe assicurato infatti ad essi una forza preponderante in seno al Consiglio. Così i consiglieri e l’Università del Castello ottennero l’esclusione ad tempus dell’elemento militare dal Corpo Consolare. L’esclusione si estendeva un tempo sia ai nobili che ai semplici cavalieri. Ma mentre per i feudatari e signori di vassalli esisteva un valido motivo di incompatibilità, a cagione di alcuni privilegi posseduti in loro pregiudizio dalla città, come la provvisione di frumento, di carne e altre derrate, non ne esisteva alcuno contro i militars non heretats. Perciò nel Parlamento del 1497, concluso nel 1511, si chiese dallo Stamento e si ottenne “que los militars non heretats” potessero entrare nel reggimento della città. Il Re Ferdinando, con prammatica 14-4-1511 (v. Dexart), aderendo all’istanza del sindaco dello Stamento Militare stabilì, in analogia ai principi della costituzione barcellonese, che per un triennio venissero imbussolati per le cariche di consigliere i nomi di dieci cavalieri (esclusi i nobili, i baroni e i feudatari), con qualche altra condizione o limitazione. Sembra lecito ritenere che, ferma sempre l’esclusione dei nobili e dei feudatari (i quali non potevano esercitare alcuna carica regia se non rinunciano ai loro feudi, né coprire quella di vicario), siano rimasti, anche in seguito, abilitati i semplici cavalieri. Tale norma almeno vigeva ancora nel 1641, come risulta dal Dexart. La nobiltà sarda dopo il 1848 Con l’unione della Sardegna agli stati continentali (30 novembre 1847), l’isola cessava di reggersi, oltre che con bilancio separato, con legislazione indipendente da quella del Piemonte. Da quella data di fondamentale importanza storica, i codici e le leggi di terraferma sostituirono la secolare legislazione costituita dai vecchi codici spagnoli, dalle carte reali, dagli editti e pregoni iberici e piemontesi, già riuniti e compendiati sistematicamente in un solo corpo, col codice feliciano (1827). I feudi erano stati riscattati pochi anni prima dell’annessione (1836-1844) con la clausola che ai feudatari e ai discendenti di essi, fossero riconosciuti i titoli loro spettanti in base ai diplomi di infeudazione. Il riscatto feudale e l’accennata unione venivano pertanto a chiudere definitivamente il libro delle concessioni nobiliari sarde fatte in base alle antiche leggi e consuetudini e ne circoscrivevano l’ambito ai discendenti delle antiche famiglie, che continuano tuttora a portarli, mentre i titoli di tante altre, per graduale estinzione degli eredi maschi, non hanno più rappresentanti. Il R.D. del 16-8-1926, n°1489, trasfuso nell’Ordinamento dello Stato Nobiliare Italiano, approvato con R.D. 21-1-1929 ha inoltre disposto, in deroga alle vecchie concessioni sovrano del diritto sardo, variamente disciplinanti i feudi impropri (cioè trasmissibili per linea femminile in mancanza di maschi), che “i titoli, i predicati e gli attributi familiari non si trasmettano alle femmine, né per linea femminile (art.54); che quelli già concessi alle femmine, spettino alle medesime durante lo stato nubile e non diano luogo a successione (art.57) e che la successione dei titoli, predicati e attributi nobiliari, abbia luogo a favore dell’agnazione maschile dell’ultimo investito, per ordine di primogenitura, senza limitazione di gradi e con preferenza della linea sul grado (art.54). estinte le linee maschili, aventi per stipite comune la femmina intestataria del titolo, questo con gli annessi predicati dovrà tornare, previe lettere patenti di regio assenso, all’agnazione maschile della famiglia cui apparteneva prima della promulgazione delle leggi abolitive della feudalità., osservate le norme dell’art. 54 (art.59). Pertanto anche questa legge porta indubbiamente a circoscrivere e restringere sempre più la cerchia dell’antica aristocrazia sarda, molte famiglie della quale godevano del privilegio di trasmissione dei titoli per linea femminile. Così il libro delle famiglie isolane, chiusosi definitivamente nel 1848, andrà sempre più assottigliandosi e perdendo i rappresentanti degli antichi titolati (cavalieri, nobili e feudatari). Si noti ancora che in Sardegna, a differenza delle antiche repubbliche italiane, non esisteva una nobiltà decurionale, poiché i comuni vi ebbero vita breve e poco fiorente. Caratteri della nobiltà sarda Si è notato altrove che i conferimenti di cavalierato e nobiltà a sudditi sardi cominciano a riscontrarsi nei primi decenni del secolo XV come risulta dalla serie dei più antichi rilasciati in favore degli isolani. Per quanto riguarda le concessioni feudali, in numero ben limitato furono quelle fatte a sardi fedeli nei primi tempi della conquista e più tardi a cittadini di Sassari e Bosa distintisi nell’assedio di Monteleone e Bonvehi (1436) contro Nicolò Doria, quali validi cooperatori degli aragonesi. Gli isolani cominciarono quindi ad essere ammessi nei ranghi della nobiltà non fornita di feudo solo nel secolo XV e, in misura ristrettissima, continuano ad appartenere a quella feudale, partecipando così dei benefici riservati ampiamente ai conquistatori. Cedeva man mano la diffidenza di questi verso gli indigeni, di fronte a prove inconcusse e manifeste di fedeltà alla causa regia, che facevano allontanare ogni sospetto di ribellione e di autonomia. Nondimeno la più alta e potente aristocrazia restava sempre etnicamente e politicamente, come all’inizio della conquista, catalano-aragonese (e tale continuerà a restare in seguito), poiché i feudi più numerosi ed importanti si trovavano in potere di quelle famiglie i cui antenati erano venuti dalla Spagna a fianco dei re e dei principi, per la spedizione di Sardegna. Né i re vollero permettere che l’elemento sardo acquistasse importanza politica nell’isola, non accedendo mai alla domanda degli impieghi e delle prelature agli isolani, più volte ripetuta nei parlamenti, sia per poterne disporre a favore dei magnati spagnoli, sia per prudenziale misura di governo. È significativo che le maggiori cariche, soprattutto quelle di viceré, siano rimaste durante i secoli, monopolio esclusivo, o quasi, degli spagnoli e dei piemontesi. Così si spiega facilmente come al momento del riscatto feudale la Sardegna era ancora infeudata per massima parte ai discendenti delle antiche famiglie d’origine iberica quali i Sanjust, gli Aymerich, i Pilo, i Zapata e gli Amat, per tacere di altre potentissime, che non si degnavano ormai più di risiedere in Sardegna. La conquista aragonese aveva evidentemente segnato il tramonto dell’antica nobiltà indigena costituita dalle dinastie dei giudici, dai loro parenti e dai loro principaliores degli staterelli sardi nel lungo periodo dell’autonomia (gli Athen, i De Serra, i De Laccon, i De Thori). Pur tuttavia gli isolani, dal secolo XV in poi, continueranno ad essere ammessi, sempre più largamente, nei ranghi del cavalierato e della nobiltà, come rivelano le concessioni relative, che si fanno più numerose nei secoli XVI-XVII e numerosissime sotto la dominazione sabauda, favorite anche, come abbiamo visto, da ragioni patrimoniali e da motivi d’interesse pubblico. Venne pertanto meno alla Sardegna la sua remota nobiltà indigena la quale, in un primo tempo, per la vigorosa penetrazione pisana e genovese e poi per il processo rapido e violento dovuto alla conquista, fu soppiantata da una nobiltà di importazione. Quella nuova composta di elementi locali, che cominciò a formarsi un secolo dopo la prima spedizione iberica, non sorse per forza propria né in contrasto con l’autorità regia, come, in antico, nei grandi stati continentali, ma come benigna emanazione della monarchia e priva per lo più di feudi, e mal si fuse con quella feudale e potentissima che era figlia della conquista. Infatti non pochi avversari della potenza o prepotenza dei baroni che, nella memoranda rivoluzione del 1796 si schiereranno con Don Giovanni Maria Angioy, leader del movimento, erano insigniti del cavalierato e della nobiltà. I sardi nella maggioranza dei casi impetrarono dalla maestà sovrana i privilegi nobiliari (anche se non mancarono concessioni di cavalierato e nobiltà fatte dalla Corona in ricompensa di benemerenze in imprese belliche o per sussidi pecuniari offerti in tali imprese) e non di rado, soprattutto negli ultimi tempi, corroborarono le loro istanze col versamento di somme considerevoli al tesoro regio, come dimostrano incontrastabilmente i diplomi di concessione. Così ben poco poté fare per l’isola questa nobiltà indigena di uomini nuovi asservita alla corona, nella cui orbita e secondo i cui interessi, era portata a muoversi e ad esplicare la sua azione. La casa di Savoia, seguendo qualche esempio precedente, creò, specialmente negli ultimi tempi (fenomeno del resto non peculiare al regno sardo) una nuova nobiltà a carattere feudale. Non avendo campo o non trovando opportuno di concedere nuovi feudi e dopo l’abolizione dei medesimi, non avendo la possibilità, ricorse all’espediente di annettere titoli feudali a territori demaniali o anche di proprietà privata del concessionario, oppure di conferire sic et simpliciter (ad es. nel caso del Barone Rossi), i titoli stessi senza alcun speciale predicato. Su queste concessioni prive di giurisdizione o di diritto, o almeno di fatto per mancanza o quasi di vassalli, abbiamo altrove fermato l’attenzione chiamandole impropriamente feudali. Alcune di esse hanno infatti un contenuto esclusivamente onorifico, essendo soltanto dirette a conferire un lustro e decoro al concessionario, e alla sua famiglia. Possono dirsi di tale natura e di data assai recente, molte fra quelle che hanno per predicato il nome di un santo o il cui predicato è per lo più il nome di un possesso territoriale privato dell’investito. Queste concessioni nulla hanno di feudale se non il titolo, il territorio e la fedeltà alla corona, né presentano alcuna affinità, se non formale, con le antiche concessioni di feudi, le quali avevano la base politica della conquista armata e della difesa contro i non infondati pericoli di una ribellione allo straniero. Resta però ad esse il carattere remuneratorio di speciali e devoti servizi resi alla corona e pertanto è evidente e preponderante in esse l’elemento del vassallaggio. In epoca recente, la concessione di feudi e dei relativi titoli, rappresenta anche un compenso dato dalla corona in contraccambio di cessioni di diritti patrimoniali. Il feudo e la nobiltà feudale in rapporto alla politica di conquista Riesce agevole, dopo queste considerazioni, tracciare rapidamente le linee d’evoluzione della nobiltà feudale e del feudo in Sardegna. Gli aragonesi, per affermare ed estendere il loro dominio nell’isola, operarono con sagacia e prudenza politica, sfruttando abilmente quella grande arma di conquista che era il feudo. Si spiega così la formazione, nella prima metà del XIV° secolo, di un potente nucleo feudale nella parte meridionale dell’isola, centro delle prime loro fortunate operazioni. Esso ha per base i grandi feudi di Quirra e di Mandas detenuti dai fedelissimi Carroz, congiunti del sovrano e suoi cooperatori con gli altri baroni catalani, aragonesi e valenzani, venuti a seguito del principe per la grande impresa. Assicurata Cagliari dalla parte del mare, con la sconfitta dei pisani (1325) e contro la minaccia dei Donoratico dopoché questi furono dichiarati ribelli e spogliati dei loro possedimenti in Sardegna (1355), si costituiva in vasto territorio infeudato una base formidabile e sicura di azione militare. Si dominava così l’iglesiente e si tagliava in pari tempo la strada agli arborensi, potenti signori di Oristano, e minaccia grave per i regi. Si pensi che il ribelle Mariano poté, nel 1355 e nel 1367, giungere alle porte di Cagliari e mettere a repentaglio la sicurezza del Castrum, ove gli Aragonesi avevano già potentemente iniziato (1327) la catalanizzazione dell’isola, come manu militari l’avevano iniziata in Alghero (1355) e in Sassari (1329), dopo le ribellioni di queste città. Ma la preoccupazione più grave per i conquistatori doveva essere la parte settentrionale dell’isola ancora sotto il dominio dei genovesi, dei Doria e dei Malaspina, più esposta a pericoli da parte del mare e della Corsica e meno tranquilla per il fuoco di perpetua ribellione che vi tenevano acceso quelle potenti famiglie, spalleggiate dalla repubblica di Genova. Anche Sassari per le sue recenti rivolte (1325 e 1329) e per il suo glorioso passato di autonomia non era tale da rassicurarli appieno. Non mancarono pertanto i tentativi di penetrare vigorosamente con il feudo anche nel settentrione e di costituire con esso altrettante rocche di difesa e di offesa attorno al giudicato arborense, contro i Malaspina e i Doria. Lo dimostrano le infeudazioni di Terranova e quelle di molte ville della Nurra, della Gallura e del nuorese, ove evidentemente si cercava di iniziare una base sicura di dominio, sebbene con scarso successo. Ai Doria, ai Malaspina, momentaneamente pacificati, si dovettero riconfermare i feudi riconoscendo il dominio dei primi sull’Anglona, su Monteleone e su Castelgenovese (1355-1357) e dei secondi su Osilo (1325-1325-52) ritardando così la penetrazione nella parte settentrionale dell’isola. Il Monteacuto, concesso in un primo tempo, unitamente a Terranova, a Giovanni d’Arborea gli fu violentemente ritolto dal giudice ribelle quando scoppiò il conflitto fra quest’ultimo, il fratello e il Re. Né certo fu estraneo alla rottura l’acume del regolo arborense, che intese perfettamente le mire dei conquistatori, suoi antichi alleati e ora suoi forti nemici. Il predominio quindi della corona dovette limitarsi nel settentrione alla stretta zona nord-est, ove Giovanni d’Arborea e Giovanni Carroz, fedelissimi sudditi erano già investiti di feudi: e cioè di Terranova e di Monteacuto il primo (1375); di Mandas, Orgosolo e dei villaggi della curatoria di Seurgus (1350) il secondo. Anche il feudo di Terranova si riunisce poco dopo (28 ottobre 1376) nella famiglia di Giovanni Carroz per la concessione fattane dalla Corona in quell’anno a Benedetta d’Arborea di lui moglie. Ma gli avvenimenti dovevano precipitare in favore dei dominatori. La spedizione di Aimerigo di Narbona riusciva fatale ai loro nemici, che si erano illusi di trovare nel visconte un potente alleato. La sconfitta di Sanluri (1409) doveva dare una grave colpo alla potenza arborense, che ormai non potrà più arginare la preponderanza decisa dei vincitori. Resa vana la resistenza di Leonardo Cubello dalle armi di Pietro Torrellas, il primo scende a patti tanto gravi che, può dirsi, segnino di fatto la rovina della vecchia e gloriosa dinastia arborense (1477). Alla perdita del titolo di giudice si accompagna per i patti del 1410 quella più concreta della diminuzione del territorio, che viene ristretto alla città di Oristano, ai tre Campidani e al Goceano, con perdita del Monteacuto e del Marghine, potenti sentinelle avanzate del giudicato. Sul Goceano stesso gli aragonesi, nonostante la concessione del 1410, pare si arroghino dei diritti, poiché lo vediamo infeudato nel 1421 al Centelles e soggetto ad incursioni di sardi capitanati dal ribelle Barzolo Manno. Se poi tale infeudazione fu arbitraria e illegale, dimostra per se stessa che ormai il marchese di Oristano nn destava più preoccupazioni. La Corona, quasi un secolo dopo la spedizione, analogamente a quanto aveva fatto nel cagliaritano, riesce finalmente a costituire nel nord dell’isola, un formidabile centro feudale in favore di una potente famiglia iberica, quella dei Rivosecco-Centelles. Questa considerazione spiega pertanto la cessione in feudo a Bernardo di Riusec (alias Gilaberto de Centelles, che coprì anche la carica viceregia nel 1421 e 1422), delle contrade tolte agli arborensi e la costituzione del Contado di Oliva che gareggia, per vastità, potenza e ampiezza di privilegi, col feudo meridionale di Quirra. Negli anni 1421 e seguenti, si riuniscono in mano dei Centelles il Marchesato del Marghine, il Ducato di Monteacuto, l’anglona, la Baronia e il castello di Osilo già tolto a Brancaleona, marito di Eleonora (1390). I Doria, ricacciati verso il mare nelle ultime loro rocche di resistenza (Castelsardo, Monteleone e Bonvehi), mediante l’aiuto dei magnati sardi, fedeli alla corona, saranno ben presto completamente debellati e annientati con la confisca dei loro possessi (1436). Alcuni di questi sardi fedeli otterranno concessioni feudali di poco rilievo; altri costituiranno il primo considerevole nucleo di nobiltà non feudale che, come si è visto, avrà sviluppo, con scarsa potenza politica, nei secoli posteriori. Queste, in rapporto al feudo, le linee della politica aragonese e il piano della conquista così felicemente attuato. Le numerose concessioni feudali minori, fatte in genere a famiglie catalane, aragonesi e talora a sardi fedeli, ne confermano e completano il quadro. Nei centri urbani esclusi dal feudo come i più importanti (Cagliari, Sassari, Iglesias, Alghero, Castelsardo e più tardi Oristano e Bosa), gli aragonesi e poi gli spagnoli, esplicano assiduamente la loro influenza o sovrapponendo addirittura ai vecchi, istituti catalani, (come a Cagliari e ad Alghero), o facendo opera assidua di penetrazione per mezzo delle istituzioni e dei costumi iberici (specie di diritto pubblico), oppure trasformando gradualmente le indigene e le antiche comunali. Resta da considerare l’evoluzione del feudo dal lato giuridico. Il carattere patrimoniale non fu, nel feudo sardo, mai disgiunto dal carattere politico, poiché la proverbiale “avara povertà di Catalogna” portò, fin dai tempi della conquista, a sfruttare il feudo come cespite di reddito anche per gli impellenti bisogni delle guerre. Alienazioni di feudi e specialmente trapassi a titolo oneroso, furono quindi frequenti fin dai primi tempi. Senonché, dopo il secolo XV, venne meno al feudo sardo la sua funzione di strumento di conquista e di base delle operazioni belliche, come si è già notato altrove. Il detto di Ugolino, feudum est beneficium, non definisce quindi esaurientemente la sua funzione in Sardegna, come vuole il Mondolfo, e, come ha acutamente osservato il Solmi, non ne mostra che un solo aspetto. Né, assicurata la conquista, viene meno in esso ogni carattere politico, in quanto i poteri amministrativi e giurisdizionali inerenti alle concessioni feudali perdureranno, con non sostanziali limitazioni, fino al riscatto, restando sempre il feudo, fino a quel momento, la base del sistema di governo. Nel breve periodo della dominazione austriaca, risorgono per poco le concessioni nobiliari, feudali o di altre cariche a scopo prevalentemente politico, fatte cioè dal nuovo governo col fine di ricompensare e tenersi fedeli i suoi partigiani, validi artefici della conquista contro la Spagna (in realtà anche la Spagna si comportava nella stesso modo, anche si gli sforzi fatti non le avevano evitato la perdita della Sardegna). Durante il periodo sabaudo le concessioni feudali, sebbene perfette nei loro tre elementi, trovano non di rado principale movente in un particolare e determinato interesse del regio fisco, in quanto rappresentano l’equivalente della cessione, in suo favore, di beni ed emolumenti da parte dei nuovi investiti; oppure anche in un interesse pubblico, quale l’accrescimento della popolazione e la colonizzazione dell’isola. Nello stesso periodo si affermano le concessioni a base beneficiaria che possono chiamarsi impropriamente feudali, cioè tali non intrinsecamente, ma per elementi esteriori (titolo, territorio, emolumenti patrimoniali di carattere non tributario) e nell’ottocento quelle di puro titolo. Tali concessioni, che il Mondolfo non distinse chiaramente dalle altre né per epoca né per funzione, potrebbero, a differenza delle seconde, essere esattamente definite dal detto di Ugolino. Alla nobiltà non feudale degli ultimi tempi (sec. XVIII e XIX) venne meno ogni influenza politica diretta, anche per il fatto della mancata convocazione dei parlamenti dopo il 1698. Che essa, al pari della nobiltà feudale, non fosse rassegnata quietamente a questa violazione del Trattato di Londra (1718), lo dimostra la domanda fatta dagli Stamenti nel 1793 per la convocazione di tali assemblee, come si era fatto in passato; domanda che rimase frustrata dal corso degli avvenimenti posteriori. Così la levata di scudi delle classi nobiliari e borghesi (1794-1795) per il ripristino e la conquista di vantaggi e privilegi in ricompensa delle benemerenze acquisite dai sardi contro i francesi (alle quale volle darsi, a torto, significato di rivendicazione nazionale anziché, come fu realmente, di ristretto e particolare interesse di classi), ebbe a restare, si può dire, lettera morta. Non di rado i titoli feudali sono concessi con la clausola che i titoli stessi possono essere portati dal primogenito durante la vita del padre. Concessioni del semplice cavalierato Normalmente in Sardegna alla concessione del cavalierato si accompagna quella della nobiltà e quindi i cavalieri sono anche nobili (i nobili isolani poi, derivanti il loro titolo da concessioni e diplomi del regno sardo anteriori al 1848, sono pure cavalieri. Le famiglie sarde che hanno il solo titolo di nobile senza quello di cavaliere derivano la loro concessione da S.M. il Re d’Italia). Quest’affermazione può però farsi solo limitatamente alle concessioni posteriori al sec. XVII. Gli esami degli elenchi degli intervenuti alle assemblee parlamentari persuade infatti che le concessioni del semplice cavalierato, più frequenti nei quattro secoli di dominazione spagnola, si fecero assai limitate nel periodo successivo. In queste liste, ove anche per ragioni giuridiche, e cioè per il controllo dei documenti conferenti il diritto di intervento alle riunioni stamentarie, i titoli erano attribuiti agli intervenuti con scrupolosità ed esattezza, troviamo elencate molte persone insignite del semplice cavalierato. In tali casi l’appellativo Cavaller, segue il nome delle medesime, preceduto dall’appellativo di Mossen, o Micer o Amado. Così, nel parlamento del 1553-1554 (Viceré d’Heredia), troviamo un Mossen Bartolomeo Sellers cavaller, un Micer Prospero Serra cavaller e così pure un Micer Virgili Ruiz, un Amado Duran Guio, un Thomas Aleu, un Ambroso Larca, un Eliseu Dore e un Joan Galeazzo, tutti qualificati solamente cavallers. Resta però il fatto che gli intervenuti indicati con il duplice titolo di Noble Don (o Noble Dona) precedente il nome o, come altri, col semplice Don, hanno sui primi una grande preponderanza numerica. È caratteristico che non troviamo attribuita ai nobili, in tali elenchi, la triplice qualifica moderna: Cav. Nob. Don, pure essendo costoro anche cavalieri. Gli stessi provvedimenti riferiti più sopra, che autorizzavano i semplici cavalieri a sedere nei consigli della città di Cagliari, confermano che le concessioni del semplice cavalierato prive della nobiltà, dovettero essere più numerose dei quattro secoli della dominazione spagnola. Tuttavia anche allora il numero dei cavalieri fu più ristretto in confronto di quello dei nobili tra i quali andavano annoverati moltissimi feudatari, compresi i più potenti possessori di grandi feudi. D’altra parte la nobiltà non feudale (cavalieri e nobili) creata per controbilanciare, specie nei parlamenti, l’influenza di quella potentissima fornita di feudo, ben rispondeva nelle congreghe stamentarie, per numero di voti almeno, a tale scopo politico. Feudatari non nobili né cavalieri, qualificati semplicemente heretats si riscontrano pure frequentemente negli atti dei parlamenti. Erano mercanti arricchiti o, in genere, borghesi facoltosi che, unitamente al feudo, acquistavano anche il diritto di intervenire a quelle assemblee. Col tempo essi però ottennero generalmente la concessione del cavalierato e della nobiltà delle quali la corte regia non fu mai troppo avara ai propri fedeli; oppure, alienato il feudo per ragioni economiche, rientrarono nelle file della borghesia scomparendo, di conseguenza, dalle liste stamentarie. Dal 1720 in poi, sono assai limitate le concessioni del semplice cavalierato, perché, unitamente a questa, i concessionari ottengono anche quella della nobiltà. Riepilogando, il nobile feudatario è qualificato come Nobile Don o semplicemente Don in precedenza al nome, seguito dall’appellativo heretat; il feudatario non nobile come Mossen, Magnifich Mossen o Amado prima del nome seguito dall’appellativo heretat; il semplice cavaliere come mossen, o micer, o amado che precedono il nome, mentre il titolo di Cavaller lo segue; il semplice nobile e cavaliere insieme, col Don o col Noble Don a precedenza del nome; il Donzello con amado o mossen che precede il nome e con la qualifica di Donzell che lo segue. Questa qualifica ricorre spessissimo negli elenchi stamentari anteriori al secolo XVII. Abuso di titoli nobiliari Contro l’abuso di titoli nobiliari il R.D. Legge 20-3-1924, n°442, ha stabilito che, indipendentemente dall’applicazione della pena comminata per l’usurpazione di titoli quando il fatto costituisca il delitto previsto dall’art.186 del cessato codice penale (in data 30-6-1889), chiunque, sia in documenti ufficiali, sia in qualsiasi atto giuridico o anche negli ordinari rapporti sociali, faccia uso di titoli o attributi nobiliari che non risultino appartenergli da conforme iscrizione nei registri della Consulta Araldica, sia punito con l’ammenda da Lit.1.000 a 5.000 (art.5). che in caso di recidiva non possa essere applicata un’ammenda inferiore al doppio di quella precedentemente inflitta (esclusa l’oblazione nel caso stesso) e che una quota delle ammende applicate per le singole contravvenzioni, sia devoluta agli agenti autori delle denunzie (stesso art.5). Nessuno può far uso di titoli e attributi nobiliari se non sia iscritto come legittimamente investito di tali titoli o attributi nei registri della R. Consulta Araldica. Dell’inscrizione fa fede l’annotazione nell’Elenco Ufficiale Nobiliare, approvato con R.D. 3-7-1921 n°972 e nei successivi elenchi supplementari, approvati e depositati nei modi stabiliti dal detto decreto (art.1°). I notai e gli ufficiali dello stato civile e tutti gli altri pubblici ufficiali, non potranno attribuire ad alcuno, in atti pubblici o in qualsiasi atto o documento di carattere ufficiale, titoli o attributi nobiliari se non risultino appartenenti all’interessato dagli elenchi suindicati, o se l’interessato non dimostra di esserne investito, esibendo un certificato d’iscrizione nei registri della Consulta Araldica, sotto pena dell’ammenda di Lit. 500 o 1000 (art.4). Numerose famiglie che hanno diritto a titoli nobiliari non si trovano iscritte in registri della Consulta Araldica e nell’Elenco Ufficiale della Nobiltà Italiana, e persistono tuttora nella trascuranza di far le pratiche relative, sia per ragioni economiche, sia perché noncuranti dei titoli nobiliari loro appartenenti. È frequente il caso che dei diversi rami di una famiglia, facenti capo allo stesso concessionario, sia iscritto il solo ramo primogenito o anche il primogenito ed alcuni degli ultrogeniti, e che i rimanenti rami collaterali, con i loro discendenti, non curino affatto l’iscrizione nei libri araldici. Si dà anche il caso di casati con numerosi rappresentanti viventi, i quali non figurano nel citato elenco nobiliare. Tutti costoro, pur avendo potenzialmente il diritto a titoli nobiliari, cadrebbero, per mancanza del decreto di riconoscimento, nelle sanzioni della legge se li portassero pubblicamente. In sostanza, allo stato attuale delle cose, gli elenchi ufficiali non contengono che una parte dei casati nobiliari e dei nobili. Concessioni nobiliari di carattere particolare Non mancano concessioni di cavalierato e nobiltà fatte personaliter tantum, ad ecclesiastici. Hanno caratteristiche speciali le concessioni del cavalierato e delle armi gentilizie (oltre che della nobiltà) fatte a donne purché profittino ai figli. Così il 13-6-1778, a favore di Donna Maura Marras furono spediti tali diplomi, perché ne fosse fatta la trasmissione ai figli di primo letto, maschi e femmine e ai discendenti maschi e femmine di essi figliuoli maschi immediati. Le stesse concessioni del cavalierato, della nobiltà e delle armi gentilizie, furono fatte nell’8 aprile 1774 a favore della vedova Maria Elisabetta Pugioni nata Loddo e dei suoi figliuoli e discendenti maschi e femmine, esclusivamente però ai discendenti da queste. La Pugioni aveva comprato la peschiera di Pontevecchio con la condizione di ottenere tali distinzioni nobiliari. Curioso è che, secondo la dizione del diploma, anche ad essa fu concesso il cavalierato senza però la cerimonia dell’armamento. Così essa (caso eccezionalissimo), ebbe diritto al titolo di cavaliere e ai privilegi inerenti ad esso. Donna Maura Marras vedova Mura, nelle trattative per la concessione in enfiteusi della Montagna d’Abbasanta, chiese ed ottenne, con la nobiltà, il cavalierato per i figli di primo letto si maschi che femmine e per i discendenti maschi e femmine dei medesimi figliuoli maschi immediati, esclusivamente però ai discendenti delle femmine immediate. Tratto dal libro “Cavalierato e nobiltà in Sardegna”. I moti di Sanluri – 7 agosto 1881 Le condizioni della Sardegnadopo la fine del feudalesimo Dopo l’abolizione del feudalesimo (1836), la Sardegna, veniva trascinata verso l’annessione o “fusione” con il Piemonte (1847). IL popolo sardo veniva così defraudato di quell’antica Autonomia Costituzionale che ancora conservava e che strenuamente aveva difeso contro tutte le dominazioni straniere, compresa quella piemontese. La povera gente non aveva certo dimenticato le persecuzioni subite da parte del poliziesco governo piemontese, intese a liquidare quanti avevano preso parte alla ribellione popolare nell’aprile del 1794, conclusasi con la cacciata dei piemontesi dall’isola, e alla successiva insurrezione antifeudale e antipiemontese intrapresa da Giovanni Maria Angioy nel giugno 1796. La repressione, che a partire dal 1797 e sino al primo ventennio del secolo successivo, perseguitò il popolo sardo era stata terribile. In molte contrade della Sardegna si viveva nel terrore, processi economici, esecuzioni sommarie, una forca venne costantemente tenuta in evidenza nei maggiori centri dell’isola. Galere, persecuzioni, latitanze politiche ed esilio volontario per coloro che avevano sufficienti mezzi per poter riparare all’estero. Una grave depressione economica e culturale sorprese la Sardegna alcuni decenni più tardi (1847- 1848) quando le popolazioni sarde in preda alla fame e alla più squallida miseria, furono poste di fronte ai problemi avanzati dal totalitario governo piemontese, in ordine alla politica di unificazione dell’Italia, condotta ovviamente, secondo i sistemi propagandistici predisposti dalla Casa Savoia. In quel frangente, il governo piemontese, __ attraverso una legge emanata il 15 aprile 1851 ma decorrente dal 1° gennaio 1853 __introduceva un nuovo regime tributario, che aboliva tutte le imposte fino ad allora pagate dai sardi allo stato Savoiardo. Si trattava di tributi istituiti in epoche diverse e con diversi criteri, come attestavano le loro stesse denominazioni: donativo ordinario e straordinario, ecclesiastico e laicale, sussidio ecclesiastico, contributo ponti e strade, contributo paglia, contributo torri, prestazioni pecuniarie surrogate alle feudali ecc. A partire dal 1° gennaio 1853 erano state abolite “almeno sulla carta” anche le decime sui raccolti che venivano pagate alla Chiesa. Tutte le imposte abolite vennero sostituite dall’imposta FONDIARIA, che doveva pagarsi sui beni immobili, in proporzione al reddito imponibile, con un’aliquota che per le 11 province nelle quali la Sardegna era allora divisa, era stata stabilita al 10%, pari cioè a quella stabilita per le ricche province continentali di Torino, Milano e se vogliamo di tutto il nord Italia; mentre l’aliquota media applicata in 37 province del continente era appena del 6%. Per di più venne stabilito un contingente fisso, ovvero fu predeterminata la somma che doveva essere comunque riscossa, a costo dell’aumento dell’aliquota già applicata. Questo contingente venne prima aumentato di 800.000 lire necessarie per la retribuzione __ in misura del tutto insufficiente, __ del clero, quindi venne ulteriormente elevato con l’aggiunta dei decimi di guerra e di un ultracontingente. Alla base di questa imposizione c’era il catasto, compilato dopo una non precisa misurazione delle singole proprietà, ma a vista, e con dati relativi alla intestazione, alla coltura ed al reddito di ciascuna particella forniti, quando non vi avesse provveduto direttamente il proprietario da due periti incaricati dal Comune. Da qui nascevano una serie di errori sia di intestazione che di misurazione che come qualcuno scrisse, che terreni che non avevano mai prodotto un filo d’erba perché sterili e persino vere pietraie, venivano classificati come terreni produttivi, perciò passibili di imposta. Per la correzione di tutti questi “errori ” era prevista una particolare procedura, piena di cavilli e balzelli burocratici, tanto, che molti piccoli proprietari alla fine vi rinunciavano, e quando qualcuno riusciva a farsi esonerare dal pagamento delle imposte non dovute, non faceva altro che aggravare la posizione degli altri, dal momento che, come abbiamo sottolineato prima, la cifra che il governo doveva comunque riscuotere era già stata predeterminata. Un altro grosso problema si manifestò in quelli anni quando si decise della destinazione da dare ai terreni degli ex Demani Feudali , su cui la popolazione _ specialmente la povera gente _ esercitavano alcuni usi civici ( i cosiddetti diritti ademprivili ) che consistevano nei diritti di pascolo, di legnatico e in molti casi anche di coltivazione, senza dover corrispondere nessun compenso. Tutti questi diritti vennero aboliti attraverso una legge emanata il 23 aprile 1865, in base alla quale, l’uso di quei terreni venne considerato un reato contro il patrimonio demaniale. Con l’abolizione dei diritti ademprivi, la povera gente perdeva una delle più importanti fonti di sostentamento, ed il malcontento fra i contadini ed i pastori fu enorme. In diversi centri dell’Isola ci furono tumulti e manifestazioni d’intolleranza; nell’aprile del 1868 a Nuoro ci furono i moti de ( SU CONNOTU ) nel corso dei quali i poveri contadini invasero il municipio, dando alle fiamme vari documenti, tra i quali i registri delle lottizzazioni di quei terreni. Particolarmente gravosa era l’imposta sulla casa, in quanto quella dei poveri contadini sardi __ a causa della scarsa sicurezza delle campagne, del frazionamento delle proprietà e dei cicli produttivi imposti dal clima torrido e secco __ era sempre accentrata in piccoli o grossi agglomerati o villaggi. Perciò il contadino sardo non poteva godere di tutte quelle agevolazioni previste per le case rurali dell’Italia settentrionale, che a differenza della Sardegna erano sparse nelle campagne, ed alle quali il governo aveva pensato nel varare una legge tanto iniqua per tutto il Mezzogiorno del continente, ma in particolar modo per la Sardegna. Le povere catapecchie costruite in ” LADIRI ” mattoni fatti di fango e paglia, venivano così abbandonate dai proprietari, che non erano in grado di pagare le esorbitanti tasse. Non ci deve perciò sorprendere se nel periodo tra il 1° gennaio 1870 ed il 31 dicembre 1894 solamente in provincia di Sassari vennero espropriati e devoluti al demanio per debito di imposte 13.639 terreni e 2.200 fabbricati per un valore complessivo di 1.248.960 lire. Ma ancora più tragica era la situazione in provincia di Cagliari, in quanto nello stesso periodo si ebbero 36328 espropri di terreni e 3629 di fabbricati, per un valore complessivo di quasi tre milioni, cifre che acquistano una realtà tanto drammatica se confrontate con quelle molto più basse relative agli espropri effettuati dal Demanio in tutto il resto d’Italia; in Sardegna si arrivò ad avere un esproprio ogni 14 abitanti, a fronte di uno ogni 27.000 effettuati nelle opulente regioni del nord Italia. Ad aggravare questa pesante situazione contribuivano le imposte locali e gli agi esattoriali, sempre più gravi, tanto da far rimpiangere i vecchi tempi, quando molte imposte venivano pagate in natura. Adesso invece le tasse bisognava pagarle in contanti e a scadenze rigidamente determinate, costituendo così un ulteriore aggravio per i poveri contadini, che per poter far fronte al fisco, erano costretti a vendere il loro raccolto, in periodi in cui i prezzi erano molto più bassi, quando gli stessi non l’avessero già venduto direttamente sul campo, a strozzini ed usurai. Oltre le imposte, i poveracci dovevano fare i conti anche con le calamità naturali, quali la siccità, gli incendi “molti dei quali dolosi ” le cattive annate e le alluvioni, come successe in quel 1881 quando dopo la terribile siccità, che compromise l’intero raccolto, __ ” s’annada maba – s’annu de su fami ” così quell’anno veniva ricordato __ si scatenarono le piogge torrenziali che in tutta la provincia di Cagliari causarono la totale distruzione di moltissime abitazioni. In questo clima di povertà, di incertezza e disperazione da noi sommariamente illustrato, il 7 agosto 1881 nel paese di Sanluri, scoppiò una sommossa popolare contro il carovita e gli abusi fiscali, (SU TRUMBULLU DE SEDDORI) che mise in subbuglio l’intera popolazione. Il fatto suscitò notevole apprensione in tutta l’isola e in gran parte della terra ferma, specialmente dopo le gravi conseguenze giudiziarie . nota; quest’articolo e tratto da uno scritto più ampio pubblicato in studi storici e giuridici in onore di A. Era > Padova: CEDAM 1964 ANNO 1884 – LA RIVOLUZIONE FRANCESE Le reazioni dell’EUROPA e dell’ITALIA Benchè accerchiata da tanti avversari la Francia Rivoluzionaria era riuscita a vincere le forze della Coalizione Europea. Per spiegare questi successi si deve in primo luogo tenere conto delle innovazioni portate dalla Rivoluzione nella condotta stessa della guerra. Gli eserciti della Coalizione conservavano le caratteristiche di quelli dell’Ancien Regime. Erano formati, cioè, da soldati mestiere, e quindi da un materiale umano costoso e difficile a sostituirsi rapidamente; comandati da ufficiali promossi in base all’anzianità, e quindi naturalmente inclini alla prudenza; limitati nelle proprie mosse dalla necessità di non distanziarsi dai magazzini di approvvigionamento e dalle modeste disponibilità finanziarie dei propri governi. All’infuori di quello Inglese infatti i governi della Coalizione dominavano su Paesi agricoli come Prussia ed Austria, e si appoggiavano sull’Aristocrazia fondiaria tradizionale. Benchè l’Inghilterra accordasse loro cospicue sovvenzioni finanziarie, dunque, erano sempre a corto di denaro, sia per la scarsezza dei capitali dei loro paesi, sia per la necessità di non spremere troppo la classe più abbiente, cioè la nobiltà fondiaria. La conseguenza di ciò era una condotta di guerra quanto mai cauta e lenta, intesa a fare economia di uomini e di denaro. La Rivoluzione invece aveva risolto drasticamente il problema dell’arruolamento attraverso la coscrizione obbligatoria, e quello finanziario legislativo attraverso le requisizioni del Terrore e l’emissione illimitata degli Assegnati, aggiungendovi più tardi l’imposizione di gravi contribuzioni di guerra e magari il saccheggio organizzato dei territori occupati dalle sue truppe. L’ideologia Giacobina, infatti, si prestava a meraviglia, per giustificare queste spoliazioni presentandole ora come misura diretta a colpire i Reazionari a vantaggi dei Sansculottes ed ora come doveroso contributo dei popoli ‘liberati’ alla guerra Rivoluzionaria. Gli eserciti della Rivoluzione quindi anzichè fare economia di uomini e di mezzi tendevano a gettarsi allo sbaraglio, avanzando entro il territorio nemico e risolvendo colà i propri problemi logistici: nè i loro giovani generali, avvezzi a vedere ghigliottinati i propri colleghi timidi ed irresoluti e prossimi invece a fulminee carriere, i più audaci si preoccupavano davvero della condotta cauta della guerra. Sotto il loro impeto pertanto generali e mercenari dell’Ancien Regime andavano in frantumi: già nel 1794 Belgio e Renania erano stati rioccupati dai Francesi: subito dopo anche l’Olanda era invasa e trasformata in una Repubblica Batava sul modello di quella di Francia. In secondo luogo la Rivoluzione conduceva ad una guerra ideologica di popolo, anzichè ad una guerra dinastica di monarchi al modo dell’Ancien Regime. Per quanto brutali fossero le rapine, i Generali della Rivoluzione erano profondamente convinti degli immortali principi dell’89 simboleggiati dal trinomio ‘Libertà, Eguaglianza, Fraternità’ sulle loro bandiere. Benchè arruolati con la coscrizione obbligatoria, i loro soldati erano pure i figli dei contadini che la Rivoluzione aveva affrancato dalla nobiltà. Il mercenario della Coalizione si batteva solo per una paga o per timore di una punizione: il soldato della Rivoluzione sentiva di battersi per la sua propria causa. Figlio del popolo e della Rivoluzione, anzi, l’esercito continuava anche dopo Termidoro ad essere una Roccaforte Giacobina. L’Europa, d’altra parte, pullulava di simpatizzanti della Rivoluzione specie tra gli intellettuali formati dall’Illuminismo e dai Borghesi influenzati dalle Logge Massoniche. Taluni di questi simpatizzanti, come Vittorio Alfieri (*), erano stati presto disgustati dagli eccessi sanguinosi dei Rivoluzionari. ma in cambio la svolta Democratica rappresentata dalla Convenzione Nazionale aveva trovati vasti consensi internazionali di cui era simbolo la presenza nella Convenzione stessa di stranieri, quali il Tedesco Anacharsis Klootz e l’Anglo-Americano Tom Paine. E se questi ultimi, a loro volta, erano stati travolti dal Terrore si delineava in cambio tutto un Giacobinismo Europeo i cui seguaci destavano l’allarme delle Corti con il proprio fermento e si sforzavano di favorire l’estensione internazionale della Rivoluzione. Nel 1794, gli eserciti Francesi, dopo aver rioccupato il Belgio e la Renania, entravano anche nell’Olanda, i cui patrioti davano allora vita ad una Repubblica Batava modellata su quella della Francia ed a lei alleata. Nello stesso tempo, anche in Italia si ebbero congiure Giacobine cui i governi assolutisti rispondevano con sanguinose repressioni. Attivi in particolare furono i Giacobini Piemontesi come i Fratelli Junod a Torino, lo storico Carlo Botta ed il Vercellese Giovanni Antonio Ranza, la cui attività cospirativa venne stroncata dai Savoia con numerose condanne a morte, tra cui quella dei Junod. Analoghe congiure e repressioni si ebbero nello Stato Pontificio, ove un fallito moto insurrezionale a Bologna costò la vita ai Patrioti Zamboni e De Rolandis; nel Regno di Napoli, ove la cospirazione trovò alimento in ambienti Massonici e fu schiacciata con centinaia di arresti e le condanne a morte di Emanuele De Deo, Vincenzo Vitaliani e Vincenzo Giuliani; in Sicilia ove salì il patibolo il Giurista Democratico Francesco Paolo Di Blasi (1795). In Sardegna, si ebbe inoltre un’insurrezione anti-feudale, capeggiata da Gian Maria Angioy che tenne in fermento l’isola per qualche anno. La lotta della Francia contro la Coalizione insomma, anzichè come una lotta fra Stati si configurava come una Guerra Civile Europea in cui i Francesi potevano contare su larghe simpatie all’interno degli Stati stessi con cui si battevano. In terzo luogo, infine, mentre la Francia era tutta impegnata nella Guerra Rivoluzionaria, le potenze della Coalizione avevano anche altro obiettivi da perseguire, per cui non di rado si trovavano in contrasto reciproco. Austria, Prussia e Russia avevano da sorvegliare la Polonia i cui Patrioti tentavano di trasformare l’anacronistica struttura del loro Regno in una Monarchia Costituzionale, svincolata da ogni ingerenza straniera. Mentre l’Austria, dunque, era impegnata con Francia, Prussia e Russia, avevano operato la Seconda Spartizione della Polonia (1793). I Polacchi tentavano la riscossa, guidati da un veterano della Rivoluzione Americana, Taddeo Kosciusko, ma erano battuti dai Russi del generale Suvaroff, ed Austria, Russia e Prussia finivano per spartirsi tra di loro l’infelice paese per la terza volta nel 1795. La questione Polacca provocava però tanta gelosia tra le Corti di Vienna e di Berlino, tanto che la Prussia faceva pace con la Francia, abbandonandole i territori sulla sinistra del Reno pur di avere le mani libere in Polonia. Analogo conflitto si delineava tra l’Inghilterra, desideroso di assicurare alle sue esportazioni il mercato delle immense Colonie Spagnole d’America, e la Spagna, intenzionata viceversa a conservare il proprio monopolio coloniale. Anche la Spagna pertanto faceva pace con la Francia e nel 1796 si alleava addirittura con lei, consentendo così alla Repubblica di sfruttare le non trascurabili forze di mare Spagnole, oltre a quelle dell’Olanda, già ridotta in Stato di vassallaggio. http://www.cronologia.it/storia/a1794b.htm La storia della città di Sassari I primi abitanti dell’isola Le prime tracce dell’uomo in Sardegna furono rinvenute proprio nei pressi di Sassari, esattamente a Perfugas, nel Rio Altana. Tali testimonianze consistevano in pietre lavorate (vedi Archeologia); la quantità di ritrovamenti ha rivelato come in quel sito vi fosse una consistente industria litica. E’ abbastanza pretenzioso collegare questi reperti con l’odierna Sassari, tuttavia è innegabile l’importanza dell’area sin dalla preistoria. Rimanendo nel raggio di 50 Km, si possono trovare gli insediamenti ed i reperti maggiormente significativi delle culture preistoriche in Sardegna. Le testimonianze della Cultura di Bonu Ighinu (4000-3500 a.C.) furono individuati per la prima volta nei pressi di Mara, a sud di Sassari; i reperti che consentirono di individuare la Cultura di Ozieri, furono trovati nel paese medesimo; il maggiore monumento di questa civiltà, l’altare di Monte d’Accoddi, si trova appena fuori la cinta urbana di Sassari. L’inizio ufficiale della storia Sarda Queste citazioni continuano fino all’inizio ufficiale della storia sarda, cioè il 1000 a.C., allorquando i fenici fecero conoscere la loro epigrafia nell’isola. Questa popolazione mediorientale si stabilì principalmente nella parte sud-occidentale della Sardegna, tuttavia attrezzò alcuni scali anche nei pressi delle odierne città di Porto Torres, Castelsardo e Bosa (NU), nella quale fu rinvenuta la più antica epigrafe fenicia. Nel VI secolo a.C., gran parte del territorio di Sassari rimase aldilà della linea di conquista dei Cartaginesi, che non riuscirono mai a dominare l’isola completamente. I fenici d’Africa conquistarono, con tutta probabilità, solo il Golfo dell’Asinara, strappando ai nuragici la fortezza di monte Cau, nei pressi di Sorso, dalla quale potevano dominare tutto il braccio di mare ed opporsi ad eventuali sortite dei guerriglieri sardi. Con la dominazione romana (238 a.C.) iniziò un maggiore sfruttamento dell’ansa, che occupava un’area di rilevanza strategica nel nord dell’isola. Nell’ultima metà del I secolo a.C. venne fondata Turris Lybisonis, attualmente inglobata nell’abitato di Porto Torres; nel 27 a.C. questo importante scalo portuale divenne ufficialmente una colonia romana, dalla quale venivano esportate ingenti quantità di cereali, coltivate nell’entroterra. Nel Golfo fiorì anche il centro di Ampurias, nei pressi dell’attuale Valledoria, grazie alla fertile vallata in cui scorre il fiume Coghinas. La Guerra Santa e l’Età Giudicale I romani furono cacciati dai Vandali, che a loro volta subirono lo stesso destini per mano dei bizantini. Durante tale periodo quasi tutti i centri litoranei caddero lentamente in rovina, riducendosi definitivamente in miseria intorno al 630 d.C., alla morte del profeta Maometto, che segnò l’inizio della Gihàd, la Guerra Santa, durante la quale gli arabi invasero innumerevoli volte le città costiere. La Sardegna era governata da un Judex, il quale risiedeva a Santa Igia (attualmente inglobata nel centro abitato di Cagliari). In quegli anni il governatore si trovò nella difficile situazione di dover fronteggiare gli attacchi esterni degli arabi e quelli interni dei barbaricini, inoltre mancava qualsiasi aiuto da Bisanzio, il cui regno era lacerato da profondi contrasti interni, che portarono ad un totale disinteresse per le colonie più distanti. Per arginare i problemi dell’isola, il Judex non trovò altra soluzione che demandare i propri poteri ai luogotenenti dei distretti di Gallura, Arborea e Torres, lasciandoli liberi di affrontare la difficile situazione. Intorno all’anno mille gli stati si resero indipendenti, dando inizio alla gloriosa “Età Giudicale”. Il regno di Torres, più comunemente conosciuto come Logudoro, era comandato da un Giudice o Re, che risiedeva ad Ardara, in quanto Torres (Porto Torres) era stata abbandonata durante il periodo delle incursioni saracene. Intorno al 1015 il reggente si trovò a contrastare l’invasione del Califfo Mugiahid, signore delle Baleari, intenzionato ad invadere l’intera penisola italiana, partendo proprio dalla Sardegna (vedi guida: Alghero). Per contrastare l’avanzata araba, il re di Torres e Arborea, Gonnario-Comita, chiese aiuto al Pontefice, il quale chiamò in causa alcuni signori pisani e genovesi. Le due città della penisola, allora repubbliche marinare nascenti ed in forte espansione, trovarono in tale alleanza la scusa per iniziare una penetrazione all’interno delle politiche isolane. Intanto ad Ardara venivano

Studi Angioy

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continua ottava parte

28) ibidem. 29) ibidem 30) ibidem. 31) ibidem. 32) ibidem. 33) Archivio di Stato di cagliari. 34) ibidem 35) Fondo P. Lutzu. 36) ibidem. 37) Archivio Parrocchiale di Scano, Quinque Libri. I MOTI DEL 1793/96 La situazione drammatica in cui era profondamente immersa la Sardegna dopo la dominazione spagnola di cui si pagò il prezzo per tanto tempo, fu una, se non la principale,delle cause dei moti popolari del periodo 1793/96. La fine del 700 fu “animata” da movimenti, in Sardegna,che gli Storici non sono concordi nel ritenere “antifeudali” ma “semplicemente” antibaronali. E’ evidente, infatti, il carattere interlocutorio del movimento il cui obiettivo non era il superamento del feudalesimo ma l’aggiustamento delle sue regole. Lo scontro era con i Baroni e la loro “tirannia”. E’ certo che vari fattori influirono sulla “formazione” dell’idea di rivolta anche con le caratteristiche di cui si diceva prima, tra i quali: 1) la diversa collocazione internazionale assunta dalla Sardegna del 1720 seppure “subalterna” al Piemonte; 2) la stessa rivoluzione francese del 1789 e i suoi principi di giustizia e di uguaglianza “di fronte alla legge”. Questi elementi destarono una qualche influenza anche nei confronti dei contadini e delle masse popolari sarde che iniziarono a sentire comunque “stretto” l’involucro ormai superato del regime feudale. Da qui i movimenti degli ultimi anni del secolo: Prima la cacciata dei Piemontesi del 28 Aprile 1794 e poi la “rivoluzione” capeggiata nel 1796 da Giovanni Maria Angioy che venne sconfitta. Lo stesso Angioy fu abbandonato dai suoi seguaci e per evitare l’arresto fu costretto alla fuga. Durante questa “rivoluzione sarda” si dice si cantasse l’inno:”Procurad’e moderare”. Il 28 aprile 1794 è ricordato come il giorno della cacciata dei Piemontesi dalla Sardegna. In breve l’avvenimento. Intorno all’una di pomeriggio di quel giorno, una Compagnia di granatieri del reggimento svizzero Schmidt, scende dalla Porta Reale, a Cagliari, dirigendosi verso il quartiere di Stampace. I soldati sono in uniforme di parata: la gente che passa pensa di essere di fronte ad una esercitazione…Ad un certo punto con un passo più veloce, una parte dei soldati si dispongono circondando l’abitazione dell’avvocato Vincenzo Cabras. Venne ordinato l’arresto del Cabras e del genero, Efisio Pintor, anche lui avvocato, considerati dalle Autorità Piemontesi due pericolosi rivoluzionari. Con l’avvocato Cabras in catene non si vide Efisio, che riuscì a scappare, ma il fratello Bernardo. Gli abitanti del quartiere di Stampace forse i più agguerriti perché i più fieri della propria identità, della propria autonomia, avversi nei confronti del Castello abitato da “aristocratici nullafacenti e piemontesi boriosi”, furono i primi ad accorrere sdegnati contro l’arresto. Si aggiungono, poi, i quartieri di Marina e Villanova. I rivoltosi dei tre Borghi, sbarazzatisi delle Porte che impedivano l’unificazione del movimento, puntarono decisamente su Castello. per ordine dei Viceré e del Generale delle armi si cominciò a sparare cannonate contro i borghi. Anche tra gli abitanti di Castello vi fu chi appoggiò decisamente la rivolta e con coraggio tentò senza riuscirci, d’impadronirsi dei cannoni. I rivoltosi con una vera battaglia, con morti e feriti, riescono a “conquistare” Castello con il Palazzo Viceregio, uccidendo nello scontro decisivo il comandante delle guardie. “Procurad ‘ e’ moderare barones sa tirannia” che vuol dire, come la vostra intelligenza vi ha fatto capire, “procurate di moderare (attenuare o più radicalmente…porre termine) o Baroni la vostra tirannia …….perché altrimenti, continua l’inno, per la mia vita, riporterete i piedi per terra (traduzione letterale), il popolo cagliaritano così cantava l’odio contro i piemontesi e quel giorno costrinse il viceré e i suoi funzionari a rintanarsi nelle loro stanze per il terrore di essere massacrati . Non solo il popolo cagliaritano ma anche le elites dirigenti cittadine nutrirono, in quel momento, un’avversione nei confronti dei piemontesi. E’ il visconte di Flumini, don Francesco Asquer, che, a capo di un centinaio di persone, arresta i piemontesi presenti in Città. Si giunse comunque ad uno accordo con il Viceré: i piemontesi avrebbero avuto tutti salva la vita e i beni ma tutti (compreso il Viceré) avrebbero abbandonato l’isola. Il 30 aprile il Viceré salì su quella nave veneziana che salpò solo il 7 maggio. Fu un avvenimento certamente importante per la Sardegna, per quei moti antifeudali, anche se alcuni non condividono questa lettura degli avvenimenti, che lo animarono; Tant’è che con Legge Regionale n.44 del 1993, il Consiglio Regionale sardo ha istituito “Sa die de Sa Sardigna” proprio il giorno 28 Aprile. Il giorno 28 Aprile di ogni anno si festeggia, in ricordo del 28 aprile 1794, il “Giorno della Sardegna” con manifestazioni culturali ed una “rappresentazione scenica” degli scontri del 1794 nei luoghi reali dove essi avvennero. Nel 1997 80000 persone, tra cui tanti turisti ma moltissimi sardi, si riversarono nel quartiere di Castello assistendo con partecipazione emotiva, alla rappresentazione. Francesco Ignazio Mannu, di Ozieri, compose quello che si dice divenne il “canto della rivoluzione” sarda. Procurad’e moderare è un canto di 47 strofe con otto versi ciascuna, composto negli anni tra il 1794 e 1796. Alcuni propendono per il 1794 affermando che veniva cantato durante la cacciata dei piemontesi. Altri invece optano per il 1796 facendolo diventare l’inno della rivolta capeggiata da Giovanni Maria Angioy che avvenne, appunto, in quell’anno. Non importa tanto questa discussione. E’ senza dubbio una composizione in lingua sarda che ancora oggi viene vissuta e cantata come l’inno sardo un pò della riscossa e dell’emancipazione del popolo sardo che è ben diverso dal popolo “prostrato” e ossequioso fedele al re e al Regno di Sardegna raffigurato nell’inno sardo che i bambini della Scuola Elementare studiavano e cantavano nel 1925. Delle 47 strofe ne citiamo le due iniziali…… 1-sardo 1-italiano Procurad’e moderare, Barones, sa tirannia, Chi si no, pro vida mia, Torrades a pe’ in terra! Declarada e’ già sa gherra Contras de sa prepotenzia, E cominza’ sa passienzia In su pobulu a mancare. Fate in modo di moderare, Baroni, la tirannia, Se no, per la mia vita!, ritornate a piedi in terra! Dichiarata e’ già la guerra Contro la prepotenza, E comincia la pazienza Nel popolo a mancare. 2-sardo 2-italiano Mirade ch’est azzendende Contras de ‘ois su fogu; Mirade chi no e’ giogu Chi sa cosa andat ‘e veras; Mirade chi sas aeras Minettana temporale; Zente consizzada male, Iscultade sa ‘oghe mia. Guardate che si sta accendendo contro di voi il fuoco; Guardate che non e’ un gioco che la cosa diventa concreta; Guardate che l’aria minaccia temporale; Gente consigliata male, ascoltate la mia voce. http://www.sardegnaminiere.it/i_moti_antibaronali.htm Lotta contro le chiudende Alcuni cenni sui paesi nel periodo delle chiudende NULE Sindaco: Giuseppe Manca Censore: Salvatore Manca Dissero a risposta non esservi inimicizie, per l’amministrazione della giustizia non avere altro da rappresentare, se non che lo scrivano esige diritti eccessivi, come sarebbe un soldo per ogni bollettino, dieci soldi per la rivista ed altrettanti per cadun mandato, e cosi delli altri atti. I diffamati nel discolismo sono : Antonio Bitti Francesco Sanche Giò Delogu minure alias Cuttu Giuseppe Scanu Pigueta Giò Nieddu Antioco Cannas di Bultei maritato a Nule Giuseppe Diana, di BuItei maritato a Nule Che il reggidore in tempo di visita esige dieci soldi, e li diritti di verbale molto eccessivi. Regole e leggi La nomina del sindaco si fa con giunte della comunità, precedente permesso;la terna quale uno viene nominato dalla comunità, l’altro dal sindaco vecchio, e l’altro dal maggiore di giustizia, indi il reggidore elegge quello che ,gli sembra più capace, e gli si spedisce subito la procura, per la quale si paga tre scudi ed esercisce senza stipendio,e se occorre spese comuni, si prende a diramma. Per direzione del monte granatico, si conservano le previdenze del pregone. Il fondo attuale è di 20 starelli d’orzo e 15 di grano. Si sono seminati 5 starelli d’orzo e 4 di grano. Vi si trova pascolo a sufficienza per ogni scorta di bestia. Gli individui sono più interessati al seminato che alla paga. Verte una lite nella R. Udienza con la comunità di Benetutti, ed un’ altra con quella di Pattada, sulla R. Governazione per fatti di territorio. Non ritrovare alcuno spurio e quando se ne incontra qualcuno, si spedisce alla curia di ocier, perché si provveda.Dei nominati Giò Mazale e Maria Campus pattadese fassi contratti usurai rispetto al prestito del grano, su rimanente si osserva da chiunque il R. Editto, dopo che più verificato il fatto. Il territorio di questa villa non essendo di buona qualità, non atto ad alcun piantamento di alberi, in prova di che nemmeno le vigne sono di utilità, e sebbene si potesse inserire gli olivari, quell’individui non sono capaci. Ritrovasi tuttavia molta moneta vecchia, e li pesi e misure raffinate a Sassari. Molte sono le considerazioni che siamo portati a trarre dalla lettura della relazione del segretario del viceré Des Hayes. In primo luogo la debolezza dei rispettivi consultori delegati attuali, non troppo adatta ai torbidi di quei paesi ed alla fierezza di quelli abitanti. Altro male: gli arrendatori. Questi costituivano, allora, una classe privilegiata, che si arricchivano in breve tempo, succhiando “il sangue dei cittadini indifesi”. Gli arrendatori erano incaricati di percepire gli affitti dei terreni -che erano tutti di proprietà del re – trattenevano una forte percentuale, obbligandosi, però, a provvedere a certe spese, come per il vitto da distribuirsi ai carcerati. Abbiamo visto come adempivano a questo ufficio. Dal pagamento del censo e dalle diramme venivano poi esclusi i nobili, quelli che prestavano servizio per conto del re, quelli che sapevano leggere ed i signori in genere (compresi gli stranieri), vestiti di panno. Inoltre v’erano sempre i raccomandati, i quali venivano esonerati da certi obblighi. Da segnalare ancora il pessimo stato delle carceri mandamentali: peggiori dei famosi « forni » di Barnabò Visconti!, perché almeno li, risulta, non si moriva di fame. Perciò quando Giovanni Maria Angioy, l’Alternos, ispirandosi alle idee proclamate dalla Rivoluzione Francese, innalzò il vessillo di rivolta contro i prepotenti feudatari, tutto il Goceano, oppresso dalla secolare servitù ed anelante alla libertà, si schierò con lui e con lui lottò tanto che il governo si vide costretto ad inviare a Bono, patria dell’ Angioy , un distaccamento di soldati, che va sotto il nome di « Spedizione punitiva contro Bono », per rimettere l’ordine. I soldati del re occuparono Bono e vi si abbandonarono ad atti di crudeltà contro la popolazione, atti innominabili,poi,i “Conquistatori”, sicuri d’aver raggiunto lo scopo si diedero al vino e alla crapula.Nel frattempo accorsero molti dalle ville vicine, particolarmente da Benetutti, altra roccaforte dell’Angioy, i bonesi dalle campagne, e tutti uniti assalirono improvvisamente i soldati.Ne fecero una vera strage e pochi riuscirono a salvarsi con una fuga precipitosa.Questo episodio è anche oggi ricordato dai bonesi durante la festa di S. Raimondo, con la famosa zucca. Una zucca la più grossa prodotta negli orti di Bono, posta sopra un carro inghirlandato, portata in giro per le principali vie del paese, poi, in ultimo, sulla vetta del colle ove sorge la chiesa di S. Raimondo.Quivi giunti, la zucca viene fatta rotolare per il pendio, tra le risa e gli scherni ,proprio come da quel colle,quel giorno fecero rotolare i soldati del re. Questa lotta,è vero, non partorì alcun risultato utile agli abitanti del Goceano, anzi causò nuovo sangue, perché la vendetta del re fu tremenda! Valse, però, a dimostrare al sovrano che gli abitanti del Goceano non avevano ammainato la bandiera, che nulla avevano perduto dal fiero animo dei loro padri antichi, i quali per infinite generazioni avevano lottato a tutela della propria libertà.Dimostro che il Goceano aveva bisogno di nuove leggi e le esigeva, dimostrò che quelle popolazioni erano assetate di giustizia, e la esigevano! Ben altre lotte attendevano i Goceanesi;e pure in esse si dimostrarono all’altezza dei loro Avi. Arriviamo così al 1831. http://www.goceano.it/murineddu/nule.htm AGGIUS LE TRACCE DEL PASSATO Il territorio di Aggius ha avuto sin dalle epoche più remote la presenza di numerosi abitatori che ne utilizzavano le caratteristiche svernando nelle zone prossime al mare e riparando poi verso l’interno per fronteggiare i disagi di estati secche e malariche ma anche per sfuggire a incursioni di ospiti poco graditi che giungevano dal mare, come i barbareschi e i saraceni. Molte sono le testimonianza di tale presenza in ogni epoca: ripari sotto roccia utilizzati dai primi abitatori e via via, fino ad epoche recenti, dai pastori; grotte o conche usate come sepolture; circoli megalitici, appartenenti presumibilmente alla “Cultura di Arzachena” nella zone di Pitrischeddhu, Paramuru, La Ciacca e Salvagnolu, i villaggi prenuragici di Boda e Li Parisi; il Nuraghe Izzana famoso per la sua tholos. Nei pressi di Aggius passava una delle strade romane che originandosi da Tibula( l’odieno territorio di santa Teresa?) si dipartiva verso l’interno e il capo di sotto dell’isola. In zone che conservano nomi da esse derivate – Monticareddu, “lu coddhu di la iddha”, presso lo stazzo di Scala- esistono i resti delle “villae” medievali di Monticarello e Scalia. Nelle immediate vicinanze del paese inoltre sorgevano le chiese di Sant’Agata, Sant’Ubaldo, San Sebastiano e Santa Degna mentre nelle campagne sono ancora in auge , specie per le annuali feste, le cappelle della Madonna della Pace a Bonaita, San Lussorio( Santu Lusunu ), San Pietro, San Filippo, San Michele e San Giacomo, quest’ultima con annesso un piccolo camposanto. Nelle vicinanze dell’abitato infine, in quelle aree coltivate ad orti, vigneti e frutteti perdurano dei “lacchi “e dei “laccheddhi” , vasche e vaschette scavate nella roccia e adibite alla pigiatura dell’uva e alla raccolta del mosto. A testimonianza di un’intensa e antica attività vitivinicola della gente di Aggius. LA STORIA Il nome del paese nella forma di AGIOS si incontra per la prima volta nella tabella delle imposte fatta compilare dal re di Aragona nel 1358 per stabilire il censo che ciascuna “villa” era tenuta a pagare . La sua storia inizia praticamente dal quel periodo ed è pressoché uguale e comune a quella di tutte le altre “villae” di Gallura, fra le quali occupava, per importanza e grandezza, il secondo posto della curatoria di Gemini. Spentosi il giudice Nino e smembrato il Giudicato di Gallura- uno dei quattro regni sardi insieme a quello di Cagliari, di Arborea e di Sassari-Logudoro- Aggius fu conteso dai Doria, dagli Arborensi e da Pisa che alla fine ebbe ragione sugli altri. Sopraggiunsero quindi gli Aragonesi ma fu poi occupato da Eleonora d’Arborea, finchè, tornato sotto il potere degli Aragonesi, non passò, alla pari del resto dell’Isola, agli Spagnoli. I quali finirono poi per dominare la Sardegna per un lungo periodo: circa quattro secoli. Questo dominio non fu certo un periodo felice: il paese subì carestie e pestilenze mentre il suo litorale era di frequente sottoposto a incursioni barbaresche oltre che ancora da parte di genovesi e pisani. A sua difesa – dal Cinquecento al Seicento- furono erette delle torri costiere a Punta Muflonaria (Isola Rossa), presso la foce del Vignola e a Longonsardo. Una quarta sarebbe dovuta sorgere sul promontorio di Montirussu. Tuttavia questo lungo e oneroso dominio valse a influenzare in maniera indelebile tradizioni, usi e costumi, riti religiosi, canti e quindi il lessico anche della parlata gallurese. Dopo il periodo spagnolo Aggius non potè non seguire il destino di tutta l’Isola, passando, nel 1720, sotto i Savoia. Ma il passaggio, qui più che altrove, risultò tutt’altro che automatico e indolore. Aggius anzi – centro di smistamento del contrabbando con la Corsica- fu ritenuto dai rappresentanti della Casa Regnante il maggior ostacolo al pieno e completo dominio della Sardegna. E ciò per via della contesa delle Isole Intermedie, ovvero delle isole dell’arcipelago della Maddalena, da sempre sfruttate da proprietari bonifacini e pertanto rivendicate dai francesi. Di qui le ripetute minacce di distruggere il borgo e di disperdere i suoi abitanti (vedi documento). Accanto alla storia ufficiale non possono pertanto non esser ricordati fatti e avvenimenti che allora ebbero grande risonanza. Nella prima metà del Seicento Aggius sarebbe divenuto un centro di falsari.. La “zecca” si sarebbe trovata su uno dei suoi monti- che per questo si sarebbe chiamato Fraili, ovvero fucina, bottega del fabbro- ostico anche per la spedizione che il Governatore don Matteo Pilo Boi organizzò per debellare il fenomeno. Si legge in Storia di Gallura dal Dizionario Geografico,Storico, Statistico, Commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna, compilato negli Anni trenta del 1800: ” Nel 1639 molti galluresi travagliano alla fabbricazione di monete false con non minore studio che facessero i logudoresi. Il monte d’Agius, che dicono Fraile, ha preso questo nome da quella clandestina operazione. Vi si ascende per una semita difficile e in cima trovasi un piccol piano con alcune caverne ed una sorgente. Seppure fossero sorpresi non era agevol impresa di prendere i rei. Ma questo luogo non servì che quando la persecuzione fatta per D. Matteo Pilo Boyl fu più viva. In altro tempo lavoravano nelle case con tutto il comodo”. Ma l’epicentro delle turbolenze attribuite – sicuramente non senza ragione- ad Aggius doveva collocarsi soprattutto nel suo territorio. I punti d’approdo dei suoi litorali- “le marine dell’aggese”- favorirono di fatto gli scambi e i commerci abusivi con la vicina Corsica. Infatti il suo territorio accolse di frequente banditi e contrabbandieri, contro le cui postazioni di terra e le cui “gondole ” impegnate nelle traversate dello Stretto di Bonifacio andarono quasi sempre a infrangersi le spedizioni delle forze governative. Così avvenne allorché le truppe regie attaccarono ripetutamente il Monte Cùccaru- impervio contrafforte naturale dominante il litorale occupato attualmente dagli insediamenti turistici della Costa Paradiso, covo allora del fior fiore dei fuorilegge dell’epoca- o quando quattro barconi venute dalla Corsica a caricare bestiame negli approdi di La Cruzitta , Cala Sarraina, Tinnari e Li Cossi quasi si presero gioco della “regia gondola” Speronara. Il ripetersi di questi fatti, assieme alla resistenza degli aggesi ai gravami imposti dai feudatari, impensierì il viceré Balio della Trinità che il 21 agosto 1766 emanò un pregone nel quale si minacciava di “schiantare affatto in una colla villa tutta la cagione di tanti pregiudizi che ne derivano alla quiete e agli interessi de’ pubblici e de’ privati”. Per fortuna la terribile punizione non fu messa in atto, anche se gli aggesi non modificarono non più di tanto i loro comportamenti. Nel giugno del 1802 il notaio cagliaritano Francesco Cillocco e il vicario di Torralba Francesco Sanna Corda, riparati in Corsica dopo la sconfitta (1796) di Giovanni Maria Angioy di cui erano ferventi seguaci, tentarono una spedizione in Sardegna per affermarvi i principi della Rivoluzione Francese. Fidandosi della promessa, poi non mantenuta, dell’appoggio del pastore-bandito Pietro Mamia e di altri pastori del litorale, i due ,con un manipolo di pochi volontari, sbarcarono dalla Corsica nelle “marine aggesi” per marciare alla volta prima di Tempio e quindi Cagliari. Occupate le torri costiere di Isola Rossa, Vignola e Longonsardo, ingannati e traditi, il Sanna Corda morì da valoroso nella strenua difesa di quest’ultima e il Cillocco, riparato in uno stazzo, fu “venduto” alle truppe del governatore di Tempio, trascinato in catene a Sassari e giustiziato. Un mese dopo, il 12 luglio 1802, Il governatore di quest’ultima città, Placido di Savoia conte di Moriana, rinnovò con un pregone la minaccia di distruggere Aggius.”Contro i perfidi patori di Agius- scriveva al fratello Carlo Felice, viceré di Sardegna- si usi il massimo rigore, senza remissione. Quella sciagurata gente è ormai arrivata al colmo dell’iniquità. Esauriti tutti mezzi, rimane quello di ridurre in cenere quel villaggio,dividendosi gli abitanti in tante diverse popolazioni fuori della Gallura”. Ma in quel caso, più che le malefatte di banditi e contrabbandieri si vollero condannare le idee nuove, dirompenti e destabilizzatici del potere monarchico che si volevano importare , attraverso la Corsica, dalla Francia postrivoluzionaria.. Mentre infatti il Sanna- Corda e il Cillocco erano andati a morire, il traditore Pietro Mamia ebbe abbondantissimi sconti di pena per le sue notevoli e notorie nefandezze. A conferma così scriveva, già nel febbraio 1793, il Viceré al Vescovo di Tempio.”Savissima è l’Enciclica sparsa nella Sua Diocesi per impedire l’ingresso de’scritti sediziosi di Corsica, co’ quali si medita d’infettare il regno….” Per tutto l’Ottocento il paese fu dilaniato da sanguinose faide familiari, la più famosa delle quali, quella tra i Vasa e i Mamia, causò una settantina di morti e ispirò a Enrico Costa, scrittore sassarese, il romanzo Il Muto di Gallura, pubblicato a Sassari nel marzo del 1884. Paci solenni valsero però a ristabilire l’ordine e la situazione andò man mano normalizzandosi. Nel 1848, quel movimento che in Europa prese il nome di “primavera dei popoli” pare avesse investito anche Aggius. Che sarebbe stato “repubblica” per quarantott’ore! Alla fine dell’Ottocento i primi fermenti socialisteggianti fecero la loro comparsa anche qui, influenzando diverse persone fra le più in vista. Da non dimenticare infatti che Giuseppe Garibaldi, durante la sua permanenza a Caprera, aveva annoverato molti amici tra gli aggesi. http://www.aggius.net/tonio/aggius02.html Storia di Sassari Non si hanno notizie certe sulle origini della città di Sassari. L’ipotesi più verosimile è che essa sia il risultato del progressivo ampliamento di uno dei tanti villaggi medioevali che si trovavano nella zona collinare a ridosso del golfo dell’Asinara. Tuttavia, si sa per certo che intorno al Mille i giudici di Torres iniziarono a soggiornarvi e che la rafforzarono con un castello, il Castrum Sassaris o Saxi, di cui già si trova notizia in un documento del 1118. Successivamente la città, man mano che acquistava importanza, fu coinvolta nella lotta in corso per il predominio su tutta la Sardegna e, nello stesso giudicato di Torres, nella guerra tra Pisa, Genova e i Giudici. Le due repubbliche marinare avevano iniziato da tempo ad introdursi nell’isola: la loro penetrazione era stata dapprima di tipo economico ma tendeva poi a divenire anche politica, tanto da scontrarsi con l’autorità dei giudici, basata ancora su una legislazione medioevale. A Sassari, intanto, per via dei rapporti con le due repubbliche marinare, si era venuto formare un nuovo ceto borghese, di commercianti ed artigiani attivi, aperti a nuovi traffici, insofferenti anch’essi, quindi, della vecchia legislazione: in questo quadro va vista l’uccisione del giudice Barisone III, da parte degli stessi Sassaresi, avvenuta nel 1236. Sotto queste molteplici spinte, il giudicato andò gradualmente disgregandosi, e Sassari ebbe la possibilità di conseguire una certa autonomia. Questa crescente importanza spiega le lunghe contese tra Pisa e Genova per la supremazia sulla città: fu la repubblica ligure ad avere la meglio, dopo la battaglia della Meloria (1284). Con una convenzione stipulata tra Sassari e la repubblica marinara, Genova si impegnava ad intervenire in “protezione e difesa” di Sassari, mostrando così, un sostanziale rispetto per l’autonomia e gli ordinamenti della cittadina sarda, gli Statuti, che ci sono noti in un testo sardo-logudorese del 1316. Il governo della città fu affidato, oltre che al podestà genovese, al Consiglio Maggiore, composto da cento cittadini che tenevano la carica a vita. Il podestà, che veniva inviato ogni anno da Genova, assommava in sé un notevole potere, nonostante fossero previsti numerosi meccanismi limitativi e di controllo nei suoi confronti. Quanto al Consiglio Maggiore, esprimeva una sorta di esecutivo di 16 persone, il Consiglio degli Anziani. Intanto, il regno di Aragona si veniva inserendo nelle lotte per il predominio del Mediterraneo, incoraggiato da papa Bonifacio VIII, che nel 1297 investì Giacomo II del titolo di re di Sardegna. A Sassari, anche per reazione ai genovesi che miravano a ridurne l’autonomia, si formò un gruppo filo-aragonese, guidato dal notabile Guantino Catoni il quale, convinta una parte del Consiglio Maggiore, inviò nel 1321 un’offerta di vassallaggio al sovrano aragonese che si accingeva alla conquista della Sardegna. La spedizione fu guidata dall’infante Alfonso che si affrettò ad inviare a Sassari un governatore. Ma fu subito chiaro che i nuovi alleati miravano ad un rigido controllo della città, sicché nel 1325, si verificò una prima ribellione che gli aragonesi repressero, iniziando successivamente la costruzione di una fortezza per sorvegliare meglio la città ribelle. Si aprì così un lungo periodo dei lotte, che videro in campo, oltre agli aragonesi e Genova, anche i giudici d’Arborea, che tentando di salvaguardare la loro autonomia, riuscirono anche ad impadronirsi di Sassari per due brevi periodi. Il dominio araagonese si consolidò soltanto a partire dal 1420, mentre veniva rafforzandosi sempre più quella cerchia di nobili provenienti dalla Spagna, che godevano di privilegi e traevano i loro proventi dai feudi che venivano loro concessi. Il controllo dei traffici di tutta la parte settentrionale della Sardegna, la presenza dei feudatari era motivo di benessere e potenza, tanto da mettere in discussione il primato dell’isola a Cagliari. Il nuovo contesto mediterraneo del XVI secolo, caratterizzato dalla sempre più massiccia minaccia turca e barbaresca, con l’emarginazione della Sardegna dalle rotte commerciali, portarono ad una progressiva crisi della crescta dell’economia della città. A ciò si aggiunsero le pestilenze, una delle quali, nel 1528, avrebbe provocato solo a Sassari, a detta di scrittori del tempo, non meno di 15 mila morti. Poco prima, tra la fine del 1527 e l’inizio del 1528, avvenne l’occupazione della città da parte dei francesi, che per un breve periodo la dominarono e la saccheggiarono. Nel frattempo, dietro l’esempio delle città spagnole, all’interno della comunità cittadina, prendevano importanza le categorie di artigiani e lavoratori detti Gremi. La loro principale manifestazione pubblica, conservata fino ad oggi dalla tradizione, è la processione del 14 agosto, nella quale vengono portati a braccia grandi Candelieri, uno per ogni categoria di lavoratori, in ricordo di un voto fatto alla Madonna per la fine dell’epidemia di peste del 1582. Agli inizi del ‘700, in seguito alle vicende della guerra di successione spagnola, Sassari conobbe per alcuni anni la dominazione austriaca; di questo periodo è ricordato il tentativo di ribellione contro l’imposizione dell’estanco, una nuova tassa sul tabacco, abbondantemente coltivato nelle campagne circostanti. Ritornata brevemente agli spagnoli, la città, con tutta la Sardegna, passò poi al Piemonte in conseguenza del trattato di Londra del 1718. Sotto i Savoia si ebbero dei benefici, ma anche dei periodi di stasi. Al tempo del re Vittorio Amedeo II (1720-1730), vi fu una prima riorganizzazione fiscale, fu confermata la legislazione preesistente e con essa gli Statuti sassaresi. Alcune prime misure furono adottate in maniera episodica da Carlo Emanuele III (1730-1773) che con i lavori di ripristino del porto di Torres, diede incremento agli scambi commerciali. Significativa è anche la riorganizzazione dell’Università (1764). La spinta riformistica si attenuò con Vittorio Amedeo III (1773-1796), quando tornarono condizioni di arretratezza. Questa situazione generale, unita ad una grave carestia, condusse la città a ribellarsi nell’aprile 1780. Dopo alcuni giorni fu ripristinato l’ordine ma ne seguì il cosiddetto decennio rivoluzionario in cui le rivolte venivano controllate con esecuzioni capitali. Nel 1796 fece suo ingresso trionfale, inviato da Cagliari, l’Alternos Giovanni Maria Angioy, dove il suo prematuro tentativo di abolizione del sistema feudale, si risolse ben presto in nulla e fu seguito da feroci repressioni ai danni dei sassaresi. Con Carlo Felice (1821-1831) prima e Carlo Alberto (1831-1849) poi, Sassari ottenne diversi benefici, quali il trasferimento della prefettura in città, il rafforzamento dei traffici commerciali tra Sassari e la penisola e, la costruzione della nuova strada Cagliari-Portotorres . Nel 1836, finalmente, fu dato il permesso di costruire al di fuori della cinta muraria, e la città iniziò ad espandersi nel territorio circostante. La fine del 800 presenta una città in forte crescita economica e in continuo sviluppo, tant’è vero che nei primi anni del 900 si ebbe un certo sviluppo di industrie legate all’agricoltura. Si rafforza così il ceto borghese cittadino che traeva benessere da tali attività, che trovò all’interno di esso un esponente illustre, amico di Mazzini, Gavino Soro Pirino, il quale guidò la città dal 1877 al 1915. Protagonisti della scena politica sassarese furono, a partire dal 1891, tre giovani avvocati, Enrico Berlinguer, Pietro Moro e Pietro Satta Branca. Questi giovani, sempre nel 1891, fondarono La Nuova Sardegna, divenuto ben presto il quotidiano più diffuso nell’isola. Al termine della prima guerra mondiale, e col rientro dei reduci, anche Sassari partecipò al movimento rivendicazionistico degli ex combattenti. Camillo Bellieni e Luigi Battista Puggioni, fondarono il giornale La voce dei combattenti (1919) e, furono tra i fondatori del Partito Sardo d’Azione. Negli anni antecedenti lo scoppio della seconda guerra mondiale, Sassari venne dotata di numerosi importanti edifici, quali le scuole elementari di S. Giuseppe, il Liceo classico e scientifico e il Palazzo di Giustizia. La città, risparmiata dalla guerra (si registrò solo la caduta di pochi spezzoni nel maggio del 1943), superò il periodo bellico senza particolari traumi, ma la popolazione dovette sopportare una grave e prolungata carenza di generi alimentari. Dopo la crisi del dopoguerra, Sassari reagì ottenendo un lento sviluppo economico, che portò la città a divenire oggi il secondo centro cittadino della Sardegna per importanza. http://www.webinsardinia.com/pagine_web/italiano/province/sassari/ss_storia.html CAGLIARI PIEMONTESE Da questo momento in poi Cagliari rimase sede del viceré, il primo dei quali fu Saint Remy. In seguito alla rivoluzione francese, il 18 dicembre del 1792, una flotta francese sferrò un attacco alla città di Cagliari che fu bombardata, mentre un tentativo di sbarco effettuato nella spiaggia di Quartu fu respinto dai miliziani sardi comandati da Girolamo Pitzolo. Nel 1794 Cagliari fu teatro di agitazioni a carattere antifeudale che si estesero a tutta l’isola e si conclusero con una dura repressione da parte delle autorità sabaude. Il movimento antigovernativo fu capeggiato da Giovanni Maria Angioy, giudice della Reale Udienza, costretto all’esilio in Francia; il personaggio forse di maggior spicco della storia della Sardegna e, comunque, il più amato dagli storiografi sardi. Nel 1799, l’esercito rivoluzionano francese marcia verso Torino e Carlo Emanuele IV si trasferisce a Cagliari con la sua corte, essendo l’isola l’unico territorio non occupato. Cagliari sarà capitale del regno di Sardegna fino al 1812 quando, entrati gli Austro-Russi a Torino, la corte ritornò in Piemonte, lasciando nell’isola come viceré Carlo Felice. Sotto la sua amministrazione venne promossa la costruzione di strade (Cagliari-Porto Torres nel 1822), e venne costituita la Società Agraria ed Economica (1804). Nonostante ciò vi fu una nuova congiura contro i Piemontesi. Infine nel 1847 un moto popolare partito dall’Università riuscì nel tentativo di vedere unificata la Sardegna al Piemonte, con la cosiddetta “fusione perfetta”. Fino ad allora, l’isola, nonostante fosse unita al Piemonte, aveva goduto di una sorta di dipendenza amministrativa, simile a quella di uno stato federato autonomo. Cagliari, cosi come gli altri comuni del regno, viene amministrata secondo un ordinamento giuridico moderno, ispirato ai principi dello Statuto Albertino (1848). Ma molti problemi di antica origine restavano ancora irrisolti. http://www.soluzionesardegna.it/cagliari_storica.htm Civiltà spagnola – occupazione austriaca Nel 1479 la Sardegna entrò sotto il dominio spagnolo. Rafforzato il sistema politico, con l’introduzione del tribunale dell’inquisizione e la riorganizzazione dell’apparato ecclesiastico, divenne una costante preoccupazione della Corona quella di contenere, a livello parlamentare e giurisdizionale, l’arrogante feudalità isolana. Il Cinquecento fu segnato da violenti attacchi barbareschi e carestie, ma vide una razionalizzazione delle strutture burocratiche (istituzione della Reale Udienza, 1564) ed il nascere di un ceto togato laico e riformatore, in contrasto con la nobiltà ed il clero, che ebbe nel cagliaritano Sigismondo Arquer la sua vittima più illustre. Il problema della difesa dell’isola portò, invece, nel 1583, alla creazione di una specifica amministrazione delle torri litoranee. Il Seicento segnò la nascita delle università di Sassari (1617) e Cagliari (1626) ed un forte inasprimento del sistema fiscale, dovuto alle pressanti esigenze finanziarie della Corona spagnola. Ma sulla già prostrata isola si abbatterono anche congiunture agricole, carestie ed una violentissima epidemia di peste (1652-1657), che decimarono la popolazione, mentre si acuiva il parassitismo delle classi dirigenti e si radicava la piaga del brigantaggio. Lo stato di precarietà rendeva inoltre difficoltoso il pagamento dei donativi, con conseguente indebitamento del bilancio sardo. Il formarsi di due grandi “partiti” feudali, i contrasti di potere tra grande nobiltà e burocrazia regia, la rissosità della piccola nobiltà e le rivendicazioni del patriziato urbano, andavano nel frattempo rivelando, anche con episodi sanguinosi, la profonda crisi socio-istituzionale nella quale versava l’isola. Crisi che la Spagna non ebbe l’interesse né la forza politica di risanare. L’isola restò sotto il dominio spagnolo, con la breve parentesi dell’ occupazione austriaca (1708-1717) fino al 1720, quando in seguito al trattato di Londra (1718) fu ceduta ad Amedeo II di Savoia. Dominio Piemontese Con il trattato di Londra (1718), il Regno di Sardegna venne assegnato ai duchi di Savoia principi di Piemonte, che lo aggregarono in forma federativa ai propri stati di terraferma. Quando la nuova dinastia prese possesso dell’isola, nel 1720, si trovò di fronte ad una terra dai complessi problemi, per giunta spagnolizzata e non immune da sentimenti autonomistici: permanevano il sistema feudale e i privilegi del clero; l’ordinamento politico-amministrativo era inefficiente e il sistema legislativo confuso ed arretrato; l’economia era depressa e condizionata dal persistere del sistema feudale e dell’ uso comunitario delle terre; mancavano infrastrutture viarie e marittime; il livello di scolarizzazione e delle università era bassissimo; molte zone erano deserte e insalubri, persisteva la minaccia barbaresca e dilagavano banditismo e abigeato. L’intervento piemontese interessò da subito l’apparato finanziario, l’istruzione pubblica, lo sviluppo demografico e la bonifica del territorio. Una più incisiva politica di riforma amministrativa e sociale fu avviata da Gianbattista Lorenzo Bogino, illuminato reggente della Segreteria di Stato per gli affari della Sardegna (1759-1773). La ventata di rinnovamento e modernizzazione non sciolse tuttavia i nodi profondi del malessere di un’isola che rimaneva sostanzialmente estranea e che veniva ignorata nelle sue specificità culturali e ambientali. Né l’azione riformista riusciva a mascherare il volto assolutista repressivo e fiscale del governo sabaudo. La mancata difesa dell’isola da parte dei piemontesi, in occasione dell’attacco della Francia rivoluzionaria, nel 1973, ed, al contrario, l’eroica resistenza messa in campo dai miliziani sardi, diedero nuova linfa alle aspirazioni autonomiste e ai sentimenti antisabaudi dell’aristocrazia sarda. Sentimenti che sfociarono, dopo il rifiuto delle “cinque domande”, nell’insurrezione cagliaritana del 28 aprile 1794, con la cacciata dei piemontesi e del viceré. I moti antisabaudi antifeudali e filo-giacobini dilagarono nell’isola, anche grazie alla figura carismatica di Giovanni Maria Angioy, ma furono duramente repressi, cosicché la corte piemontese in fuga dalle armate francesi poté trovare riparo a Cagliari nel 1799. Non ancora sopiti i movimenti insurrezionali (congiura di Palabanda) e dopo devastanti carestie, fu chiaro al governo sabaudo che la crisi dell’agricoltura sarda doveva essere radicalmente risolta. Nel 1823 venne pubblicato l’”Editto delle Chiudende”, mentre tra il 1835 e il 1843 venne abolito il sistema feudale, interventi che in realtà non sortirono gli effetti desiderati. Ma la politica riformatrice di Carlo Alberto conquistò molti intellettuali sardi e la rinascente borghesia agraria e mercantile isolana. Nel 1847 gli stamenti, rinunciando alla vecchia aspirazione autonomista, chiedevano e ottenevano la “fusione” della Sardegna con gli Stati di terraferma. Aveva così fine il Regnum Sardiniae e nasceva il Regno sardo-piemontese. Il regno sardo-piemontese ebbe vita dal 1847, anno della “fusione” del Regno di Sardegna con gli Stati piemontesi di terraferma fino all’Unificazione italiana del 1861. Civiltà giudicale e comunale A causa delle incursioni arabe, la Sardegna si trovò, nell’VIII secolo, isolata da Bisanzio. L’isola vide così nel tempo strutturarsi, in forma originale rispetto al resto d’Europa, quattro regni : i “giudicati” di Cagliari, Arborea, Gallura e Torres. Questi si avvalsero dell’alleanza politica e del sostegno economico di Pisa e Genova, e favorirono, in particolare il Giudicato d’Arborea, il riordinamento amministrativo, istituzionale e giuridico. Ogni regno (logu o rennu) era sovrano, retto da un re o “giudice”(iudex o iudike) affiancato dai rappresentanti del popolo riuniti in parlamento (corona de logu), e dotato di leggi proprie (cartas de logu). Frontiere fortificate ne segnavano i confini, proteggendo il territorio. Questo era diviso in “curatorie”, ciascuna retta da un curatore. La popolazione, di liberi e, per la maggior parte, servi, viveva nelle città e nelle campagne, in piccoli centri o “ville”. Le amministrazioni giudicali, anche grazie alle strette relazioni con Pisa e Genova, incrementarono notevolmente l’economia sarda, favorendo lo sviluppo dell’agricoltura, dell’allevamento, dell’artigianato, dell’industria mineraria, dell’estrazione del sale e del commercio marittimo. Furono attivi il clero e gli ordini monastici: Benedettini, Vittorini di Marsiglia, Camaldolesi, Vallombrosani. Sorsero splendide chiese romaniche realizzate da maestranze toscane, lombarde e francesi (XI-XIII sec.). I rapporti dei giudicati con Pisa e Genova, inizialmente commerciali, divennero gradualmente di dipendenza, e le due repubbliche, forti delle posizioni acquisite e sfruttando i problemi di successione ed i contrasti tra gli stessi giudici, cominciarono a contendersi l’isola, ingaggiando sanguinose battaglie. Alla fine del XIII secolo, i pisani ormai spadroneggiavano, contrastati dall’ultimo giudicato rimasto indipendente, l’Arborea, dai liberi comuni e da alcune grandi famiglie liguri che difendevano i propri interessi. In questa situazione di instabilità, il papa Bonifacio VIII, in virtù della sovranità nominale sulla Sardegna, il 4 aprile del 1297, concedeva l’isola in feudo al sovrano aragonese Giacomo II. Ventisei anni dopo l’Infante Alfonso sbarcava nel Sulcis e iniziava la conquista. Civiltà Aragonese La conquista aragonese dell’isola, sostenuta da papa Bonifacio VIII (1297) e contrastata da Pisani, Genovesi e Arborensi, fu realizzata tra il 1323 ed il 1478, anno che coincise con la fine del marchesato d’Oristano, ultimo baluardo della resistenza del glorioso giudicato d’Arborea. Il Regnum Sardiniae( et Corsicae) fu diviso nei Capi di Cagliari e Gallura e di Logudoro e fu sottoposto ad un viceré che aveva sede a Cagliari. Il nuovo governo istituì il parlamento ed estese al territorio sardo il codice rurale della Carta de logu, con l’eccezione delle città “reali” cui vennero concessi particolari privilegi. La più importante di queste città fu Alghero, popolata da catalani, che costituì il caposaldo della dominazione aragonese nell’isola. L’età aragonese vide l’infeudamento delle campagne sarde ai baroni iberici e

Studi Angioy

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continua settima parte

TERRITORIO Giommaria Angioy: ” le rivendicazioni” I metodi usati a Sassari dai commissari viceregi non furono condivisi appieno dalle autorità di Cagliari, ed il vicerè, sentita la Delegazione Stamentaria, provvide ad inviare a Sassari, quindi al Capo di Sopra, in veste di Alternos, come dire con pieni poteri, il giudice della Reale Udienza Giovanni Maria Angioy. La carta viceregia del 3 febbraio 1796, tra l’altro disponeva di portarsi nella città di Sassari, ad oggetto di ristabilire la pace e la tranquillità non meno in quella città e Capo che in quello del Logudoro. Il 13 febbraio l’Angioy, festosamente acclamato sino alle porte della città, lasciava Cagliari dirigendosi alla volta di Sassari. Il primo incontro con gli amministratori del Capo di Sopra avvenne a Santulussurgiu, dove l’Alternos, contava numerosi amici, tra i quali i fratelli Obino. I contatti con le popolazioni ed i Consigli comunitativi furono caratterizzati dalla massima stima e fiducia; fu un autentico trionfo. Sullo spiazzo di Cadreas, al bivio di Bonorva, ricevette il saluto e l’omaggio delle autorità e delle popolazioni di Padria, Bosa, Mores, Torralba, Pozzomaggiore, Thiesi, Bonorva, Muros, Ploaghe, Florinas, che vollero incontrare l’Alternos prima che si addentrasse nel cuore del territorio, e lo scortarono sino a Sassari, tra l’entusiasmo schietto dei villici che incontrava lungo il viaggio. L’accoglienza trionfale tributata dalla città di Sassari magnificamente rappresentata nell’affresco realizzato dallo Sciuti nella sala del Consiglio provinciale. Nel suo primo rapporto inviato al vicerè Vivalda, l’Angioy esponeva che la situazione creatasi nei villaggi era grave e che gli sforzi reiterati per sedare i diffusi sommovimenti antifeudali scoppiati già nell’anno precedente erano seriamente ostacolati dalla caparbia intransigenza dei baroni. In realtà, Giovanni Maria Angioy, al di là degli sforzi che metteva in atto per mantenere l’ordine, attendeva da parte del sovrano qualche atto di buona volontà e di giustizia e male sopportava le ambiguità dentro le quali si ostinavano a permanere sia lo stesso sovrano che il vicerè, sordi ad ogni richiesta di abolizione del feudalesimo, nel timore che la fine del sistema feudale potesse segnare, come in Francia, la fine della istituzione monarchica. Di ben altro avviso, invece,sembrava essere l’Angioy, il quale sosteneva che proprio l’abolizione del feudalesimo avrebbe sicuramente rafforzato il prestigio del re e che tutto il Capo di Sopra desiderava ardentemente la giustizia ed esprimeva fedeltà al sovrano, obbedienza ai superiori ma anche la necessità della estirpazione degli abusi. I Patti di alleanza antifeudali,la presa di posizione dei vassalli contro gli esosi oneri feudali, le diffuse manifestazioni e ribellioni andavano via via intensificandosi ed assumendo una certa colorazione politica. L’Angioy era perfettamente consapevole che, per liberare la Sardegna dalle maglie del feudalesimo (tra l’altro questo era già parzialmente scomparso in Piemonte), occorreva forzare il potere monarchico sempre ostile e caparbiamente ostinato a non modificare, nonostante le istanze popolari, l’antiquato sistema istituzionale. L’atto che fece traboccare il vaso ed indurre l’Angioy a rompere gli indugi fu il pregone viceregio con il quale si intimava di far rispettare il disciplinare feudale, ricorrendo persino alla forza per costringere i vassalli a corrispondere i tributi. Fu sicuramente un atto provocatorio quello del viceré, il quale ben sapeva che l’Angioy avrebbe rifiutato di metterlo in esecuzione e, conseguentemente, avrebbe avuto la motivazione per esonerarlo dall’incarico. La fonte: Padria – Gurulis Vetus- Memorie di un paese antico di Totoi Mura ISTITUZIONI E SOCIETÀ TRA ‘700 E ‘800 La storia di Scano, come del resto quella di tutte le comunità rurali della Sardegna, sotto la dominazione aragonese-spagnola e poi sotto i Savoia, è caratterizzata dal regime feudale, che persistette per tutta l’età moderna e che fu abolito solo intorno alla metà dell’Ottocento. Come ricorda lo storico G.F. Fara, i sardi furono vexati a baronibus inexplebili siti,1 cioè oppressi dall’insaziabile avidità dei feudatari, che imponevano ai vassalli tributi di ogni genere ed amministravano la giustizia nei feudi solitamente in modo vessatorio e con ufficiali senza scrupoli. Addirittura gli stessi uffici di reggitori, maggiori, scrivani venivano appaltati e venduti al miglior offerente, che poi si rifaceva sugli abitanti dei villaggi. Se la storiografia sulla Sardegna tese a sottolineare nel corso dell’Ottocento la pesantezza della dominazione iberica nell’Isola e tale atteggiamento non è sostanzialmente mutato negli studi di questo secolo, occorre dire che anche con il passaggio ai piemontesi, dal 1720, la situazione economico-sociale continuò ad essere alquanto fragile, per vari motivi. Vi era, intanto, una scarsa conoscenza dell’Isola da parte dei Savoia, una loro insufficiente esperienza economico-amministrativa, la mancanza di una classe dirigente sarda preparata, una cultura prevalentemente teologico-giuridica, una modesta valorizzazione degli elementi locali ed un clero prevalentemente avverso ai nuovi dominatori. Abbiamo una notevole documentazione d’archivio dalla quale risulta che i rapporti tra i feudatari e le popolazioni sottoposte al regime feudale nel Montiferro furono spesso caratterizzati da forte conflittualità, soprattutto a causa della già citata pesantezza dei tributi e di ripetuti soprusi nell’amministrazione delle terre. In particolare la comunità di Scano, attraverso i suoi sindaci e i consigli comunitativi, espresse più volte e per un lungo periodo, tra Settecento ed Ottocento, vibrate proteste contro l’arroganza e le ingiustizie baronali e più in generale contro l’insopportabile pressione fiscale a danno delle popolazioni, il cui reddito spesso non superava i limiti della sopravvivenza, ma anzi ne restava ben al di sotto, con tassi di mortalità parti colarmente alti, soprattutto in anni di siccità e di conseguente carestia. Ai fini di una più chiara conoscenza delle condizioni generali di vita e della situazione politico-sociale di Scano nel secondo Settecento, è utile richiamare i dati contenuti in quel documento di grande interesse storico che è costituito dalla relazione della visita fatta nella primavera del 1770 dal Viceré Conte d’Hallot des Hayes. Essa risulta, come ben osservò lo storico F.Loddo-Canepa,2 “un’inchiesta in sostanza condotta su interrogatori rivolti alle autorità e agli abitanti dei paesi, che mira a raccogliere gruppi di dati sulle condizioni dell’isola nel momento della visita, secondo l’ordine prestabilito del questionario: elezione dei sindaci, amministrazione della giustizia, abusi, discolismo, fazioni locali, monti granatici, stato delle carceri, degli archivi, barracellato, comandamenti personali, allevamento degli spuri, quiete pubblica, brevi notizie sull’agricoltura e la pastorizia, sugli usurai, sui pesi e le misure”. Il testo della relazione riporta per Scano (chiamato Escano) quanto segue: “Sindaco Giovanni Maria Quessa. Censore Don Serafino Naitana. Che continuamente seguono vendette contro li Pietro Cadeddu Bella e Prete Giovanni Cadeddu Bella Fratelli, ambi persone di timorata coscienza, mentre fra otto giorni hanno a medesimi ucciso tre bovi con colpi di Pistola, ed anche presentemente con una Schioppetta gli hanno ferito altro Bue, dal che si rileva l’odio, che taluno ritiene contro li sudetti senza sapersi da chi si commettono tali eccessi. Rispetto all’amministrazione della Giustizia, sebbene non abbino lamenta contro il delegato di Giustizia oltre modo incaricato di tante occupazioni, si lagnano però dell’eccessiva esazione, che fa lo Scrivano3 particolarmente nelle Citazioni per comparire le partì in Cuglieri, dove fa la residenza il Delegato, poiché esigendosi due Reali 4 per ogni mandato, viene questo spedito, e moltiplicato per cadun soggetto da citarsi, e non ritrovandosi, si replica sino a quattro volte, e sempre si esige il dritto dei due Reali. Dichiarando ancora, che sendovi sempre stati tre scrivani, due in Cuglieri, ed uno in Escano, la residenza del quale sollevava alquanto quegli abitanti, mentre per ogni minuzia non erano costretti ad andare a Cuglieri al dì d’oggi si risente un gran pregiudizio, come sovra, dimandano provvidenza. Li pro Reggente ed Avv. Fiscal Regio avendo conosciuta la necessità dei tre Scrivani, hanno consultata l’ E. S. a fare provvedere li nominati Notaio Giovanni Battista Fara Pipia e Francesco Marras di patente interina5 di Scrivani di questo contato per supplire secondo il solito all’esigenza di quella Curia. Che li Seminati sono bene custoditi, senza esservi persona, che colla sua prepotenza ne li danneggi solamente si dimanda la confirmazione della proibizione di pascolare li Cavalli, e Bovi nei vacui6 delle bidazoni per evitare l’eccessivo danno, che negli anni precedenti si sentiva per simile abuso. Rispetto ai discoli solamente il Sindaco ha dato in nota li sotto descritti, che sono difamati per ladri ancora Antonio Maria Delogu Luog. Di Salto,7 Pastore del Prete Pietro Marras arrendatore,8 ed il Raimondo Deriu Barrancello. Giovanni Maria Deledda. Angelo Cureddu, servitore del Prete Giuseppe Cocco, Antonio Trogu, Pietro Pes, Raimondo Trogu condannato ad esiglio che non ha terminato. La Nomina del Sindaco si fa come nella Villa di Cuglieri.9 Non ha salario piucché l’esenzione di pagare nell’anni il R. Donativo.10 Li mandamenti domenicali si fanno mediante un Corriere, li Reali poi non sono così frequenti, ricadono però sempre nei Poveri per le pretese esenzioni, che si guardano ai principali, Notarj, alli Fratelli, Nipoti, Cognati, ed aderenti dei Preti, li quali altresì ricusano di concorrere nelle contribuzioni, e specialmente della Paglia, e donativo Reale, e siccome li medesimi preti vanno tutto giorno comprando possessioni, queste restano pure esenti del donativo in pregiudizio del pubblico, il quale risente anche pregiudizio dal non essersi fatto il riparto da molto tempo. Si è data provvidenza come in altri luoghi. Il Monte Granatico consiste in 93 Starelli, il fondo stabilito si è di 800 e si sono lavorati in quest’anno Starelli 25; non si hanno Territorj sufficienti e sono obbligati gl’individui ad affittarne.” Lo stesso Loddo Canepa riconosce, comunque, che l’indagine è limitata, non fornendo notizie su vari argomenti importanti sui quali si cercherà, da parte nostra, di far luce attraverso il materiale documentale che più avanti sarà riportato e commentato. Dalla relazione del Des Hayes appare una nota riguardante l’amministrazione della giustizia a Scano, che rappresenterà una costante nei decenni successivi, fino all’abolizione del feudalesimo, cioè le lamentele e i reclami della popolazione, attraverso i Sindaci e il Consiglio Comunitativo, contro le eccessive esazioni dei diritti, baronali e non. In merito all’elezione dei sindaci possiamo attingere direttamente a diversi atti d’archivio risalenti alla metà del Seicento. Il primo, in catalano, è del 9 novembre 1659, e ci dice che Pietro Giovanni Masala, Tommaso Demuru, Giuseppe Loque, Ambrogio Flore, Giovanni Pinna, Martine Atene, Pedru Manca, Quirigu Fiore, Balianu Manca, Donato de Senes, Francesco Sanna Trogu, Nicola de Serra, Baldassarre Trogu, Giovanni Sanna Trogu, Giovanni Battista Idily, Felice Trogu, Iacu Idily, Franceso Unale, Giuliano Cadeddu, Giovanni Maria de Serra, Giovanni Maria de Nurqui, Antioco Naitana e Bantine Tiana, tutti vassalli di Scano riuniti nella chiesa di S. Pietro con l’autorità, decreto e licenza di Agostino Demontis Commissario e Giudice ordinario del marchesato di Siete Fuentes per l’Ill.ma Signora Marchesa,11 in nome proprio e di tutti gli altri vassalli di Scano eleggono come sindaci e procuratori della comunità Giovanni Serra Cadony e Angelo Carta Pisquedda.12 In data 5 giugno 1662, invece, abbiamo un solo rappresentante: Giuseppe Urigu di Cuglieri, sindaco e procuratore di quella comunità dal marzo precedente, incarica Giovanni Pinna di Scanu, che è sindaco e procuratore di questa Villa, di comparire in sua vece e per conto della comunità cuglieritana a Sassari davanti all’autorità viceregia o ai suoi delegati per lamentarsi dei danni derivati dal capitano e dai soldati di campagna que sins al present no an pagat.13 Tre anni dopo, il 19 settembre 1665, gli scanesi Sebastiano Idili, Silvano Pinna, Matheu Sulas, Michelangelo Idili, Pietro Massidda, Pietro Piga Porcu, Giovanni Salvatore de Serra, Zaccaria Porcu, Baquis Manca, Baldassarre Trogu, Baquis Mozo, Giovanni Maria Ruyu, Leonardo Mastinu, Donato de Senes, Giovanni Maria Melis, Giovanni Maria Ladu, Giovanui Poddigue, Giovanni Maria Virde, Martine Carbone, Thomas de Pau e molti altri nati e residenti a Scano, convocati nella casa di Sebastiano Idili, majore14 della Villa in quell’anno, con autorità e decreto di Antioco Uda luogotenente del marchesato di Siete Fuentes de grat y espontanea voluntat nostra tant en nom propri con ancara en nom y per part dels demes vassalls natu rals y abitadors dela present vila representant la major y mes sana part de aquells y ab lo millor modo, via y manera que de dret podem y devem15 eleggono come sindaci e procuratori della comunità gli stessi già eletti nel 1659, cioè als honorables Angelo Carta Pisquedda e Giovanni Serra Cadone, assente il primo e presente e accettante il secondo, “ai quali doniamo e concediamo tanto in nome di noi altri prenominati costituenti, come in nome e per parte degli altri vassalli della presente villa assenti, potere generale perché per tutte le cause attive e passive, principali e appellatorie mosse o da muovere, civili e criminali che noi in nome proprio come della comunità intendiamo promuovere per qualsivoglia causa, aggravio, via o ragione e contro qualsivoglia persona, giudice temporale o spirituale…. ci rappresentino con pieni poteri in amplissima forma”. Presenti all’assemblea il Commissario Pietro Cadone, il Maggiore Giovanni Gavino Sanna; Notaio Gavino Angelo Oppo.16 Un terzo atto risale al 14 novembre 1670, quando i vassalli di Scano, riuniti a casa di Giovanni Gavino Sanna, Maggiore della Villa, con l’assistenza del Commissario e Giudice ordinario Pietro Cadone, eleggono come sindaci e procuratori della comunità Angelo Carta e Giuseppe Loque.17 Riprendendo il discorso sulla relazione della visita del Des Hayes, vediamo che dopo il sindaco viene citato il censore, un’istituzione risalente al 1624, che aveva il compito di promuovere l’agricoltura in collaborazione con una Giunta locale di cui era a capo e in collegamento con una Giunta diocesana di cui era membro. Era questa che nominava in ogni Villa il censore scegliendolo da una tema di persone fra le più in vista ed esperte di agricoltura elette dall’amministrazione locale. “La carica di censore – scrive Carlo Pillai – indicava senza ombra di dubbio in chi la ricopriva una posizione sociale rispettabile, un’esperienza e un insieme di cognizioni non indifferente in materia di agricoltura, nonchè la stima dei compaesani”.18 È una figura centrale nell’amministrazione locale dei monti granatici, che andò assumendo sempre maggior rilievo nella vita nelle comunità rurali. Doveva compilare un formulario con la quantità seminata e raccolta in grano, orzo, fave e altro, il numero dei lavoratori agricoli, l’estensione delle terre coltivabili ancora incolte e il numero dei buoi da lavoro. Lo stipendio equivaleva a quello del sindaco. Si doveva combattere l’usura praticata nei contratti dai creditori ai contadini. All’origine i monti granatici furono istituiti dal clero come opera assistenziale poi dal governo sabaudo. Fondamentale il pregone del Vicerè Des Hayes del 1767: imponeva una dote di base, il lavoro gratuito, a roadia, nei giorni festivi in terreni della comunità o presi in affitto, si formava la giunta locale, la giunta diocesana e la giunta generale a Cagliari, con pariteticità tra ecclesiastici e laici. A Scano il Monte Granatico era attivo già da trenta anni prima del regolamento sabaudo di ripristino di quell’istituzione, esattamente dal 1737, soprattutto per merito del vicario parrocchiale Antonio Giuseppe Trogu, che si adoperò per la sua fondazione contribuendo personalmente con una discreta quantità di grano, come ricorda il Lutzu,19 che aggiunge: “In poco tempo il Monte divenne dovizioso e potè soddisfare non solo ai bisogni degli agricoltori, prestando loro per il seminerio e delle somme per la coltivazione; ma potè anche sollevarli negli estremi bisogni, con la vendita del frumento, che vi restava in deposito, eseguito che fosse il riparto annuo. Dopo un secolo di vita, l’istituto contava 506 ettolitri di grano e 1052 lire sarde; somme rilevanti per quei tempi di povertà e di miseria”. Dai documenti d’archivio20 risulta che nell’agosto del 1737 il Trogu si rivolge al vicario generale della diocesi di Bosa allora sede vacante (il breve periodo tra Mons. Cani e Mons. Sanna) chiedendo il permesso di istituire a Scano un Monte di Pietà frumentario “per soccorrere le necessità dei poveri” e l’approvazione delle relative norme di gestione. La richiesta del sacerdote viene accolta dalle autorità superiori. In seguito a ciò il 31 agosto 1737 si riuniscono a casa del vicario sacerdoti Francesco Maria Sanna, Giovanni Leonardo Porcu Martis, Giuseppe Ardu, Giovanni Leonardo Porcu Pala, Giovanni Andrea Sanna, Giovanni Francesco Sanna, Antonio Carta e altri sacerdoti, il maggiore di giustizia Felice Trogu, il vicemaggiore Giovanni Piras, i sindaci Giovanni Maria Vidily Arca e Antonio de Pau, il notaio Giovanni Paolo Loque che compila l’atto e altri principales, tutti di Scano, per nominare il responsabile del Monte di Pietà, che all’unanimità indicano nella persona del rev. Trogu vicario, promotore dell’iniziativa, che essendo presente accetta l’incarico, per cui subito gli si consegna la partita di tredici starelli di grano, cioè sette starelli offerti da lui stesso “per dare inizio al Monte” e sei starelli raccolti da tutta la Villa. Il vicario si impegna a custodire la merce per distribuirla a suo tempo prestando il grano a quanti ne avessero bisogno, non a forestieri, e reintegrandolo nel mese di agosto successivo, presentando i debiti conti e consegnando tutto al nuovo Montista che sarà nominato in quel mese. Giura di osservare quanto dispsto negli statuti del Monte e firma di proprio pugno. Testimoni Francesco Mozo e Fabiano de Muru. Il 5 settembre dell’anno successivo lo stesso vicario Trogu scrive al vicario capitolare, richiamando l’istituzione del Monte di Pietà frumentario a Scano ed in particolare la norma che prescriveva che il grano fosse prestato senza interesse alcuno e fosse restituito grano por grano e aggiungendo che si è pensato originariamente ad una crescita dello stesso Monte con le offerte annuali, “ma l’esperienza insegna – scrive il vicario – che sono pochi coloro che danno offerte buone”. Quindi chiede che venga modificato tale articolo disponendo che il grano si presti a raso e si restituisca a colmo, così che il Monte stia in buone condizioni. La richiesta viene accolta immediatamente.21 Trent’anni dopo, nel 1767, come si ricordava, viene emanato il regolamento sabaudo teso a stimolare la ricostituzione dei monti granatici. Tra l’altro si decretava che ad ogni monte si assegnasse un terreno con l’esenzione dei diritti feudali e delle roadie prima citate, perché il grano così ricavato costituisse la riserva iniziale da incrementare. In quell’anno si riuniscono in data 22 novembre a Scano il rev. Vicario Salvatore Panzaly, il curato piò anziano don Giuseppe Martis, il Censore Salvatore Angelo Onnis e, in assenza del Delegato Dr. Giovanni Agostino Carquero, il Maggiore Demetrio Simula, che, avendo mastro Giovanni Maria Chessa completato i tre anni di depositario del Monte Granatico, deliberano di nominare un altro nella persona di mastro Antonio Giuseppe Vidily carpentiere, poichè alla Giunta locale sembra persona capace per tale incarico. Esaminati i conti che presenta il Chessa, notano che mancano sei rasieri alla quantità originaria di sedici rasieri, ma sanno che il depositario ha provveduto in tutti i modi ad avvisare i debitori ed essendo l’annata tanto terribile, ritengono di dover offrire una dilazione fino al prossimo raccolto, non essendoci altro rimedio.22 In effetti, si erano registrati già nel biennio 1764-65 due gravi carestie. Per quanto concerne il servizio dei barracelli, istituito nella prima metà del Seicento e sicuramente presente a Scano a metà di quel secolo (come risulta dal libro di amministrazione della chiesa di S. Pietro),23 al di là della cattiva fama di qualcuno di loro, che avrebbe confermato in pieno Ottocento l’Angius nella sua indagine sui Comuni sardi,24 proprio nello stesso anno della visita viceregia a Scano si provvedeva a rafforzarlo, anche giuridicamente, con un capitolato abbastanza ampio e preciso, nonché rigoroso, che si riporta in antologia con le relative note. Pesante appare, poi, ma non solo a Scano, il fenomeno dell’accaparramento di terreni da parte dei preti: tale fatto è confermato dal gran numero di atti notarili relativi all’oggetto, qui come in gran parte dei Comuni dell’Isola, frutto di due elementi concomitanti, quali la discreta liquidità di denaro in mano agli ecclesiastici (basterebbe pensare ai numerosissimi legati per messe di suffragio) e l’insolvenza dei censi, cioé dei prestiti, contratti proprio con gli stessi preti da persone economicamente prive di sufficienti risorse finanziarie. Nonostante la stessa chiesa vietasse la pratica di interessi troppo alti sui prestiti (già da tempo, però, il tasso era all’8%), la piaga dell’usura continuava a persistere un po’ dovunque, con conseguenze nefaste soprattutto per la povera gente. Nel 1771, con editto del 24 settembre del re Carlo Emanuele III, furono istituiti i Consigli Comunitativi, composti da 7 membri nelle Ville con oltre 200 fuochi, come a Scano (che contava circa 1000 abitanti), rappresentanti le tre classi dei principales, dei contadini e pastori e dei poveri, con il fine precipuo di ridurre lo strapotere dei feudatari sulle comunità sarde e di avere, nel contempo, un organismo obbediente alle decisioni del governo centrale. L’istituzione servì sicuramente per la crescita nelle comunità di una coscienza dei propri diritti, che si espresse, tra l’altro, con un notevole aumento delle liti proposte dai villaggi davanti alla Reale Udienza. E così accadeva che negli ultimi anni del secolo, mentre il poeta cantava “Procurade ‘e moderare, barones, sa tirannia”,25 il conte di Sindia, Don Antonio Ignazio Paliaccio, rimpiangesse la condizione precedente dei feudatari.26 La documentazione ritrovata e consultata per il presente lavoro ci riporta agli ultimi venti anni del secolo XVIII. Una protesta del sindaco Giuseppe Ledda e del Consiglio Comunitativo è rivolta nel 1777 al Vicerè perché a Scano c’era allora un distaccamento di soldati, ma la comunità non poteva con i suoi soli mezzi provvedere al loro mantenimento e chiedeva che anche Cuglieri contribuisse alle spese. La richiesta parve legittima e fu accolta.27 Nel luglio del 1784 il Consiglio Comunitativo, con a capo il Sindaco, il notaio e pittore Priamo Giuseppe Muxiri, reclama presso il Reggitore contro i proprietari di cavalle da trebbiatura, perchè vogliono che quelle siano pagate à su genio (a loro arbitrio) e non secondo la consuetudine, per cui minacciano di portare le cavalle in altre località o di rifiutarsi di fornirle, anche mancando di parola a quelli con cui si erano impegnati per la settimana successiva. Non sembra ragionevole – si dice – che detti signori agiscano così arbitrariamente, considerato anche il fatto che per tutto l’anno sconvolgono il prato e la vidazzoni, con grande danno della comunità e senza alcun profitto del Duca. Anche questa protesta trova ascolto presso le autorità superiori, con evidente soddisfazione dei consiglieri scanesi. Si richiamava, infatti, un’ordinanza in base alla quale non si potevano trasferire le cavalle a trebbiare in altri paesi prima di aver esaudito le richieste dei contadini di Scano.28 Ancora in difesa degli interessi della comunità scanese si muove nel 1791 il Sindaco Giovanni Battista Mura contro il fattore baronale, il notaio Francesco Marras, perché questi affittava terreni per il pascolo di alcune mandrie di vacche forestiere, del Marghine, mentre i pastori scanesi erano gravemente preoccupati per il prolungarsi della siccità e richiedevano per primi il godimento dei pascoli. Oltretutto quel bestiame aveva sconfinato dalla località di Murtilo nella vidazzoni, cioè nel territorio adibito quell’anno a semina, arrecando ulteriori gravi danni e suscitando un più forte malcontento degli scanesi. Da Cagliari, dando ragione alle lamentele degli amministratori di Scano, si ordina al fattore di non svolgere più le funzioni di segretario comunale, perché si era dimostrato troppo parziale nella difesa dei suoi interessi.29 Quando per difficoltà diverse, compresi i quotidiani impegni di lavoro, gli amministratori non possono presentarsi personalmente presso le autorità superiori, si ricorre a personalità che possano anch’esse sentirsi pienamente coinvolte nella difesa degli interessi comunitari, come avviene nel 1795, quando viene nominato come procuratore del Consiglio il vicario Francesco Luigi Panzali, scanese di nascita, sicuro conoscitore della realtà della Villa, compresa quella economica, e dotato di solida cultura giuridica, perché laureato sia in diritto canonico sia in diritto civile. E così, quando il Vicerè ordina ai sindaci, su istanza dei feudatari, di presentarsi a Cagliari per pariare di rendite baronali gravanti sulle comunità sarde, il Consiglio di Scano si riuni sce a casa del Sindaco Antonio Loche e sceglie come proprio procuratore in quell’importante missione il parroco Panzali “per esporre il giogo che questa comunità di Scano da tanti anni sta sopportando per alcune inposizioni feudali ed altri tributi eccessivi che si pagano al barone”.30 Un’altra volta, invece, esattamente nel febbraio del 1806, sarà il notaio e artista Priamo Muxiri ad essere delegato dal Consiglio a rappresentare presso il feudatario, il duca di S. Pietro, le ragioni dei pastori scanesi che protestano per il divieto di fare le cuilargias nei terreni liberi della vidazzoni, cioè di bruciare le stoppie e far pascolare le pecore o le capre ingrassando il terreno con il concime delle bestie.31 Occorre ricordare che il malessere non concerne esclusivamente i conflitti con lo strapotere feudale, che pure sono quelli di gran lunga più frequenti, ma anche dissidi interni alla stessa comunità. È il caso, per esempio, del capitano dei barracelli Giuseppe Panzali Sanna che nel 1796 ricorre presso il Sindaco e i consiglieri perché sia nella vidazzoni sia nel prato comunale pascolano quotidianamente i maiali di tre o quattro pastori scanesi causando troppi danni, mentre il bestiame domito è costretto a sconfinare nelle montagne diventando oggetto di furti, per i quali è lui che deve pagare per la carica che, appunto, ricopre. Il Sindaco Vincenzo Sequi risponde richiamando una norma che concedeva ai barracelli il potere di arrestare i pastori che atropellan la vidassoni y el prado, ma evidentemente i problemi non potevano essere risolti con il solo ricorso alla forza.32 Un secondo esempio di conflitto interno riguarda, l’anno successivo, la protesta del Consiglio Comunitativo presso il Vicerè contro il censore locale Giovanni Efisio Loque che estorceva ai debitori del Monte Granatico un interesse in cereali notevolmente superiore a quello prima stabilito, come aveva fatto prima di lui il padre, il notaio Antonio Vincenzo. Il sindaco Angelo Piras Sanna e i consiglieri chiedono che i due censori, padre e figlio, restituiscano quanto illegalmente avevano estorto ai contadini, onde evitare più gravi conseguenze nei rapporti con la popolazione. Da Cagliari si ordina alla Giunta diocesana preposta al controllo dei Monti Granatici di provvedere immediatamente in merito.33 Una situazione in parte analoga si verificherà qualche anno più tardi, quando la giunta comunitativa di Scano denuncerà presso il feudatario le parzialità usate nella distribuzione ai contadini del grano da seminare, in un periodo, tra l’altro, segnato dall’ennesima carestia (anni 1811-12), quando era poco anche il pane per sopravvivere. Ed ancora una volta la voce degli amministatori pubblici prevarrà, poiché al fattore baronale viene intimato di provvedere “senza ritardo alcuno” perché il grano conservato presso il maggiore di giustizia sia venduto ad un prezzo equo.34 Gli ultimi dieci anni del XVIII secolo furono quelli in cui più forte si fece sentire il malcontento dei sardi non solo nei riguardi del regime feudale ancora imperante, che teneva l’isola troppo lontana dal grande moto riformatore che aveva investito una gran parte dell’Europa occidentale del secondo Settecento, ma anche verso il governo sabaudo sostanzialmente incapace di cogliere il complesso delle istanze che provenivano dalla società sarda. Non erano state sufficienti le riforme boginiane cui si è accennato per placare gli animi che anzi, tra gli intellettuali più sensibili alle sorti dell’isola, concepivano speranze di riscatto anche con la rivolta armata contro i dominatori. La storiografia su quel convulso periodo di lotte che chiudeva il secolo è abbastanza ampia e si sta continuamente arricchendo di nuovi studi. Ricordiamo qui che proprio le montagne di Scano videro il crollo del sogno rivoluzionario del più illustre protagonista dei moti antifeudali, Giovanni Maria Angioy. Egli infatti, tra il 13 e il 14 giugno 1796, da Santulussurgiu, dove si era spostato abbandonando Oristano e sperando di avere l’appoggio di vecchi amici del Marghine e del Montiferru, vistosi tradito è costretto ad attraversare la montagna in direzione della Planargia, attaccato a sinistra dalla cavalleria del cav. Marcello da Cuglieri e a destra da 500 uomini di Don Giuseppe Passino da Macomer mentre un altro corpo di cavalleria muoveva da Padria. Angioy riuscì ad evitare le insidie travestito da contadino e protetto dagli scanesi, mentre molti disertavano. Riuscì ad arrivare a Thiesi con appena una cinquantina di uomini. Due giorni dopo, lasciata anche Sassari, partirà per sempre dalla Sardegna per finire in esilio in Francia, dove morirà nel 1808. Possiamo, comunque, affermare che il fallimento dei moti angioiani non eliminò la volontà di protesta già manifestata nel passato contro i soprusi e le vessazioni e questo appare quasi come una costante negli atteggiamenti assunti dagli organi rappresentativi della comunità di Scano, talvolta in termini puntigliosi anche sotto il profilo giuridico, pur di non apparire succubi o comunque remissivi nei confronti di una politica e di una pratica di governo non certo favorevole alle ragioni dei villaggi sardi. Accade, allora, che il sindaco mastro Giuseppe Scarella contesti, nell’estate del 1801, l’ordine di arrestare e consegnare nelle mani della giustizia entro il termine perentorio di 30 giorni il delinquente o delinquenti che avevano sparato e ucciso il pastore macomerese Salvatore Dore noto Sulavogu, trovato morto nella mon tagna di Scano in località Sos cantaros de s’arca, in quanto ciò non era compito nè del Sindaco nè dei consiglieri comunali. Tale obbligo doveva essere, se mai, imposto ai pastori degli ovili più vicini, secondo le norme della cosiddetta incarica, e più esattamente ai vaccari di Borore che pascolavano nei terreni in affitto di<I< Murtilo< i>.35 Ancora alcuni decenni dopo, a riprova dell’ostinata contestazione di molte imposizioni fiscali, vediamo il Sindaco di Scano ricorrere per due imposte che definisce “di nessuna utilità”, cioè le cosiddette casuali e quella della condotta medica. La prima era iscritta annualmente a carico di tutti i Comuni per spese eventuali ed impreviste come la riparazione di una fonte, il passaggio di truppe, la costruzione di piccoli ponti di legno, su cui evidentemente l’amministrazione comunale intendeva agire autonomamente secondo i reali bisogni, mentre la seconda imposta era a favore del medico distrettuale che, però, nonostante le ripetute sollecitazioni, dopo un anno d’impiego, nel 1829, non aveva ancora eseguito nemmeno per una volta il giro periodico quadrimestrale nè aveva eseguito le vaccinazioni.36 Particolarmente giustificata appariva, a tale proposito, la protesta del Sindaco, considerato che tra il settembre ed il novembre di quello stesso anno morirono a Scano per un’epidemia di vaiolo (de pigota) ben novanta bambini.37 Nell’opera di difesa degli interessi della comunità di Scano da parte del suo Consiglio Comunitativo non poteva mancare certamente quella dell’imponente patrimonio costituito dalla montagna, non solo per i ricchi pascoli che essa offriva, soprattutto nei ghiandiferi, ma anche per il legname che se ne traeva, sia per la costruzione di bastimenti, per cui era apprezzato particolarmente in tutta l’Europa, sia per l’utilizzo che ne potevano fare gli stessi scanesi. In tal senso ci si opponeva ai tagli operati abusivamente da forestieri, come gli abitanti della Villa confinante di Santulussurgìu, che nel solo anno 1814 abbatterono circa tremila piante, per cui fu chiesto l’intervento del governo, mentre alcuni anni dopo, nel 1823, esattamente dopo un terribile incendio che distrusse buona parte della foresta, si registrò un contenzioso con l’impresario genovese Luigi Chiappe, i cui buoi addetti al trasporto del legname causavano danni nei seminati, provocando le reazioni degli scanesi, che tra l’altro difendevano le cosiddette orgialine, cioè dei terreni che i pastori recintavano, costruendovi la capanna e seminando. E la montagna era oggetto di contese con i lussurgesi anche per i pascoli, in aree di confine sulle quali i pastori dei due paesi rivendicavano i propri diritti, non di rado con scontri sanguinosi. http://web.tiscali.it/scanomontiferro/iscanu/capIV.html 1) G.F.Fara, De rebus Sardois. op.cit. 2) F.Loddo Canepa, Relazione della visita generale del Regno di Sardegna fatta da S.Ecc.Il Sig. Conte d’Hallot des Hayes e di Dorzano Vice Re Luogotenente e Capitano Generale di detto Regno – Anno 1770, in “Archivio Storico Sardo”, vol. XXV, fasc. 3-4. Padova. CEDAM, 1958. 3) Lo scrivano svolgeva funzioni di segretario e di notaio all’interno delle singole Ville. 4) Due reali corrispondevano a 10 soldi. cioè mezza lira sarda. 5) Patente viceregia, come si diceva, per incommenda. 6) I vacui erano tratti non coltivati della vidazzoni,dove potevano essere introdotti al pascolo i buoi da lavoro. 7) Il luogotenente di salto aveva il compito di controllare le campagne. 8) Arrendatore significa appaltatore (per es. della raccolta delle decime o del deghino). 9) Si legge per Cuglieri che”alla nomina del Sindaco si precede la Giunta di Comunità, dopo di averne ottenuto il permesso del Vice Re, e si propongono due sogetti per sindaci, li quali vengono approvati da S.E.; e loro si conferisce la procura, per la quale si paga al notaro due scuti di dritto”. Si deve ricordare che in quel periodo il feudo era regio, essendo stato confiscato nel 1768 a Don Alberto Genovese. 10) Il donativo regio era una forte somma di denaro che, generalmente con cadenza decennale, dal 1481 alla fine del ‘700. fu imposta ai sudditi del regno per soddisfare esigenze diverse, civili e militari. 12) Si tratta di Donna Francesca zatrillas. 12) ASNU, Atti Notarili, Tappa di Cuglieri, Carte sciolte. 13) ibidem. 14) Il maiore della villa è da intendere come responsabile amministrativo nell’interesse della comunità, carica risalente al periodo giudicale. mentre più avanti è citato il Maggiore, cioè il responsabile della giustizia. 15) “spontaneamente in nome proprio e degli altri vassalli nati e abitanti a Scano, in rappresentanza della maggiore e migliore parte di quelli e nel miglior modo, via e maniera in cui secondo diritto possiamo e dobbiamo”. 16) ASNU ibidem. 17) ibidem 18) C. Pillai, Accumulazione fondiaria e strategie familiari, in “Archivio Sardo del Movimento operaio, contadino e autonomistico”, nn. 35/37, 1991. 19) P. Lutzu, op, cit. 20) Archivio Parrocchiale di Scano. 21) ibidem. 22) ibidem. 23) ibidem. 24) V. Angius,i> op. cit. 25) E’ l’inizio della celebre canzone politica di Francesco Ignazio Mannu, pubblicata in corsica nel 1794 e diffusasi ben presto in tutta la Sardegna 26) Cfr. F. Loddo Canepa, Una relazione del Conte di Sindia sullo stato attuale e sui miglioramenti da apportare alla Sardegna (1794>, in “Studi Sardi”, XII-XIII (1952-53). 27) Fondo P. Lutzu.

Studi Angioy

continua sesta parte

sbarra-laterale-ufficio-studi-g_m_-Angioy1.gifconcludere con le valutazioni degli storici, di particolarissimo interesse, pur curvata sul crinale faziosamente conservatore e reazionario, ovvero filofeudale e filobaronale, è la più antica ricostruzione storica del triennio rivoluzionario sardo (1793-1796) e dunque della figura di Giovanni Maria Angioy: “Storia de’ torbidi occorsi nel regno di Sardegna dall’anno 1792 in poi”. Si tratta di un’opera anonima e fa parte della ricchissima raccolta di manoscritti della sezione di storia patria della Biblioteca reale di Torino. L’opera è stata pubblicata nel 1994 a cura dello storico sardo Luciano Carta con presentazione di Girolamo Sotgiu per la Editrice Sardegna (27).”L’analisi sistematica della -scrive il curatore Luciano Carta- rivelava inoltre singolari affinità con la Storia moderna di Giuseppe Manno….e faceva nascere il sospetto che quest’ultima poggiasse sulla prima come su un’intelaiatura… alla sostanziale identità di struttura si aggiungeva un altro fondamentale elemento di somiglianza, la singolare corrispondenza della tesi centrale delle due opere, che spingeva a supporre una sorta di dipendenza della Storia Moderna dalla Storia dei Torbidi. Entrambi gli autori infatti ascrivono il motivo di fondo dei moti del 1793-1796 ad una “congiura” ordita dal partito filo-giacobino, tendente a sovvertire l’assetto politico istituzionale della Sardegna, che poggiava sulla monarchia assoluta e sul sistema feudale, per trasformarlo in una repubblica democratica di stampo francese che avrebbe dovuto avere come presupposto necessario l’abolizione del feudalesimo” (28). Capo del partito giacobino e protagonista della congiura sarebbe stato per l’anonimo estensore della “Storia dei Torbidi”- insieme ad altri- Giovanni Maria Angioy, cui si attribuisce addirittura la responsabilità di essere il “mandante” degli omicidi del Pitzolo –per mano di Ignazio Busa e Andrei de Lorenzo- e del Planargia. Oltre che, naturalmente di essere contro la feudalità e di volere un governo giacobino. Che per l’estensore della “Storia”, sostenitore delle magnifiche e progressive sorti della Monarchia sabauda e baronale, evidentemente era oltre che sovversivo un reato atroce e orrendo. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI (1) AZUNI DOMENICO ALBERTO, Histoire géographique politique et naturelle de la Sardaigne, vol. II. Paris 1802. (2) PIETRO SISTERNES, Umilissima, confidenziale rassegnata dall’infrascritto alla Real Maestà di Maria Teresa d’Austria d’Este Regina di Sardegna in Archivio Storico Sardo, vol. XXI, pg. 92 e segg. (3) MiMAUT J.FRANCOIS, Histoìre de la Sardaigne ou la Sardaigne ancienne et moderne considerée dans ses lois, sa topographie, ses productions et ses 7noeurs, voi. 11. Paris 1825. (4)-STANISLAO CABONI, Ritratti poetico-storici d’illustri sardi del sec. XVIII e XIX, editi da Antonio Scano. Cagliari 1937. (5) BOTTA CARLO, Storia d’Italia dal 1789 in oppresso. Libri V e VII. (6)VALERY ANT. CLAUDE PASQUIN, Voyage en Corte, à Cile d’Elbe et en Sardaigne. Paris 1825. (7) SPANO Giovanni, Rivoluzione di Borio nel 1796 e spedizione militare in Rivista Sarda, voi. I. Cagliari 1875 pag. 186-204. (8) ANGius Vittorio, Logudoro in Dizionario geografico-storico•statistico degli Stati di S. M. ‘L Re di Sardegna. Torino 1833-56,, voi. IX. (9) MANNO, Storia moderna della Sardegna. Torino 1842, vol. I, pag. 136. (10) TOLA PASQUALE, Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna. Torino 1837-38, vol. I; pag. 77 e seg. (11) SuLis FRANCESCO, Dei moti liberali dell’isola di Sardegna dal 1793 al 1825, vol. I. Torino 1857. (12) ESPERSON IcAZio, Note e giudizi sull’ultimo periodo storico della Sardegna. Milano 1878. (13) COSTA Exaico. Sassari, vol. L Sassari 1885. (14}) GARZIA RAFFA, Canto di una rivoluzione. Cagliari 1899 (15′) POLA SEBASTIANO, I moti delle campagne di Sardegna dal 1793 al 1802. Sassari 1925. (16) Boi ANTONIO, Giommaria Angioy alla luce dti nuovi documenti. Sassari 1925. (17) Bartolucci LORENZO, Memorie di Francesco Sulis. Cagliari 1904. (18) SEGRE ANTONIO, Vittorio Emanuele I. Torino 1928. (19) MARTINI PIETRO, Storia della Sardegna. Cagliari 1852. (20) Agostini A., Il canto di una rivoluzione in Piccola Rivista. An. 1900, n. 6. (21)BIANCHI NICOMEDE, Storia della monarchia piemontese dal 1773 al 1861. Torino 1877-1885. (22-) DELEDDA SALVATORE, Moti antifrartcesi in Sardegna in Rivista d’Italia. vol.III, fase. 9, anno 1925. (23) LA VACCARA Luici, Origine dell’inimicizia fra CAngioy e il Pitzolo in Unione Sarda del 3 aprile 1929. (24 MOSSA ANTONIO, Centenario dell’ingresso di Angioy in Sassari. Sassari 1896. (25)PITTALIS SALVATORE, Documento inedito su Angioy in Arch. St. Sardo. vol. XI, pag. 174. (26) Loddo CANEPA, La Sardegna dal ’48 ad oggi in Rivista Il Nuraghe, n. 63.64; 65, con concetti antitetici a quelli del Pola. ( 27) a cura di Luciano Carta, Storia de’ Torbidi, Editrice Sardegna, Cagliari 1994. (28) Cfr. G. Manno, Storia moderna della Sardegna dall’anno 1773 al 1799, Tipografia Fratelli favale, Torino 1842, vol.I Angioy nell’immaginario collettivo, nella memoria e nella cultura popolare sarda. A tal fine e a mo’ di conclusione riporto una poesia in limba, inedita, recapitatami da un’anziano signore macomerese, PEDRU MURZA, di cui io ho rivisto e corretto solo la grafia. A ANGIOY Su milli settighentoschimbantunu est naschidu a Bono in Sardigna da una mama ‘ona. illustre e digna, E lul batizant in cussu Comunu. A nomene l’ant postu Zomaria, pizinnu sanu e bellu che fiore coronadu lis benit s’amore prenande sa domo de allegria. Cando mannitu, ti mando a iscola amanu aganzada ti che leo finzas a che finire s’ateneo mama non ti lassat a sa sola. Inie s’andat dae gradu in gradu C’agatas sos dottos de iscenzia Impreada sa tua inteligenzia Mama ti cheret avocadu Avocadu de fama e onores, de onestade e de baleintia po che ‘ogare custa tirannia de Ladros e crudeles oppressores. Cuntenta beneitu l’at sa mama c’a domo est torradu. magistradu e Gìuighe onestu e onoradu, in coro l’est azesa sa fiamma. 1 Iscriet líteras e quadernos Ca sempre bada ite imparare In su mentres s’est bidu nominare rapresentante sardu Alterno. Dubiosu Angioy at azetadu Issu l’aiat bene cumpresu Ca cosa b’aiat in mesu Chi Arborea l’aiat preparadu Su vicerè ischit de sa circolare E faghet ‘ettare sos pregones Chi non tocherant contes e barones Ca issos solu depent comandare Sa die ‘e Sant’Andria vintitres A sos contes non piaghet sa tesi Si ‘ortat Bessude, Cheremule e Thiesi de non pagare tassas a viceres Angioy da-e Caralis est partidu Su treighi de frearzu s’aviat Sa zente in caminu creschiat E finas a Tatari l’ant sighidu Sos prodes de totu sa costera E sos Bonesos suos paesanos Cun furchiddas e cavanas in manos Pro c’’ogare sa zente forestera Istamentas e viceres a foras Totu traitores e tirannos Isfrutadores da-e medas annos Cussa zente mala e traitora Da-e Bonorva caminant cun lestresa Attraessende in su Logudoro Pro giompere a sa ‘idda tataresa Armados de coraggiu ant su coro Su vintichimbe de su mese ‘e Nadale In Tatari leadu n’ant sentore Tuccat a boghes su banditore Tancant Gianna barcone e portale In su casteddu ant sos cannones Chi ant cuminzadu a isparare Ma su populu sighit a aboghinare A foras contes marcheses e barones ! Creiant chi l’aiant fatta franca Poi chi at passadu tantas oras Aperint sas giannas e nd’essit foras Arzende in manos bandela bianca A Angioy l’an resu sos onores, totu sa idda l’at acclamadu ca su populu at liberadu: tribagliantes, massagios e pastores De lampadas su duos de su mese Cheret faghere a Karalis tucada Ma ainie non faghet arrivada In Aristanis firmadu at sos pees. Prima de arrivare a Campidanu In Macumere est devidu passare, però inie, invece de1′ azuare, l’ant gherrada a manu a manu. E bat bistadu mortos e feridos E parizos sunt ruttos in terra, ma luego ant finidu sa gherra e adaboi sin-de sunt pentidos. Passados sunt in Settefuentes Attraessende montes, baddes e serra. Arrivados che sunt a Munterra Sighinde su caminu e sos molentes. (1) In tottue serradu l’ant sa gianna In Casale abertu l’ant su portone Pero pro che lu ponnere in presone, e a morte est bistada sa cundanna. Su die vintiduos de Nadale Lu liberat Felice Rubatta, a che lu ‘ogare fora bi l’ha fatta bestidu de franzesu uffiziale. Zomaria in Franza ch’ est andadu Esule inie ch’est abbarradu. (1) Mulattiera che va verso l’oristanese . Giovanni Maria Angioy 1751-1808 Figura tra le massime della storia sarda. Docente universitario, giudice della Reale Udienza, imprenditore, banchiere di orientamento giacobino-progressista, l’Angioy è divenuto per i Sardi un simbolo di riscatto e di indipendenza: per essersi posto a capo di un vigoroso movimento insurrezionale contro i privilegi feudali, ancora vivi e operanti nella Sardegna del XVIII secolo, e per essersi battuto per il rinnovamento sociale dell’isola durante il duro dominio piemontese; diversamente, gli ambienti reazionari (vi spicca lo storico algherese Giuseppe Manno, che ne decretò una sorta di damnatio memoriae) dipinsero l’Angioy come un torbido burattinaio intento a tramare nell’ombra, ispiratore di spietati sicari ed efferati accoltellamenti. Nacque a Bono nel 1751 dai nobili e ricchi possidenti Pier Francesco Angioy e Margherita Arras. Rimasto orfano in tenera età, gli zii materni si occuparono della sua educazione; la prima tappa fu il collegio Canopoleno di Sassari, nel quale il giovane si dedicò con profitto allo studio della filosofia e del diritto. Nel 1771, conseguita la laurea in leggi presso la regia università di Sassari, Giovanni Maria espresse il desiderio di entrare nella Compagnia di Gesù, contro la volontà degli zii materni i quali, invece, nel 1773, lo mandarono a Cagliari per farvi pratica forense. Nel capoluogo sardo l’Angioy ebbe modo di rivelare l’altezza del suo ingegno. Prima direttore di un collegio cittadino, poi docente di diritto presso la Regia Università di Cagliari, divenne infine giudice della Reale Udienza, cosa che gli fruttò la fama di dotto e integerrimo magistrato. Il coraggioso temperamento e l’amore che l’Angioy nutriva per la terra natale si manifestarono con forza nel 1793, durante le operazioni che portarono alla cacciata dall’isola delle squadre navali della Francia rivoluzionaria; ma ancora più emersero nel 1794, durante la rivolta del 28 Aprile, organizzata dal popolo cagliaritano contro i piemontesi. In tale occasione l’Angioy, giudice della Reale Udienza, divenne il capo di un comitato permanente che aveva il compito di esautorare il viceré e di potenziare gli stamenti. Quando, tra il 1795 e il 1796, la situazione politica fu ulteriormente complicata dal tentativo della nobiltà conservatrice sassarese e dei feudatari logudoresi di rendersi autonomi da Cagliari per dipendere direttamente da Torino, il viceré Vivalda inviò a Sassari l’Angioy con poteri di alternos (gli stessi poteri viceregi), per sedare gli insorti. L’Angioy fu accolto ovunque come un liberatore dalle popolazioni assoggettate, che ne apprezzavano i palesi orientamenti antifeudali, e si trovò presto in contrasto con gli stessi organi che lo avevano nominato alternos. Avuto sentore di essere caduto in disgrazia presso il viceré e la fazione cagliaritana, mosse contro Cagliari. La marcia, che inizialmente prometteva di concludersi vittoriosamente con l’abolizione dell’odioso giogo feudale, fu fermata nel giugno del 1796 ad Oristano, dove l’Angioy e la schiera dei suoi rivoltosi furono duramente sconfitti. Soffocato ovunque dai piemontesi ogni rigurgito di rivolta, l’Angioy, dopo aver inutilmente cercato di trattare col viceré, abbandonato da tutti, fu costretto a lasciare l’isola. Si rifugiò in Piemonte e poi a Parigi, dove morì nel 1808. http://www.sitos.regione.sardegna.it/nur_on_line/personaggi/biografie/giovanni_maria_angioy.htm LA STORIA DELLA SARDEGNA LA SARDEGNA SABAUDA La Guerra di Successione spagnola Nel 1700, Carlo II di Spagna morì senza lasciare eredi e gli successe Filippo d’Angiò, nipote del re di Francia Luigi XIV. Si oppose l’imperatore d’Austria che avanzò la candidatura al trono di Spagna di Carlo d’Asburgo: così nel 1708 un contingente militare inglese agli ordini degli Asburgo occupò Cagliari e l’imperatore insediò un suo viceré. Nel 1717 il cardinale Alberoni, ministro di Spagna, riconquistò momentaneamente la Sardegna. La Sardegna ai Savoia Nel 1720, con il trattato di Londra, l’isola passò ai Savoia e Vittorio Amedeo II divenne re di Sardegna. 1700-1720: lo stato dell’isola In quel periodo d’incertezza politica, il territorio dell’isola rimase senza controllo: questo stato di cose diede così il via libera al banditismo e alla criminalità rurale. Il disordine e l’insicurezza nelle campagne, già notevoli nei secoli precedenti, divennero sempre più gravi. La popolazione della Sardegna versava in uno stato di miseria diffusa e i problemi erano tali e tanti che il governo sabaudo sperò per un po’ di tempo di cedere l’isola in cambio di qualche altro possedimento. Tuttavia questi problemi non poterono essere ignorati per molto tempo dal governo piemontese. La questione del banditismo La questione del banditismo fu la prima ad essere affrontata con decisione attraverso l’uso di contingenti militari, impegnati contro i malviventi soprattutto nelle montagne del Logudoro e della Gallura. Questi interventi repressivi colpirono anche le popolazioni dei villaggi, soggette a perquisizioni ed arresti di massa ma il banditismo, che trovava le sue radici nelle condizioni economico-sociali e culturali della società sarda, continuò ad esistere. La miseria delle popolazioni era la causa prima del banditismo, che però traeva nutrimento da una mentalità diffusa fra la gente: i banditi erano visti come paladini del popolo in miseria e le loro gesta erano cantate nelle poesie popolari poiché erano interpretate come l’unica forma di difesa e di ribellione alle prepotenze delle classi dominanti e dello stato. Nei primi tempi quindi l’attenzione dei Savoia fu diretta a tenere sotto controllo l’Isola e a garantirne l’ordine interno. Gli ordinamenti tradizionali del periodo spagnolo furono conservati anche se, il sovrano piemontese evitò di convocare il Parlamento, impedendo così alla nobiltà, al clero e alla borghesia di far sentire le loro richieste. La politica di Carlo Emanuele III Nella seconda metà del XVIII secolo l’atteggiamento politico dei Savoia cambiò: il nuovo re, Carlo Emanuele III considerò definitivo il possesso della Sardegna; tutto ciò si tradusse in un impegno nuovo, indirizzato a modificare le condizioni dell’Isola. A questa spinta riformatrice diede un notevole contributo l’azione del conte Lorenzo Bogino cui fu affidata nel 1759 la direzione politica di tutti gli affari riguardanti la Sardegna. Egli, con la riforma dei Consigli Comunitativi creò organismi di villaggio in grado di contrapporsi al potere feudale e di limitarne gli abusi. L’istruzione Nel settore dell’istruzione si procedette alla riorganizzazione degli studi universitari e delle scuole secondarie. Nel 1760 si stabilì l’obbligo dell’uso della lingua italiana, che avrebbe dovuto sostituire lo spagnolo nelle scuole e negli atti ufficiali. Nel 1764 fu riaperta l’Università di Cagliari e l’anno dopo quella di Sassari, entrambe create nel corso del seicento sotto Filippo III e che, dopo un periodo di sviluppo, erano andate decadendo. La questione dello spopolamento Per risolvere il problema dello spopolamento si crearono nuovi centri abitati. Già nel 1738 era stato fondato il villaggio di Carloforte (dal nome del re) con il trasferimento di una parte degli abitanti, di origine ligure, dell’isola di Tabarca, nel mare di Tunisi, all’isola di S. Pietro vicino alla costa sarda sud occidentale. Nel 1771 e 1808 furono fondate Calasetta e Santa Teresa di Gallura. La stato dell’economia Tutti questi interventi per modernizzare la vita economica sociale e culturale dell’isola non bastarono: l’arretratezza era dovuta, sia alla gestione comunitaria della terra, che limitava la possibilità di innovazioni tecniche e miglioramenti agrari, sia alla presenza opprimente della feudalità. Su questi aspetti non ci fu alcun intervento del governo sabaudo che non mostrò una volontà decisa di riformare la società isolana. Le rivolte anti-piemontesi In questa situazione di povertà e malcontento maturò in Sardegna un movimento di rivolta: per la prima volta dopo secoli le popolazioni rurali e urbane decisero di lottare per conquistare condizioni di vita migliori. Nel 1789 numerosi villaggi insorsero rifiutandosi di pagare i tributi feudali e costringendo le autorità ad intervenire con la forza per riportare l’ordine e per difendere gli interessi dei feudatari. Il movimento di proteste continuò negli anni novanta, anche per l’effetto della Rivoluzione Francese. Il tentativo di sbarco dei francesi La Francia, diventata una repubblica, tentava di diffondere i principi della rivoluzione in tutta l’Europa: nel 1793, un’armata francese occupò Carloforte e Sant’Antioco e, successivamente, attaccò il porto di Cagliari. Gli aristocratici e gli ecclesiastici con un abile campagna propagandistica convinsero le popolazioni di Cagliari e dell’entroterra della pericolosità dei Francesi, additandoli come nemici di ogni religione, violenti e schiavisti. La propaganda fu efficace e dei volontari cagliaritani s’improvvisarono militari respingendo il tentativo di sbarco delle truppe francesi; anche Carloforte e Sant’Antioco furono liberati dopo pochi mesi. G.M. Angioy: i moti rivoluzionari Questo episodio di resistenza all’attacco francese illuse i Cagliaritani che il governo piemontese avrebbe accontentato una richiesta delle classi dirigenti sarde per una gestione più autonoma dell’Isola. La risposta, infatti, fu negativa e suscitò la protesta dei Sardi che nel 1784 insorsero, allontanando tutti i Piemontesi da Cagliari, Alghero e Sassari. La rivolta urbana si intrecciò con i tumulti antifeudali delle campagne, scatenando un vero e proprio movimento rivoluzionario. In questa situazione emerse la personalità di Giovanni Maria Angioy che assunse il ruolo di guida contro il feudalesimo e i Piemontesi. Ma nel 1796 Giovanni Maria Angioy fu sconfitto con le sue truppe e per evitare l’arresto raggiunse la Francia dove morì esule. Le rivolte nonostante questa sconfitta non terminarono e la repressione dei Piemontesi fu sanguinosa: molti furono i morti e moltissimi gli arresti. La parentesi rivoluzionaria sarda era chiusa, ritornarono il potere baronale, le carestie e i gravosi carichi fiscali. In questa situazione di crisi economica continuò, legata soprattutto all’arretratezza dell’agricoltura sarda. L’Editto delle Chiudende Il Piemonte emanò l’Editto sopra le Chiudende, che autorizzava la chiusura, con siepi o muri, dei terreni sui quali i privati avevano qualche diritto. Si cercò così di stimolare la formazione di una classe di piccoli e medi proprietari terrieri in grado di migliorare i sistemi produttivi. Tuttavia le operazioni di chiusura avvennero in modo affrettato e spesso illegale, a danno dei piccoli contadini che non avevano i mezzi per costruire siepi o muri di divisione e dovettero subire quindi gli abusi dei proprietari più grossi. Anche i pastori furono danneggiati da questo sistema di chiusure poiché videro notevolmente limitati gli spazi aperti e destinati al pascolo. Carlo Alberto abolisce il feudalesimo Nel 1839, sotto il regno di Carlo Alberto, ci fu l’abolizione del feudalesimo ma il sovrano non volle scontentare la nobiltà feudale: decise, infatti, che i nobili fossero ripagati dalla perdita delle rendite feudali, con un “riscatto”, un compenso che fu addebitato alle comunità rurali, che dovettero quindi pagare a caro prezzo la loro libertà. Nel 1847, su richiesta delle classi dirigenti sarde, ci fu l’unificazione di Sardegna e Piemonte sotto un’unica legislazione; l’Isola rinunciò alla propria autonomia e accettò leggi e modi di amministrazione diversi da quelli che avevano regolato per secoli la sua vita. Portarono grande disagio l’istituzione del servizio militare obbligatorio, che sottraeva alle famiglie il prezioso aiuto dei figli maschi, e i pesanti tributi fiscali che gravavano soprattutto fra i tantissimi piccoli proprietari terrieri, ridotti sul lastrico. La speranza del governo sabaudo di conquistare la fiducia e il consenso dei Sardi non si realizzo: gli squilibri provocati dai Piemontesi favorirono solo sospetto e rancore nei confronti dello stato. http://www.sardiniapoint.it/20.html Giovanni Maria Angioy Patriotta sardo Nascita: 1751 Bono Morte: 1808 Parigi Giudice della Reale Udienza e professore di diritto civile nell’Università di Cagliari, partecipò alla resistenza dei Sardi contro la flotta francese, che nel 1793 aveva bombardato Cagliari e tentato uno sbarco nell’isola. L’azione francese non produsse alcun esito, ma permise Angioy di acquisire una grande popolarità ed onori dal governo e dal re Vittorio Amedeo III di Savoia. A poco più di un anno di distanza dall’offensiva francese, tra il 1794 e il 1795, il popolo cagliaritano si sollevò contro i Savoia chiedendo la fine del feudalesimo e l’autonomia amministrativa, Angioy si schiero con gli autonomisti. Inviato a Sassari dal viceré come “alternos” (cioè come vicario con gli stessi poteri viceregi), per riportare ordine nella città occupata dai democratici vi fu accolto trionfalmente come un liberatore. Angioy tentò di risolvere, per tre mesi, i conflitti tra feudatari e vassalli attraverso atti legali, sostenendo i diritti di questi ultimi contro il regime feudale. Resosi conto di aver ormai perso l’appoggio della classe dirigente cagliaritana e del governo, tentò il tutto per tutto incontrandosi con alcuni agenti francesi nella speranza di avere da questi il sostegno per mettere in atto un piano sovversivo contro il governo Sabaudo, in quel periodo impegnato in guerra con il Piemonte. Purtroppo, dopo qualche giorno Vittorio Amedeo III firmò l’armistizio di Cherasco e successivamente la Pace di Parigi (1796). Sconfessato e deposto dal viceré come sovvertitore dell’ordine monarchico, nel 1796 marciò su Cagliari a capo di numerose bande armate per ottenere il riconoscimento della fine del regime feudale. Ad Oristano Angioy, fu abbandonato da gran parte dei suoi sostenitori persuasi dalle promesse di impunità avanzate dal viceré. Ormai solo tornò a Sassari, il 15 giugno dello stesso anno si imbarcò clandestinamente a Porto Torres per Genova. Successivamente andò in esilio in Francia dove tentò invano di convincere il Direttorio ad intervenire militarmente nell’isola per instaurarvi la Repubblica.) http://www.sardus.it/record.php?sezione=6&argomento=2&testo=1&figlio=0&id=4 Giovanni Maria Angioy Giuanni (ou Zuanne) Maria Angioy est un indépendantiste sarde de le fin du XVIIIe siècle Le 28 avril 1794, l’assassinat de deux fonctionnaires piémontais à Cagliari dégénère en rebellion ouverte. Ce sont les journées de s’acciappa (véritable chasse aux piémontais encore en ville). La révolte se propage dans toute la Sardaigne. Les rebelles, s’appuyant sur les paysans pauvres, occupent Sassari, au nord de l’île, où s’était réfugiée une grande partie de l’aristocratie. L’agitation anti-féodale s’étendant, le Parlement sarde envoie depuis Cagliari une armée avec à sa tête l’avocat Giovanni Maria Angioy. Celui-ci, sympathisant des idées de la Révolution française, prend à son arrivée le parti du peuple et soutient la rebellion. A la tête de son armée et de diverses milices irrégulières, il marche contre les loyalistes qui, au même moment, rassemblent une nouvelle armée à Cagliari tout en demandant l’aide du vice-roi. Anjoy est désavoué et, se mettant à dos les forces conservatrices, continue son avancée vers la capitale. Surpris à revers par une armée piémontaise (complétée de mercenaires suisses et corses) fraîchement débarquée et mieux équipée, il est vaincu près d’Oristano en 1796. Sa tête est dès lors mise à prix comme bandit. Sa famille doit fuir et changer de nom. Son village natal de Bono est bombardé et saccagé. Anjoy fuit sur le continent et se réfugie à Paris. On dit que jusqu’à son dernier jour il aura cherché à convaincre Napoléon d’envoyer une armée en Sardaigne pour y porter les idéaux de la Révolution. Il meurt à Paris, pauvre et abandonné en 1808. Le lieu de sa sépulture est inconnu. Un article de Wikipédia, l’encyclopédie libre. http://fr.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Maria_Angioy “Così la guerra feudale partiva come suggestione da Angioy partigiano perché,trasformata in querela di popoli oppressi, tornasse ad Angioy alternos “ Giuseppe Manno, storia Moderna della Sardegna Don Giovanni Maria Angioy (1751 – 1808), nasce a Bono il 21 ottobre 1751 da genitori nobili che muoiono poco dopo la sua nascita. Si occupa di lui il fratello della madre, don Taddeo Arras, che è il suo primo maestro di grammatica. Per gli altri insegnamenti di lingue e di belle arti dovrà successivamente fare riferimento ai padri mercedari presso la loro scuola nella chiesa-convento della Vergine della Mercede, che dopo la chiusura del convento decretata dal ministro Bogino nel 1776, diventa di San Raimondo. Continua gli studi presso il collegio Canopoleno e poi all’Università di Sassari, ottenendo ottimi risultati e suscitando l’ammirazione dei suoi stessi professori. Nonostante l’ inclinazione per la vita religiosa,viene mandato dallo zio Taddeo a proseguire gli studi presso l’università di Cagliari. Fa pratica presso lo studio dell’avvocato Nieddu, zio della madre, ma dopo un breve periodo di libera professione si dedica all’insegnamento universitario (all’ età di 21 anni è già professore) e successivamente entra a far parte della magistratura ricoprendo gli importanti incarichi di giudice della Reale Udienza (la massima magistratura isolana) e di assistente del reggente la Reale Cancelleria (la più importante carica del regno di Sardegna dopo quella di viceré). Sulla facciata del Municipio di Bono si legge: “A Giovanni Maria Angioy, che ispirandosi ai valori dell’ 89 bandì la sarda crociata contro la tirannide feudale “. Ciò ci ricorda che, anche se con un certo ritardo, determinato da un relativo stato di isolamento e di arretratezza, per via anche degli scarsi mezzi di comunicazione allora disponibili, pure in Sardegna erano giunte le nuove idee dell’ Illuminismo e della Fisiocrazia che certamente l’Angioy conosce come non poche altre persone di cultura dell’epoca. Ciò grazie anche agli effetti degli interventi di politica culturale e soprattutto della Riforma delle Università isolane operata dal Ministro Bogino (1764-1765). All’età di 30 anni sposa la giovanissima Annica Belgrano, figlia di un ricco commerciante, nella chiesa di Sant’Eulalia, nel quartiere della Marina a Cagliari. Separati dopo la nascita di Speranza, i due si ricongiungeranno poi grazie ai buoni uffici del viceré. Vanno ad abitare nel quartiere di Castello ed hanno altre due figlie : Giuseppa e Maria Angela. Giovanni Maria Angioy si dimostra ben presto un capace imprenditore e sagace uomo d’affari: investe il capitale portatogli in dote dalla Belgrano in prestiti a privati (a Cagliari non esistevano banche) e si dà alla compravendita di case e terreni. Angioy ha successivamente modo di dare ulteriore prova delle sue capacità imprenditoriali che, come ci suggerisce lo storico Carlino Sole, dal 1789 daranno i loro frutti nell’ambito della coltivazione del cotone arboreo e dell’indaco per la tinteggiatura delle tele,tanto da suscitare la stima del viceré Balbiano. Successivamente impianta una fabbrica di berrette, in società con Andrea Delorenzo e altri imprenditori. Ciò suscita nuovamente l’entusiasmo di Balbiano che avrebbe addirittura voluto denominare la fabbrica “l’ Aurora del regno”. Il fallimento di queste iniziative è senz’altro da attribuire alla mobilitazione contro i tentativi di invasione francesi, secondo alcuni storici, alla generale situazione di arretratezza in cui versava l’Isola. Il Manno, partendo da un’ottica moderata che aborre le rivoluzioni e si aspetta le riforme dalla grazia del Sovrano, nella sua opera (che secondo Luciano Marrocu è stata poi “monumentalizzata”), accusa duramente l’Angioy, basandosi su un manoscritto anonimo e recentemente ripubblicato in edizione critica da Luciano Carta intitolato “Storia de’ torbidi occorsi nel regno di Sardegna dall’anno 1792 in poi”. Dopo l’espulsione dei piemontesi (lo “scommiato” del 28 aprile 1794, oggi commemorato come “Sa die de sa Sardigna”), l’Angioy sarebbe stato il punto di riferimento dei novatori o “Giacobini” (come venivano genericamente chiamati in Italia coloro che prendevano posizione contro gli antichi regimi). Ci sono pervenuti lunghi elenchi che comprendono magistrati, funzionari, liberi professionisti, intellettuali,artigiani, negozianti, popolani, esponenti del clero appartenenti alla fazione sarda dei giacobini, tutti speranzosi di migliorare le proprie condizioni economiche e sociali. La casa di Angioy secondo alcuni, diventa sede di un club giacobino nel quale si riuniscono democratici cagliaritani e sassaresi suoi amici. Gli altri club si riuniscono presso la sede estiva del collegio dei nobili (attuale via Bacaredda a Cagliari, ex istituto agrario) e nella casa di campagna dell’avvocato Salvatore Cadeddu (a Palabanda, l’ attuale orto botanico) e nel quartiere di Villanova presso il canonico Cossu, fratello di Giuseppe, il famoso economista. In occasione dell’attacco della Francia e della comparsa della flotta nemica nel golfo di Cagliari (inverno 1792-1793), l’Angioy non partecipa direttamente alle operazioni militari ma raccoglie dai privati le offerte per la difesa di Cagliari e si occupa della sistemazione delle milizie del Goceano arrivate in città sotto il comando dello zio, Taddeo Arras. Nell’agosto del 1794 viene inviato in missione ad Iglesias con tanto di scorta , a causa delle proteste della popolazione locale per la mancanza del grano. Angioy oltre a dare disposizioni sugli approvvigionamenti e per l’istituzione di un corpo di barracelli (corpo di guardie private per la repressione e la prevenzione della delinquenza rurale in Sardegna) cerca di regolarizzare le modalità di riscossione del donativo. La “Storia de’ torbidi” racconta che l’Angioy ad Iglesias avrebbe fatto propaganda rivoluzionaria col vescovo che lo ospitava. E sostiene inoltre che l’Angioy e i suoi amici avrebbero avuto dei contatti con le autorità francesi attraverso il commerciante Francesco Giuseppe Ochino. Giuseppe Manno ha accusato l’Angioy di aver voluto eliminare dalla scena politica dell’isola il Pitzolo, passato dai “novatori” ai moderati dopo aver ottenuto nel 1794, al rientro da Torino, l’incarico di intendente generale del Regno. Angioy sarebbe stato il mandante del suo assassinio e di quello del Marchese della Planargia. Dopo la morte del Pitzolo e del marchese della Planargia infatti, la frattura tra i due schieramenti del partito dei “giacobini”, moderati e radicali, si accentua. Da Angioy conseguentemente si allontanano l’avvocato Cabras e tutti i suoi seguaci, anche per consiglio dell’arcivescovo di Cagliari, Melano. Nel Capo di sopra continua intanto l’agitazione antifeudale e gli Stamenti propongono al viceré Vivalda di nominare Angioy Alternos con l’incarico di ristabilirvi l’ ordine. Con questa nomina, egli diventa, quanto ad autorità, secondo soltanto al viceré. E’ titubante nell’ accettare l’ incarico, ma il 3 febbraio 1796 la proposta viene accolta e gli vengono conferite le patenti di Alternos, in quanto è ritenuto persona saggia, moderata, originaria proprio della Sardegna settentrionale dove aveva molti parenti ed esercitava un suo “patronage”. In tempi come quelli in cui appaiono “normali” gli enormi gravami feudali, Giomaria Angioy appare come il potente che rinuncia ai suoi privilegi per una grande causa: aiutare i deboli e gli oppressi. Il canonico Sisternes scrisse in un memoriale sulle vicende del periodo rivoluzionario indirizzato alla regina Maria Teresa, che la nomina di Angioy aveva avuto lo scopo di allontanarlo da Cagliari e che lui stesso aveva suggerito al viceré di fare ciò per provocare la sua rovina. Sicuramente Angioy intuisce che si tratta di una trappola e dato che era fuori discussione prendere posizione contro i vassalli ribelli e mettersi contro gli amici novatori e le sue stesse idee, decide invece di sostenere il partito antifeudale pur sapendo che sarebbe stato facile per i suoi avversari metterlo fuori legge. Il 13 febbraio 1796 rompe gli indugi e parte alla volta di Sassari insieme al parroco di Torralba, Francesco Sanna Corda ed altri, impiegandoci anziché 4 giorni, quanti di solito se ne impiegavano le famose ben “venti pose” di cui scrive il Manno; si tratta di un’autentica marcia trionfale. Prima di arrivare a destinazione fermatosi in diversi villaggi mette fine agli abusi, fa scarcerare diversi innocenti detenuti, mette pace tra famiglie in discordia. Insomma, Angioy come un Redentore accende molte speranze. Il 28 febbraio 1796 fa il suo ingresso trionfale a Sassari e viene accompagnato dalla popolazione al Duomo dove i canonici intonano il “Te deum” di ringraziamento e le campane suonano a festa. La sua popolarità è alle stelle. Angioy, ospitato a Sassari dallo zio, il canonico Diego Arras, si preoccupa subito di attivare lavori di utilità pubblica per dare lavoro ai molti disoccupati; ottiene da Cagliari il grano, inutilmente richiesto in precedenza, quando era ancora vivo il contrasto tra le due città; costituisce una milizia urbana che mette al comando dell’amico Gioachino Mundula. Nel frattempo i suoi sostenitori sviluppano una intensa propaganda antifeudale nei villaggi. Alcuni suoi amici fanno propaganda repubblicana affiancata da una serie di scritti quali l’ Achille della sarda liberazione e i Sentimenti del vero patriota sardo che non adula. Sempre il Manno, nel suo libro “Storia moderna” , parla del soggiorno di Angioy a Sassari e gli rimprovera di essersi circondato di uomini di pessima fama e di aver spogliato i baroni dei loro beni promuovendo patti antifeudali. Lorenzo e Vittoria Del Piano osservano però che il Manno cade anche in contraddizione quando accusa Angioy di aver voluto fare una rivoluzione e di essersi circondato di uomini di temperamento vivace, quando è appunto con uomini “vivaci” che si fanno le rivoluzioni! Federico Francioni, ha approfondito recentemente la questione relativamente al fatto se l’Angjoy abbia tollerato o subìto queste iniziative o se invece si sia trattato di una “divisione dei ruoli”: avrebbe lasciato insomma che i suoi seguaci svolgessero d’accordo con lui la propaganda repubblicana che egli non avrebbe potuto fare apertamente a causa della sua carica. Durante la sua permanenza a Sassari, Angioy si fa comunque anche molti nemici che avrebbero poi organizzato una congiura contro di lui. Il viceré ordina da Cagliari di procedere alla riscossione dei tributi, utilizzando anche la forza e l’ Angioy risponde che non avrebbe mai fatto l’ esattore baronale. Così facendo si schiera apertamente dalla parte degli oppressi. Nel sassarese, la sua propaganda antifeudale incontra grandi consensi tanto che i rappresentanti di molte comunità lo invitano a visitare i loro villaggi per accertarsi degli effettivi problemi sociali esistenti. Angioy decide quindi di assentarsi da Sassari per 5-6 giorni per visitare i villaggi e ne dà notizia al viceré; affida il governo di Sassari ai suoi sostenitori, il vice intendente Fois e gli avvocati Mundula, Fadda, Solis e Sotgia Mundula e il 2 giugno parte da Sassari accompagnato dal segretario della Reale Governazione, Giovanni Mossa, dal notaio Stanislao Delogu e dall’assessore avvocato Domenico Pinna. Visita numerosi paesi: ai villici Angioy chiede se hanno ancora l’intenzione di liberarsi dalla schiavitù del feudalesimo e tutti rispondono sempre di si. Il rettore Muroni si preoccupa di tradurre in logudorese tutto ciò che Angioy dice in italiano. Secondo la “ Storia dei Torbidi” e poi anche il Manno, egli avrebbe avuto l’ intenzione di raccogliere gente armata e marciare quindi su Cagliari per instaurarvi la Repubblica. A Semestene, Angioy riceve notizie da Bosa sui preparativi in atto per fronteggiare ogni sua mossa e a San Leonardo, avendo fatto sequestrare la posta diretta a Sassari, ha la conferma delle misure che vengono prese contro di lui. Angioy dà quindi ordine alla cavalleria miliziana di Macomer di concentrarsi a Santu Lussurgiu e di mettersi ai suoi ordini, ma essa non accetta di obbedire senza il consenso del viceré. A Macomer, dove peraltro l’ Alternos (come attesta Giovanni Cucca nel suo libro su Macomer “ Macomer, documenti, cronache e storia di una comunità” – Settecento Sabaudo) gode anche di un certo seguito, avviene un primo scontro con gli uomini disposti all’ingresso del paese dall’avvocato Salvatore Pinna, nemico di Giovanni Maria e fratello del suo seguace Domenico. Arrivato successivamente a Oristano, con un seguito di 600 persone e favorevolmente accolto dalla popolazione, Angioy scrive al viceré che il Logudoro avrebbe difeso i propri diritti e chiede un colloquio con lui, o con due membri della Reale Udienza e due di ogni Stamento (almeno uno dei quali avrebbe dovuto essere del Logudoro), minacciando anche di fare uso della forza. Il giorno dopo Angioy invia un’altra lettera al viceré nella quale dice che, essendo stata da poco raggiunta la pace tra il re Vittorio Amedeo III e la Repubblica Francese, se non si fosse arrivati ad un accordo con Cagliari, il Logudoro avrebbe fatto una “Deputazione separata sia alla Francia che al re”. A Cagliari, i suoi ex-amici, prima ancora che il viceré ricevesse le lettere di Angioy, avevano già presentato un’Istanza nella quale chiedevano la sua destituzione e lo pregavano di mandare nel Capo di Sopra, con pieni poteri, l’avvocato fiscale don Giannantonio Delrio, affinché normalizzasse la situazione. Il viceré, appena ricevuta la prima lettera di Angioy, dà ordine che si convochino le cavallerie miliziane dei vari villaggi per muovergli contro. Inoltre nomina come suoi delegati Guiso, Musso e Pintor Sirigu che, insieme all’avvocato Delrio, avrebbero ristabilito la pace nel Logudoro e pubblica vari pregoni con i quali accorda un condono alla “gente sedotta e mal consigliata” che aveva fino a quel momento partecipato all’insurrezione angioiana; promette 1500 lire sarde a chi consegnerà alla Giustizia il cadavere di uno dei principali capi della rivolta e 3000 lire sarde a chi invece lo consegnerà vivo. A Cagliari si diffonde intanto la falsa notizia che l’esercito di Angioy è giunto a Serramanna e la città entra nello scompiglio più totale. A Oristano Angioy attende intanto risposta dal viceré e spera ancora in qualche buona notizia. Riceve invece una lettera dall’avvocato Cocco con allegato il pregone che lo mette al bando e così abbandona Oristano per rientrare a Sassari, dopo scontri a fuoco tra i suoi uomini e gli oristanesi. Angioy si è reso conto di essere in una situazione disperata, dato che sono rimaste inascoltate le sue richieste di aiuto ai villaggi che pure in precedenza avevano partecipato al movimento antifeudale. Ma il punto ancora da chiarire è questo: voleva veramente marciare su Cagliari? Egli sapeva benissimo che sarebbe stata una follìa pensare di conquistare Cagliari con poche centinaia di armati, senza ufficiali esperti, senza artiglieria, senza munizioni sufficienti e senza poter contare sull’appoggio degli ex-amici traditori. A Cagliari il viceré Vivalda assegna al Giudice della Reale Udienza, don Giuseppe Valentino, l’incarico di procedere contro l’Angioy, Mundula,Fadda e gli altri capi dell’insurrezione accusati di voler cambiare l’assetto politico del Regno. Al giudice Valentino arrivano molte denuncie vere o false e vengono così arrestati molti innocenti che rimarranno a lungo in carcere, mentre altri ancora vengono condannati a morte. Il corpo dei condannati di solito veniva bruciato e le ceneri sparse al vento, oppure la testa veniva esposta in una gabbia di ferro e appesa alle porte della città. Ma la condanna inflitta al Fadda è particolarmente crudele, infatti venne condannato all’ impiccagione “ sficcarglisi la testa dal busto e mettersi alla vista, entro una grata di ferro nella porta del castello di questa città, dividersi il corpo i quarti e “ affliggersi” nei luoghi stabiliti dalla viceregia delegazione in vicinanza di questa stessa città, compresa la tortura sulla confessione dei complici e il pagamento delle spese”. Il 16 giugno 1796 Angioy parte con degli amici da Portotorres e raggiunge Genova, da dove si sposta successivamente in diverse città italiane spingendosi fino a Castiglione, dove spera di incontrare Napoleone che non vuole però riceverlo perché, dopo la pace di Parigi (15 maggio 1796), la Francia non ha più nessun interesse ad occupare la Sardegna. Nell’ottobre 1796 il re Vittorio Amedeo III muore e gli succede il figlio Carlo Emanuele IV che, per chiarire la situazione dell’isola e dell’Angioy stesso, decide di invitarlo a Torino, garantendogli la libertà e offrendogli i soldi per il viaggio. L’Angioy spera di recarsi a Torino per ottenere l’abolizione definitiva del feudalesimo ed è ancora sicuro delle sue idee e che esse avrebbero garantito un avvenire migliore per la Sardegna. A Torino egli incontra l’avvocato fiscale del Supremo Consiglio di Sardegna, Luigi Cappa, che lo invita a soggiornare a Casale, in attesa delle decisioni del re. Qui l’Angioy avrebbe, secondo la testimonianza del Frassu, messo per iscritto un suo memoriale difensivo molto efficace. Resosi però conto di non avere buone possibilità e venuto a conoscenza di un complotto contro la sua vita, abbandona furtivamente Casale e si reca in Francia dove si schiera definitivamente dalla parte dei francesi che sollecita apertamente ad occupare la Sardegna. A Parigi vive ospite nella casa della vedova Dupont. Come è noto esiste a Sassari una Loggia Massonica “Giovanni Maria Angioy”: sembra infatti che egli si sia affiliato alla Massoneria (ancora non esistente in Sardegna) durante il suo esilio francese, venendo la sua personalità riconosciuta conforme agli ideali dei Liberi Muratori. Muore il 22 febbraio 1808. Lascia un debito considerevole alla donna che, quando andrà appositamente a Sassari ospite del console francese Esperson, tenterà inutilmente di farsi rimborsare dalle figlie dell’Angioy le quali ben poco affezionate alla memoria del padre, avrebbero addirittura cercato di cambiare cognome. Bibliografia Sono stati ampiamente consultati: il sito http://digilander.libero.it/bono2k/gma.html e il testo di Lorenzo Del Piano e Vittoria Del Piano: “Giovanni Maria Angioy e il periodo rivoluzionario 1793-1812”, Edizioni C.R. – Quartu S.Elena, 2000. Giovanni Maria Angioy Biografia Nato a Bono il 21 ottobre 1751 e morto a Parigi il 22 febbraio/marzo 1808. Figlio di Pier Francesco Angioy e di Margherita Arras. Di nobile famiglia, si addottorò in giurisprudenza a Sassari nel 1771, divenendo nel 1773, a Cagliari, giudice della Reale Udienza. Dopo il 1789 fu a capo di un movimento antifeudale e antipiemontese, di cui fu portavoce “Il Giornale di Sardegna”. Nominato Alternos viceregio a Sassari, partì da Cagliari il 13 febbraio 1796 percorrendo trionfalmente l’Isola agitata e in rivolta. A Sassari continuò la sua politica antifeudale, ma accusato di voler sovvertire l’ordine, fu destituito e gli furono inviati contro 2500 cavalieri e 50 cannonieri. Sconfitto e colpito da taglia, abbandonò l’Isola per rifugiarsi a Parigi, dove non cessò di propugnare una Repubblica sarda sotto la protezione francese. A Parigi morì in data incerta, povero e in gran parte ignorato. Opere •Memoria sul rinnovamento dell’isola di Sardegna (manoscritto). • Autorizzazione delegata del rifugio G. A. a F. Sanna Corda per trasferirsi in Sardegna ed eccitarvi un moto politico, in N. BIANCHI, Storia della monarchia piemontese dal 1773 al 1861, vol. IV, p. 551. • Due lettere al ministro della Repubblica francese Talleyrand, in N. BIANCHI, Storia della monarchia piemontese dal 1773 al 1861, vol. IV, pp. 513-518. • Lettera indirizzata al Viceré da Oristano (8 giugno 1796), in R. GARZIA, Il canto di una rivoluzione, Cagliari, 1899, p. 187. • Altra lettera sempre da Oristano, in E. COSTA, Sassari, Sassari, 1885, pp. 386-387. • Scritti inediti, in D. SCANO, Giommaria Angioy e i suoi tempi, Sassari, 1962, pp. 189-412. • Per l’Italia e per l’Europa, Roma, Nuova Grafica Romana, 1963. • Memoriali e altri documenti inediti rinvenuti da Carlino Sole negli Archives Nationales di Parigi, serie AF, III, in Nuovi apporti per una compiuta biografia di G. M. Angioy, “Studi sardi”, vol. XX, 1966-67, Sassari, 1968. • Giovanni Maria Angioy e un progetto della storia del Diritto patrio del regno di Sardegna a cura di A. Mattone e P. Sanna, Cagliari, Cuec, 1994. • I moti antifeudali in Sardegna: la Sardegna e la casa Savoia, la figura di Giommaria Angioy nel bicentenario della rivoluzione francese a cura di P. P. Tilocca, Sassari, Moderna, 1989. • La Sardegna e la Rivoluzione Francese: atti del convegno: G. M. Angioy e i suoi tempi, a cura di M. Pinna, Sassari, Lavoro e Società, 1990. Bibliografia • P. TOLA, Dizionario Biografico degli uomini illustri di Sardegna, Torino, Tip. Chirio e Mina, 1837-38, vol. I, pp. 77-79. • R. CIASCA, Bibliografia sarda, Roma, 1931-34, vol. I, p. 43, n. 411, pp. 44-45, nn. 423-424. • R. BONU, Scrittori sardi, Cagliari, 1972, vol. I, pp. 118-130.

Studi Angioy

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continua quinta parte

simbolico “Firmaisì! E arrazza de brigungia! Arrazza ‘e onori! Sardus, genti de onori! E it’ant a nai de nosus, de totus ! Chi nc’eus bogau s’istrangiu po amori ‘e libertadi ? Nossi, po amori de s’arroba! Lassai stai totu! Non toccheis nudda! Non ddi faeus nudda de sa merda de is istrangius! Chi ddi sa pappint a Torinu cun saludi! A nosus interessat a essi meris in domu nostra! Libertadi, traballu, autonomia!” Nella divertente e brillante finzione letteraria e teatrale, in “Sa dì de s’acciappa” (Dramma storico in due tempi e sette quadri, edito da Condaghes), lo scrittore Piero Marcialis fa dire così a Francesco Leccis, – beccaio, protagonista della rivolta cagliaritana contro i Piemontesi – rivolgendosi ai popolani che, infuriati volevano assaltare i carri, zeppi di ogni ben di dio, per sottrarre ai dominatori in fuga “s’arroba” che volevano portarsi a Torino. Ed è questo – a mio parere – il significato profondo, storico e simbolico, della cacciata dei Piemontesi da Cagliari il 28 Aprile 1794: i Sardi, dopo secoli di rassegnazione, di abitudine a curvare la schiena, di acquiescenza, di obbedienza, di asservimento e di inerzia, per troppo tempo usi a piegare il capo e a piegare il capo, subendo ogni genere di soprusi, umiliazioni, sfruttamento e sberleffi, con un moto di orgoglio nazionale e di reni, di dignità e di fierezza, si ribellano e alzano il capo, raddrizzano la schiena e dicono :basta! In nome dell’autonomia e dunque, per “essi meris in domu nostra”. E cacciano i Piemontesi e savoiardi, non per motivi etnici, ma perché rappresentano l’arroganza, la prepotenza e il potere. Si è detto e scritto che si è trattato di “robetta”: di una semplice congiura ordita da un manipolo di borghesi giacobini, illuminati e illuministi, per cacciare qualche centinaio di piemontesi. Non sono d’accordo. A questa tesi, del resto ha risposto, con dovizia di dati, documenti e argomentazioni, Girolamo Sotgiu (In “L’Insurrezione a Cagliari del 28 Aprile 1794, edito dalla AM&D). Il prestigioso storico sardo, gran conoscitore e studioso della Sardegna sabauda, polemizza garbatamente ma decisamente proprio con l’interpretazione data da storici come il Manno o l’Angius al 28 Aprile, considerato alla stregua, appunto, di una congiura. Simile interpretazione offusca – a parere di Sotgiu – “le componenti politiche e sociali e, bisogna aggiungere senza temere di usare questa parola ”. Insistere sulla congiura –cito sempre lo storico sardo– “potrebbe alimentare l’opinione sbagliata che l’insurrezione sia stato il risultato di un intrigo ordito da un gruppo di ambiziosi, i quali stimolati dagli errori del governo e dalle sollecitazioni che venivano dalla Francia, cercò di trascinare il popolo su un terreno che non era suo naturale, di fedeltà al re e alle istituzioni”. A parere di Sotgiu questo modo di concepire una vicenda complessa e ricca di suggestioni, non consente di cogliere il reale sviluppo dello scontro sociale e politico né di comprendere la carica rivoluzionaria che animava larghi strati della popolazione di Cagliari e dell’Isola nel momento in cui insorge contro coloro che avevano dominato da oltre 70 anni. Non fu quindi congiura o improvviso ribellismo: ad annotarlo è anche Tommaso Napoli, padre scolopio, vivace e popolaresco scrittore ma anche attento e attendibile testimone, che visse quelli avvenimenti in prima persona. Secondo il Napoli “l’avversione della – la chiama proprio così- contro i Piemontesi, cominciò da più di mezzo secolo, allorché cominciarono a riservare a sé tutti gli impieghi lucrosi, a violare i privilegi antichissimi concessi ai Sardi dai re d’Aragona, a promuovere alle migliori mitre soggetti di loro nazione lasciando ai nazionali solo i vescovadi di Ales, Bosa e Castelsardo, ossia Ampurias”. L’arroganza e lo sprezzo – continua – con cui i Piemontesi trattavano i Sardi chiamandoli pezzenti, lordi, vigliacchi e altri simili irritanti epiteti e soprattutto l’usuale intercalare di Sardi molenti, vale a dire asinacci inaspriva giornalmente gli animi e a poco a poco li alienava da questa nazione”. Per ricordare lo scommiato dei Piemontesi è nata ”Sa Die, giornata del popolo sardo” – ma io preferisco chiamarla “Festa nazionale dei Sardi”- con una legge n.44 del 14 Settembre 1993. Con essa la Regione Autonoma della Sardegna ha voluto istituire una giornata del popolo sardo, da celebrarsi il 28 Aprile di ogni anno, in ricordo –dicevo- dell’insurrezione popolare del 28 Aprile del 1794, ovvero dei “Vespri sardi” che portarono all’espulsione da Cagliari e dall’Isola dei piemontesi e di altri forestieri ligi alla corte sabauda, compreso lo stesso inviso Viceré Balbiano. Il problema che abbiamo oggi davanti, a livello soprattutto culturale, non è tanto quello di ridiscutere la data o, peggio, il valore stesso di una “Festa nazionale sarda”, bensì di non ridurla a semplice rito, a pura vacanza scolastica o a mero avvenimento folclorico e festaiolo. Il problema è quello di trasformarla in una occasione di studio – soprattutto nelle scuole – della storia e della cultura sarda, di confronto e di discussione collettiva e popolare, per capire quello che siamo stati, quello che siamo e vogliamo essere; per difendere e sviluppare la nostra identità e la nostra coscienza di popolo e di nazione; per batterci per una Comunità moderna e sovrana, capace di mettere in campo l’orgoglio e il protagonismo dei Sardi, decisi finalmente a costruire un riscatto ovvero un futuro di prosperità e di benessere, lasciandosi alle spalle la rassegnazione, la lamentazione, il piagnisteo e i complessi di inferiorità e avendo il coraggio di “cacciare” i “nuovi piemontesi” o romani o milanesi che siano, non meno arroganti, prepotenti sfruttatori e “tiranni” di quelli scommiatati da Cagliari il 28 Aprile del 1794. “Fu un momento esaltante –ha scritto Giovanni Lilliu- fu un’azione, poi bloccata dalla reazione “realista”, tesa a procurare un salto di qualità storica. Fu il tentativo di ottenere il passaggio da una Sardegna asservita al feudalesimo ad una Sardegna libera, fondando nell’autonomia, nel riscatto della coscienza e dell’identità di popolo una nuova patria sarda, una nazione protagonista”. Al di là comunque di tutto questo e dello specifico avvenimento, quello che è importante è oggi il valore simbolico di autocoscienza storica e di forza unificante. Nessun ripiegamento nostalgico o risentito verso il passato dunque: ma il passato sepolto, nascosto, rimosso, si tratta prima di tutto di dissotterrarlo e conoscerlo, perché diventi fatto nuovo che interroga l’esperienza del tempo attuale, per affrontare il presente nella sua drammatica attualità, per definire un orizzonte di senso, per situarci e per abitare, aperti al suo respiro, il mondo lottando contro il tempo della dimenticanza. Un passato che -solo apparentemente perduto- occorre ritrovare perchè è durata, eredità, coscienza. In esso si innesta infatti il valore dell’Identità, non statico e chiuso, non memoria cristallizzata ma patrimonio che viene da lontano e fondamento nel quale far calare nuovi apporti di culture, di vite individuali e sociali che determinano sempre nuove identità. Il messaggio di Sa die è rivolto soprattutto ai giovani e l’occasione storico- culturale è destinata prima di tutto agli studenti, perché acquistino consapevolezza di appartenere a una storia e a una civiltà e di ereditare un patrimonio culturale, linguistico artistico e musicale, ricco di risorse da elaborare e confrontare con esperienze e proposte di un mondo più vasto e complesso. In cui, partendo da radici sicure e dotati di robuste ali, possano volare alti: i giovani e non solo. 3° CAPITOLO Governo della Reale Udienza, contraddizioni del post-“commiato” e la figura di G. M. Angioy 1) Il post scommiato Con la cacciata del viceré e dei Piemontesi, il governo (in cui gli Stamenti si erano arrogati il diritto di interferire) fu assunto, dalla Reale Udienza, dominata da Giovanni Maria Angioy, e la difesa fu affidata alla milizia popolare del Sulis. Inizia in questo momento un periodo pieno di contraddizioni: da una parte ricco di speranze e progetti verso l’Autogoverno, dall’altra con un rovinoso prevalere di interessi e appettiti personali e di gruppo, con tradimenti e trasformismi, opportunismi e ambizioni. Fallita intanto la missione a Torino, facevano ritorno in patria il Sircana ed il Pitzolo. In quest’ultimo, tuttavia, – scrive Natale Sanna (1)- che pur con la sua lettera era stato (a quanto almeno si diceva) uno dei principali sobillatori della rivolta del 28 aprile, si notava uno strano cambiamento: biasimava la sommossa ed i suoi capi, proclamava doversi ristabilire l’ordine turbato dalla disubbidienza alle disposizioni reali, accusava aspramente Domenico Simon come uno dei principali responsabili del fallimento della missione. La defezione del Pitzolo, passato ormai apertamente ai conservatori, provocò il rafforzamento dell’altra fazione, detta dei giacobini (termine forse improprio, ma allora di moda), capitanata da Cabras, Pintor, Sulis, Musso e, soprattutto, dall’Angioy. In questo ribollimento di odi e di fazioni, -scrive ancora Sanna- un inaspettato provvedimento del governo di Torino sembrò dar ragione a coloro che accusavano il Pitzolo di essersi lasciato corrompere da segrete promesse di impieghi e di prebende. Il nuovo ministro, conte Avogadro di Quaregna, nominò d’autorità, senza tener conto dell’antico sistema delle terne, i nuovi alti ufficiali: reggente la Reale Cancelleria l’avvocato Gavino Cocco, governatore di Sassari il cavalier Santuccio, generale delle milizie il marchese Paliaccio della Planargía, notoriamente reazionario, ed infine sovrintendente del Regno il cavalier Pitzolo. Le proteste si levarono violentissime: si inficiavano di illegalità le nomine per non essersi tenuto conto dell’uso delle terne, si accusava di spergiuro il Pitzolo per non aver tenuto fede al giuramento fatto prima di partire per Torino, ma soprattutto si paventava lo spirito reazionario del Planargia che si vociferava, volesse restaurare l’antico ordine e reprimere duramente i capi della rivolta contro i Piemontesi il 24 Aprile. Si paventava inoltre che sia il Pitzolo che il Planargia riservassero solo a sé a i propri amici “reazionari” cariche, benefizi e impieghi escludendo rigorosamente i “democratici”. Non si può procedere nella narrazione senza chiedersi quali fossero gli obiettivi che il movimento popolare intendeva raggiungere cacciando via dall’isola i piemontesi e lo stesso viceré. Sull’insurrezione di Cagliari, sugli avvenimenti successivi e sul ruolo giocato da Giovanni Maria Angioy esiste infatti un dibattito storiografico, che, sin dall’inizio, con le opere del Manno e del Sulis, si è venuto fortemente intrecciando a motivazioni politiche che possono anche oggi influire su un corretto giudizio degli avvenimenti. I popolani di Cagliari, alle cui spalle agivano influenti personaggi di orientamento democratico e giacobineggiante, si proponevano, come sembra ritenere il Manno, di rovesciare gli ordinamenti tradizionali e, seguendo l’esempio francese, approdare alla costituzione di una repubblica sarda? O, invece, e certo ugualmente rinnovando, sia pure con valenza politica ben diversa, riconquistare « i privilegi tradizionali » progressivamente usurpati dai piemontesi, così da assicurare al regno un governo rispettoso degli interessi della popolazione locale? E, in questo quadro, quale la funzione di Giovanni Maria Angioy, certo la figura di maggior rilievo e prestigio del movimento complessivo? Quella di chi sin dall’inizio aveva chiaro che l’obiettivo era una Sardegna repubblicana e non più feudale e, in funzione del raggiungimento di questo obiettivo, regolava le mosse proprie e delle forze politiche che lo seguivano? O quella, invece, di chi adeguava la propria strategia all’incalzare degli avvenimenti e all’allargarsi della mobilitazione di massa, progressivamente mutandola, sino a esserne travolto anche per mancanza di un disegno strategico iniziale costruito in base a una valutazione attenta delle forze che sarebbe stato possibile mobilitare? Difficile rispondere a questi interrogativi. Occorrerà studiare in modo più approfondito quegli anni terribili e insieme fecondissimi: in cui saranno poste le premesse del riscatto e dell’Autonomia del popolo sardo. Certo è che –per usare la prosa storica di Girolamo Sotgiu (2)- ”i protagonisti di quelle vicende in realtà erano non tessitori di miserabili congiure o espressione di improvvide rivalità campanilistiche o, nella migliore delle ipotesi, ambiziosi riformatori sociali, ma gli interpreti di un disegno globale di rinnovamento politico e sociale della Sardegna, in accordo con lo spirito dei tempi…” E quel periodo della storia della Sardegna, non solo il triennio rivoluzionario ma l’intero decennio (1789-1799) “seppure si chiude con la sconfitta delle forze politiche e sociali che lottavano per una trasformazione profonda della società isolana ha tuttavia rappresentato il punto di riferimento per quanti successivamente hanno speso il loro impegno per liberare l’Isola dalla subalternità e dalla arretratezza”(3) Fra i protagonisti di tale disegno complessivo di riscatto politico, economico e sociale e di autonomia identitaria, emerge con forza e spicco la figura di Giovanni Maria Angioy. 2) La figura di Giovanni Maria Angioy La sua figura –scrive il già citato storico sassarese Federico Francioni-(4) nella storia del suo tempo è stata a lungo oggetto di controversie, a volte di esaltazioni, a volte di accuse, spesso condizionate da un dibattito politico contingente, che prendevano particolarmente di mira sue indecisioni e «doppiezze». Oggi invece è necessario cercare di capire nel profondo le ragioni dei dubbi ed anche delle ambiguità che, ad un primo esame, sembrano le fasi e le caratteristiche piú marcate della biografia angioyna. Ma è indispensabile, prima di tutto, indagare sulle origini delle lotte antifeudali con le quali giunsero a maturazione istanze comuni sia al mondo delle campagne che ai gruppi della nascente borghesia isolana. È essenziale, inoltre, non perdere di vista il quadro in cui vanno collocati gli avvenimenti sardi: il drammatico scenario dominato dal crollo dell’ancien régime, dalle attese quasi messianiche di emancipazione delle masse rurali, dall’azione di élites audaci ed intransigenti e dagli «alberi della libertà». Solo così sarà possibile rimettere in discussione stereotipi – in larga parte ancora vigenti – su una Sardegna tagliata fuori, sempre e comunque, da tutte le grandi correnti rivoluzionarie, politiche, culturali ed intellettuali dell’Europa moderna. 3) Angioy coltivatore ed imprenditore, professore di diritto canonico, giudice della Reale Udienza. La vita dell’Angioy non è solo una traccia, un frammento, nella storia sotterranea delle longues durées e dei processi di trasformazione che hanno attraversato la società sarda. La sua vicenda politica ed umana assume infatti un valore emblematico perché riflette la parabola di un’intera generazione di sardi, vissuta fra le realizzazioni del «riformismo» sabaudo, un decennio di sconvolgimenti rivoluzionari e la spietata restaurazione dei primi anni dell’Ottocento. In quel contesto si inserisce anche l’attività di Angioy imprenditore agrario e manifatturiero oltre che professore di diritto canonico, alto funzionario dello Stato (fra l’altro giudice della Reale Udienza) colto ed efficiente, intellettuale aperto agli stimoli e agli influssi dei “lumi” e delle riforme. Come giudice della Reale Udienza fa parte della Giunta stamentaria costituita di due membri di ciascuno dei bracci parlamentari. Pur rimanendo nell’ombra negli anni delle sommosse cittadine e dei moti antipiemontesi, -anche se il Manno, cercando di metterlo in cattiva luce, insinua che egli tramasse dietro le quinte anche in quelle circostanze e dunque fosse coinvolto nella cacciata dei piemontesi- secondo molti storici sardi –ad iniziare dal Sulis- si affermerebbe come il capo più autorevole del Partito democratico e come l’esponente più importante di un gruppo di intellettuali largamente influenzato dall’illuminismo e dal Giacobinismo: fra i più importanti Gioachino Mundula, Gavino Fadda, Gaspare Sini, il rettore di Semestene Francesco Muroni con il fratello speziale Salvatore, il rettore di Florinas Gavino Sechi Bologna e altri. 4) Angioy e i moti del 1795. I moti del 1795 –scrive ancora Francioni- (4) a differenza di quelli del 1793, che in genere erano stati guidati da gruppi interni ai villaggi, sono preceduti da un’intensa attività di propaganda non solo antifeudale ma anche politica”. Infatti insieme alle ribellioni nelle campagne si darà vita ai cosiddetti “strumenti di unione” ovvero a “patti” fra ville e paesi –per esempio fra Chiesi, Bessude, Brutta e Cheremule il 24 Novembre 1795 e in seguito fra Bonorva, Semestene e Rebeccu nel Sassarese. In essi le persone giuravano di “non riconoscere più alcun feudatario. Lo sbocco di questo ampio movimento –autenticamente rivoluzionario e sociale perchè metteva radicalmente in discussione i capisaldi del sistema vigente nelle campagne- fu l’assedio di Sassario –scrivono gli storici Lorenzo e Vittoria Del Piano-) (5). Con cui si costrinse la città alla resa dopo uno scambio di fucilate con la guarnigione. I capi, il giovane notaio cagliaritano Francesco Cilocco e Gioachino Mundula arrestarono il governatore Santuccio e l’arcivescovo Della Torre mentre i feudatari erano riusciti a fuggire in tempo rifugiandosi in Corsica prima e nel Continente poi. Dentro questo corposo movimento antifeudale, di riscatto econonomico, sociale e persino culturale-giuridico dei contadini e delle campagne si inserisce il ”rivoluzionario” Giovanni Maria Angioy. 5) Angioy “Alternos” Mentre nel capo di sopra divampa l’incendio antifeudale, con le agitazioni che continuano e si diffondono in paesi e ville del Sassarese, gli Stamenti propongono al viceré Vivalda di nominare l’Angioy alternos con poteri civili, militari e giudiziari pari a quelli del viceré. Il canonico Sisternes si sarebbe poi vantato di aver proposto il nome dell’Angioy per allontanarlo da Cagliari e indebolire il suo partito.Certo è che il suo nome venne fatto perché persona saggia e perché solo lui, -grazie al potere e al prestigio che disponeva nonché alla competenza in materia di diritto feudale ma anche perché originario della Sardegna settentrionale, avrebbe potuto ristabilire l’ordine nel Logudoro. L’intellettuale di Bono accettò, ritenendo che con quel ruolo avrebbe rafforzato le proprie posizioni ma anche quelle della sua parte politica incentrate sicuramente nella abolizione del feudalesimo in primis.Il viaggio a Sassari fu un vero e proprio trionfo: seguaci armati ed entusiasti si unirono con lui nel corso del viaggio, vedendolo come il liberatore dall’oppressione feudale. E giustamente. Anche perché riuscì a comporre conflitti e agitazioni, a riconciliare molti personaggi, a liberare detenuti che giacevano –scrive Vittorio Angius “in sotterranee oscure fetentissime carceri”. 6) L’Angioy a Sassari Accolto a Sassari dal popolo festante ed entusiasta –persino i monsignori lo ricevettero nel Duomo al canto del Te Deum di ringraziamento- in breve tempo riordinò l’amministrazione della giustizia e della cosa pubblica, creò un’efficiente polizia urbana e diede dunque più sicurezza alla città, predispose lavori di pubblica utilità creando lavoro per molti disoccupati, si fece mandare da Cagliari il grano che era stato inutilmente richiesto quando più vivo era il contrasto fra le due città: per questa sua opera ottenne una vastissima popolarità. Nel frattempo i vassalli, impazienti nel sospirare la liberazione dalla schiavitù feudale (ovvero “de si bogare sa cadena da-e su tuiu: come diceva il rettore Murroni, amico e sostenitore di Angioy) e di ottenere il riscatto dei feudi, proseguirono nella stipulazione dei patti dell’anno precedente: il 17 Marzo 1796 ben 40 villaggi del capo settentrionale, confederandosi, giuravano solennemente di non riconoscere più né voler dipendere dai baroni. Angioy non poteva non essere d’accordo con loro e li riconobbe: in una lettera spedita il 9 Giugno 1796 al viceré da Oristano, nella sfortunata marcia su Cagliari che tra poco intraprenderà, cercò di giustificare l’azione degli abitanti delle ville e dei paesi riconoscendo la drammaticità dell’oppressione feudale che non era possibile più contenere e gestire e assurdo e controproducente cercare di reprimere. Non faceva però i conti con la controparte: i baroni. Che tutto voleva fuorché l’abolizione dei feudi: ad iniziare dal viceré. Tanto che i suoi nemici organizzarono durante la sua stessa permanenza a Sassari una congiura, scoperta ad Aprile.Si decise perciò di “impressionare gli stamenti con una dimostrazione di forza, che facesse loro comprendere come il moto antifeudale era seguito da tutta la popolazione e che era ormai inarrestabile”(6). Lasciò dunque Sassari e si diresse a Cagliari. 7) L’Angioy e la marcia verso Cagliari, la sua fine e la fine di un sogno…. Il 2 Giugno 1896 l’alternos si dirige verso Cagliari, accompagnato da gran seguito di dragoni, amici e miliziani: nel Logudoro si ripetono le scene di consenso entusiastico dell’anno precedente. A Semestene però ebbe una comunicazione da Bosa circa i preparativi che erano in atto per fronteggiare ogni sua mossa e a San Leonardo, “fatta sequestrare la posta diretta a Sassari, ebbe conferma delle misure che venivano prese contro di lui”(7). Difatti a Macomer popolani armati sobillati da ricchi proprietari cercarono di impedirgli il passaggio, sicchè egli dovette entrare con la forza. Poiché anche Bortigali gli si mostrava ostile, si diresse verso Santu Lussurgiu e l’8 Giugno giunse in vista di Oristano. Nella capitale la notizia che un esercito si avvicinava spaventò il viceré che radunò gli Stamenti. Tutti furono contro l’Angioy: anche quelli che erano stati suoi partigiani come il Pintor, il Cabras, il Sulis. Ahimè ritornati subito sotto le grandi ali del potere in cambio di prebende e uffici. Sardi ancora una volta pocos, locos y male unidos: l’antica maledizione della divisione pesa ancora su di loro. Questa volta per qualche piatto di lenticchie. Così il generoso tentativo dell’Angioy si scontra con gli interessi di pochi: fu rimosso dalla carica di alternos, si posero 1.500 lire di taglia sulla sua testa e da leader prestigioso e carismatico, impegnato nella lotta antifeudale, per i diritti dei popoli e, in prospettiva nella costruzione in uno stato sardo repubblicano, divenne un volgare “ricercato”. Occorre infatti dire e sostenere con chiarezza che l’Angioy aveva in testa–come risulta dal suo Memoriale (8)- non solo la pura e semplice abolizione del feudalesimo ma una nuova prospettiva istituzionale: la trasformazione dell’antico Parlamento in Assemblea Costituente e uno stato sardo indipendente che “doveva comporsi di quattro dipartimenti (Sassari, Oristano, Cagliari e Orani) suddivisi a loro volta in cantoni ricalcanti le micro-regioni storiche dell’Isola” (9). RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI 1)Natale Sanna, Il Cammino dei Sardi, vol. 3° ,Editrice Sardegna 2)Girolamo Sotgiu, presentazione de “Storia dei torbidi” a cura di Luciano Carta, Edisar, Cagliari 3)Ibidem 4)Federico Francioni, Giommaria Angioy nella storia del suo tempo, Editore Della Torre, Cagliari 1985 5)Lorenzo e Vittoria Del Piano, Giovanni Maria Angioy e il periodo rivoluzionario 1793-1812, Edizioni C. R, Quartu, 200 6)Natale Sanna op. cit. 7)Lorenzo e Vittoria Del Piano op. cit 8)II testo integrale in francese del memoriale angioiano, con il titolo Mémoire sur la Sardaigne, si trova in La Sardegna di Carlo Felice e il problema della terra, a cura di C. Sole, Cagliari, 1967, sp. pp. 181-182. Di esso aveva già fornito un sunto J. F. Mimaut, Hrstoire de Sardaigne ou la Sardaigne ancienne et moderne considérée dans ses loìs, sa topographìe, ses productìons et sa moeurs, t. II, Paris, 1825, pp. 248-253. Tradotto in italiano si può leggere in A. Boi, Giommaria Angioy alla luce di nuovi documenti, Sassari, 1925 (v. sp. p. 80). 9)A. Mattone, Le radici dell’autonomia. Civiltà locale ed istituzioni giuridiche dal Medioevo allo Statuto speciale, in La Sardegna cit., 2, pp. 19-20; v, anche La Sardegna di Carlo Felice cit., pp. 194-196; C. Ghisalberti, Le costituzioni «giacobine» 1796-1799, Milano, 1973. Come gli storici valutano l’Angioy Dionigi Scano nella prefazione a <“Scritti inediti”, Gallizzi editori>, nel secondo capitolo dedicato a “Don Maria Angioy e i suoi tempi” oltre che esprimere lui stesso dei giudizi “Dei personaggi che parteciparono alle movimentate vicende della Sardegna nell’ultimo decennio del XVIII secolo, il più discusso è stato ed è tuttora il giudice della Reale Udienza Don Giommaria Angioi o meglio Angioy secondo la grafia originaria”, riporta tutta una serie di valutazioni di altri storici, sardi, italiani e stranieri. Eccoli: “Il primo a scriverne fu Domenico Alberto Azuni con il quale 1’Angioy fu legato d’affettuosa amicizia che, contratta sin da quando ambedue frequentarono le scuole del Collegio Canopoleno di Sassari, si rafforzò ancor più in età matura a Parigi, dove si trovarono ai primi dell’Ottocento, 1’Angioy esule e accorato e l’Azuni elevato dal Consolato ad alti uffici. L’Azuni scrisse dell’opera del suo amico affettuosamente più che imparzialmente presentandolo come il più ardente difensore della nazione sarda e leale servitore del. regio servizio asserendo che nella carica di alternos, affidatagli dal vicerè si comportò saggiamente, ristabilendo nel Capo Settentrionale l’ordine e la sicurezza (1). Il Sisternes in alcune sue note scritte nel secondo decennio dell’Ottocento e destinate alla regina Maria Teresa, accusa 1’Angioy di essersi rivolto alla repubblica francese per l’insurrezione del 1795 e di aver voluto rovesciare il governo monarchico per instaurare un regime repubblicano (2). Il Mimaut esprime sull’Angioy lo stesso giudizio dello Azuni. ( 3). Il poeta Stanislao Caboni, condensa nel breve ambito di un sonetto il suo pensiero sull’Angioy. Eccolo integrale, mentre Dionigi Scano, nell’opera citata ne riporta solo alcuni versi: GIOVANNI MARIA ANGIOI E’ questa l’urna che il proscritto serra? Vo lo spirto evocar che più non mente; Dímmi : al trono movesti insana guerra, O agli oppressor d’un popolo fremente? Ti spinse alto sentire anche d’uom ch’erra Nel fatal varco o cieca ira impotente ? Fosti un vile o un Eroe ? La patria terra T’era, o un poter compro col sangue, in mente? Cupe mormoran fossa; io vil non fui, Non traditor, tradito; il cor mi strinse Della patria, pietà, dei mali sui; Ma Eroe non pur, ché fermo in mio pensiero Non prò di man, di cuore, inscio me spinse Non oltre il Rubicon spinsi il destriero.(4) Carlo Botta lo chiama il Paoli sardo, definendolo: uomo tanto più vicino alla modesta virtù degli antichi, quanto più lontano dalla virtù vantatrice dei moderni (5j). Il Valery lo dice vittima di patriottismo, forse unica nel nostro secolo (6). Secondo lo Spano l’Angioy, mandato per sedare i tumulti dei vassalli, quando si persuase degli abusi dei feudatari, innalzò il vessillo dell’emancipazione feudale (7). L’Angius lo definisce un ambizioso che favorì l’anarchia e che potente per le sue aderenze e per la popolarità, opprimeva il Magistrato e perseguitava gli amici dell’ordine e i devoti al re (8). Il Manno è più severo: pur riconoscendo che ebbe virtù di ingegno, che fu buon padre e uomo generoso, lo definisce politiicante fazioso, al quale si devono gli eccessi della insurrezione del 1795, la morte del Pitzolo e del generale Della Planargia (9). Il Tola, che nel 1837 ne scrisse una breve ed incompleta biografia con intonazione più che benevola, sei anni dopo s’associa al giudizio del Manno in uno studio apparso nella rivista « La Meteora » (10) Il Sulis in uno studio assai coscienzioso sui moti politici della Sardegna dal 1795 al 1825, rimasto incompiuto, s’indugia ad esaltare la figura dell’Angioy specialmente per la salda sua costanza nel professare i principi politici del popolare riscatto ai quali sacrò le attitudini della mente, le affezioni del cuore, le azioni della vita, le supreme preghiere in morte (11) L’Esperson nel 1878 cerca abilmente di giustificare le contraddizioni ed incongruenze che si riscontrano nella condotta del1’Angioy attribuendogli il disegno di un popolare governo, coll’aiuto o non della Francia repubblicana, il che positivamente non consta, e punto non avrebbe gravato la sua posizione politica; salvo, occorrendo di venir in seguito, come dappertutto si operava, a transazione, accettando onesti e civili ordini monarchico-costituzionali (12). Per il Costa l’Angioy fu un incompreso, non scevro di vizi e di virtù, e l’insurrezione che da lui prese il nome, fu il contraccolpo della rivoluzione dell’89, non un tentativo di codardi ambiziosi e di piccole vendette come scrisse il Manno (13). Seguendo il Sulis, Raffa Garzia presenta un Angioy, ardente repubblicano e fautore delle massime francesi dell’89 (14). Il Pola, che nel suo esauriente studio sui moti delle campagne di Sardegna dal 1793 al 1802 si dimostra critico imparziale dell’operato dell’Angioy, ritiene che alla fine del 1796 le idee politiche dell’agitatore sardo non fossero ancora ben conosciute non solo, ma che non sussistessero in forma antidinastica, aggiungendo che i moti sardi del 1795 e 1796 ebbero carattere prevalentemente economico-antifeudale e che l’intenzione attribuita all’Angioy di condurre i villici armati a Cagliari per rovesciarvi il governo monarchico e levar la bandiera della repubblica non sia mai esistita (15) Il Boi, che ebbe il merito di servirsi di documenti inediti tratti dagli archivi di Parigi per il suo studio sull’Angioy, scrive che questi alla soggezione ad un governo pavido e reazionario preferiva per la sua patria un governo, sia pure straniero, ma che agitava

sbarra-laterale-ufficio-studi-g_m_-Angioy1.gifnel mondo la fiamma purissima della libertà (16) Si occuparono dell’Angioy, non di proposito ma incidentalmente, il Bartolucci (17), il Segre (18), il Martini (19), l’Agostini (20), il Bianchi (21, il Deledda (22), il La Vaccara (23), il Mossa (24), il Pittalis (25), il Loddo-Canepa (26 ed altri. Le avventurose vicende dell’Angioy e soprattutto i suoi mutevoli atteggiamenti suscitarono l’interesse dei nostri storici a cominciare dal Manno. Malgrado ciò, manca una sua piena biografia, giacchè tale non può esser considerata nè quella del Tola che astrae dalle più importanti vicende in cui fu implicato l’agitatore sardo nè quella del Boi che considera in modo succinto la sua attività dal 1793 in poi. In questa lacuna sta la ragione di questo studio che non vuol essere nè una condanna nè un’esaltazione e tanto meno una riabilitazione, giacchè quando ci si impanca a giudici, facilmente si è portati ad accusare o a difendere secondo le proprie tendenze e simpatie, specialmente se si tratta di persone che agirono in periodi rivoluzionari. Narrando le vicende dell’Angioy ho voluto tener conto di tutti gli elementi che su di esse hanno potuto influire, non esclusi quelli che ad un superficiale esame appaiono superflui, e a tale scopo non solo ho attinto agli studi già fatti, ma ho proceduto a minuziose ricerche in fondi ancora inesplorati di archivi lo cali valendomi anche di numerosi ed inediti documenti tratti da archivi francesi. Ritengo che da questa mia narrazione, del tutto imparziale, la figura dell’Angioy risulti ben definita e lumeggiata. Se il suo operato, equivoco in certe circostanze, si presta a critiche e a suscitare delusioni, non bisogna dimenticare che il ribelle alternos non può e non deve esser giudicato alla stregua dei nostri costumi e dei nostri concetti in fatto di morale. Gli uomini di rivoluzione – e tale era 1’Angioy – non possono essere misurati col metro comune. Dire, per esempio, che egli fu una canaglia e il Pitzolo un virtuoso o viceversa significa non intendere i compiti della storia, riducendola ad una scolastica distribuzione di premi. Certo la figura dell’Angioy, strana ed enigmatica, esaltata e vilipesa a seconda del prisma attraverso il quale la si guardò, ha suscitato e suscita tuttora l’interessamento più intenso e più vivo”. Per

Studi Angioy

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continua quarta parte

propria forza anche politica, dimostravano sempre maggiore irrequietezza e il ràncore da lungo tempo accumulato verso i Piemontesi ancor piú che contro il governo era ormai all’estremo limite allorché si diffuse la voce che tutto doveva rimanere immutato e che i Piemontesi avrebbero continuato a spadroneggiare. L’avversione contro i Piemontesi non era ormai una questione d’impieghi, come già durante l’ultimo periodo della signoria spagnola e come hanno fatto credere i dispacci del viceré Balbiano e la richiesta degli stamenti. I Sardi volevano liberarsene, non solo perché essi simboleggiavano un dominio sempre piú anacronistico, avverso all’Autonomia e contrario allo stesso progresso dell’isola; ma pure e forse soprattutto, per esserne ormai insopportabile l’albagia e la sprezzante invadenza. Lo stesso Manno non concesse attenuanti all’esasperante ostentazione dei Piemontesi, « i quali erano montati in tale tracotanza, che il loro contegno, incominciato da qualche anno a sussiego, era finalmente degenerato in beffa » – « Quasi giunto perfino a dar cadenza e ritmo a quelle villanie (motti che deridevano i Sardi) in alcuni versi da colascione che cantavansi obbrobriosamente nel palazzo stesso del viceré ». Ma nulla meglio di alcune strofe del1’Innu de su Patriottu Sardu scritto in quegli anni ci fanno comprendere lo stato d’animo dei Sardi alla vigilia dei moti cagliaritani. Fi’ pro sos Piemontesos Sa Sardigna una cucagna; Che in sa Indias s’Ispagna Issos s’incontrant inoghe; Nos alzaia’ sa ‘oghe Finzas unu camareri; O plebeu o cavaglieri, Si deviat umiliare. Issos dae Gusta terra Ch’ana ‘ogadu miliones. Benian senza calzones E si nd’andaian gallonados. Mai ch’ esserent istados Chi c’ ana postu su fogu! Malaitu cuddu logu Chi creia’ tale Zenia! Issos inoghe incontràna Vantaggiosos imeneos, Pro issos fin sos impleos, Pro issos fin sos onores, Sa dignidades mazores De cheia, toga e ispada: E a su Sardu restàda Una fune a s’impiccare. Sos disculos nos mandàna Pro castigu e curressione, Cun paga e cun pensione, Cun impleu e cun patente. In Moscovia tale zente Si mandat a Siberia, Pro chi morza’ de miseria, Però non pro guvernare. La scintilla dell’insurrezione di Cagliari giunse da Torino e fu una lettera del Pitzolo, che, deluso ed esasperato della subdola politica del sovrano e del suo governo, scriveva agli amici che non v’era ormai piú nulla da sperare dal dispotismo piemontese ed era necessario un gesto coraggioso, dimostrazione di forza e di volontà. È opinione del Manno che non sarebbe stato il messaggio del Pitzolo a suscitare la sommossa cagliaritana, in quanto « il tumulto era stato premeditato in una congiurazione fatta di proposito, con lo scopo determinato di allontanare dall’isola tutti i pubblici ufficiali stranieri ». Non in ogni caso tuttavia, poiché probabilmente non sarebbe avvenuto se le decisioni di Torino fossero state favorevoli ai desideri espressi nel memoriale; non necessario, sarebbe stato per giunta controproducente. Predisposta per il 4 maggio, onde profittare del trambusto popolare per il ritorno del simulacro di S. Efisio da Pula e poter occupare le porte e disarmare le guardie, la sommossa dovette essere tempestivamente anticipata alla notte fra il 28 e il 29 poiché il viceré, avutone sentore, aveva disposto misure precauzionali. Informato anche dei nuovi disegni, senza neppure consultare come avrebbe dovuto il Reggente la Reale Cancelleria e la Reale Udienza, il re volle agire in tutta segretezza e tempestivamente, ponendo in stato d’allarme tutte le truppe dislocate nella città e, perché i congiurati non fossero scoraggiati, facendo subito arrestare quelli che riteneva fossero i capi, gli avvocati Cabras e Pintor. Città capitale e sede di governo fin dall’occupazione aragonese Cagliari aveva sempre beneficiato di questa prerogativa e gli abitanti, catalani e aragonesi, via via sardizzati e solo in piccola parte affluiti in ultimo dagli altri centri, non avevano mai in precedenza dato segni di malcontento; anche perché oltre ai privilegi di cui godevano, per l’accentramento di tutti gli uffici, il notevole traffico del porto e il confluirvi di scambi commerciali fra l’Isola e l’oltremare, godevano di attività e benessere di gran lunga superiori a qualunque altro centro del regno.I settantenni di dominio sabaudo non avevano modificato queste particolari condizioni, né in senso politico sociale né in senso economico; e l’improvvisa sommossa popolare non può essere spiegata che con lo stato d’animo che si era creato in Cagliari e nei villaggi vicini conseguente alla vittoriosa difesa contro l’armata di Truguet, che aveva suscitato ancora impercettibili nei fermenti che germogliavano, i primi sintomi di effettiva autonomia. Ormai non era più nostalgia della Spagna, né ancora sardismo; fu all’inizio solo antipiemontesismo, accentuatosi progressivamente fino ai primi mesi del 1784 e culminato alla notizia che tutte le richieste della delegazione inviata a Torino erano state respinte, compresa quella che più stava a cuore dei Sardi, di avere voce e uffici nel governo locale dell’Isola. Fu anzi il disconoscimento di questa aspirazione sempre viva a far traboccare il risentimento, non già lo scioglimento degli stamenti o il diniego a una generica riconferma di privilegi che nuoceva quasi esclusivamente alla classe feudale. Esautorati anche dalle modeste funzioni che il beneplacito sovrano aveva consentito talvolta di esercitare, dai tre bracci del Parlamento e dalle classi e interessi che vi erano rappresentati, l’azione stimolatrice verso il governo locale e di cauta resistenza verso quello centrale si trasferiva ora, sviluppandosi in un moto di rinnovamento progressista nella borghesia, soprattutto delle professioni liberali. Non più a difendere o a sollecitare privilegi d’antico regime, ch’erano propri seppure reclamati in nome della Sardegna, bensì a rimuovere gli impedimenti politici e sociali al progredire dell’Isola, che provenivano principalmente dal feudalesimo che sopravviveva con tutti i privilegi oppressivi delle popolazioni e sullo stato di rigida dipendenza e di inferiorità in cui il sovrano e il suo governo tenevano la Sardegna, comprimendone qualunque impulso, anche il più legittimo. Animatori di questo fermento furono gli elementi più colti e progrediti, principalmente gli avvocati e i magistrati, ma anche del ceto mercantile. Tra i più noti nelle vicende di quegli anni abbiamo visto il Pitzolo, gli avvocati Cabras e Pintor, in seguito l’avvocato Mundula, il notaio Ciocco, il parroco Murroni ed altri sui quali doveva sovrastare il giudice della Reale Udienza G. M. Angioy. Questi uomini che in quegli anni ebbero il destino dell’Isola, avrebbero potuto trionfare d’un governo impopolare ed imbelle, obbligandola a concedere all’Isola una radicale riforma ai suoi antiquati ordinamenti e un’effettiva autonomia vitale e operante, se e come sempre nei momenti culminanti non li avessero divisi e opposti gli uni agli altri rivalità, gelosie e ambizioni. La Cagliari della fine Settecento –come del resto ancora del secolo scorso- non era molto estesa e la voce dell’arresto deel Cabras e del Pintor potè diffondersi in un baleno nei sobborghi della città; e gli abitanti, mentre le campane suonavano a stormo, come per un segnale convenuto, s’affollarono rapidamente presso le porte che suddividevano i quartieri e, trovandole sbarrate, v’addossarono cataste di legno appiccandovi il fuoco. Fu un susseguirsi rapido e deciso, che colse le guardie di sorpresa poterono essere disarmate senza neppure avere offerto resistenza; solo la compagnia della darsena, costituita da Sardi, fece uso delle armi ma le depose allorché venne ucciso il comandante. Accorsa nella maggior parte disarmata, la folla dei rivoltosi si era via via impadronita delle armi tolte alle guardie e di alcune batterie, tosto puntando i cannoni verso la città alta, il Castello, per abbatterne le porte: vi fu un attimo di sosta: cedendo alle intimazioni della folla tumultuante, il viceré aveva consentito che i due prigionieri fossero condotti sugli spalti d’un bastione affinché potesse vedersi ch’erano vivi; sì che cadesse ogni ragione di tumultuare. Il viceré si era rassegnato a questo spettacolo per l’intervento del reggente la real cancelleria del generale delle armi e dell’arcivescovo Melano, oltre che dei marchesi di Laconi e di Neoneli, i quali avevano sperato che ciò sarebbe valso a tranquillizzare la folla, inducendola in tal modo a desistere dall’agitazione. Vano tentativo, poiché se i rivoltosi chiedevano a gran voce la libertà dei prigionieri, neanche la loro scarcerazione li avrebbe placati; già appariva chiaro infatti che i propositi andavano ben oltre: richiesta senza ottenerla la liberazione del Cabras e del Pintor, con accresciuto impeto e incuranti di truppe e di cannoni, i più arditi riuscirono a incendiare le porte dell’Aquila e dell’Elefante, e disarmati i soldati a penetrare nella città-castello seguiti dalla moltitudine impaziente. Anche nelle tre strade che conducevano alla reggia erano state schierate truppe regolari; ma esse scapparono allorché s’avvidero che gli insorti erano forniti di artiglieria e si rifugiarono nella reggia, di dove spararono sulla folla, deponendo le armi quando fra gli alti ufficiali era caduto anche il comandante della guardia svizzera. I rivoltosi non trovarono nella reggia il viceré; poco prima si era rifugiato nell’attiguo palazzo dell’arcivescovado. Tutto si era svolto nella notte fra il 28 e 29 Aprile con una sorprendente rapidità; e altrettanto breve doveva essere la seconda fase: avendo occupato i punti strategici piazzandovi i cannoni e costituito i primi battaglioni di milizie affidandone di nome il comando al generale delle armi marchese di Neoneli, di fatto al capopopolo Vincenzo Sulis, cominciò il rastrellamento dei Piemontesi. Dopo tanti anni di prepotenze e di umiliazioni che avevano subito covando nell’animo il proposito di vendicarsi, ora che era venuto il momento di attuarlo e l’impeto e il furore che avevano infranto ogni ostacolo ancora eccitavano i rivoltosi, doveva essere ineluttabile un epilogo di violenze e di sangue: ma non fu torto un capello ad alcuno; a nessuno venne sottratta alcuna cosa. Come d’incanto l’irruenza svanì nel tripudio del successo e la ricerca e la cattura dei piemontesi avvennero senza incidenti, quasi ostentando riguardo; l’unico eccesso fu commesso nel palazzo viceregio ove molti popolani, dopo esservi penetrati, si lasciarono tentare dalla ben fornita dispensa del viceré facendovi copioso spuntino. Intanto mentre i piemontesi venivano via via accompagnati nei chiostri, la Reale Udienza subentrava nei poteri e il viceré venne fatto rientrare nel palazzo ove furono accompagnate anche le maggiori autorità piemontesi perché fossero meglio protette né a disagio, attendendovi il momento dell’imbarco che doveva concludere la più bella pagina della storia cagliaritana. Dopo l’infuriare della sommossa nella notte fra il 28 e 29 Aprile, il giorno successivo cominciarono a svolgersi i preparativi per la partenza con le tre navi ormeggiate nella darsena; e la mattina del 30 già discendevano incolonnati dal castello verso il porto i 514 piemontesi di Cagliari. Apriva il corteo il viceré, accompagnato dalle prime voci degli stamenti e da alcuni nobili e seguiti da funzionari e ufficiali piemontesi; lo chiudeva la lunga serie di carri e carrette che trasportavano i bagagli, così voluminosi e in gran numero che i popolani esclamavano: ”ecco le ricchezze sarde trasformate in ricchezza straniera; non giungeano qui con tanto peso di bagaglio o con questa dovizia di guarnimenti; assottigliati ci veniano e scarsi quelli che oggi si dipartono con fortuna così voluminosa” (Manno, Storia moderna). E la tentazione di travolgere e distruggere tutto venne frenata a stento nei popolani più irritati. Mentre si svolgeva l’imbarco e il viceré veniva accompagnato alla sua nave con dignitosa cortesia, raggiunse il culmine l’esultanza della popolazione che tra canti e applausi danzava il ballo sardo. Pochi giorni dopo anche gli altri centri dell’Isola, ove risiedevano piemontesi seguirono l’esempio di Cagliari. Unica eccezione era stato l’arcivescovo Melano che da tempo si era cattivato la stima dei Cagliaritani. da Girolamo Sotgiu (3) In Storia della Sardegna sabauda, editore Laterza, pagg. 159-162 “E fu così che il 28 Aprile 1794, come narrano le cronache “si videro i soldati del reggimento svizzero Smith vestiti in parata”. La cosa passò inosservata perché si pensò che si trattasse di esercitazioni militari. Ma “sull’ora del mezzogiorno furono rinforzati i corpi di guardia a tutte le porte, tanto del Castello, come della Marina », e questo fatto cominciò a suscitare qualche preoccupazione fino a quando « sull’un’ora all’incirca, quando la maggior parte del popolo è ritirata a casa e a pranzo, fu spedito un numeroso picchetto di soldati comandato da un Capitano Tenente e tamburo battente con due Aiutanti ed il Maggiore della piazza » ad arrestare Vincenzo Cabras, « Avvocato dei più accreditati e ben imparentato nel sobborgo di Stampace », nonché il genero avv. Bernardo Pintor e il fratello Efisio Luigi Pintor, che poté sfuggire alla cattura perché assente (4) I due arrestati furono condotti alla torre di S. Pancrazio e furono subito chiuse tutte le porte, mentre già il popolo si radunava tumultuando. Il Manno dice che il Cabras era « un vecchio venerando per dottrina e probità », che nel lungo esercizio della professione aveva « tratto a sé amistà e clientele in gran numero », ed Efisio Pintor, che era sfuggito all’arresto, « benché in giovane età [era] uno dei dottori più illustri del foro cagliaritano, nel quale brillava per pronto e sagace giudizio e per vigoroso ragionare » (5) L’arresto di uomini noti anche per la partecipazione attiva alla vita pubblica apparve subito quello che probabilmente doveva essere: l’inizio, cioè, di una rappresaglia più massiccia. Da qui l’accorrere tumultuoso di centinaia, migliaia di persone, l’assalto alle porte, che furono bruciate o divelte, l’irruzione nei corpi di guardia, il disarmo dei soldati, la conquista del bastione e delle batterie dei cannoni. Tutto questo nel rione di Stampace, dove si erano verificati gli arresti. All’insorgere di Stampace seguì in rapida successione la sollevazione dei borghi di Villanova e della Marina. La folla, superata la resistenza dei soldati, aprì le porte che tenevano divisi i sobborghi l’uno dall’altro che la massa del popolo unita poté rivolgersi alle porte del Castello. Negli scontri rimasero uccisi alcuni popolani e alcuni soldati. L’assalto al Castello, dove il viceré voleva organizzare una più efficace resistenza, avvenne subito dopo. Bruciata la porta, lunghe scale appoggiate alle muraglie, «facendo scala delle loro spalle l’uno sopra l’altro»(6), i dimostranti riuscirono a entrare nei locali dove erano ammassate le truppe a difesa del viceré e del suo quartier generale. In realtà, lo scontro fu di breve durata. Sempre il padre Napoli racconta che subito «si vidde la poca voglia avean gli svizzeri di offendere i paesani, poiché essendo iví di guardia in buon numero neppure tiravano una fucilata »(7) L’unica resistenza, anche se non di lunga durata, fu opposta dai dragoni piemontesi. In poco tempo fu così conquistato il palazzo viceregio e tutta la città si trovò nelle mani degli insorti. Gli stamenti, nella narrazione che fecero di quanto accaduto in un Manifesto giustificativo (8), inviato al sovrano, e che, col contrapporre le malefatte dei funzionari alla benevolenza e saggezza del re, esprime la volontà di ristabilire rapidamente un accordo con il potere regio, così narrarono gli avvenimenti successivi: “ resosi il Popolo padrone di tutto il Castello, e in particolare del Palazzo viceregio, calmò in un momento tutta la sua furia e fu tenero spettacolo il vedere allora confusamente abbracciati i soldati coi cittadini. Al Viceré che temeva tutto dal giusto sdegno di un Popolo irritato si presentarono alcuni cittadini e riconoscendo in lui l’eccelso carattere di rappresentante di Sua Maestà, non solo lo rassicurarono intorno ai suoi timori, ma si astennero financo da ogni tratto ingiurioso ed altero, ed esprimendo la volontà dello stesso Popolo pretesero unicamente per sua soddisfazione lo scommiato dall’isola di tutti i piemontesi impiegati e non impiegati non eccettuato esso Viceré, a riserva di Monsignore Arcivescovo di Cagliari e degli altri prelati di quella nazione”.(9) Poi, a testimonianza della continuità di governo, si riunì secondo gli ordinamenti del regno il magistrato della Reale Udienza, con la partecipazione dei soli membri sardi, che decise le modalità da seguire per lo scommiato dei piemontesi. Così, il 7 maggio 1794, 514 tra piemontesi savoiardi e nizzardi furono costretti ad abbandonare l’isola, e, «divulgata per tutto il Regno l’espulsione da Cagliari dei Piemontesi, fu universale l’approvazione »(10); ad Alghero fu fatta la stessa cosa e, dopo qualche resistenza, anche Sassari seguì l’esempio della capitale. Né mancò, nel giorno drammatico dello scommiato da Cagliari, anche il grande gesto da tramandare alla storia: «La piazza che dalla porta di Villanova mette nel Castello era ingombra di popolani della classe più umile. Erano carrettaj, facchini, beccai, ortolani ed altri di simil fatta, gente poco ausata a squisitezza di tratti», quando la piazza fu attraversata dai carri che « scendevano dal Castello nel quale aveano avuto stanza i maggiori ministri », trasportando « al porto le loro masserizie con quelle del viceré ». All’apparire di tanta « abbondanza di carriaggi », si levò un solo grido: Ecco le ricchezze sarde trasformate in ricchezza straniera: non giungeano qui con tanto peso di bagagli o con questa dovizia di guarnimenti: assottigliati ci veniano e scarsi quelli che oggi si dipartono con fortuna così voluminosa. Buoni noi e peggio che buoni, se lasciamo che abbiano il bando con questi stranieri anche le robe che erano nostre. E il passare dalle parole ai fatti sarebbe stato inevitabile, se un beccaio, Francesco Leccis, sentita nell’animo l’indegnità del tratto, sale sopra una panca, e brandendo in mano il coltellaccio del suo mestiere quale scettro d’araldo, fermatevi, grida a quei furiosi: quale viltà per voi, quale onta a tutti noi! Non si dirà più che la Sardegna ha bandito gli stranieri per insofferenza di dominio, si dirà che si è sollevata per ingordigia di preda. La Nazione volea cacciarli e voi li spogliate? ed esortati i carrettieri a muoversi, « la folla si bipartiva, e le voci erano chete, e l’onore di quella critica giornata era salvata da un beccaio »(11) . Meno aulicamente del Manno, il padre Napoli racconta la stessa cosa: Lasciateli andare – sembra che il Leccis abbia detto – che i sardi benché poveri non han bisogno della M… dei Piemontesi, parole che colpirono in modo lo spirito di quelle plebaglie, che subito risposero nel loro linguaggio: aicci narras tui? chi si fassada, cioè: così dici tu? che si faccia.(12) L’episodio, qualunque sia lo stile col quale è narrato, sembra confermare con la sua immaginosità, che, a un fatto di una gravità estrema, coloro che ne erano stati protagonisti volevano dare un significato il meno possibile drammatico. Riferimenti Bibliografici 1) Carlino Sole, La Sardegna sabauda nel ‘700, Chiarella editoree, Sassari 2) Raimondo Carta-Raspi, Storia della Sardegna, Mursia editore Milano 3) Girolamo Sotgiu, Storia della Sardegna Sabauda, editori Laterza,Bari 4) Tommaso Napoli, Relazione ragionata (in L’insurrezione di Cagliari del 1794 di Girolamo Sotgiu, op. cit.) 5) G. Manno, Storia moderna della Sardegna 6) T. Napoli, op. cit. 7) Ibidem 8) Il Manifesto giustificativo, op. cit. 9) Ibidem 10) T. Napoli, op. cit. 11) G. Manno, op. cit. 12) T. Napoli, op. cit. da Natale Sanna (1) in Il Cammino dei Sardi vol.3°, pagg.395-98 “Appena gli ambasciatori giunsero a Torino consegnarono le cinque richieste al ministro Graneri, poiché il re si trovava in quel momento a Tenda, fra le truppe. Chiesero però di presentare personalmente al sovrano un memoriale in cui esse venivano motivate e minutamente spiegate. Mentre una commissione nominata dal Graneri studiava le cinque richieste ed il re, tornato da Tenda, sul finire del 1793, esaminava il memoriale, dopo aver ricevuto gli ambasciatori, arrivò a Cagliari un biglietto reale che eccitò gravemente gli animi: si ordinava lo scioglimento delle assemblee stamentarie, come fomite di disordini. Era ormai chiaro che le speranze dei Sardi erano

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destinate a naufragare miseramente. Poco dopo giunse anche la risposta di Vittorio Amedeo III: molte e vaghe promesse, ma sostanziale rifiuto. E, di fronte a richieste che implicavano un’autonomia talmente larga da rasentare l’indipendenza, come avrebbe potuto rispondere diversamente un governo assoluto qual era quello dei Savoia, così geloso delle sue prerogative e così sospettoso di ogni novità? La notizia esasperò i Sardi; ciò che non si era potuto ottenere con le vie legali si volle ottenere con la forza. Si diceva, d’altronde, che lo stesso Pitzolo avesse scritto da Torino incitando a cacciare dalla Sardegna i Piemontesi, le cui mene avevano provocato la decisione reale. Il viceré però, informato che si stava tramando una congiura, il 28 aprile 1794 ordinò l’arresto dei capi, cioè degli avvocati Vincenzo Cabras di Tonara ed Efisio Pintor suo genero. Essendo quest’ultimo riuscito a scappare, al suo posto fu arrestato l’avvocato Bernardo Pintor, che si trovava a pranzo dal Cabras. La reazione fu immediata.(2) Il popolo si levò infuriato in armi e, probabilmente secondo un piano già prima studiato, assalì il Castello, disarmò le guardie, invase il palazzo del viceré, che a mala pena riuscì a rifugiarsi nell’episcopio, e liberò gli illustri prigionieri. Assunto quindi il governo dalla Reale Udienza, composta da Sardi, e creatasi una milizia popolare agli ordini di Vincenzo Sulis, si arrestarono i Piemontesi e si tennero in buona custodia in alcuni conventi. Così il 30 aprile 1794, fra il tripudio generale, si cominciarono ad imbarcare, per rispedirli in Piemonte, tutti i Piemontesi abitanti in Cagliari, in numero di 514, compresi impiegati, militari e viceré, eccettuato il solo arcivescovo Melano e le donne.(3) Nei giorni successivi lo stesso si fece in tutta la Sardegna. Dopo tre secoli e mezzo finalmente il popolo sardo era diventato capace di un atto di coraggio e, ciò che in simile frangente è particolarmente degno di nota, senza abbandonarsi a bestiali manifestazioni di odio, a saccheggi od a vendette, senza infierire contro i prigionieri. Riferimenti Bibliografici 1) Natale Sanna, Il Cammino dei sardi, vol.3°, editrice Sardegna 2) G. Manno, Storia moderna della Sardegna,Reprint Sardegna nuova, Cagliari 1972 2) Ibidem 2- significato storico e