Lezioni di lingua e letteratura Sarda

 

 

Irene Carta  dell’Università della Terza Età di Quartu Sant’Elena su

       

Notiziario dei soci dell’Universita della Terza Eta di Quartu Sant’Elena Maggio 2015

 

Scrive

      Lezioni di lingua e letteratura Sarda

Il prof. Francesco Casula non ha bisogno di presentazioni. La sua conoscenza della lingua e della letteratura Sarda sono una fonte di sapere, soprattutto per persone come me che sono state “private” del piacere di parlare il Sardo, in un momento storico nel quale era considerato disdicevole per le ragazze di buona famiglia, esprimersi, appunto, in sardo. La consapevolezza dei danni che cio ha determinato, l’avevo già avvertita da tempo, non fosse altro che pur sforzandomi, non riuscivo a leggere e, quindi, a capire i testi scritti in lingua sarda. E ciò mi precludeva la conoscenza di buona parte della stessa Storia della Sardegna.

Poi, pero, mi sono fidanzata, e poi sposata, con un ragazzo di Meana Sardo. Nella sua famiglia si parlava il sardo e, cosi, ho imparato ad ascoltarlo e a capirlo. Tuttavia, la

prima persona che mi ha fatto apprezzare le composizioni in lingua sarda, fu mio  suocero. Lui, amante delle “MODE”, ne aveva una raccolta e la domenica, dopo pranzo, era solito accendere il giradischi e farmi sentire le “cantate” di Zizi, Pazzola e altri. Ricordo alcuni  versi di una cantata ispirata ad una rondine e che diceva cosi: “rundinella, d’ogni annu a primueranu in cussos nidos chi tant’ospitadu intonas una arcanica cantone…”, oppure quella dedicata alla mamma che diceva: (sa mamma) finzas cecca e centenaria est sempere a su fizzu necessaria …

Erano poesie bellissime e da allora ho incominciato ad apprezzare la mia lingua. Ovviamente sono stata felicissima di sapere che nell’Universita della Terza Eta di Quartu, il Prof. Casula teneva le sue lezioni. Mi sono resa conto di quanto fosse sentito il desiderio, ma direi il bisogno, di conoscere la lingua e la letteratura Sarda, e non solo da me, quando ho visto il numero delle persone che frequentano il corso e che  vorrebbero stare tutti in prima fila.

La passione che il Professore manifesta nell’esposizione degli argomenti fa in modo  che, pur in un’aula affollatissima, ci sia sempre grande attenzione e partecipazione.

Grazie, quindi al Prof. Casula per la sua preziosa opera di diffusione della cultura sarda

e grazie anche all’Università di Quartu che si avvale di docenti di cosi alto livello.

Irene Carta

La guerra italiota e le migliaia di Sardi morti.

 La guerra italiota e le migliaia di Sardi morti.

Cento anni fa l’Italia entrava in guerra. Una “strage inutile”, “una spaventosa carneficina” la definirà il papa Benedetto XV. Un valente sardo come Emilio Lussu – che proprio in quella guerra acquisterà prestigio e fama – parteciperà alla Guerra con entusiasmo, da interventista convinto e “chiassoso”, giustificandola “moralmente e politicamente”.

Al fronte però sperimenterà sulla propria pelle l’assurdità e l’insensatezza della guerra: con la protervia, ottusità e stupidità dei generali che mandano al macello sicuro i soldati; con i miliardi di pidocchi, la polvere e il fumo, i tascapani sventrati, i fucili spezzati, i reticolati rotti, i sacrifici inutili. Ma soprattutto con l’olocausto degli uomini sfracellati e le foreste zeppe di crani nei cimiteri militari; con i 13.602 sardi morti su 100 mila pastori, contadini, braccianti chiamati alle armi: i figli dei borghesi, proprio quelli che la guerra la propagandavano come “gesto esemplare” alla D’Annunzio o, cinicamente, come “igiene del mondo” alla futurista, alla guerra non ci sono andati. La retorica patriottarda e nazionalista sulla guerra come avventura e atto eroico, va a pezzi. “Abbasso la guerra”, “Basta con le menzogne” gridavano, ammutinandosi con Lussu, migliaia di soldati della Brigata Sassari il 17 Gennaio 1916 nelle retrovie carsiche, tanto da far scrivere allo stesso Lussu – in «Un anno sull’altopiano» – “Il piacere che io sentii in quel momento, lo ricordo come uno dei grandi piaceri della mia vita”.

Anche perché, in cambio dei 13.602 sardi morti in guerra, (1386 morti ogni diecimila chiamati alle armi, la percentuale più alta d’Italia, la media nazionale infatti è di 1049 morti) – per non parlare delle migliaia di mutilati e feriti – ci sarà il retoricume delle medaglie, dei ciondoli, delle patacche. Ma la gloria delle trincee – sosterrà lo storico sardo Carta- Raspi – “non sfamava la Sardegna”.

Nascerà dalla sua esperienza sul fronte l’opposizione netta, radicale, decisa di Lussu alla guerra: ”Di guerre non ne vogliamo più – scriverà – e vogliamo collaborare e allontanare la guerra vita natural durante nostra e dei nostri figli e a renderla impossibile per sempre, disarmandola”. 

Il SUPERPORCELLUM, I PRECEDENTI STORICI E LA RESTAURAZIONE RENZIANA

 

Il SUPERPORCELLUM, I PRECEDENTI STORICI E LA RESTAURAZIONE RENZIANA

di Francesco Casula

Il sistema elettorale è la cartina di tornasole della qualità e quantità di democrazia di un Pese. Storicamente. Ad iniziare dal sistema maggioritario e uninominale, dell’Italia postunitaria prefascista. Era  uno dei principali strumenti di potere del Partito liberale di allora, dato che i suoi esponenti, in genere appartenenti alle élites locali, riuscivano a raccogliere senza troppe difficoltà – grazie anche a rapporti personali, di amicizia e di clientele – l’appoggio di un esiguo manipolo di elettori:qualche centinaia. Ricordo che nel 1861 il diritto di voto era riservato all’1,9% della popolazione:esclusivamente ai maschi di 25 anni con determinati redditi e titoli di studio. In Sardegna gli aventi diritto al voto erano 10 mila che salirono a 21.700 con la riforma elettorale del 1882, la cui percentuale salì in Italia al 6.9%.

I grandi partiti democratici di massa: il Partito popolare e soprattutto il Partito socialista si batterono allora per il suffragio universale perché, – canterà il nostro Peppino Mereu – “senza distinziones curiales/devimus esser, fizos de un’insigna/liberos, rispettados, uguales/ Si s’avverat cuddu terremotu/su chi Giacu Siotto est preighende/puru sa poveres’ hat haer votu/happ’a bider dolentes esclamende/<mea culpa> sos viles prinzipales/palattos e terrinos dividende”.

Con l’introduzione del suffragio universale (maschile) nel 1913 e del sistema elettorale proporzionale nel 1919, il vecchio sistema politico finì gambe all’aria e si affermarono proprio il Partito Socialista e quello Popolare, che si erano battuti contro il Partito dei notabili, delle clientele, della corruzione e della malavita e dunque, contro il sistema uninominale e maggioritario che lo favoriva.

Fu il Fascismo – non a caso – da meno di un anno al potere, ad abolire il sistema proporzionale e a reintrodurre un particolare maggioritario. Il Governo di Mussolini infatti, fra il luglio e il novembre del 1923, fece approvare alla Camera e al Senato una nuova legge elettorale – detta Legge Acerbo, dal nome del proponente ed estensore, un sottosegretario – che introdusse un premio di maggioranza: avrebbe ottenuto i 2/3 dei seggi 356 (alla Camera) la lista che avesse ottenuto il maggior numero dei voti e il restante terzo, da ripartire su base proporzionale, alle liste rimaste soccombenti. Il disegno era chiaro: eliminare di fatto ogni ipotesi di opposizione parlamentare, assicurarsi una maggioranza assoluta, accrescere l’indipendenza del potere esecutivo, preparare un regime a partito unico. Esattamente ciò che tragicamente si avvererà e si realizzerà.

Caduto il Fascismo e ritornata la democrazia, ancora una volta, non a caso, si opterà di nuovo per il sistema proporzionale. Cercò di attentare a questo sistema nel 1953 De Gasperi, che per garantire alla DC e ai suoi alleati una maggioranza in grado di mantenere la stabilità governativa su una linea centrista, fece approvare in Parlamento una legge che assegnava il 65% dei seggi alla Camera, al partito o al gruppo di partiti che avessero raggiunto il 50% più uno dei voti. Sandro Pertini dopo l’approvazione della legge si recò dal Presidente della Repubblica Einaudi chiedendogli di non firmarla. La firmò ma i risultati elettorali impedirono lo scatto di quella legge (i quattro partiti di centro, apparentati, ottennero solo il 49,85% dei voti)  ma i partiti di sinistra la battezzarono ugualmente legge-truffa.

Il 9 Giugno del 1991fu svolto il Referendum voluto da Segni: più del 90%  degli italiani – ma al Sud votarono solo il 55,3% degli elettori e al Nord il 68,3 –  si espressero a favore di un sistema maggioritario corretto (il 25% dei seggi veniva assegnato ancora su base proporzionale) e uninominale. Il nuovo sistema elettorale

 fu incarnato nel Mattarellum  del 1993. Segnatamente su tre punti si scatenò allora la propaganda e la demagogia dei referendari: la lotta alla partitocrazia, il rapporto diretto fra eletto ed elettore, e la“governabilità”. Ma nessuno di questi obiettivi fu raggiunto.

Il Mattarellum fu sostituito dal Porcellum – nomen omen! –  utilizzato nelle elezioni del 2008 e contenente tre elementi fortemente antidemocratici. Primo: non ha permesso all’elettore di scegliere i propri rappresentanti. Questi, di fatto, sono “nominati” dagli oligarchi dei Partiti: il cittadino, mancando il  voto di preferenza, deve solo stabilire le quote spettanti ai partiti stessi. Secondo: grazie allo sbarramento (4%) vengono estromesse dal Parlamento forze politiche storiche importanti. Terzo: assegna uno smisurato premio di maggioranza alla coalizione che ha preso più voti. A prescindere dalla percentuale.

Come ognuno può avvedersi si tratta di una legge che lede acutamente il principio di rappresentanza, tanto che molti costituzionalisti ritennero già da allora che contenesse elementi di anticostituzionalità. Come puntualmente la Corte costituzionale stabilirà, sia pure in grave ritardo nel 2014.

Arriviamo così oggi all’Italicum, fotocopia del Porcellum, da cui eredita tutte le nefandezze., Un vero e proprio Superporcellum, per di più approvato da una maggioranza parlamentare ristrettissima, alla faccia del principio secondo il quale “le Regole” si decidono insieme e con la più ampia maggioranza possibile.

Una legge che avvia e segna un processo autoritario e un presidenzialismo de facto, impastata com’è della cultura del capo. Parte integrante di tale progetto è il neocentralismo statuale con l’attacco forsennato alla Autonomie locali e la delirante proposta di abolizione delle Regioni o comunque di un loro ridimensionamento e depotenziamento.

Il Pd è il paladino di questo ciarpame di incultura e di perversione della rappresentanza, della democrazia, della libertà e dell’Autonomia , di cui storicamente ne è stata titolare e depositaria la Destra.

Combattere e liquidare tale paccottiglia restauratrice renziana è urgente: non risolveremo certo la crisi della politica ma sicuramente potremmo mettere una diga perché essa non si inabissi definitivamente nella melma.

 

 

Ospitone:chi era costui?

Ospitone:chi era costui?

di Francesco Casula

Premessa.

Conosciamo Ospitone da un unico documento storico: una lettera del papa Gregorio Magno del maggio 594, a lui indirizzata, in cui è definito ”dux Barbaricinorum”. In essa il Pontefice, a lui unico seguace di Cristo in quel popolo di pagani, chiede di cooperare alla conversione delle popolazioni barbaricine che ancora “vivono come animali insensati, non conoscono il vero Dio, adorano legni e pietre”. Non si hanno notizie di un’eventuale risposta di Ospitone né sappiamo se lo stesso si sia impegnato nell’opera di conversione dei suoi sudditi. Una cosa è però certa: la lettera del grande papa serve a illuminare la precedente storia della Sardegna: la presenza nell’Isola alla fine del 500 di un “dux barbaricinorun” mette in discussione infatti numerose categorie storiografiche della storia ufficiale. Ad iniziare dalla visione di una Sardegna conquistata, vinta e dominata, dai Cartaginesi prima e dai Romani e Bizantini poi. In questo luogo comune inciampa persino il grande storico tedesco Theodor Mommsen che in Storia di Roma antica parla di una “Sardegna vinta e dominata per sempre” dopo  la sconfitta di Amsicora nel 215 a. C. da parte del console romano Tito Manlio Torquato. Se così fosse, perché continuano incessanti le rivolte dei Sardi, soprattutto barbaricini, per secoli, con i massicci interventi militari romani?

Se fosse stata vinta e dominata per sempre che significato avrebbe nel 594 la presenza e coesistenza in Sardegna di un “dux barbaricinorum”, Ospitone appunto e di un dux bizantino, Zabarda, di stanza a Forum Traiani (Fordongianus), che proprio in quel momento tentava di concludere la pace con i Barbaricini? Evidentemente la parte interna della Sardegna, pur vinta, aveva comunque conservato, fin dal dominio romano, una sua indipendenza o comunque una sua autonomia, politica ma anche economica e sociale e persino culturale, nonostante l’imposizione della lingua latina che prenderà il posto della vecchia lingua nuragica.

E non si tratta di una parte interna circoscritta e limitata alle civitates barbariae intorno al Gennargentu: ma ben più vasta e con precise caratteristiche politiche, sociali ed economiche. Ecco in proposito l’autorevole opinione del più grande storico medievista sardo, Francesco Cesare Casula:”…Dalle parole del pontefice si evince che, al di là del limes fra Roméa e Barbària le popolazioni avevano un proprio sovrano o duca e che quindi erano statualmente conformate almeno in ducato autonomo se non addirittura in regno sovrano. Infine si ricava che malgrado fosse trascorso tanto tempo, le genti montane continuavano ad “adorare” le pietre, cioè i betili, permanendo nell’antica religione della civiltà nuragica. Purtroppo non sappiamo da quando esisteva questo stato indigeno e quanti anni ancora durò dopo Ospitone né dove fosse esattamente collocato.

Noi personalmente riteniamo che fosse esteso quanto la Barbària romana, segnalato al centro ovest dall’opposto presidio di Fordongianus e dal castello difensivo bizantino di Medusa, presso Samugheo; a sud dal confine religioso fra la cristianissima Suelli, piena di Chiese e di simboli paleocristiani e la pagana Goni, nel basso Flumendosa, con le schiere di suggestive pietre fitte campestri”. (Dizionario storico sardo, Carlo delfino Editore, Sassari, 2003, pagina 1132)

Un territorio immenso, probabilmente metà Sardegna era dunque sotto il governo di Ospitone.

Cristianizzazione delle Barbagia   

Nasce dalla consapevolezza del ruolo di Ospitone la Lettera di Gregorio Magno con cui invita ed esorta pressantemente il dux barba ricinorum ad assecondare la missione del Vescovo Felice e dell’abate Ciriaco per la conversione delle popolazioni barbaricine al Cristianesimo. Ruolo, carisma e prestigio, peraltro, riconosciuti  e testimoniati dal fatto che il papa conclude la lettera inviandogli la benedizione di San Pietro che era collegata “a una catena dei Beati Apostoli Pietro e Paolo” (D. Argiolas, Lettere ai sardi, vedi Ollolai cuore della Sardegna di Salvatore Bussu, pagina 53). Benedizione che era riservata, di regola, solo agli Ecclesiastici: a dimostrazione della stima che nutriva per Ospitone.

E’ poco credibile però – come scrive il papa – che solo Ospitone si fosse convertito al Cristianesimo, ad Christi servitium: certo è però che la gran parte delle comunità continuasse nella religione primitiva naturalistica, vivendo – per usare le parole di Gregorio Magno – ut insensata animalia, adorando pietre e tronchi d’albero.

A testimoniare ciò basterebbe solo pensare al fatto che delle otto sedi vescovili presenti in quel periodo in Sardegna (Cagliari, Turris, Sulci, Tarros, Usellus, Bosa, Forum Traiani e Fausania-Olbia) nessuna è alloccata nelle civitates barbariae e la nascita della sede vescovile di Suelli con l’episcopus Barbariae, proprio in quel periodo, pare essere dovuta proprio per la conversione delle popolazioni barbaricine.

Occorre però sottolineare che nelle stesse popolazioni dell’Altra Sardegna, più vicine alle coste e ai maggiori centri, il Cristianesimo era poco diffuso. Nonostante gli esili e le deportazioni dei cristiani nel basso impero romano (con la loro condanna ad metalla); i primi martiri condannati a morte tra il III e IV secolo d.C sotto Diocleziano.
 (Simplicio,  Lussorio e Saturno, Gavino, Prothu et Januariu, celebrati questi ultimi tre da Antonio Canu e Girolamo Araolla, i primi grandi scrittori di poemi in lingua sarda); i vescovadi e i papi sardi, (fra il 315 ed il 371 d.C., due vescovi sardi furono particolarmente attivi nella predicazione del Cristianesimo, Eusebio e Lucifero, mentre nel secolo successivo altri due sardi, Simmaco e Ilario, divennero Papi); la temporanea presenza dei vescovi africani. A dare un impulso decisivo per la conversione dei Sardi sarà proprio Gregorio Magno, con una instancabile opera di evangelizzazione e con l’istituzione di numerosi monasteri:inizialmente nelle case private. O con l’arrivo dall’Oriente dei monaci basiliani, che non solo diffusero il vangelo tra i Barbaricini ma introdussero la coltura d’alberi (melo, fico, ulivo) dei cui frutti si cibavano nei periodi d’astinenza e di digiuno.

Introdussero pure alcuni vitigni per la produzione di vini dolci per la messa (moscato e malvasia), praticavano i riti della Chiesa orientale, avevano la barba fluente e dedicarono le chiese ai santi del calendario greco. Opera, quella di Gregorio Magno e della Chiesa, accompagnata – occorre ricordarlo sempre – anche da propositi più corposamente politici e materiali, nella difesa (e aumento) dei propri possedimenti terrieri e dei proventi derivanti da gravami fiscali che volle sempre maggiori.

Nell’opera di evangelizzazione “i missionari – lo ricorda opportunamente don Salvatore Bussu, nel suo bel libro Ollolai cuore della Sardegna, pagina 57seguivano una direttiva molto saggia che papa Gregorio aveva già dato agli evangelizzatori dell’Inghilterra di non distruggere gli edifici sacri pagani, ma trasformarli in luoghi di culto cristiano e conciliare le esigenze della nuova fede con le vecchie tradizioni a sfondo religioso cui gli indigeni erano ancora legati. Si ebbe così una specie di commistione del vecchio e del nuovo, il quale si affermerà più chiaramente solo col passare dei secoli, pur non riuscendo a spegnere ma solo a trasformare, certi valori tradizionali”.

Ciò è tanto più vero se si pensa a quanto scrive Sigismondo Arquer  nella sua Sardiniae brevis historia et descriptio, –e siamo già nel 1549! – “Quando i contadini celebrano qual­che festa, dopo la Messa, per tutto il resto della giornata e della notte ballano – uomini e donne – dentro la chiesa del Santo, cantando canzoni profane; inoltre uccidono maiali, montoni e buoi e mangiano allegra­mente di queste carni in onore del Santo. Vi sono anche di quelli che ingrassano qualche maiale in onore di un santo, per poterlo poi mangiare durante la festa, spesso in una chie­sina costruita fra i boschi. E se la famiglia non è tanto numerosa da poter consumare tutta quella carne, perché non ne avanzi, invitano altre persone al banchetto che si fa den­tro la chiesa stessa”.