Quando a scuola si insegnava la lingua sarda


Quando a scuola si insegnava la lingua sarda

di Francesco Casula
Pochi sanno che c’è stato un periodo della nostra storia in cui a scuola si insegnava la cultura, la storia e la lingua sarda. Paradossalmente proprio durante i primi anni di quel regime, che poi sarebbe stato il nemico più brutale e feroce nei confronti di tutto quello che atteneva al locale e alla specificità sarda.

Siamo negli anni 1922-1924 quando il valente e avveduto pedagogista Giuseppe Lombardo Radice, alle dirette dipendenze dell’allora ministro della Pubblica Istruzione Giovanni Gentile, come direttore generale dell’Istruzione primaria e popolare, provvide alla stesura dei programmi ministeriali per le scuole elementari, prevedendo fra le altre anche l’uso delle lingue “regionali” nei testi didattici per le scuole con il programma “Dal dialetto alla lingua”, nel rispetto delle differenze storiche degli italiani e per facilitare l’apprendimento e lo sviluppo intellettuale degli scolari, partendo dalla lingua viva: a questo proposito rimando alle sue magistrali Lezioni di Didattica, (l’ultima edizione, in versione anastatica è del 1970).

In seguito all’approvazione dei nuovi Programmi per le scuole elementari (17 novembre 1923) in Sardegna furono adottati per l’anno scolastico 1924-25 testi scolastici di vari autori ma uno in particolare, Sardegna-Almanacco per ragazzi di Pantaleo Ledda: di cui recentemente le Edizioni Il pittore d’oro di Oristano (E.P.D’O.) ha pubblicato una edizione anastatica dall’originale con introduzione di Italo Ortu e prefazione mia.
Con questo sussidiario nelle scuole primarie della nostra Isola irrompeva l’intero universo culturale sardo: dalla cultura materiale e dalle risorse e attività economiche e produttive (agricoltura, pastorizia, miniere, pesca, saline, acque termali) alla cultura immateriale (letteratura in primis); dalla geografia alla storia; dalle origini alla civiltà nuragica alle invasioni straniere. Con gli uomini sardi più famosi: da Amsicora a Mariano IV, da Eleonora d’Arborea a Leonardo d’Alagon; da Giovanni Maria Angioy a Gianbattista Tuveri; da Grazia Deledda e Montanaru. Ma anche da uomini (poeti, scrittori, storici, letterati, vescovi e giuristi, scienziati e medici) meno conosciuti ma ugualmente illustri e che comunque hanno fatto la storia della Sardegna, arricchendola con la loro opera.

Catalogati per singole città e paesi nativi, e ricordati in brevi ritratti, i Sardi li conoscono oggi quasi esclusivamente perché hanno loro intitolato qualche via, piazza o qualche scuola: penso a Sigismondo Arquer (l’intellettuale cagliaritano vittima dell’Inquisizione e condannato al rogo in Spagna), o penso a Vincenzo Sulis e a Domenico Millelire, due dei protagonisti nella lotta vittoriosa contro i Francesi nel 1793. O penso ancora al bosano Nicolò Canelles che introdusse la stampa in Sardegna; al medico di Arbus Pietro Leo, che contribuì grandemente alla rigenerazione della medicina sarda; allo storico Pietro Martini, uno dei fondatori della storiografia isolana; all’archeologo e linguista ploaghese Giovanni Spano (autore di un dizionario sardo-logudorese); all’oristanese Salvator Angelo de Castro, che si adoperò per l’istituzione delle scuole elementari in molti comuni della Sardegna. E a tanti altri ricordati in questo sussidiario.

Insieme alla storia, la protagonista assoluta del libro di Pantaleo Ledda è la lingua sarda: nelle sue varianti e varietà ma anche nelle Isole alloglotte (è presente il Gallurese come il Sassarese). Il Sardo viene utilizzato nelle poesie: ad ogni stagione ne viene dedicata una. Ma anche nelle preghiere e nei precetti, nelle canzoni e canzoncine, nei proverbi e nei motti, negli scongiuri e nei dicius, negli scioglilingua,nelle cantilene e nelle ninne nanna, nei giochi, negli indovinelli e nelle leggende. Ad esprimere una vastissima e ricchissima tradizione culturale, soprattutto orale, una saggezza antica che ha sostenuto e guidato i sardi nella loro millenaria storia.
Con la storia e la lingua sarda sono presenti le città, le località e i paesi sardi: con le feste e le sagre, i costumi e i riti. E le attività produttive, specie quelle legate alla campagna e all’agricoltura: con l’aratura e la semina, la fienagione, la mietitura e la trebbiatura, la raccolta delle ortaglie, la vendemmia e la panificazione. Ma anche la pesca: soprattutto del tonno.
Il sussidiario rappresenta così per gli scolari del triennio delle elementari una vera e propria full immersion nelle cultura locale e nella sua economia.
Purtroppo questa ventata liberalizzatrice di lingua e cultura locale durò pochissimo: con il consolidarsi del regime fascista specie dopo l’assassinio di Matteotti, inizia a prevalere l’enfasi e la furia unificatrice, omologatrice e livellatrice tanto che fu avviata un’azione repressiva nei confronti degli alloglotti e, per quanto ci riguarda, della lingua e cultura sarda: fu vietato non solo l’uso della lingua sarda ma le stesse gare poetiche estemporanee. Anzi, il Fascismo ben presto, ad iniziare dagli anni trenta, imboccata la strada dell’imperialismo e dell’autarchia, tenterà di cancellare il concetto stesso di civiltà regionale e di regione e abolirà l’uso del Sardo, in nome dell’italianità, minacciata a suo dire da tutto quanto era “locale”.

Sul’uso del Sardo abbiamo una vasta eco in una polemica scoppiata nel 1933 fra un certo Gino Anchisi, giornalista dell’Unione Sarda e il nostro grande poeta Montanaru, in occasione della pubblicazione dei suoi Sos cantos de sa solitudine.
In un articolo Anchisi esortava Montanaru a scrivere in Italiano perché un poeta come lui aveva diritto a un pubblico più vasto. E concludeva affermando che la poesia dialettale era anacronistica, roba d’altri tempi e come tale andava relegata nel regno d’oltretomba.
Montanaru rispondeva, sullo stesso giornale, affermando che i rintocchi funebri per la fine dei dialetti, da qualunque parte venissero, erano per lo meno immaturi. Seguiva la replica dell’Anchisi che ribadiva l’anacronismo e la fine dei dialetti e della regione: Morta o moribonda la regione, è morto o moribondo il dialetto.
Scriverà Cicitu Masala: “è morto il fascismo ma la lingua sarda, bene o male continua a vivere”. E quel sussidiario di Pantaleo Ledda, un vero e proprio frutto fuori stagione, rivisitato e depurato della retorica patriottarda e italocentrica del Fascismo, sarebbe ancora utile, anche per l’apprendimento della lingua sarda.

 

 

Ma il sardo è una lingua ” arcaica” inadatto a esprimere la “modernita”?

Ma il sardo è una lingua “arcaica” inadatto a esprimere la “modernità”?

di Francesco Casula

Il sardo secondo alcuni sarebbe rimasto “bloccato”, cioè ancorato alla tradizione agropastorale, perciò incapace di esprimere la cultura moderna: da quella scientifica a quella tecnologica, dalla filosofia alla medicina ecc. ecc. Intanto non è vero che il sardo sia completamente “bloccato”: termini e modi di dire dell’italiano dovuti allo sviluppo culturale scientifico e sociale impetuoso negli ultimi decenni sono entrati nella lingua sarda, così come termini e modi di dire stranieri – soprattutto inglesi – sono entrati nella lingua italiana che li ha giustamente assimilati. Questo “scambio” è una cosa normalissima e avviene in tutte le lingue e tutti i sistemi linguistici, sia quelli di società “più avanzate”, scientificamente ed economicamente, sia di società “più arretrate”, sono in grado di esprimere i più moderni concetti e le più moderne e complesse teorie, prendendo in prestito terminologia e lessico da chi li possiede: come il contadino, che se ha finito l’acqua del proprio pozzo, l’attinge dal pozzo del vicino.
A rispondere, del resto, a chi parla di «blocco» e di incapacità di alcune lingue a esprimere l’intero universo culturale moderno, sono due intellettuali e linguisti di prestigio. Scrive Sergio Salvi, gran conoscitore della Sardegna e delle minoranze etniche e linguistiche: “La rimozione del «blocco» è pienamente possibile. Farò soltanto l’esempio, così significativo ed eloquente della lingua vietnamita, storicamente e politicamente dominata, fino a tempi recenti, prima dalla cinese e poi dal francese, una lingua che non solo ha brillantemente rimosso il proprio «blocco» dialettale, ma che pur non possedendo ancora un completo vocabolario tecnico-scientifico, ha creato « una grande corrente di pensiero», eppure settant’anni fa il vietnamita era soltanto un « dialetto» o meglio un gruppo di dialetti”.
Sullo stesso crinale si muove e risponde l’americano Joshua Aaron Fishman, il più grande studioso del bilinguismo a base etnica (è il caso della Sardegna) che scrive: “Qualunque lingua è pienamente adeguata a esprimere le attività e gli interessi che i suoi parlanti affrontano. Quando questi cambiano, cambia e cresce anche la lingua. In un periodo relativamente breve, la lingua precedentemente usata solo a fini familiari, può essere fornita di ciò che le manca per l’uso nella tecnologia, nell’Amministrazione Pubblica, nell’Istruzione”.
Il problema se una lingua “arcaica” possa o no esprimere concetti moderni è dunque un falso problema. Ogni lingua può “parlare” e raccontare l’Universo. Anche quella della più sperduta tribù dell’Africa, immaginiamo una lingua neolatina come quella sarda. In più c’è da rilevare che in ogni lingua “egemone” o “ufficiale” o “media” (che chiameremo per la complessità della sua struttura, Macrolingua) si formano dei linguaggi “specifici”, i tecnoletti,che tendono sempre più a internazionalizzarsi, per mezzo di una terminologia che si esprime per parole “rigide”, per formule, in termini greco-latini o inglesi. I tecnoletti si caratterizzano per essere costituti da segni linguistici depurati da qualsiasi connotazione. I tecnoletti sono monosemici e referenziali, uniti da un legame biunivoco a un concetto ben determinato. Esso infatti deve significare una cosa ben precisa e non veicolare significati collaterali di nessun genere, ad esempio la linguistica moderna ha elaborato una serie di termini internazionali: struttura, funzione, significante, significato, diacronico, sincronico ecc: oppure li ha presi in prestito. In questi casi si possono operare dei traslati come è avvenuto dall’inglese all’italiano. Nessun problema quindi: il sardo può acquisire e prendere a prestito parole e modi di dire elaborati altrove.

ANCORA SULLA STATUA di Carlo Felice

ANCORA SULLA STATUA di Carlo Felice
di Francesco Casula
Un amico, Raimondo Vargiu mi scrive: “Sa statua esti beni chi abarridi anca esti , poita esti storia , bona o mala chi siada”. A significare che rimuovere la statua di un tiranno = cancellare la storia? Ma è’ una fola, una castroneria. La storia non c’entra niente. Lo spiega e l’argomenta, con saggezza, una ricercatrice di storia dell’Università di Cagliari, Valeria Deplano:” Le statue, come i monumenti commemorativi, o la toponomastica, non sono infatti “la storia”, ma uno strumento attraverso cui specifici personaggi o eventi storici, accuratamente selezionati, vengono celebrati; nella maggior parte dei casi – non sempre – sono le istituzioni, in particolare quelle statali, a scegliere chi o che cosa sia degno di essere ricordato e celebrato. Si tratta di un’operazione centrale per la costruzione di una narrativa nazionale funzionale alla visione del potere stesso: il modo con cui si sceglie di ricordare il passato e di celebrarlo infatti influisce sul modo con cui gli individui e le comunità guardano il mondo, sé stessi e gli altri. Questo vale ovunque, e in qualunque epoca”. Occorre dunque distinguere fra la storia e gli spazi pubblici che, a futura memoria, i tiranni sabaudi si sono riservati per continuare ad affermare il loro dominio, almeno simbolicamente.. E’ il caso della statua di Carlo Felice a Cagliari, in Piazza Yenne, come di tutte le statue sabaude: quella statua sta lì a “segnare” e “marchiare” il territorio, a dirti, dall’alto, che lui è il regnante e tu sardo, sei ancora suddito. Dunque devi continuare a omaggiarlo, a riconoscerlo come tale. Anche se da vice re come da re è stato il tuo carnefice e un tiranno famelico, ottuso e sanguinario. Noi la storia vogliamo dissotterrarla, ma insieme risignificare gli spazi pubblici che i tiranni sabaudi si sono attribuiti per la propria glorificazione, anche con i posteri. Per questo noi del Comitato “Spostiamo la statua di Carlo Felice” proponiamo di “rimuovere” la statua per collocarla nella sua “abitazione”: il Palazzo viceregio. Senza piedistallo. Con una didascalia breve e chiara, magari con le parole di uno storico filo sabaudo e filo monarchico come Pietro Martini: Carlo felice era “Alieno dalle lettere e da ogni attività che gli ingombrasse la mente”. Insomma un imbecille parassita. Oltre che, da vice re come da re, ottuso, famelico e sanguinario. Proponiamo dunque di non abbattere la statua. La riteniamo infatti un “manufatto”, persino con elementi di “bene culturale”, architettonico, scultorio. E’ dunque giusto che venga conservato e non distrutto. Ma non esibito. Esposto in una pubblica Piazza. Come fosse un eroe da omaggiare e non un essere spregevole, oggetto di sprezzo e ludibrio. Lo spostamento di quella statua, sarebbe un evento formidabile per l’intera Sardegna: innescherebbe processi di nuova consapevolezza identitaria e di autostima. E insieme – dato a cui sono estremamente interessato – potrebbe favorire la curiosità, il risveglio e l’interesse per la storia sarda. Al suo posto? Giovanni Maria Angioy, il grande eroe e patriota sardo che cercò di liberare la Sardegna e i sardi dall’oppressione feudale e dai tiranni sabaudi. Tentativo fallito e osteggiato dagli ascari sardi, anche suoi ex compagni “democratici”, vendutisi per un piatto di lenticchie.
 
 
 
 
 
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Subra su libru “Carlo Felice e i tiranni sabaudi” Unu meledu de Enrico Putzolu (conduttore televisivo ed esperto in lingua sarda)

Subra su libru “Carlo Felice e i tiranni sabaudi” Unu meledu de Enrico Putzolu (conduttore televisivo ed esperto in lingua sarda)
Maistru Casula, cummente ddu naro deo chin simpatia e istima – isperende de fàghere cosa agradèssida -, pro is chi ancora non ddu connoschent est un’òmine, unu sardu, chi at intregadu agiumai totu sa vida a s’istùdiu de is tantas chistiones sardas chi sunt chistiones de unu raportu malàidu, o a su mancus palangadu, tortu a un’atza (pro fàghere un’eufemismu), intre s’Ìsula e sa Terramanna. Nàschidu in Ollollai, at istudiadu istòria e filosofia in s’universidade de Roma. A pustis laureadu at imparadu a is pitzocas e pitzocos de su litzeu, antis in Macumere e pustis in Casteddu 40 annos e prus. Militante polìticu, s’àndala ideològica cosa sua, chi curriat oru oru a is chistiones de su traballu e de is traballadores, dae is annos ’70, s’acostat a prus e prus a is chistiones de s’autodeterminatzione de is pòpulos, massimamente de su pòpulu sardu chi, narat issu, non bivet in cunditzione de libertade prena cunforma a is possibilidades chi tenet. Dae custa pigada de cuscèntzia sunt essidos a campu istùdios, fintzas fatos in paris cun àteros dischentes de is tantas chistiones sardas, chi agatamus pubblicados in sàgios e libros. Remonamus, intre is ùrtimas òperas, cussas a pitzus de is FÈMINAS E ÒMINES DE GABBALE DE SARDIGNA, una regorta de monografias a pitzus de is personàgios istòricos e modernos chi ant ismanniadu e esaltadu sa cultura isulana – un’òpera chi apo tentu su prègiu de pòdere insertare “a pìndulas” in sa trasmissione cosa mia de aprofondimentu “Logos de Logu” cun sa rubrica “Ite fiat su contu” chi amus aparitzadu. Bolet remonada puru Letteratura e civiltà della Sardegna, un’òpera de tres volùmenes chi nd’acrobat totu sa produtzione de literadura sarda dae su primìtziu – prus o mancu a oe 1000 annos -, finas a is ùrtimos tempus. Un’aina bella pro si torrare a crèere totus is chi si pensant chi su sardu est una limba pòbera de produtzione literària o chi siat de pagu balia. Custos ant a connòschere una realidade prena de poesia, cummente giai est nòdidu, ma fintzas de prosa e prus ancora de teatru chi nde tenimus formas medas e particulares, ultres a sa cummèdia, chi oe in die est s’iscena sa prus nòdida. Ma su libru chi incapas at furriadu su Maistru nostru dae “autore normale” a bardùfula, arrolliende dae un’atza a s’àtera de s’Ìsula, e pro fintzas in continente puru, est su libru chi semus presentende immoe: Carlo Felice e i Tiranni Sabaudi. Sa primu essida in su 2016 e dae s’ora, pro acudire a sa domanda, ant giai torradu a imprentare 5 bortas sa primu editzione e oe semus a sa de duas editzione in sa de 131 presentadas in presèntzia. Unu trabballu ditzosu chi pro more de s’interessamentu de àteros sardos de gabbale est aproliadu pro finas in sa bibbioteca de su Senadu in Roma, presetadu fiancu paris de Anthony Muroni (ex diretore Unione Sarda e a s’ora diretore de sa Bibblioteca de su Senadu) e de su Senadore Marilotti (5Isteddos). Ma arribbamus a su sutze. Ite podet èssere custu libru: pro mene un’aina de giudu, unu tzàpulu pro acontzare s’iscòrriu chi nos-àteros sardos baliamus in sa memòria comuna. Est su chi ammancat pro ischire de a berus su chi semus, e chie semus, est “quello che non ho” chi naraiat De Andrè cun sa boghe de su cabu pellerossa de sa pròpiu cantzone, ponende a cumparàntzia indianos de Amèrica e sardos pro èssere duas pòpulos acorrados e acovecados, totu e duos corpidos dae una disgràtzia prus manna: s’istramancu de sa memòria. Aici custu libru est prus a prestu una crae chi nos permitit de cumpudare e cumprèndere cussu bòidu de informatziones chi imparamus dae chi imbucamus in su sistema de istrutzione de s’iscola italiana; unu traste pro pòdere lèghere cuddos rastros chi bidimus e chi s’agatant totu a inghìriu ma chi non semus prus bonos a cumprèndere, chi non nos narant prus nudda. Est a ischire is sinnos de su chi fìamus cando faeddaìamus un’àtera limba, e sodigaìamus in àteros surcos. Sinnos chi galo oe nos faeddant ma non semus prus bellos a ddos lèghere e intèndere. Pro nàrrere… pensade-bos-dda a s’aràldica picada me in is muros de is crèsias prus antigas: tante bortas ddoe at sìmbulos catalanos, àteras bortas s’àrbore israighinadu de is de Arboreas; pensade-bos-dda a sa toponomàstica istòrica chi fatu fatu galu si campat a suta de cudda ufitziale, iscantzellada pro more de sa “modernidade”: pensade tando a su liet motiv essidu a foras contras a su movimentu black lifes matters chi dae s’Amèrica cuntierrat su suprematismu biancu e punnat a isderrùere is sìmbulos de sa secolarizatzione cosa sua, chi narat chi s’istòria non bolet iscantzellada ma chi non càrculat cando sunt is canes mannos a iscantzellare s’istòria de is pòpulos torrande-nche-ddos a òrfanos de memòria e de istòria comuna, fàtziles a corròmpere e catzigare ancora. Pensade-bos-dda a is modas de nàrrere, a is ditzos e fintzas a is frastimos prus malos chi tante bortas, chirchende chirchende, nos iscòviant acontèssidas orrorosas chi is antigos nostros ant connotu, sufridu e iscarèssidu pro s’iscarmentu. Oe in die su bonu de nois càstiat custos sinnos e non ddos ischit prus connòschere. Proite? Est solu sa neghe de su cambiare is limbàgios e modas? Incapas, ma dda pigamus giustu giustu a ipòtesi, proite ca 300 annos a oe at incumintzadu in Sardigna unu caminu chi a bellu a bellu at transidu grandu parte de su pòpulu sardu dae sa dimensione natzionale anca s’agataiat in s’àndala naturale cosa sua, nde nd’at mòvidu, istraviadu conca a cudda chi torraiat paris a s’imbentu de Casa Savoja, cussa famìlia de ducas iscurigosos sèculos e sèculos abramida de potere, in punnas de s’istendiare peri totu sa penìsula italiana is farrancas cosa sua. Unu progetu chi non podiat pònnere raighinas fintzas a cando sa sorte non ddos at imbestidos cando, dae sa paghe a pustis de sa Gherra de Sutzessione Ispagnola, ddi est pròpiu in conca su tìtulu de Re de Sardigna Custa istèrrida fiat unu contigheddu pro bos pigare a sa Sardigna de su 1720. Dae innoe lasso sa chistione a su Maistru Casula chi nos at a ispricare cummente custu libru nos podet fàghere profetu e proite non nos podimus acuntentare prus de su chi is àteros ant semper contadu a pitzus de nos-àteros etotu e proite depimus èssere nois, cun is faeddos e is manos nostras a torrare a assentare su caminu chi amus lassadu cando ancora nos connoschiant in totu Europa pro èssere sa Natzione Sardisca.
 
 
 
 
 
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L’IDENTITA’? E’ fatta di accumuli. E’ insieme un percorso, un processo e un progetto..

L’IDENTITA’? E’ fatta di accumuli. E’ insieme un percorso, un processo e un progetto..

 
di Francesco Casula
 
L’Identità dei sardi è così difficile da definire proprio perché dinamica e variabile, fatta di somme e di accumuli e non di sottrazioni successive. Se procediamo per ortodossia totalizzante, e ci mettiamo a sottrarre e a sottrarre, escludendo e tagliando, per riscoprire l’autentico, possiamo arrivare fino a ricondurre la cultura sarda dentro la sua lingua originaria precedente alla romanizzazione. L’identità che occorre difendere e rivendicare e far crescere dunque non è quella immobile o primigenia o “autentica”: anche perché l’autoctono puro non esiste. Come non esiste – un “terroir” identitario sicuro e definitivo, come per il vino. Gli uomini –come le piante – hanno certo “radici”, ma insieme viaggiano, cambiano, sono ibridi, multipli, figli di molte generazioni e di molte culture e di infiniti incontri: influenzati dal sangue e dalla storia tanto quanto dal loro libero mutare, abitare, imparare. Non esistono quindi identità blindate o troppo ingombranti. L’Identità che esiste – ricorda Antonello Satta – è invece lo specchio fedele di stratificazioni culturali secolari su un potente sostrato indigeno che fa da coagulo. Ma non si esprime in un isolato e fermo recupero e cernita di semplici memorie e tradizioni. In genere – ha sostenuto il filosofo americano John Rogers Searle – noi pensiamo alla memoria e dunque all’identità che su questa basiamo, come a un magazzino di frasi e immagini. Dobbiamo invece pensare alla memoria e dunque all’identità come a un meccanismo che genera atti contemporanei, inclusi pensieri e azioni, certo basati anche sulle esperienze del passato, ma nei termini accrescitivi di un confronto nel tempo perché è in quel confronto, in quello scambio intersoggettivo che trova la ragione la capacità di conservare ma anche di progettare e di accogliere e di proporre, di ricevere e di dare. Ciascuno è figlio della propria terra ma anche figlio del mondo intero. Occorre partire dal luogo della differenza per riconoscerci e appartenerci e insieme da quel luogo, dal valore della diversità segnata da una storia dissonante e da arresti anche drammatici ma carica di significati millenari: ripartire, muovere per disegnare nel presente la nostra storia futura, il progetto della nostra terra. L’identità non è immutabile come un blocco di cemento ma un elemento dinamico. Ogni identità è dinamica, cioè variabile, ci ricorda anche il vecchio Emanuele Kant. E, soprattutto non è definitiva ma è da rielaborare continuamente. Da ricostruire in progress, secondo la logica del bricolage, nella dimensione di un grande blob – scrive Alberto Contu – che crea inedite adiacenze tra segni e simboli delle vecchie certezze e nuovi elementi mobili dai confini elastici. La purezza infatti è l’unico ingrediente che non dovrebbe mai entrare nella composizione del concetto di identità. Hitler che era nostalgico di quella famosa purezza della razza, perpetò il più grande genocidio della storia. Essere identici significa essere unici: l’individuo è unico ma nello stesso tempo somiglia agli altri individui. La nostra diversità sta in questa unicità. Sappiamo da tempo che una identità chiusa e inaridita, perde il suo profumo e la sua anima. Un’identità è qualcosa che dà e riceve. In essa nulla è cristallizzato, definitivo. L’identità insomma è una casa aperta, che si ingrandisce e si arricchisce ogni giorno. In quest’ottica – utilizzo l’affilata e pregnante prosa di Bandinu – la tradizione non è un luogo, è il traditur come procedere del tempo. L’elaborazione del passato trova il suo punto di progettazione come investimento nell’impresa del dire e del fare…Il passato non è svelamento magico di un tesoro e neppure contenuto sostanziale di cui appropriarsi. E’ il percorso narrativo del farsi del linguaggio…Non si tratta di fare un cammino a ritroso per abitare la vecchia casa, è piuttosto un percorso prospettico che avvia un modo nuovo del dire e del fare. Il passato come rielaborazione per cogliere la specificità del tempo attuale. L’identità dunque non è un dato rassicurante e permanente ma è quella che diventa fatto nuovo, che interroga l’esperienza del tempo attuale, per affrontare il presente nella sua drammatica attualità, per definire un orizzonte di senso, per situarci e per abitare, aperti al suo respiro, il mondo, lottando contro il tempo della dimenticanza e della smemoratezza. L’identità dunque si vive, nel segno della contaminazione, del contatto e della creolizzazione e, insieme,dell’appartenenza. L’identità è quella che si trasforma in questione operativa: che diventa progetto e l’appartenenza diventa storia, caricandosi di vita, suscitando conflitti, impegnandosi con le lotte a trasformare il presente e costruire il futuro. I veri e importanti elementi di identità – scrive Salvatore Mannuzzu – che la tradizione ci consegna si perdono se non vengono investiti nell’oggi e nel diverso da noi: in qualcosa che con un termine ambiguo si chiama «il moderno». Anche se è vero che il moderno non ha portato il paradiso in Sardegna, tra industrializzazioni fallite, riforme agrarie nemmeno partite o comunque abortite, globalizzazioni solo patite, spaventose culture dei consumi, devastazioni mediatiche, scolarità degradate… Però hic Rhodus, hic salta: questi sono i problemi che è necessario affrontare, non solo in Sardegna, anche se sulla Sardegna hanno un impatto specifico. Ma per affrontarli sono inadeguate le logiche de su connottu. L’identità va resa vera e reinventata giorno per giorno, come la vita: sa vida est naschimentu. E il popolo sardo è tutt’altro che compatto (come in genere il popolo italiano): si tratta di rimetterlo faticosamente insieme, con una ricerca collettiva di senso, che batta ogni paese e ogni campagna ma vada ben al di là dei confini dell’isola. Se prevale questa convinzione, se vince il fantasma – l’ingombrante sovrastruttura – la Sardegna è tagliata fuori dal mondo, dalla realtà; e anche da se stessa: perché conoscersi e vivere significa confrontarsi con gli altri.

Subra su liburu “Carlo Felice e i tiranni sabaudi” Unu meledu de Tore Cubeddu (regista, produttore ed editore)

Subra su liburu “Carlo Felice e i tiranni sabaudi”
 
Unu meledu de Tore Cubeddu (regista, produttore ed editore)
 
Carlo Felice e i tiranni sabaudi est su chi si narat unu “caso letterario”, chi in sardu no benit beni a ddu nai ca su casu est atra cosa. Eja, poita chi unu lìburu chi est bessiu in su 2016 po Grafica del Parteolla est ancora girendi, lompendi agiumai a 150 presentadas, sa mitadi de is comunus sardus, bolit nai ca est arrespundendi a un’abisòngiu pretzisu. Ma torreus pagu pagu asegus. Custu lìburu contat de totu is tirannus sabàudus chi nci funt passaus in logu nostu, contendi a fini a fini su chi ant fatu, màssimu sa cosa mala e su dannu chi s’ant lassau in terra nosta, primu primu su de imponni s’italianu in logu de su sardu a is sardus, e custa bella pensada seus prangendidda ancora oi. Ma si boleis sciri ita totu ant cumbinau custas concas nòbilis, si depeis ligi su lìburu amarolla, gei si nd’eis a prandi beni beni. Cumenti at arregordau Giuseppe Melis in sa presentada, custu traballu s’acàpiat finas a sa batalla po movi sa stàtua de Carlo Felice de pratza Yenne (atru savojardu) e nci dda portai a atru logu, cun d-una targa asuta po arregordai totu su beni chi s’at fatu. E aici etotu po totu is atrus funtzionàrius, nòbilis, urreis e visurreis chi nd’ant prenu is nòminis de is arrugas sardas. Is fontis chi at manigiau Casula no funt sceti de documentus, ma finas de sa literadura populari, de sa poesia e de su connotu, chi arricant su contu e ddu faint prus fungudu. Un’abisòngiu eus nau, s’abisòngiu de connosci sa stòria nosta, no sceti po cumenti si dda contant is bincidoris po su torracontu insoru ma finas cun stòricus a sa parti nosta, po torrai a aparixai pagu pagu su logu. A calincunu custa faina no dd’est pràxia, a is chi circant is pinnicas sceti candu est po cosa sarda e chi no ant cumprèndiu s’operatzioni curturali manna chi ddui est apalas de custu lìburu

Giordano Bruno sì Ma Sigismondo Arquer no?

Giordano Bruno sì Ma Sigismondo  Arquer no?
di Francesco Casula
Ricorreva ieri il 423° Anniversario della morte di Giordano Bruno, filosofo e scrittore arso vivo nel rogo dall’Inquisizione cattolica,perché ritenuto eretico. I media lo hanno ricordato, giustamente. Su Facebook, molti miei amici, altrettanto giustamente e opportunamente, con numerosi post lo hanno “celebrato”, in quanto uomo di valore che per difendere la libertà, sacrifica la stessa vita. Roma il 9 giugno del 1889, proprio dove era stato bruciato gli erigerà, nella piazza di Campo dei fiori, a perenne memoria, una enorme statua in bronzo. Molto bene. Mi chiedo però: sia i Media che gli amici su Facebook ricorderanno il 4 giugno prossimo il 452° Anniversario della morte di Sigismondo Arquer? Anche lui bruciato vivo nel giugno del 1571 a Toledo, in Plaza de Zocodover? Anche lui condannato perché eretico? Dopo 7 anni e 8 mesi di carcere, dove verrà sottoposto a torture inaudite? Eppure si tratta di un intellettuale e scrittore di livello europeo. Plurilingue: conosce il latino, l’italiano (che ha imparato a Pisa e Siena, durante l’Università), il castigliano (la lingua allora ufficiale), il catalano e il sardo: le due sue lingue materne, il sardo per parte di madre e il catalano per parte di padre. Scrive la prima storia della Sardegna: “Sardiniae brevis historia et descriptio”, (cui era allegata una carta dell’isola e una veduta di Cagliari, Tabula corographica insulae ac metropolis illustrata), una pietra miliare nel panorama delle lettere isolane, anche perché si tratta dell’archetipo di una serie di scritti del genere letterario storico-descrittivo, destinato ad affermarsi con i secoli nella cultura isolana. Sebastian Münster, geografo, cartografo e grandissimo intellettuale, di fede luterana, vorrà che la storia di Arquer sull’isola, fosse inserita nella sua monumentale opera “Cosmographia universalis” (di cui possediamo, conservata in ottime condizioni nella Biblioteca del Comune a Cagliari una copia originale dell’edizione latina del marzo del 1550). Sospetto e temo che il 4 giugno prossimo, come negli anni precedenti e come sempre, nessuno si ricorderà di Sigismondo Arquer: condannato irreversibilmente alla damnatio memoriae. Il motivo? Perché sardo, ha scritto il nostro più grande poeta etnico, Cicitu Masala: dunque lontano dal centro dell’impero. Per lui nessuna statua. Nessuna celebrazione. Neppure una riga sui libri di storia. Cagliari, bontà sua, gli ha dedicato una viuzza secondaria e insignificante: mica lo slargo dedicato a Carlo Felice! Così pure Quartu. Una vergogna! Eppure almeno noi sardi dovremmo ricordarlo e studiarlo. E’ un nostro eroe: assassinato dal delirio ideologico dell’Inquisizione, esclusivamente perché rivendicava la libertà di coscienza. Durante il lunghissimo processo, rivendicherà con orgoglio la sua sardità che qualcuno voleva negare, addirittura facendolo passare per tedesco. No, ribatterà, sono sardo, di madre cagliaritana e di padre aragonese.
 
 
 
 
 
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ASTENSIONISMO DI MASSA E ABDICAZIONE DEI PARTITI


ASTENSIONISMO DI MASSA
E ABDICAZIONE DEI PARTITI
di Francesco Casula
Anche nelle elezioni del 13-14 febbraio scorsi abbiamo assistito all’esplodere dell’astensionismo di massa. Come e addirittura più che nelle politiche del 25 settembre scorso: in Lombardia ha votato il 41,67 degli aventi diritto e nel Lazio iL 33,11. A Roma, addirittura il 33,1: uno su tre elettori!
Per farla breve hanno votato i parenti, famigli, amici dei Candidati. Più quell’esercito di clientele che ruotano intono ai Partiti, da cui traggono vantaggi. E il voto di opinione? E il voto di “appartenenza” politica, ideologica, culturale? Sostanzialmente evaporato.
Disaffezione, disamore alla politica? No. Disaffezione e disamore alla politica politicante, ovvero alla mala politica dei Partiti: che non sono più credibili. Nella propaganda elettorale affermano una cosa, al governo fanno il contrario. Sono loro la causa dell’astensionismo di massa. Lo denunciano e lo temono, ma confondono l’effetto con la causa: che sono appunto loro stessi.
Gli è che i Partiti, in buona sostanza, sono ridotti viepiù a semplici Comitati elettorale o, peggio, a meri Comitati di affari. Senza radici, senza storia, senza strategia e, ancor meno visione. Senza gruppi dirigenti. Improvvisati e liquidi.
I loro programmi vengono “venduti” prescindendo dai contenuti e valorizzando l’involucro, la confezione, il look, l’immagine.
La loro politica si svuota cioè di contenuti – restano solo quelli simulati – e diventa pura e asettica gestione del potere. Il conflitto fra Partiti – più apparente che reale – diventa lotta fra gruppi, spesso trasversali, in concorrenza fra loro per assicurarsi questa gestione. La battaglia politica diventa perciò priva di telos,di finalità. E poiché i gruppi politici si battono fra loro avendo come unico scopo la gestione del potere e l’occupazione degli Enti – di qualsivoglia genere – da quelli bancari a quelli culturali – purché rendano in termini di soddisfacimento degli appetiti plurimi dei “clienti” più fidati, idee politiche, ideologie, programmi e progetti si riducono a pura simulazione: sono effimeri e interscambiabili. Sostanzialmente omologhi.
Tanto che il valente storico e filologo Luciano Canfora ha parlato di “partito unico articolato” (il termine, riferito al fascismo, è di Gramsci nda) che regna senza contrappesi e senza neppure il popolo, sospettato ormai sistematicamente di avere pulsioni populiste”. E, non è un caso che soprattutto nell’ultimo decennio abbiamo assistito a governi con tutti (o quasi) dentro!
La legittimazione per i Partiti e per i politici non nasce più dalla libera aggregazione di cittadini attorno a finalità e programmi e progetti concordati e condivisi, né dal consenso popolare, né da una delega concessa su obiettivi determinati, né dalla difesa degli interessi di classi o di gruppi sociali.
La legittimazione tende ad essere tautologica: si è legittimati a governare per il fatto stesso di essere al governo. E i Partiti sono legittimati per il fatto stesso di essere all’interno del sistema dei Partiti, ovvero, secondo l’espressione di Canfora, all’interno del “Partito unico articolato“ e, dunque dei suoi obiettivi parametri e “valori”: la guerra, il liberismo, l’unitarismo statale, con “La repubblica una e indivisibile”, (addirittura Fdi vagheggia il Presidenzialismo!), l’atlantismo, il filo americanismo, il produttivismo industrialista con le grandi e devastanti opere (TAV, Ponte di Messina), il nucleare.
E chi putacaso si ponesse fuori o contro tali “parametri”? E’ fuori, non esiste.
A fronte di tutto ciò, c’è da meravigliarsi che più del 60% dei cittadini non si senta più rappresentato e dunque non voti più?

Il sistema politico italiano – le cui articolazioni succursali sarde non fanno eccezione, seguono anzi supine e subalterne le dinamiche continentali – da un bel po’ di tempo (da trent’anni circa), ricorre a un uso più consolidato e spregiudicato dei nuovi mezzi di comunicazione di massa (utilizzando persino Tik Tok!), di tecniche più sofisticate di psicologia di massa, di linguaggio e di controllo dell’informazione. Da indurre a scegliere non i Partiti ma Meloni, Salvini, Berlusconi, Conte, Letta, Calenda o Renzi. sono tutte immagini rappresentative e simboliche del moderno autoritarismo e del gioco simulato, dietro tecniche di comunicazione, in larga parte mutuato dalla pubblicità. Così Partiti, uomini politici, programmi vengono “venduti” prescindendo dai contenuti e valorizzando l’involucro, la confezione, il look, l’immagine. Non a caso nei simboli campeggia, a caratteri cubitali, il nome del leader. Ad esclusione di Letta e Conte.
Non a caso, persino un settimanale, non sospettabile di estremismi, come Famiglia Cristiana, a proposito della convention di Comunione e Liberazione ha scritto nel suo Editoriale: “C’è il sospetto che a Rimini si applauda non per ciò che viene detto. Ma solo perché chi rappresenta il potere è lì, a rendere omaggio al popolo di Comunione e Liberazione. Un lungo applauso del popolo dei ciellini ha accolto il premier. Tutti gli ospiti del Meeting, a ogni edizione, sono stati sempre accolti così: da Cossiga a Formigoni, da Andreotti a Craxi, da Forlani a Berlusconi. Qualunque cosa dicessero. Poco importava se il Paese, intanto, si avviava sull’orlo del baratro. Su cui ancora continuiamo a danzare”.
La politica si svuota cioè di contenuti – restano solo quelli simulati – e diventa pura e asettica gestione del potere. Il conflitto fra Partiti – più apparente che reale – diventa lotta fra gruppi, spesso trasversali, in concorrenza fra loro per assicurarsi questa gestione. La battaglia politica diventa perciò priva di telos,di finalità. E poiché i gruppi politici si battono fra loro avendo come unico scopo la gestione del potere e l’occupazione degli Enti – di qualsivoglia genere – da quelli bancari a quelli culturali – purché rendano in termini di soddisfacimento degli appetiti plurimi dei “clienti” più fidati, idee politiche, ideologie, programmi e progetti si riducono a pura simulazione: sono effimeri e interscambiabili. Sostanzialmente omologhi. Tanto che il valente storico e filologo Luciano Canfora ha parlato di “partito unico articolato” (il termine, riferito al fascismo, è di Gramsci nda) che regna senza contrappesi e senza neppure il popolo, sospettato ormai sistematicamente di avere pulsioni populiste”. E, non è un caso che soprattutto nell’ultimo decennio abbiamo assistito a governi con tutti (o quasi) dentro!
La legittimazione per i Partiti e per i politici non nasce più dalla libera aggregazione di cittadini attorno a finalità e programmi e progetti concordati e condivisi, né dal consenso popolare, né da una delega concessa su obiettivi determinati, né dalla difesa degli interessi di classi o di gruppi sociali.
La legittimazione tende ad essere tautologica: si è legittimati a governare per il fatto stesso di essere al governo. E i Partiti sono legittimati per il fatto stesso di essere all’interno del sistema dei Partiti, ovvero, secondo l’espressione di Canfora, all’interno del “Partito unico articolato“ e, dunque dei suoi obiettivi parametri e “valori”: la guerra, il liberismo, l’unitarismo statale, con “La repubblica una e indivisibile”, (addirittura fdi vagheggia il Presidenzialismo!), l’atlantismo, il filo americanismo, il produttivismo industrialista con le grandi e devastanti opere (TAV, Ponte di Messina), il nucleare.
E chi putacaso si ponesse fuori o contro tali “parametri”? E’ fuori, non esiste.
A fronte di tutto ciò, c’è da meravigliarsi che più del 60% dei cittadini non voti più?

IDENTITA LINGUA SARDA GLOBALIZZAZIONE

IDENTITA’
LINGUA SARDA
GLOBALIZZAZIONE
di Francesco Casula

La nostra lingua è la più forte ed essenziale componente del patrimonio ricchissimo di tradizioni e di memorie popolari: essa sta a fondamento dell’identità della Sardegna e del diritto ad esistere dei Sardi, come nazione e come popolo, affondando essa le sue radici nel senso profondo della sua storia, atipica e dissonante rispetto alla coeva storia e cultura mediterranea ed europea.
Nell’epoca della globalizzazione, il rapporto fra le lingue è un banco di prova – e anche una grande metafora – del rapporto fra le culture. Comunicare restando diversi, ascoltare l’altro senza rinunciare alla propria pronuncia, essere radicati in una tradizione senza fare di questo, un elemento di separatezza o di esclusione o di sopraffazione: il rapporto fra le lingue – la compresenza attiva di moltissime lingue – dimostra che è possibile tendere alla comprensione salvando la differenza.
Nella nostra epoca, come muoiono specie animali e vegetali, così muoiono e si estinguono anche molte lingue o comunque rischiano di essere condannate alla sparizione. Per ogni lingua che muore è una cultura, una civiltà, una memoria ad essere abolita. Un universo di suoni e di saperi a dileguarsi. Preservare allora le specie linguistiche – nonostante le migrazioni, le egemonie mercantili, le colonizzazioni mascherate – dovrebbe essere il primo compito dell’ecologia della cultura e del sapere.
L’idea di una lingua unica perduta è solo un sogno: un frivolo sogno lo definiva già Leopardi nello Zibaldone. E anche l’idea che sia necessaria una lingua unica che permetta a tutti di intendersi immediatamente non riesce a nascondere il disegno egemonico: disegno che è in particolare di ordine mercantile. Anche perché,: “a cosa servirebbe – si chiede il Professor Sergio Maria Gilardino, docente di letteratura comparata all’Università di Montreal (Canada) e grande difensore delle lingue ancestrali – conoscere e parlare tutti nell’intero Pianeta la stessa lingua, magari l’inglese, se non abbiamo più niente da dirci, essendo tutti ormai omologati e dunque privi e deprivati delle nostre specificità e differenze”?
Ma c’è di più: certi programmi “internazionalisti”che prevedono una unificazione linguistica dell’umanità e una scomparsa delle nazionalità, quando non sono inutili esercitazioni retoriche, sono in genere la mistificazione di concezioni sciovinistiche, o addirittura nascondono intenzioni di genocidio culturale di derivazione imperialistica.
Le lingue imposte via via dai colonizzatori hanno sbaragliato e mortificato e distrutto le forme e l’energia inventiva delle lingue locali. Il controllo politico, le ragioni di mercato, i progetti di assimilazione hanno sacrificato tradizioni e culture, suoni e nomi, relazioni profonde tra il sentire e il dire. E tuttavia più volte è accaduto che quelle culture vinte abbiano attraversato le lingue egemoni, irrorandole di nuova linfa creativa: è quel che è accaduto meravigliosamente nelle letterature ibero-americane, è quel che accade oggi nelle letterature africane di lingua portoghese, inglese e francese o nella letteratura nordamericana o in quella inglese. Inoltre le migrazioni hanno dappertutto esportato saperi, confrontato stili di vita e di pensiero, contaminato linguaggi e sogni e memorie. Molti poeti e scrittori del ‘900 appartengono a una storia di migrazioni tra le lingue: da Elias Canetti a Paul Celan, da Vladimir Nabokof a Iosif Brodskij, da Isaac Bashevis Singer a Salman Rushdie, da Witold Marian Gombrowicz a Vidiadhar Suraiprsar Naipaul.

IL GRANDE CARROZZONE CANZONETTARO SI E’ MOSSO

 
 
 
Francesco Casula
IL GRANDE CARROZZONE CANZONETTARO SI E’ MOSSO…
di Francesco Casula
Premessa e prodromo del Carrasegare e delle carnevalate, puntuale come un orologio svizzero, anche quest’anno si è mosso il carrozzone sanremese: zeppo, a isticu a isticu, di personaggi simili a quelli che Orazio, il grande poeta latino, nella undicesima satira, aveva battezzato come balatrones (guitti, comici e buffoni). Anche quest’anno ha primeggiato, fra tutti questi, il menestrello di regime. Nello stesso Festival nel 2011 si improvvisò esegeta del bellicista (e orrendo) inno italico e quest’anno è assurto e si è impancato a interprete della Costituzione, peraltro manipolandola, ad usum Delphini. Un altro guitto, certo Del Branco, fa invece il ribelle. O meglio, il bullo. Naturalmente dentro parametri prestabiliti: tutto è stato infatti previsto, programmato, deciso, preordinato. Serve per rompere la monotonia canzonettara, il lucicchio dei lustrini e degli imbellettamenti, le bolse e viete banalità? No, semplicemente per “fare spettacolo”. Per l’audience, dicono “i moderni”. Tutto qui? No c’è dell’altro e di peggio. Ne scrisse qualche anno fa, in modo straordinario e fulminante, Franco Battiato, a proposito ugualmente di un Festival sanremese,ma che ben si attaglia anche a quello testé celebrato: ”Un inutile spettacolo canoro perfetto per la tv; o meglio un demenziale varietà televisivo, in cui quattro scalzacani travestiti da artisti, fanno da balia a grotteschi presentatori, ridicoli direttori artistici e a damigelle insignificanti. Ancor peggio vedere giornalisti prezzolati, sportivi ed attori del momento, rimpinguare il proprio portafoglio. Non è certamente un’iniziativa il cui scopo principale sia parlare di musica, questi parlano del contorno tiepido e insipido che trema intorno al piatto nel quale gli altri gozzovigliano come corvi affamati”. Tutto burrumballa e dunque tutto al macero, allora? No, ci sono state voci di verità e realtà (drammatiche). E persino giuste e sacrosante denuncie. Ma affogate sommerse e inghiottite dal mare magnum dei rumori scomposti, del pensiero unico e unanimistico, del vuoto pneumatico, dei fatui e finti anticonformismi scandalistici: tutto giocati sulle mascherature e sulle rodomontate; ma soprattutto sulla retorica patriottarda, culminata nel canto dell’Inno italico e addirittura in una “parata” di militari nel palco, protesi in un maxi spot proselitistico. Si dirà : è stato legittimato da 10 milioni di spettatori e dall’immane business televisivo, che si vuole di più? Ma niente. Va tutto bene. Arrivederci al baraccone, al matzamurru del 2024.