CONNOSCHERE SU TEATRU IN LIMBA SARDA: Luigi Matta (1851 -1913 )

CONNOSCHERE SU TEATRU IN LIMBA SARDA:Luigi Matta (1851 -1913)

di Francesco Casula

Luisu (Luigi) Matta nasce a Nuragus il 5 settembre 1851. Dopo alcuni anni
delle scuole elementari, per motivi economici, (l’estrema povertà della sua
famiglia) non potendo proseguire gli studi, lavora nella bottega del padre
che fa il fabbro e insieme fa il contadino. Nel contempo si dedica alla lettura
dei poeti in lingua sarda e rivela grandi doti di improvvisatore. La sua passione
per la poesia sarda lo porta a comporre, per passatempo, all’età di 25
anni, la sua prima canzone dedicata alla Vergine di Bonaria, in cui denota
già di padroneggiare il linguaggio popolare sardo insieme alla buona capacità
di verseggiatore. Intanto decide di farsi prete. Ma per ben due volte le
autorità ecclesiastiche lo respingono: dal collegio Salesiano di S. Pier d’Arena
prima e dal seminario d’Oristano poi. Finché lo accoglierà l’arcivescovo
di Cagliari, Vincenzo Gregorio Berchialla, lo stesso che lo ordinerà sacerdote
l’8 luglio del 1884.
Nello stesso anno viene nominato vicario a San Pietro di Pula (oggi Villa
San Pietro) e due anni dopo viene eletto rettore di Gergei, dove opererà, per
ben 27 anni, fino alla morte avvenuta il 23 aprile 1913 in seguito a una
lunga malattia, all’età di soli 62 anni. Tre anni prima era stato nominato
Canonico. Venne nominato Canonico ordinario con annesso privilegio dei
Protonotari Apostolici il 18 marzo 1910.
Fu oltre che valente oratore, eccellente poeta. Autore di molte composizioni
religiose (gosos, laudes) oltre della canzone di Bonaria già accennata, di una
seconda canzone dedicata alla medesima Vergine nel 1895, di una canzone
dedicata a S. Isidoro, e di una piccola commedia in versi dal titolo “l’Orfanella”,
inedita e di cui non abbiamo il testo.
Ma deve la sua fama soprattutto a due splendide poesie (S’angionedda mia
bella Conchemoru e Tottu in manu mia tengu duas rosas) che compaiono entrambe
nel suo capolavoro, la commedia Sa coia ‘e Pitanu, pubblicata il 15
giugno del 1910. Altre pubblicazioni seguiranno, postume, negli anni
1915,1922,1924,1928, 1938,1951. Ultime in ordine di tempo sono le pubblicazioni
a cura di Fernando Pilia nel 1957; di Silvio Murru (con bella traduzione
poetica a fronte) nel 2009 e di Gian Paolo Anedda nel 2010. A testimonianza
dell’interesse per questo memorabile affresco etnologico ed etnografico
che ebbe – e ancora ha – larga fortuna, specie nel Campidano. Ma
ebbe notorietà anche fuori dalla Sardegna e fu consultata persino da Antonio
Gramsci e Max Leopold Wagner.
Il motivo della pubblicazione è spiegato dall’Autore stesso nella presentazione
della prima edizione, rivolgendosi a is benevolus lettoris: Sa Coia de
Pitanu, chi deu hosi presentu in custa cumme-dia, sighia de una Farsa, non fiat
nascia po conosciri sa luxi de sa stampa, ma cumposta in is oras liberas po ricreazioni
propria. Depustis però chi, ancora manoscritta, hat fattu su giru de is
famiglias in Gergei e in medissimas ateras biddas, i esti istetia rappresentada
cun accoglienzia cortesa in is teatrinus socialis de Monserrau e de Gergei, hapu
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depiu cediri a is replicadas insistenzias de is numerosus e carissimus amigus mius,
is calis dda boliant pubblicada po donai a is compatriottus una lettura amena,
onesta e utili a su populu, scritta in su puru dialettu sardu, asuba de is usus e
costuminis antigus. (Il matrimonio di Pitano, che io vi presento in questa
commedia, seguita da una Farsa, non era nata per conoscere la luce della
stampa, ma composta nelle ore libere per ricreazione propria. Però, dal
momento che, ancora manoscritta, ha fatto il giro delle famiglie in Gergei e
in moltissimi altri pae-si, ed è stata rappresentata con cortese accoglienza
nei teatrini sociali di Monserrato e di Gergei, ho dovuto cedere alle ripetute
insistenze dei numerosi e carissimi amici miei, i quali la volevano pubblicata
per dare ai compatrioti una lettura piacevole, onesta e utile al popolo,
scritta nel puro dialetto sardo, secondo gli usi e costumi antichi).

CONNOSCHERE SU TEATRU IN LIMBA SARDA,1 Carlo Setzu

CONNOSCHERE SU TEATRU IN LIMBA SARDA; 1. Carlo Setzu.

di Francesco Casula

Carlo Setzu (seconda metà secolo XIX – ?)
Nasce a Pirri ( frazione di Cagliari ). Studioso di storia locale e scrittore. Entrò in seminario e divenne sacerdote. Diresse per alcuni anni il periodico Voce Mariana. Tra i suoi scritti La barbagia e i barbaricini (1911), Antico simulacro di Santa Maria Chiara (1917), Calendario storico descrittivo sardo (1918).
Ma in questa sede a noi ci interessa esclusivamente per la sua commedia CUNC’ALLICU * , Commedia di Quattro Atti, in dialetto meridionale sardo, recita il titolo nella copertina.
Ancora prima di essere pubblicata, la sera di Pasqua del 1929 viene rappresentata la prima volta a Pirri dove Setzu è nato, dalla Filodrammatica del Circolo giovanile cattolico Sacro Cuore, mentre la sera del 2 febbraio viene rappresentata a Quartu sant’Elena nel Teatro del Circolo Contardo Ferrini.
Nella breve presentazione, rivolgendosi Al benevole Lettore l’Autore così lo avverte: “Ho scritto questa commediola,allo scopo di lasciare alla nuova generazione, che si alleva sotto il civile e benefico impulso dei nuovi tempi, una pallida idea di quella che fu la Sardegna, coi suoi usi, coi suoi costumi, colle sue ridicole superstizioni, col suo dialetto semplice e rustico.
Il mio lavoruccio però non rappresenta che un tentativo per invogliare altri, più competenti di me, a portare un sassolino sul piedistallo purtroppo poco elevato, del teatro dialettale sardo. Quindi non ha pretese ma solo si affida al benevolo compatimento del lettore il quale, se non altro, potrà procurarsi un quarto d’ora di buon umore”.
Segue il luogo della composizione (Pirri-frazione di Cagliari) e la data 1930 – A. VIII. A indicare l’ottavo anno fascista.
Vedremo infatti che pur avendo come unico obiettivo quello di procurare un quarto d’ora di buon umore al lettore, in realtà la commediola è anche un panegirico del regime e del suo condottiero, protagonisti del cambiamento, del progresso e della evoluzione dell’Isola. Così infatti Setzu fa dire a uno dei suoi personaggi, GAVINO, il figlio medico di CUNC’ALLICU e a lui rivolto :”Fianta àtturus tèmpus cussus dde fostèti. Oi sa Sardigna est cambiada, poìta esti prus civili. Ita ndi boleisi accabai bosu. Si depèis rassegnài, poìta su mundu, est in evoluzioni, bollu nai, continuamenti progredèndi.Sa Sardigna nosta, in àtturus tempus, fiada cunsideràda cumente terra dde esilio, terra de sànguinarius, terra abbruxiada. Oi issa est’istètia portàda a livellu de is ateràs regiònis italianas, po opera de su grand’Omini chi règgidi sa sorti de sa Nazioni nosta :Benitu Mussolini” (Erano altri tempi quelli vostri. Oggi la Sardegna è cambiata perché è più civile. Cosa volete concludere voi. Dovete rassegnarvi, perché, voglio dire, il mondo è in evoluzione, e continuamente progredisce. La nostra Sardegna, in altri tempi, era considerata una terra di esilio, terra di sanguinari, terra bruciata. Oggi essa è stata portata allo stesso livello delle altre regioni italiane per opera del grand’Uomo che regge le sorti della nostra Nazione:Benito Mussolini).
*Cunc’Allicu: Cuncu (o Concu) è – scrive Giovanni Casciu, autore di un pregevole Vocabolario Sardu-campidanesu/Italiano – “una voce di rispetto che si usa rivolgendosi ai nonni o ai vecchi in genere, sempre seguito dal nome proprio”. In questo caso da Alliccu, diminutivo di Raffaele, dunque Raffaelliccu, di qui “Alliccu”, il nome del protagonista della Commedia.

NAPOLITANO L’ULTRASABAUDO

NAPOLITANO L’ULTRASABAUDO
di Francesco Casula
Da sempre si è favoleggiato di Giorgio Napolitano figlio di Umberto II. Un giornalista, certo Cristiano Lovatelli Ravarino lo ha scritto esplicitamente in un articolo il 5 marzo 2012 in cui parla della madre di Napolitano che, “dama di compagnia di Maria Josè, divenne amante di Umberto II, da cui sarebbe nato il nostro pargolo”. Penso che sia una fola e comunque non mi interessa: credo infatti che appartenga al genere gossip e scandalistico che tanto piace a certa stampa italica e a certa opinione pubblica decerebrata. Mi interessa (e indigna) invece l’essere lui stato un cinico ultrasabaudo, giustificatore dello sterminio piemontese nel Meridione, in nome dell’Unità d’Italia, celebrata come foriera “di magnifiche sorti e progressive” invece che fonte di disastri e infamie e di devastante colonialismo interno, consumato sulla pelle e sul sangue dei sardi e dei popoli del Sud. Ecco cosa dichiarava in veste di Presidente della Repubblica nel Discorso al Parlamento in occasione dell’apertura delle celebrazioni del 150ºanniversario dell’Unità d’Italia: “Fu debellato il brigantaggio nell’Italia meridionale, anche se pagando la necessità vitale di sconfiggere quel pericolo di reazione legittimista e di disgregazione nazionale col prezzo di una repressione talvolta feroce in risposta alla ferocia del brigantaggio e, nel lungo periodo, col prezzo di una tendenziale estraneità e ostilità allo Stato che si sarebbe ancor più radicata nel Mezzogiorno” Pare che poco abbia imparato da uno che avrebbe dovuto essere, in quanto comunista, un suo maestro. Mi riferisco ad Antonio Gramsci che ha scritto:” “Lo stato italiano è stata una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti.” Molti furono, infatti, i paesi e le città che diedero un contributo in vite umane. Da ricordare prima di tutti il massacro di Bronte da parte di garibaldini comandati da Nino Bixio, e poi San Lupo ed altri paesi completamente rasi al suolo, Casalduni e Pontelandolfo che il Generale Cialdini fece distruggere ed incendiare dopo aver fatto trucidare i cittadini inermi. La crudeltà di quella che fu una vera e propria guerra civile, si manifestò anche con gesti disumani come l’esposizione in pubblica piazza dei cadaveri dei briganti o delle loro teste mozzate. E passi non aver ascoltato Gramsci, per lui troppo di sinistra, ma almeno da un giornalista moderato come Paolo Mieli, avrebbe dovuto imparare qualcosa. Ecco quanto ha sostenuto il prestigioso giornalista e storico :”Il Sud è vittima di una storia negata e con l’occupazione piemontese ha subito massacri e stupri indicibili, citando Pontelandolfo e Casalduni, i nazisti hanno imparato dagli italiani”. Ma tant’è: il pluripresidente ultrapatriottardo e statalista, giustifica tutto ciò in nome e per conto del superiore valore dell’Unità. Alla stessa maniera giustificò, anzi elogiò senza mezzi termini il brutale intervento dei carri armati di Mosca in Ungheria, parlando nell’VIII congresso del Partito comunista italiano, (che si tenne a Roma dall’8 al 14 dicembre 1956) e sposando totalmente la linea stalinista dettata dal segretario Palmiro Togliatti. Questa volta in nome dei superiori valori dell’URSS e dell’Unità dei Paesi Comuinisti! Qui mi fermo: ma occorrerà pur ritornare al suo novennato come Presidente della Repubblica, segnato da una serie di decisioni e comportamenti nefasti: il suo ruolo nella guerra alla Libia, il suo (vergognoso) no a Gratteri ministro della Giuistizia, la nomina di Monti capo del Governo ma soprattutto i suoi comportamenti e atti, per lo meno obliqui, nei confronti della trattativa Stato-mafia.
 
 
 
 
 
 
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Ricordiamo Francesco Masala a 107 anni dalla sua nascita

Ricordiamo Francesco Masala a 107 anni dalla sua nascita.

di Francesco Casula

Il poeta e il romanziere bilingue dei Sardi “vinti ma non convinti”
nasce a Nughedu San Nicolò, nel Logudoro, in provincia di Sassari il 17 settembre 1916.
Dopo il liceo a Sassari si laurea a Roma con Natalino Sapegno con una tesi sul teatro di Pirandello.
Nella seconda guerra mondiale combatte prima sul fronte iugoslavo e poi sul fronte russo dove viene ferito e decorato al valore militare. Al termine del conflitto insegna per 30 anni Italiano e storia prima a Sassari poi a Cagliari. Per oltre 50 anni collabora con giornali e riviste, – fra cui con i quotidiani “L’Unione Sarda” e “La Nuova Sardegna” – con articoli di critica letteraria, artistica e teatrale, lui che chiamava con dispregio pisciatinteris (pisciainchiostro) i giornalisti.
Scrive anche per il periodico bilingue “Nazione Sarda”,nato nel 1977 e a cui collaborarono intellettuali come l’archeologo Giovanni Lilliu, gli scrittori Antonello Satta e Eliseo Spiga, l’economista e federalista europeo Giuseppe Usai, il poeta e drammaturgo Leonardo Sole, la pedagogista Elisa Nivola, lo scultore Pinuccio Sciola.
Il periodico – insieme ad altre riviste – si fa promotore di un Comitadu pro sa limba (Comitato per la lingua sarda) che elaborerà una proposta di legge di iniziativa popolare – la prima nella storia della Sardegna – per introdurre nell’Isola il Bilinguismo perfetto, in base all’articolo 6 della Costituzione. La proposta di legge, sottoscritta con firme autenticate da 13.650 elettori sardi verrà presentata il 17 Giugno del 1978 al presidente del Consiglio regionale da Francesco Masala.
Lo scrittore – che era il presidente del Comitadu pro sa limba – era sempre più impegnato sul fronte della difesa e della valorizzazione della Lingua sarda e dunque della necessità di introdurre nell’Isola il Bilinguismo perfetto, con la parificazione giuridica e pratica del Sardo con l’Italiano, ad iniziare dall’introduzione nelle scuole di ogni ordine e grado della Lingua sarda nell’insegnamento e nei curricula scolastici.
Nel 1951 vince il “Premio Grazia Deledda” e nel 1956 il “Premio Cianciano”. Le sue opere vengono tradotte in numerose lingue. Legato da amicizia e affinità politica con Emilio Lussu, Giuseppe Dessì e Salvatore Cambosu ma anche con Gian Giacomo Feltrinelli, è autore di una sterminata serie di libri. La sua fama si lega in eguale misura ai suoi versi e ai suoi scritti in prosa, ma il primo successo gli venne dalla poesia, non tanto per la prima raccolta del 1954 Lamento e grido per la terra di Sardegna, quanto per la seconda di due anni dopo, Pane nero – che verrà tradotta in russo, iugoslavo e spagnolo – e Il vento, una silloge pubblicata nel 1961. Quindi, nel 1968, il suo primo romanzo Quelli dalle labbra bianche, che verrà tradotto in ungherese e in francese (da Claude Schmitt per la casa editrice Zulma, con il titolo di Ceux d’Arasolè).
Nei primi anni Settanta ci sarà la trasposizione teatrale firmata da Giacomo Colli e realizzata dalla Cooperativa Teatro di Sardegna, con il titolo Sos laribiancos. Mentre nel 2001 il regista Piero Livi traspone in un film, il romanzo tragedia della guerra, con il biancore mortuario delle nevi russe.
Nello stesso anno esce un’altra raccolta di poesie Lettera della moglie dell’emigrato. Nel 1974 si presenta al pubblico con la raccolta delle poesie Storie dei vinti mentre nel 1976 per il teatro scrive – in collaborazione con Romano Ruiu e con il regista Gian Franco Mazzoni – il dramma popolare bilingue Su Connotu (Il conosciuto). In sardo-italiano scrive anche due radiodrammi trasmessi dalla Rai nel 1979 e nel 1981, Emilio Lussu, il capo tribù nuragico e Gramsci, l’uomo nel fosso. Sempre nel 1981 pubblica Poesias in duas limbas (Poesie in due lingue) tradotte in francese; nel 1984 Il riso sardonico (saggi); nel 1986 il suo secondo romanzo, Il dio petrolio, tradotto in francese con il titolo Le curè de Sarrok, ambientato proprio a Sarrok (Cagliari), città simbolo dell’industria petrolchimica (de s’ozu de pedra: dell’olio di pietra), che secondo Masala avvelenerà e devasterà alcuni fra gli angoli più suggestivi della Sardegna, sconvolgendo anche a livello antropologico le popolazioni.
Sempre nel 1986 pubblica il saggio Storia dell’acqua mentre nel 1987 la Storia del teatro sardo. Nel 1989 pubblica il suo primo romanzo in lingua sarda: S’Istoria (Condaghe in limba sarda) nel quale Masala riprende e amplia nel tempo la vicenda di un paese simbolo della Sardegna, Biddafraigada (paese costruito) e poi nel 2000 con Sa limba est s’istoria de su mundu (La lingua è la storia del mondo) ancora la storia di un villaggio malefadadu (sfortunato) di contadini e pastori. Muore il 23 gennaio del 2007.

9 settembre: ANNIVERSARIO DI UN’ INFAMIA

9 settembre: ANNIVERARIO DI UN’INFAMIA

di Francesco Casula

ieri 9 settembre ricorreva l’Anniversario di un’infamia, di cui si macchiò ignominiosamente Vittorio Emanuele III (più conosciuto come Sciaboletta): la quinta. Dopo le due Guerre mondiali di cui fu grande ed entusiasta sostenitore, dopo il Fascismo, che volle al potere nominando Mussolini capo del governo, dopo le leggi razziali.
Ecco cosa fece il 9 settembre del 1943.
Persa ormai la guerra e convinto ormai che il disastroso esito del conflitto potesse segnare non solo la fine del regime fascista ma anche quello della monarchia, Vittorio Emanuele arresta Mussolini (25 luglio 1943) e nomina nuovo capo del Governo il maresciallo Badoglio. Il giorno dopo l’Armistizio, il 9 settembre, insieme a Badoglio stesso abbandona Roma e fugge prima a Pescara e poi a Brindisi, nella zona occupata dagli alleati. L’ignominiosa fuga avrà conseguenze devastanti. E la Sardegna pagherà un altissimo tributo a questa fuga: 12.000 mila i soldati sardi IMI (fra i 750-800 mila militari italiani fatti prigionieri dai tedeschi dopo l’armistizio) verranno rinchiusi nei lager nazisti. Per spiegare un numero così alto di militari sardi deportati occorre capire la situazione in cui si trovarono nei fronti di guerra (Grecia, Albania, Slovenia, Dalmazia) dopo l’8 settembre. Con la difficoltà di tornare in Sardegna e sbandati, dal punto di vista politico come militare – non esistendo più una unità di comando e di direzione – essi furono posti di fronte all’alternativa di aderire alla RSI (Repubblica sociale di Salò) o di diventare prigionieri dei tedeschi e dunque di essere imprigionati nei lager. Abbandonati da Badoglio, quasi nessuno aderì alla RSI e dunque il loro destino fu segnato.
12 mila giovani sardi, anche giovanissimi (18-20 anni) furono internati nei campi di concentramento. Di questi pochissimi torneranno liberi in Sardegna mentre degli altri, ancora oggi non sappiamo niente. La Regione sarda in questi 80 anni non ha speso un soldo per fare ricerche negli Archivi militari per sapere dove e come sono morti questi giovani.
E’ il nostro Olocausto: che i libri di storia e i Media in genere, si guardano bene dal ricordare. L’Olocausto è sempre quello che riguarda gli altri, non noi sardi.

Claudia Aru: SARDA DONNA ARTISTA

Claudia Aru: SARDA DONNA ARTISTA

di Francesco Casula

Claudia Aru incardina e incarna il suo essere donna e artista nell’essere sarda. La sua sardità infatti (o sarditudine che dir si voglia) sostanzia, corrobora e plasma la donna e l’artista che è in lei.
Donna decisa empatica brillante. Artista esplosiva intrigante poliedrica e versatile. Compone recita balla inventa. Canta e incanta. E’ affilata e creativa affabulatrice. Una completa e deliziosa cabarettista: se questa figura non fosse ridotta – come oggi rischia – a mero guitto che diverte e ispassia.
Sia ben chiaro, la componente ludica e scherzosa in Claudia Aru è presente: ma la sua attività/arte non può essere ridotta a puro divertissement e gioco. E’ sempre presente e sottesa la dimensione dell’engagement, dell’impegno, del messaggio, culturale e persino politico: mai insistito e predicatorio, spesso subliminale e in suspu ma talvolta anche esplicito diretto e aperto: invitante e persino incitante alla lotta per il cambiamento.
Un messaggio h identitario: ad iniziare dalla lingua sarda che utilizza. Di una identità dinamica e variabile, fatta di somme e di accumuli e non di sottrazioni successive. Non immobile o primigenia o “autentica”: anche perché l’autoctono puro non esiste. Come non esiste un “terroir” identitario sicuro e definitivo, come per il vino. Gli umani – come le piante – hanno certo “radici”, ma insieme viaggiano cambiano sono ibridi creoli e multipli, figli di molte generazioni e di molte culture e di infiniti incontri: influenzati dal sangue e dalla storia tanto quanto dal loro libero mutare, abitare, imparare. Non esistono quindi identità blindate o troppo ingombranti. L’Identità che esiste è invece lo specchio fedele di stratificazioni culturali secolari su un potente sostrato indigeno che fa da coagulo.
L’Identità cui si rifà Claudia Aru – almeno questo ho capito, assistendo ai suoi Concerti, ascoltando le sue canzoni e leggendo i suoi testi – opera come un meccanismo che genera atti contemporanei, inclusi pensieri e azioni, certo basati anche sulle esperienze del passato, ma nei termini accrescitivi di un confronto nel tempo perché è in quel confronto, in quello scambio intersoggettivo che trova la ragione la capacità di conservare ma anche di progettare e di accogliere e di proporre, di ricevere e di dare. Ciascuno è figlio della propria terra ma anche figlio del mondo intero. Occorre dunque partire dal “luogo della differenza” per riconoscerci e appartenerci e insieme da quel luogo, dal valore della diversità segnata da una storia dissonante e da arresti anche drammatici ma carica di significati millenari: ripartire, muovere per disegnare nel presente la nostra storia futura, il progetto della nostra terra.
L’Identità non è mai definitiva ma è da rielaborare continuamente. Da ricostruire in progress, secondo la logica del bricolage, nella dimensione di un grande blob che crea inedite adiacenze tra segni e simboli delle vecchie certezze e nuovi elementi mobili dai confini elastici. La purezza infatti è l’unico ingrediente che non dovrebbe mai entrare nella composizione del concetto di identità. Hitler che era nostalgico di quella famosa purezza della razza, perpetrò il più grande genocidio della storia. Essere identici significa essere unici: l’individuo è unico ma nello stesso tempo somiglia agli altri individui. La nostra diversità sta in questa unicità. Sappiamo da tempo che una identità chiusa e inaridita, perde il suo profumo e la sua anima. Un’identità è qualcosa che dà e riceve. In essa nulla è cristallizzato, definitivo. L’identità insomma è una casa aperta, che si ingrandisce e si arricchisce ogni giorno.
L’identità dunque non è un dato rassicurante e permanente ma è quella che diventa fatto nuovo, che interroga l’esperienza del tempo attuale, per affrontare il presente nella sua drammatica attualità, per definire un orizzonte di senso, per situarci e per abitare, aperti al suo respiro, il mondo, lottando contro il tempo della dimenticanza e della smemoratezza.
L’identità dunque si vive, nel segno della contaminazione, del contatto e della creolizzazione e, insieme, dell’appartenenza. L’identità è quella che si trasforma in questione operativa: che diventa progetto e l’appartenenza diventa storia, caricandosi di vita, suscitando conflitti, impegnandosi con le lotte a trasformare il presente e costruire il futuro.
Si muove sulla medesima dimensione la sua musica: antica e moderna insieme. Ricca di contaminazioni e ibridazioni. Come i suoi testi in cui fa ressa la tradizione e l’innovazione: tradizione vissuta e considerata – per usare il fulminante aforisma di Gustav Mahler, grande compositore austriaco – “come rigenerazione del fuoco e non come venerazione delle ceneri”.
La caratteristica fondamentale di Claudia Aru è però l’ironia: quell’ironia che Lussu sosteneva essere “atavicamente sarda”. Emerge sempre nei suoi spettacoli e nei suoi Concerti e nelle sue canzoni: ma segnatamente quando utilizza la variante campidanese della lingua sarda. Perché essa s’impernia su una abitudine canzonatoria e ironica: meno sonora e sostenuta del logudorese, si presta infatti maggiormente alla beffa e al rapido motto. Essa infatti già di per se stessa risulta particolarmente adatta per esprimere la satira, il comico, l’ironico, il giocoso. Forse perché lo stesso dizionario di immagini, lo stesso lessico dei modi di dire e di schemi figurativi possiede già al suo interno idee e impressioni e suoni atteggiati dall’anima popolare nella forma del paradosso, della battuta, della satira. Questo spiega – fra l’altro – perché in sardo-capidanese sono stati prodotti capolavori come “Sa scomunica de predi Antiogu” e testi teatrali memorabili come “Bellu schesc´e dottori” di Emanuele Pili o “Ziu Paddori” di Efisio Vincenzo Melis.