Riscrivere lo Statuto come Carta De logu di sovranità

Riscrivere lo Statuto. Come nuova Carta De Logu di sovranità.
di Francesco Casula
Nato nel lontano 1948, già depotenziato, debole e limitato – più simile a un gatto che a un leone, secondo la colorita espressione di Lussu – lo Statuto sardo in questi circa 70 anni di storia si è rivelato, sostanzialmente, un fallimento. Molte le cause. Ad iniziare da quella che lo storico Francesco Cesare Casula individua con nettezza scrivendo: “Nello Statuto sardo non c’è nessun preambolo che supporti le ragioni dell’essere, nessuna coscienza storica che giustifichi il perché dovremmo essere trattati diversamente dalle altre 19 regioni italiane. Esso apre con un desolante titolo l: «La Sardegna con le sue isole è costituita in regione autonoma fornita di personalità giuridica entro l’unità politica della Repubblica italiana, una e indivisibile, sulla base dei principi del¬la Costituzione e secondo il presente statuto … » “.
In altre parole, secondo il nostro più grande storico medievista “Lo Statuto sardo, difetta di un preambolo giustificativo nella contrattazione col governo centrale, ben presente nello Statuto catalano, che fonda la sua contrattazione sulla peculiarità nazionale promanante dall’ antico Principato di Catalogna. Ed è quanto purtroppo manca da noi. sebbene abbiamo più ragioni dei Catalani di rifarci alla storia per una rivendicazione autonomistica non solo speciale ma particolare essendo – la nostra – la prima regione d’Italia, da cui nasce lo Stato oggi chiamato repubblica Italiana”.
Ma se pur anco i legislatori della Costituente e i padri della nostra Autonomia non avessero voluto tener conto di tutto ciò, almeno avrebbero dovuto partire, nella formu-lazione dello Statuto, da un dato difficilmente contestabile: essere la Sardegna una nazione, avendo una sua peculiare e specifica identità etno-storica-culturale-linguistica. In realtà i Costituenti che dotano la Sardegna di uno “Statuto speciale” questo lo sanno e lo riconoscono. Perché altrimenti uno Statuto speciale all’Isola? Per motivi econo-mici? Ovvero per la povertà, l’arretratezza e il sottosviluppo? E come spiegare allora che non verrà concesso uno Statuto speciale a molte regioni italiane sicuramente allora più povere, arretrate e sottosviluppate? Come la Lucania o l’Abruzzo?
Il motivo economico – peraltro ben documentato dall’ articolo 13, che è la cartina di tornasole della scelta politica: “Lo Stato italiano col concorso della Regione, dispone un piano organico per favorire la Rinascita economica e sociale dell’Isola” – è la foglia di fico per nascondere i veri motivi – storici-culturali-linguistici – che se riconosciuti formalmente, avrebbero dato vita a ben altro Statuto, a ben altri poteri della Regione pro¬prio sul versante culturale-linguistico, che non a caso sono del tutto assenti.
Occorre inoltre aggiungere che in questi 70 anni ha subito un processo di progressi¬vo svuotamento e di compressione sia dall’esterno, cioè da parte dello Stato centrale, sia dall’ interno, ovvero da parte delle forze politiche dirigenti sarde, che non sanno usare e, spesso, non vogliono utilizzare, gli stessi strumenti, possibilità e spazi che l’autonomia regionale offriva.
Basti pensare a questo proposito alla vicenda delle norme di attuazione, che avrebbero dovuto riempire di contenuti le astratte previsioni statutarie, stabilendo quali dovevano essere i poteri reali della Regione nelle materie attribuite alla sua competenza. Queste norme o vengono emanate tardi, o non vengono emanate per niente, o vengono emanate in modo ecce¬zionalmente riduttivo. E comunque non vengono quasi mai poste in atto. Ciò per con¬statare come le forze politiche sarde abbiano svilito la stessa limitata autonomia. statutariamente riconosciuta.
Non solo. Nato come Statuto speciale, oggi risulta dotato di meno poteri delle regioni a Statuto ordinario costituite nel ’70, e di fatto, rappresenta oramai un ostacolo alla realizzazione di una vera Autonomia, o peggio: serve solo come copertura alla gestione centralistica della Regione da parte dello Stato, di cui non ha scalfito per niente il centralismo. Paradossalmente lo ha perfino favorito, consentendo ai Sardi solo il succursalismo e l’amministrazione della propria dipendenza.
La Regione sarda di fatto, in questi 70 anni di storia, ha operato come mera struttura di decentramento e di articolazione burocratica dello Stato e come centro di raccordo e di mediazione fra gli interessi dei gruppi di potere locali e la rapina neocolonialista, soprattutto del Nord: esemplare in questo è la vicenda della industrializzazione petrol-chimica..
Da tempo perciò possiamo ormai considerare consumato il suo fallimento storico contestuale a quello della Rinascita: ma fino ad oggi sono falliti miseramente anche i tentativi di un suo rilancio e rianimazione, prima attraverso la cosiddetta politica contestativa e rivendicazionistica della Regione nei confronti dello Stato degli anni ’70 e, più recentemente, attraverso una Commissione nominata ad hoc dal Consiglio Regionale.
Oggi è giunto il momento di imboccare decisamente la strada del rifacimento dello Statuto Sardo, una nuova Carta de Logu, come vera e propria Carta Costituzionale di Sovranità per la Sardegna, che ricontratti su basi federaliste il rapporto Sardegna-Stato Italiano e che, partendo dal¬l’identità etno-nazionale dei Sardi, ne sancisca il diritto a realizzare l’autogoverno, l’autodecisione, l’autogestione economica e sociale delle proprie risorse e del territorio, il diritto a usare e valorizzare la propria lingua e cultura, a gestire la scuola, i trasporti, il credito, le finanze e l’ordine pubblico, la possibilità di controllare i grandi mezzi di comunicazione di massa e dell’informazione, di fronte alla quale oggi la Regione è totalmente disarmata e niente può fare perché essi rispondano a criteri di uso demo¬cratico e socialmente utile. Il potere infine, in settori fondamentali quali la difesa e i rapporti internazionali, di esprimere parere vincolante in merito a tutte le iniziative che tocchino gli interessi vitali della Sardegna.
Uno Statuto siffatto non garantirà automaticamente l’Indipendenza statuale dell’Isola ma ne costituirà certamente un corposo e indispensabile presupposto.

Non paghi le tasse? Ti sequestro la casetta l’orto e il carro a buoi.

Francesco Casula
 di Francesco Casula
Dopo l’abolizione del feudalesimo nel 1838 “una pressione fiscale senza precedenti investì le campagne sarde” (Girolamo Sotgiu). Il Piemonte dei tiranni sabaudi doveva risarcire, per l’incameramento dei terreni feudali, gli ex baroni, pagando la rendità a una cinquantina di famiglie. Dal 1841, nel bilancio dello Stato gravò per il riscatto dei feudi una spesa che dalle iniziali 494.336 lire sarde giunse nel 1847 a 655,838: IL 10% dell’intero bilancio. Una cifra esorbitante, per risarcire, ripeto 50 famiglie, se solo pensiamo che oggi lo Stato italiano investe per l’intera istruzione, per scuola e università poco più dell’8% del budget statale. La pressione fiscale nei confronti dei Sardi continuerà, assolutamente sperequata e sproporzionata rispetto alle reali capacità contributive dei suoi abitanti, dopo l’Unità d’Italia, documentata a più riprese dagli articoli di Antonio Gramsci sull’Avanti. Ma come facevano i Sardi a pagare tutte quelle tasse? Non essendo in grado di pagarle, non le pagavano. Entrava allora in funzione, brutale e cinica, la prassi del sequestro: ti sequestravano (pardon, lo Stato “incamerava”) una casetta che potevi possedere, un orto, il carro a buoi. Francesco Saverio Nitti, presidente del Consiglio tra il 1919-1920 in un’opera (Il Risorgimento) documenta e censisce gli incameramenti (=sequestri) dei beni per chi non ha pagato (o non è stato in grado di pagare) le tasse. Ecco i dati riguardanti gli anni 1885/1897: In Italia vengono sequestrati 52.867 beni In Sardegna 52.080 beni. Insomma nella sola Sardegna la metà estatta dei sequestri di tutta l’Italia! Dopo gli anni analizzati, scriverà Nitti, la situazione per la Sardegna peggiorerà ancora! Bene: e oggi? Si continua su quella strada indicata dai sabaudi.
 
 
 
 
 
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SACRO E PROFANO NELLA LETTERATURA NELLA CULTURA E NELLA TRADIZIONE POPOLARE…

 

 
Francesco Casula
 di Francesco Casula
Sacro e profano nella cultura e nella tradizione popolare sarda rappresentano un binomio inscindibile che s’incarna e s’incardina i tutta la nostra storia, passata e presente. Entro subito in medias res con un esempio tratto dalla letteratura sarda, un passo dell’opera di Sigismondo Arquer “Sardiniae brevis historia”: Quando i contadini celebrano qualche festa, dopo la Messa, per tutto il resto della giornata e della notte ballano – uomini e donne – dentro la chiesa del Santo, cantando canzoni profane; inoltre uccidono maiali, montoni e buoi e mangiano allegramente di queste carni in onore del Santo. Vi sono anche di quelli che ingrassano qualche maiale in onore di un santo, per poterlo poi mangiare durante la festa, spesso in una chiesina costruita fra i boschi. E se la famiglia non è tanto numerosa da poter consumare tutta quella carne, perché non ne avanzi, invitano altre persone al banchetto che si fa dentro la chiesa stessa. E siamo nel 1550! Ma a parte questo chiarissimo esempio di connubio e di ibridazione fra sacro e profano in realtà questo è presente in tutta la cultura popolare sarda come nelle tradizioni e le Feste: che sono nello stesso tempo religiose e profane. Alcuni studiosi fanno risalire alcune feste popolari e religiose addirittura al periodo prenuragico o comunque a quello nuragico in cui le comunità sarde periodicamente si ritrovavano e si riunivano nei “santuari” di allora: a Santa Cristina di Paulilatino come a Santa Vittoria di Serri. L’intelligenza e la flessibilità della Chiesa cattolica è stata nel sopprimere ma nello stesso tempo di recuperare e mediare quel senso di segno magico-pagano e profano, quell’universo mitico di estrazione folclorico-rurale, proveniente da antichissime abitudini precristiane, mai completamente sradicate, nell’ambito sacro del Cristianesimo e delle sue feste. Tanto che oggi non esiste scadenza liturgica importante che non presenti innesti di tipo pagano-profano, che la Chiesa comunque renderà compatibili con la simbologia cristiana, riplasmandoli in questo modo dal Natale alla Pasqua, dalla Quaresima alla Festa dei morti, dalla festa di San Giovanni a quella di Sant’Efisio, un’ampia gamma di soluzioni sincretistiche punteggerà in modo discreto ma persistente lo sviluppo dell’intero anno liturgico, per non parlare della loro presenza nel ciclo esistenziale di ciascun individuo: dalla culla alla bara. Dicevo della Pasqua (in sardo sa Pasca manna per distinguerla dae sa Paschixedda). Ebbene nelle Feste pasquali, nella settimana santa, nel ricordo rituale e drammatizzato della Passione di Cristo, l’elemento sacro e religioso si coniuga e si unisce a quello profano, riferibile al cosiddetto ciclo dell’anno e a rituali magico propiziatori legati, soprattutto in ambito rurale, alla rigenerazione primaverile della natura. Cosicché nell’elemento che accomuna la liturgia ufficiale della Chiesa e gli usi locali, le cosiddette paraliturgie, vi è la consapevolezza di vivere in quei giorni, una fase di passaggio e di rinnovamento interiore, di transito da una condizione di negatività a una, auspicata e propiziata, di benessere e prosperità di nuova vita. Abbiamo così due tipologie di rituali: quelli propriamente liturgici, con i riti del sacro oggetto della liturgia di Santa romana chiesa (fino a non molto tempo fa celebrati in latino) e quelli paraliturgici, in genere tramandati dalle Confraternite, dalla gente comune che spesso riprendono e riadattano a uso del popolo, i cerimoniali ufficiali, altre volte si sovrappongono ad essi introducendo, sincreticamente, usi e credenze di origine precristiana. Due tipologie di rituali insomma che a volte convergono a volte sembrano configgere fra loro e, per questo motivo hanno subito talvolta nel corso dei secoli e persino oggi, l’ostracismo e l’opposizione delle autorità ecclesiastiche. Persino oggi il rapporto fra parroci e sodalizi confraternali, vere e proprie macchine collaudate per trasmettere le paraliturgie, non sempre è stato o tuttora è idilliaco: ma a scontrarsi più che il sacro con il profano spesso è la tradizione sostenuta dalle comunità locali dei credenti con la linea ufficiale della Chiesa. Finché i due binari quello dell’ufficialità e quello della località scorrono paralleli e in rapporto di buon vicinato, non si verifica alcun problema. Le difficoltà emergono invece quando vi sono dei reali o presunti sconfinamenti di campo. Persino nelle cronache giornalistiche assistiamo a contrasti e brias fra Parroci e Confraternite e Pro Loco. O prendiamo la Festa di San Giovanni del 24 giugno. Ebbene fin dal primo Cristianesimo, di età patristica, la Chiesa ha fatto confluire in un tema della liturgia (Il giorno natale del Battista) quel che rimaneva allora del culto solstiziale di un’antica visione urano- agraria legata al momento del raccolto e ricco di valenze propiziatorie (della terra e della donna). Il culto si è imposto alla Chiesa come qualcosa che sarebbe stato difficile sradicare tanto che ancora oggi sopravvivono elementi precristiani: i falò (su fogaroni), la raccolta delle erbe da destinare a chi verrà scelto come compare. Is cannas friscas. Proprio il Comparatico di S. Giovanni colpirà l’interesse di un illustre viaggiatore italiano in Sardegna. Alberto Ferrero della Marmora, torinese, scrittore, geografo e militare che visiterà la Sardegna, la prima volta nel 1819 e in seguito vi soggiornerà più volte. Egli infatti soggiornò nell’Isola, sebbene non stabilmente, per un arco di quasi quattro decenni, dal 1819 al 1857. Scriverà Itinerarie de l’île de Sardaigne (1860) ma soprattutto quei monumenti che sono i quattro volumi di Voyage en Sardaigne, ou description statitique, phisique e politique de cette ile, avec des recherches sus ses produtions naturelles et ses antiquités (1826). In quest’opera scriverà a proposito della Festa di San Giovanni: Oltre al comparatico per un bambino tenuto al battesimo o alla cresima, ve n’è un terzo detto di S. Giovanni, che è in uso solo fra i campagnuoli. Due persone di sesso diverso, ed in generale coniugate, si scelgono reciprocamente come compare e comare di San Giovanni: l’accordo si conclude presso a poco due mesi prima. Alla fine del mese di Maggio, la futura comare prende un pezzo grande di cor¬teccia di sughero, lo arrotola facendone un vaso, lo riempie di terra e vi semina un pizzico di grano della qualità migliore. S’innaffia, di tanto in tanto la terra con cura e il grano germina rapidamente, sì che in capo ad una ventina di giorni si vede un bel ciuffo detto erme o nènneri. Il giorno di S. Giovanni il compare e la comare prendono que¬sto vaso e, accompagnati da un corteo numeroso, s’incamminano verso una chiesetta dei dintorni. Giunti là, uno dei due getta il vaso contro la porta; poi tutti insieme mangiano una frittata colle erbe: infine ciascuno, mettendo le mani su quelle del suo vicino o della vicina, ripete ad alta voce ed a più riprese, queste parole: compare e comare di S. Gíovanni; si balla per parecchie ore e la festa è fi¬nita. Parlando di Feste popolari e religiose in cui il binomio sacro-profano è corposamente presente e difficilmente separabile non si può sottacere quella di Sant’Efisio a Cagliari. Si celebra da secoli (i656) il primo maggio, ininterrottamente (a parte l’interruzione per il Covid) e rientra all’interno di quelle Feste che si celebrano numerose ogni anno per assolvere l’impegno di un voto fatto dalla cittadinanza in seguito alla diffusione della peste, che si credette risolta con un intervento miracoloso del santo. Fu scelto proprio il mese di maggio poiché simbolo di rigenerazione della natura. Anche questa Festa, storicamente ed ancora oggi è presente insieme, una forte dimensione religiosa e devozionale ma anche ampi tratti profano- folcloristici, ludici e spettacolari e, viepiù consumistici e di mercato. Occorre infatti affermare con nettezza ed essere consapevoli, pur senza moralismi predicatori, che molte feste popolari e religiose – soprattutto quelle ad alta intensità di partecipazione di vere e proprie folle (a Cagliari Sant’Efisio, a Sassari I candelieri e a Nuoro Il Redentore) a poco a poco e progressivamente si stanno trasformando in una celebrazione meramente consumistica, in larga parte gestite secondo modelli elargiti a piene mani dall’industria culturale-mediatica dell’immagine e del mercato. In cui rischia di scomparire non solo la dimensione religiosa ma anche quella profana della tradizione culturale e simbolica del nostro passato. La festa rischia infatti di entrare solo nell’economia dei consumi, come semplice momento ludico ed edonistico, cui si assiste ma non si partecipa. E magari è fatta – penso soprattutto alle grandi Feste come San’Efisio – più per i turisti che per i sardi. Occorrerà una battaglia per restituire alla Festa, popolare e religiosa, la sua dimensione e funzione autentica, di strumento prezioso di incontro e autoconsapevolezza di sé e delle proprie radici, di conoscenza delle nostre tradizioni e della nostra civiltà oltre che della propria fede religiosa. Una Festa, come simbolo sacro della propria identità, della propria appartenenza e sodalità di paesani, soprattutto a fronte della omologazione crescente, culturale prima ancora che economica. Dobbiamo infatti considerare e vivere la Festa religiosa popolare tradizionale come un nostro bene culturale identitario, un nostro rito collettivo comunitario di sarditudine, irrinunciabile per le nostre comunità locali, che coniuga la tradizione e la cultura popolare con la religiosità, dove il moderno si coniuga con l’antico e l’arcaico. Senza queste due dimensioni Sant’Efisio come altre Feste, rischiano di ridursi a spettacolarizzazione multimediale, magari solo in funzione del turista, con scarse o nulle possibilità di risonanze nelle coscienze individuali e nella Comunità.

Unità nazionale e Federalismo.

Unità nazionale
E Federalismo
di Francesco Casula
Si celebra oggi 4 novembre la Festa dell’Unità nazionale. Una data infausta. Quell’unità fu voluta dai sovrani sabaudi, da Cavour e dall’Inghilterra: certo non dal popolo. Né dalla gran parte degli intellettuali italiani.
Un bel volumetto (1) degli storici Renzo Del Carria e Claudio de Boni documenta con puntigliosità e rigore che erano federalisti e non unitaristi la gran parte degli intellettuali dell’Italia preunitaria (da Cattaneo a Ferrari, da Mamiani a Rosmini, da Cernuschi a Balbo e Gioberti, da Durando ad Amari, da Perez a Ferrara, da Montanelli a Busacca, da Matteucci a Busi, da Lambruschini ad Alberi e Ridolfi) come dell’Italia postunitaria (da Anelli a Bovio, da Mario a Salvemini, da Trentin ai sardi Umberto Cao, Egidio Pilia, Camillo Bellieni, Emilio Lussu). Di questi non conosciamo niente o quasi: cancellati dalla cultura ufficiale unitarista.
Sono moderati alcuni altri democratici e progressisti ma tutti sono uniti da una comune analisi: la penisola italiana non era una realtà unitaria, perché dalla protostoria agli albori del Risorgimento, era stata sempre un’entità geografica e mai un’entità politica. E anche quando negli ultimi 500 anni era diventata un’entità culturale, lo era stata solo per una ristretta èlite, per la quale il toscano filtrato dallo “stil nuovo”, da Dante, Petrarca e Boccaccio, era diventata la lingua letteraria <franca>, in graduale sostituzione del precedente latino.
Ma fino agli albori del ‘700 i vari popoli della penisola italiana costituivano delle <etnie regionali> fra loro ben distinte per usi, costumi, lingue, storia e geografia. E’ questo il motivo principale che porta la gran parte degli intellettuali dell’Italia preunitaria a sposare le tesi federaliste e non quelle unitariste e centraliste, convinti com’erano che solo la forma statuale federalista avrebbe salvaguardato l’autonomia, la diversità e la particolarità di ogni etnia, oltre che la libertà di ogni singolo cittadino.
Fra i moderati, uno degli esponenti più lucidi è Cesare Balbo che scrive (2) :”La Confederazione è l’ordinamento più conforme alla natura e alla storia italiana perché la penisola raccoglie da sé, da Settentrione a Mezzodì, province e popoli quasi così diversi fra di loro, come sono i popoli settentrionali e più meridionali d’Europa, ondechè fu e sarà sempre necessario un governo distinto per ciascuna di tutte o quasi tutte queste province”. Sullo stesso versante si muove Giacomo Durando: noi siamo sette nazioni o, se si vuole, sette subnazionalità provinciane. Concentrarsi in una sola non è possibile…l’italiano insulare non è lo stesso che l’eridanio o l’apennino. Il siciliano e il sardo sono, se così posso esprimermi, di una pasta differente da quella di un lombardo”.
Sulla divisione storica si sofferma anche Terenzio Mamiani: “L’Italia è da secoli divisa e rotta in più stati e ha fra essi poca o veruna comunanza di vita politica, per la qualcosa non potendosi togliere di mezzo le divisioni e volendo pure che l’Italia sia una quanto è fattibile mai, rimane che noi ci acconciamo a quella forma di unità che sola può coesistere con la pluralità degli stati, cioè a una confederazione”.
Fra i democratici, Carlo Cattaneo insieme a Ferrari, è l’esponente che con maggiore coerenza sviluppa il suo pensiero ponendo l’accento sul nesso inscindibile fra federalismo e libertà. Così scrive: “Non potersi conservare la libertà se il popolo non vi tiene le mani sopra. Sì, ogni popolo in casa sua sotto la sicurtà e la vigilanza degli altri tutti….io credo che il principio federale, come conviene agli stati, conviene anche agli individui. Ognuno deve conservare la sua sovranità personale, ossia la sua libera espressione…la federazione è la sola unità possibile in Italia…è la pluralità dei centri viventi ed è meglio vivere amici in dieci case che vivere discordi in una sola. Dieci famiglie ben potrebbero farsi il brodo a un solo focolare, ma v’è nell’animo umano e negli affetti domestici qualche cosa che non si appaga con la nuda aritmetica e col brodo”.
Nella polemica con gli unitaristi e i centralisti insiste Giuseppe Ferrari secondo cui: “L’unità italiana non esiste se non nelle regioni della poesia e della letteratura e in queste regioni non si trovano popoli e non si può ordinare verun governo…la realtà italiana è la divisione storica degli stati, il diritto di ogni italiano è di vivere libero nei propri stati. E a ogni stato la sua assemblea, il suo governo, i suoi ministri, la sua costituzione. La rivoluzione conduce necessariamente le repubbliche a una federazione repubblicana”. E a fronte delle accuse di <divisione> Ferrari rispondeva: ”Fu sparso l’errore che la Federazione volesse dire divisione, dissociazione, separazione. Ma la parola federazione viene da foedus, vuol dire patto, unione, reciproco legame”.
Sullo stesso terreno, polemizzando con Cavour, Enrico Cernuschi afferma: “Improvvisata in Italia l’unità, col sopprimere gli stati, sopprime tutti quanti i centri di emulazione, non ne vuole che uno solo, fittizio e odiato da tutti; essa offende gli interessi, le consuetudini e i sentimenti; scompone, in una parola, tutto intero il paese senza poterlo ricomporre perché ci vuole lentezza assimilante o violenza decisa a ricomporre un paese…la federazione invece mantiene le autonomie, lascia ogni stato padrone del proprio governo, vivifica le emulazioni, acqueta gli interessi”.
Per il siciliano Francesco Ferrara: ”La Sardegna è una specialità alla quale ciò che di più pernicioso può farsi è il volerla costringere ad una assimilazione completa di forme, contrastate a ogni passo dalla natura. Il Piemonte nella sua condizione di possessore di un’isola, può dirsi già fortunato dell’avere incontrato nel buon senso dei Sardi una docilità, anzi una vogliosità di fusione, che non è molto agevole rinvenire nell’indole dell’isolano; ma non ci illudiamo perciò: una nota di gratitudine, uno slancio di patriottismo non bastano a mutare il suolo, il clima, il carattere, i bisogni, le attitudini individuali e produttive, il dialetto, le conseguenze di un lungo passato.
La grande utopia del secolo è questa delle fusioni: nulla di più agevole che congiungere e assimilare in belle frasi scappate nel calore di una improvvisazione politica….ma nulla di più puerile che l’illudersi sull’effetto reale delle belle frasi. Nella natura materiale non si combinano che molecole affini. Nella natura umana, se vi ha mezzo di combinare due popoli, è quello di non sforzarne le specialità”.
Infine i federalisti sardi. Per tutti e quattro (Pilia e Cao, Lussu e Bellieni) la lotta contro il centralismo politico si traduce anche in critica del decentramento fino ad allora praticato, perché illusorio oppure limitato al solo momento amministrativo, senza respiri di politica regionale che sorgano dal basso e non siano mere concessioni alla “periferia” provenienti dall’alto.
Scrive Cao: “La compartecipazione politica della Sardegna nello stato italiano, non dovrà essere limitata all’opera insufficiente di una scarsa dozzina di emissari, ineluttabilmente destinata a disperdersi nella baraonda parlamentare, ad essere irrisa e travolta nella corrotta burocrazia della capitale e vinta dalla sopraffazione dell’affarismo politico degli industriali e degli agrari….occorrerà il ristabilimento di speciali ordinamenti regionali, consoni alla loro natura etnica e allo sviluppo secolare del loro diritto”. E tutto ciò – per Cao – sarà possibile solo “con l’annientamento dell’attuale stato sfruttatore, parassitario, apoplettico, soffocatore”.
Sostiene Pilia: ”La forma federale repubblicana apparve allora ai migliori dei nostri l’unica che potesse conciliare le esigenze della libertà e indipendenza sarda con le ragioni del movimento unitario italiano; e le pagine immortali del Tuveri e del Brusco-Onnis sono la prova di questo stato d’animo diffuso nell’Isola nei primi decenni dopo l’Unità d’Italia”
Per Bellieni il riordinamento in senso autonomistico della regione deve dar luogo all’instaurazione di uno stato federale perché “la macchina statale del presente ci soffoca e ci opprime”.
Lussu infine scrive che “Non basta più dire <autonomia> bisogna dire <federazione>. ”Il Federalismo non è certo una miracolosa <acqua di catrame> fatta per sanare tutti i mali, ma non v’è ombra di dubbio che la cosiddetta crisi della democrazia moderna, è in gran parte prodotto del centralismo statale….e il centralismo statale ha fatto fallimento nel nostro Paese”.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
1)Renzo Del Carria-Claudio De Boni, “Gli Stati Uniti d’Italia” ed. D’Anna, Ancona-Mressina 1991
2) Questa citazione come tutte le altre che seguiranno sono tratte dal volume citato al punto 1di Del Carria-De Boni