SEBASTIANO SATTA

SEBASTIANO SATTA – Università della Terza Età di Quartu

a cura di Francesco Casula

Il “vate” nuorese, cantore della sardità mitica e drammatica (1867-1914)

Nasce a Nuoro il 21 maggio 1867. II padre, nuorese, Antonio Satta, è un  avvocato assai no­to; la madre, Raimonda Gungui è di Mamoiada, villaggio vicino a Nuoro, in piena Barbagia. Il Satta, rimasto orfano di padre all’età di cinque anni, ben presto conosce il disagio e le umiliazioni della povertà.

Compie gli studi elementari e ginnasiali a Nuoro, quelli liceali e universitari a Sassari, do­ve consegue la laurea in giurisprudenza nel 1894 ed esercita la professione di giornalista. Nella Sassari di allora, che gli ricordava la Bologna carducciana che aveva conosciuto durante il servizio militare, con fermenti repubblicani e progressisti, aderisce agli ideali socialisti.

Nel 1893 pubblica due raccolte di poesie Nella terra dei Nuraghes e Versi ribelli, di modesto valore artistico ma utili per capire l’itinerario spirituale del poeta. Fortemente influenzato da Carducci, tra le incertezze tecniche e i convenzionalismi formali si inizia però a intravedere il Satta più autentico. Nella prima silloge, di otto liriche, due sono in lingua sarda; nella seconda ugualmente di otto liriche, è presente un Satta protestatorio nei confronti del servizio militare, ma più perché è stato allontanato dalla sua Sardegna che per motivi ideologici.

Torna intanto a Nuoro dove è consigliere comunale nel triennio 1900-1903 e dal 1896 al 1908 esercita la professione di avvocato. In tale professione – come riferisce lo storico Raimondo Bonu, probabilmente con eccessiva enfasi- “ebbe fama di valente penalista e di oratore brillante, facondo, irruente, temuto per le sue arringhe, perché sapeva cogliere dalle circostanze più disparate la nota umana, adatta a trasformare il delinquente affidato alla sua difesa in un eroe, in un rivendicatore di diritti, in un maestro di giustizia sociale”.

Nel 1896, in occasione del centenario della rivoluzione angioyana scrive l’ode Primo Maggio, dedicata al protagonista di quella rivoluzione antifeudale, Giovanni Maria Angioy, appunto. E’ pubblicata nel quotidiano di Sassari, “La Nuova Sardegna” , ma il numero fu sequestrato: segno di tempi di censura e di repressione. L’ode carica di retorica e ascendenze carducciane, è impregnata di una intensa <sardità> che caratterizzerà anche la sua poesia più matura. Che arriverà con i Canti barbaricini pubblicati nel 1909. In essi sono ancora indubbiamente presenti gli echi della poesia carducciana, pascoliana, del D’Annunzio di Alcione e persino di Victor Hugo, di Heinrich Heine e di Walt Whitman, ma la sua poesia inizia ad avere una sua precisa e personale fisionomia, dal punto di vista espressivo, metrico e dei contenuti.

Colpito da paralisi 1’8 Marzo 1908, passa gli ultimi anni della sua vita senza poter neppure parlare. Scrive le sue ultime poesie fra il 1909-1914. Esse saranno raccolte –senza ulteriore rielaborazione e revisione- nei Canti del Salto e della Tanca e verranno pubblicate postume nel 1924.

Condannato all’infermità, la sua vita interiore si fa più raccolta e più intensa e la sua poesia è caratterizzata da una <sardità> ancor più esclusiva, persino nei particolari stilistici e lessicali. Della gente sarda non descrive solo gli stati d’animo e i modi di vivere ma anche il modo di parlare e di costruire il periodo.

Muore improvvisamente il 29 novembre 1914 a Nuoro dove viene sepolto senza funerali religiosi perché aveva espresso la volontà di non gradire né preti, né preghiere alla sua morte. Le cronache narrano che folle di contadini, pastori e persino banditi, scesero dalle montagne per accompagnarlo alla sua ultima dimora, memori del suo amore per l’uguaglianza e il progresso sociale e della sua passione per la patria sarda. Satta infatti fu molto popolare e amato dalla sua gente che vedeva in lui un vero e proprio “vate” e cantore di una mitica e drammatica identità sarda.

 

 

Presentazione del testo [tratto da Canti barbaricini ora in Canti, Sebastiano Satta, Ilisso editore, Nuoro 2003, pag.66]

 

Il sonetto è tratto da Canti Barbaricini, una delle raccolte del Satta più valide, l’altra è Canti del salto e della Tanca. Essa –è il poeta stesso a scriverlo- “canta o, meglio narra il dolore della gente e della terra che si distende da Montespada a Montalbo, dalle rupi di Corrasi fino al mare; e canta dolor di madri, odio di uomini, pianto di fanciulli…Barbaricini ho voluto chiamare questi canti perché sono accordi nati in Barbagia di Sardigna; ed anche quando essi non celebrano spiriti e forme di quella terra rude e antica, barbaricini sono nell’anima e barbaricine hanno le fogge e i modi”.

Certo, nel lessico, nel linguaggio, nello stile e persino nella struttura del testo poetico e a livello fonico-timbrico, ci sono abbondanti influenze della coeva poesia italiana, ma non è un semplice epigono di Carducci, Pascoli e D’Annunzio, come parte della critica ha voluto sostenere. Egli infatti è soprattutto un poeta capace di farsi interprete dell’immaginario collettivo della Nuoro del suo tempo, nella quale si identificavano molti sardi, soprattutto “barbaricini”. In lui infatti le mimesi esterne si interiorizzano, si fanno simbolo, linguaggio, gestualità verbale di una caratteristica cultura, quella sarda. E ai fatti e ai problemi dell’Isola partecipa, vivamente e dolorosamente: per cui si può dire che il mondo sardo, come natura e come eventi, non solo si riflette nella sua poesia, ma passa contemporaneamente attraverso la sua anima, da cui prende colore e calore.

 

VESPRO DI NATALE

 

Incappucciati1, foschi2, a passo lento,

tre banditi ascendevano3la strada

deserta e grigia, tra la selva rada4

dei sughereti5, sotto il ciel d’argento.

 

Non rumore di mandre6 o voci7,

il vento agitava8 per l’algida9 contrada.

Vasto10 silenzio. In fondo, monte Spada11

ridea12 bianco nel vespro sonnolento13.

 

O vespro di Natale14! Dentro il core

ai banditi piangea la nostalgia

di te, pur senza udirne le campane:

 

e mesti eran, pensando al buon odore

del porchetto e del vino15, e all’allegria

del ceppo16, nelle lor case lontane17.

 


Note

Metrica: sonetto. Rime ABBA, CDE

1.Incappucciati: con il copricapo nero di orbace in testa..

2.Foschi: oscuri appunto perché indossavano un cappotto di orbace nero che li nascondeva agli occhi delle persone e li proteggeva dal freddo. Le orbace infatti sono un tessuto di lana di pecora, molto resistente e impermeabile.

3.Ascendevano: salivano

4.Rada: non folta di sughere.

5.Sughereti: sono boschi di sughere (o soveri)  molto estesi in Gallura –nord est della Sardegna- e nel Mandrolisai –centro sud-, mentre sono assai limitati e poco folti nella Barbagia di Ollolai dove è ambientata la poesia.

6.Rumore di mandre: le pecore portano al collo i campanacci –in sardo sas sonazas- che producono un caratteristico tintinnio e servono per essere localizzate dai pastori..

7.Voci: i pastori sono soliti richiamare le greggi con voci e più spesso con fischi particolari che le bestie intendono come per istinto. Inoltre i pastori si chiamano fra loro, in spazi vasti, per comunicarsi notizie e scambiarsi quattro chiacchiere. Di qui l’abitudine degli stessi a parlare sempre a voce molto alta, quasi urlata.

8.Agitava:portava.

9.Algida: gelida, fredda.

10.Vasto: profondo.

11.Monte Spada: una delle vette più belle e più alte del Gennargentu (m.1595) nel territorio di Fonni, mentre Punta Corrasi –cui Satta accenna nell’introduzione ai Canti Barbaricini- in agro di Oliena è alta m.1463.

12.Ridea: spiccava perché coperto di neve.

13.Vespro sonnolento: la sera che porta il sonno e dunque il riposo.

14.Vespro di Natale: la notte di Natale.

15.Porchetto e vino: ancora oggi ma soprattutto nel passato era consuetudine delle famiglie sarde di ambiente pastorale e barbaricine in specie, consumare a Natale, dopo la messa di mezzanotte abbondanti arrosti (di salsicce, porchetti, agnelli o capretti) innaffiati da un buon vino.

16.Ceppo: i tronchi necessari per alimentare il fuoco.

17.Case lontane: in Sardegna gli insediamenti umani sono concentrati nei villaggi, distanti gli uni dagli altri. Il territorio è spopolato per cui le campagne sono solitarie: in queste, soprattutto in quelle caratterizzate da montagne e luoghi impervii, si rifugiavano –e si rifugiano ancora- i banditi.

 

 

Giudizi critici

Goffredo Bellonci scrive che Satta “aveva il senso della terra, il più grande dono che Federico Nietzesche facesse al suo Zaratustra, la più grande virtù che abbia cantato nel libro della giungla immortale Rudyard Kipling…Ogni strofa, ogni verso, ogni parola sigillava del suo stile sardo, inimitabile nel ritmo, nelle immagini, nei trapassi”.

Mentre per Giovanni Pirodda: “Il Satta fu popolare e amato, fra i lettori sardi contemporanei, per il suo amore per l’uguaglianza e il progresso sociale, e per l’interpretazione, nei toni di un fremente individualismo romantico, dei miti di un immaginario collettivo: la natura, la donna (sposa e madre-matriarca), il tópos del ricorrente ribellismo e dell’attesa di una palingenesi: sono i temi di una mitica e drammatica identità sarda, espressi attraverso la mediazione autorevole delle forme letterarie e metriche della poesia italiana fra ‘800 e ‘900. Ma al di là del mito l’esperienza sattiana raggiunge una capacità poetica spesso misconosciuta, che merita di essere annoverata almeno tra le voci minori di quel periodo”.

 

 

ANALIZZARE

In questo sonetto, concentrandola in pochi versi, il poeta riesce a cogliere intensamente e a rappresentare una nota paesistica, interiorizzandola però, ovvero traducendola in tema lirico, scevro da ogni indugio illustrativo, ma soprattutto da preoccupazioni edificanti, civili e pedagogiche, ispirate a un socialismo umanitario, che pure abbondano in altre liriche.

 La rappresentazione, sospesa fra la realtà e la fantasia, dei banditi incappucciati e tristi che passano per vie desolate, foschi su sfondi di neve e che incedono con tanta cupa andatura che solo questo cadenzato endecasillabo sa mimare, ricorda la misura espressiva dei piccoli quadretti del Pascoli delle Mirycae.

La forma conclusa del sonetto inoltre, dove per di più l’endecasillabo si smorza nei frequenti enjambements, rende il silenzio carico di tristezza, di dolcezza e di vitalità insieme, di una inestinguibile nostalgia dell’intimità familiare, di un rifugio sereno e festoso, che invade l’animo dei banditi, fragili creature umane anch’essi. In altre liriche mitizzati come belli, feroci e prodi.

Il linguaggio è alto, illustre, gli aggettivi ricercati, aulici (foschi, rada, algida) tanto da rischiare di risultare stereotipati e poco creativi.

FLASH DI STORIA-CIVILTA’

-Il socialismo umanitario di Sebastiano Satta

Il socialismo di Satta era più del cuore che della mente, fatto di umanità, giustizia e libertà. Più vicino al ribellismo anarchico e al socialismo utopistico di Charles Peguy o di Garibaldi che a quello “scientifico” di Carlo Marx. A Garibaldi dedicherà infatti un’Ode e spesso soleva recarsi in pellegrinaggio alla tomba del Condottiero dei Mille a Caprera. In Sardegna del resto il Socialismo, prima che arrivasse il torinese Giuseppe Cavallera al organizzare i battellieri di Carloforte e i minatori del Sulcis era più un fatto letterario che una prassi politica: i poeti –quasi sempre in lingua sarda- poetavano su temi legati al comunitarismo delle terre dei villaggi sardi e sognavano un ritorno al passato –a su connotu (al conosciuto) comunitario antecedente alla <Legge delle Chiudende> che privatizzò le terre stesse.

Ma ecco cosa scrive a proposito del Satta socialista Vincenzo Soro: “Temperamento politico vero e proprio Sebastiano Satta non ebbe. Egli era un passionale. Un incitatore. E si batteva così, per amore di battaglia, per un istinto bisogno di lotta che era nel suo puro sangue barbaricino: ma senza legarsi mai ad alcuno: senza cessare mai di «far parte per sé stesso», in una solitudine che era insieme timida e sdegnosa. Troppo buon poeta era, per po­ter essere diverso.

L’apostolato di bontà e di giustizia che informava la sua battaglia diuturna, gli dava, è vero, un aspetto di so­cialista romantico ed evangelico, molto simile a quello che si ritrova nel Pascoli di «Odi ed Inni» e di taluna delle «Myricae»: aspetto che in quegli anni era molto comu­ne nella nostra letteratura, e che traspare  -un pò con le trasandate ironie di Béranger e un pò con 1’umanita­rismo di Richepin – nelle poesie sporadiche del Satta giovine e anche in alcuni, non certo tra i migliori, dei «Canti barbaricini». Ma questo suo socialismo, in realtà, non era altra cosa che uno «stato d’animo». Non era la professione di una dottrina sociologica e politica, inquadrata nelle formule di un sistema scientifico e sotto­posta al controllo disciplinare di un partito. Era la soli­darietà di un’anima che aveva sofferto e soffriva, verso tut­ti i sofferenti e tutti i dolori del mondo. Era una aspirazio­ne di bontà e di giustizia, di amore e di pace, per tutti gli uomini e per tutte le genti: il sogno dell’Ortodossia rus­sa, il vasto sogno di affratellamento universale che arde nel pensiero di Wladimiro Soloviof e nell’arte di Dostoje­wsckij e di Tolstoi, incastonato -come un rubino di O­riente in un monile di antica oreficeria sarda- nella sca­bra purità di un’anima barbaricina.

Era il socialismo di Charles Péguy : un socialismo, avversario ignoto e cortese, alquanto diverso da quello a cui ti riferivi quando mi richiamavi a non ignorare il  socialista » nel Poeta di Barbagia”.

 

-Ideologia democratica e linguaggio aulico del Satta

“I toni alti del linguaggio e dello stile, il registro prevalentemente aulico hanno fatto pensare a una piatta imitazione della poesia carducciana e, generalmente, del classicismo ottocentesco, secondo influssi non rielaborati originalmente.

In realtà l’operazione poetica compiuta dal Satta, se analizzata nelle sue componenti e nelle sue modalità di elaborazione (anche alla luce dei documenti di recente studiati, sui suoi interessi linguistici) si rivela ricca di implicazioni e tutt’altro che priva di originalità.

Per capire i caratteri della poesia sattiana si può prendere l’avvio da un dato ad essa esterno, ma che pure la condiziona fortemente: l’orientamento ideologico democratico e socialista di Satta, con le forti ripercussioni che esso ha non solo sulle tematiche, ma anche sullo stile e su linguaggio, come del resto avviene in un consistente filone della poesia italiana fra Ottocento e primo Novecento.

Già Francesco De Sanctis nelle sue Lezioni su Mazzini e la scuola democratica aveva rilevato come nella letteratura di orientamento democratico fosse prevalente la disposizione al linguaggio elevato, oratorio, sia per la continuità di quelle tendenze con la tradizione classicistico-giacobina sia per la forte presenza in essa di intenti di persuasione.

Il tono alto, il linguaggio aulico, la disposizione oratoria, il rapportarsi a un complesso di immagini proprie di una tradizione letteraria nobilitata da riferimenti storici e culturali prestigiosi (in particolare il mondo classico) sono caratteri che troviamo nella letteratura democratica per tutto l’Ottocento, ma anche in molta poesia novecentesca.

 

L’ALTERNOS


Sui campi di Tiesi, in un’alba del Giugno 1796

 

All’alba – il carro d’oro per la via

Lattea scendeva, e un’aquila garria –

Fu visto – o fato! – Don Giovan Maria,

Il ribelle Alternos, qui cavalcare.

 

L’alto suo sogno, grave di avvenire,

L’impeto fatto di speranze e d’ire,

La forza di chi sorse a maledire

Egli vide dal sommo ruinare.

 

Errava triste e solo. Per il piano

Fuggiangli l’occhio e l’anima lontano:

Ché ancor vedeva quel suo sogno, invano,

Sui boschi, dietro i monti, balenare.

 

I monti della patria! Come veli

Di ninfe si svolgevano nei cieli

Le nubi antelucane: gli asfodeli

Svettavano al chiaror crepuscolare.

 

Or nella gloria di sue rosse aurore,

Cinto di lampi si levava il cuore,

Anelando. Or non più, dentro il fragore

Dell’armi, l’inno, soffio aquilonare!

 

Non dal pulpito più prete Muroni

-Legato ha il suo ronzino agli arpioni,

E polveroso è ancora, e con gli sproni –

Rugge sui vili, ché non sa pregare.

 

Non più nel solco del mattino d’oro

Le urgenti turbe! O verde Logudoro,

Di che fiamme avvolgesti il nobil coro,

In ogni ovile e in ogni casolare!

 

Non più veglie animose fra le gole

Dei salti, e vaste fronti aperte al sole,

Non nei consigli più sensi e parole

Ardenti come fiamma sull’altare.

 

Ma non questo ribelle alla tempesta,

Se pur stride nel cielo la funesta

Ora dei vinti, la pensosa testa

Sconsacrata saprà, vinto, piegare.

 

Solo a te, Sarda Terra, come a madre

Egli piega! Le sue vindici squadre

Egli seppe per te scioglier dalle adre

Glebe, e agitarle come nembo su mare.

 

Tutto fu vano! Oh voci dell’avita

Casa deserta! Oh fiori della vita

Deserta, o figlie! Oh compagnia romita

Dei padri sardi intorno al focolare!

 

Or l’anima solinga sotto i grigi

Cieli vede l’esilio di Parigi;

Prone le turbe vede, e sui fastigi

Dei monti scender l’ombra secolare.

La Fusione Perfetta del 1847 e la (possibile) Fusione Finale del 4 dicembre: analogie

 

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La Fusione Perfetta del 1847 e la (possibile) Fusione Finale del 4 dicembre: analogie (di Francesco Casula)

Il 29 novembre prossimo ricorre il 169° anniversario della Fusione Perfetta della Sardegna con gli stati sabaudi di terraferma; mentre il 4 dicembre successivo, se malauguratamente vincesse il Si, potremmo assistere alla Fusione Finale dell’Isola con lo Stato italiano.

Ebbene, io ritrovo in queste due “Fusioni” – mutatis mutandis – curiose e sorprendenti analogie.

1. Le modalità.
SI è scritto che siano stati i Sardi stessi a rinunciare al Parlamento. Si tratta di una grossa balla: a chiedere la Fusione il 29 novembre 1749, con la rinuncia quindi all’indipendenza nazionale, che aragonesi e spagnoli avevano secolarmente rispettato (Girolamo Sotgiu), furono singoli membri degli Stamenti di Cagliari e di Sassari, senza alcuna delega e rappresentatività né stamentaria né, tanto meno, popolare.

Il Parlamento neppure si riunì. Tanto che Sergio Salvi, lo scrittore e storico fiorentino gran conoscitore di “cose sarde” ha parlato di “rapina giuridica”.

Potremmo parlare, per analogia, di rapina giuridica, o comunque di illegittimità, anche a proposito della approvazione della Riforma costituzionale, ad opera di una maggioranza parlamentare e governativa costituitasi in virtù di un “premio di maggioranza” bocciato dalla Corte costituzionale e dalla stessa dichiarato “incostituzionale”.

2. I soggetti sostenitori.
I più interessati alla Fusione del 1849 sono la nobiltà ex feudale, i ceti mercantili la borghesia impiegatizia e la borghesia intellettuale, studenti, letterati, uomini delle professioni.

Per la ex nobiltà feudale, la conservazione delle vecchie istituzioni non aveva alcun interesse perché la possibilità di conservare un peso politico era ormai data soltanto dalle posizioni da conquistare nelle istituzioni militari e civili del regno sabaudo e dalla conservazione di una forza economica fondata non più tanto sul possesso della terra, quanto delle cartelle del debito pubblico, e «le cedole di Sardegna – come scrive lo storico piemontese Baudi di Vesme – colla riunione delle due finanze [avrebbero acquistato] il dieci e più per cento di valore commerciale, ed il capitale che dava cinque lire di entrata, e [che si vendeva ] a lire 108 sarebbe immediatamente salito alle 120 e più».

Per la borghesia imprenditoriale e in particolare per i commercianti, l’unione col Piemonte significava allargamento del mercato, tanto più che uno dei progetti intorno ai quali lavorava la diplomazia piemontese, era quello di un’unione doganale con gli altri Stati della penisola.

Per la borghesia intellettuale, che aveva trovato rifugio negli impieghi dello Stato e che vivevano nell’angoscia di non vedersi più pagare gli stipendi come già era accaduto o di vederseli pagare in carta moneta che aveva «in commercio un valore reale assai minore di quello nominale», la rinuncia alle istituzioni del Regnum Sardiniae voleva dire perciò certezza dello stipendio, un probabile aumento del reddito – perché più alte erano le remunerazioni della burocrazia piemontese – e anche una possibilità di accedere ai gradi più elevati dell’amministrazione dello Stato.

Quanto agli studenti, agli uomini delle professioni, ai letterati, che furono coloro che più visibilmente si trovarono alla testa delle manifestazioni, su di essi agivano fortemente le idee liberali che circolavano nella penisola.

Si tratta – come ognuno può avvedersi – di soggetti esclusivamente urbani che daranno vita, a Cagliari e a Sassari nel 1877, a una serie di manifestazioni pro Fusione.

E la campagna? Segnatamente i contadini? Assenti o, addirittura contrari. Tanto che Giovanni Siotto Pintor scrive che nei giorni delle dimostrazioni “Moltissimi contadini di Teulada traevano a Cagliari credendo a una rivolta” per sostenerla e rafforzarla e che “cinquecento armati del vicino paese di Selargius stavano pronti a venire al primo avviso” e che “v’erano uomini di Aritzo, d’Orgosolo, di Fonni mandati per sapere se [c’era] mestieri d’aiuto nel qual caso [sarebbero venuti] otto centinaia di uomini armati”. Per la sarda rigenerazione dell’Angioy e una nuova cacciata dei Piemontesi, una nuova dì de s’acciappa e non per la Fusione.

E i sostenitori della Riforma costituzionale e, dunque della possibile nuova Fusione? Sono la Confindustria, Marchionne, le banche, la tecnocrazia europea, i grandi giornali italiani e non solo. Noto analogie anche su questo versante:o no?

3. Gli obiettivi (sperati e supposti)
La speranza era quella che all’interno della lega doganale italiana fosse favorita la libertà commerciale, sia nelle esportazioni che nelle importazioni, senza pagare dogana. Si sperava inoltre in una maggiore libertà di stampa, nella limitazione del potere ecclesiastico e di polizia. E in una serie di riforme ispirate al liberalismo che si diffondeva in Italia come in Europa.

E gli obiettivi della Riforma costituzionale di Renzi? Parlo di quelli annunciati, supposti e promessi, naturalmente. Eccoli: uno Stato più leggero,con meno burocrazia e meno costi; processi legislativi più rapidi; semplificazione del rapporto fra Stato e Regioni con l’eliminazione delle cosiddette “competenze concorrenti”, e, addirittura, maggiore partecipazione dei cittadini.

4. La realtà
La realtà, dopo la Fusione del ‘47, fu ben altra, rispetto alle magnifiche e progressive sorti annunciate e sperate: aggravamento fiscale e maggiore repressione: lo stato d’assedio che, subito la Fusione, divenne sistema di governo prima con Alberto la Marmora (1849) poi con il generale Durando (1852): alla faccia del liberalismo e dell’attenuazione della repressione!

Fu esteso anche ai sardi il servizio militare obbligatorio. Furono assegnate allo Stato le risorse del sottosuolo e dunque le miniere: il provvedimento legislativo (8 settembre del 1948) andava incontro agli appetiti dei capitalisti italiani ed europei, cui le miniere stesse verranno date in concessione per farne un lucente business.

Gli stessi sostenitori della Fusione, subito dopo, ad iniziare da Giovanni Siotto-Pintor, parlarono di follia collettiva. E, riconoscendo l’errore: Errammo tutti, ebbe a dire lo stesso Siotto Pintor. Mentre Gianbattista Tuveri scrisse che dopo la fusione “La Sardegna era diventata una fattoria del Piemonte, misera e affamata di un governo senza cuore e senza cervello”.

E la realtà dopo l’eventuale malaugurata vittoria del Sì?

A mio parere, se vincesse il Si, l’elemento più funesto per noi Sardi sarà l’applicazione di questa normativa: “Su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”.

Con questo, la Regione sarda, di fatto sarà sostanzialmente espropriata delle sue competenze e poteri, peraltro anemici ed esili. E così, senza discussioni e confronti, lo Stato, a prescindere dalla volontà della Sardegna e delle sue comunità, potrà decidere, ad libitum, di continuare a mantenere il nostro territorio occupato dalle Basi militari (anzi, potrà persino aumentarle!); trivellare, sventrare e devastare la nostra terra e il nostro mare; allocare il deposito unico nazionale delle scorie nucleari e l’aliga di mezzo mondo nella nostra Isola.

Si dirà: le Regioni speciali sono escluse dalla Riforma Costituzionale (almeno dal capo IV). E’ vero. Ma se vince il Si, con quale forza la Regione sarda si presenterà per discutere sulla “revisione” dello Statuto, prevista dall’art.39, comma 12? Con forza zero. Il Governo infatti obietterà: ma cosa volete? Il popolo ha deciso.

A mo’ di conclusione
Di qui la necessità che i sardi, in modo unitario e compatto, votino No, Tutto bene, allora, perché in questo modo difenderemo la Costituzione più bella del mondo? No. La Costituzione italiana ha senz’altro molti pregi, occorre però denunciare che in molti degli aspetti più positivi (es. art, 1: L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro…), semplicemente, non è stata attuata. Ma c’è di più: la sua “bontà” è gravemente inficiata da quell’illiberale, antidemocratico e liberticida articolo 5 riguardante la :“repubblica una e indivisibile”.

E il diritto dei popoli all’Autodeterminazione, previsto e garantito da tutte le leggi e convenzioni internazionali? Carta straccia. La Costituzione fa strame di questo diritto: non solo ledendolo e impedendolo, ma criminalizzando la stessa idea indipendentista.

Il popolo sardo, grazie alla sua storia e lingua, e alla sua precisa identità nazionale, ha diritto all’indipendenza. E dunque, a ragione, può rivendicare la Riforma dello Stato in senso federale, con la rottura e la disarticolazione dello stato unitario italiano, per dar luogo a una forma nuova di Stato di Stati, in cui ciascuno possa anche rivendicare, magari attraverso un referendum, la secessione.

La controriforma di Renzi va nella direzione opposta: deprivandoci persino della limitata e debole Autonomia di cui è dotato lo Statuto sardo. Mi sorprende che qualche indipendentista non lo abbia capito e proponga il “Non voto”.

Ricordando Antonio Simon Mossa a cento anni dalla sua nascita

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di Francesco Casula
Il 22 novembre prossimo ricorrerà il 100° anniversario della nascita di Antonio Simon Mossa, il teorico (e padre) del moderno indipendentismo sardo, del tutto rimosso e dimenticato dalle Istituzioni sarde, dalla cultura (e scuola) ufficiale.
A ricordarlo, meritoriamente, sarà invece, con un importante Convegno di studi, il Partito sardo d’azione, domenica 27 novembre prossimo, a Sassari.
Algherese, Antonio Simon Mossa è un architetto di talento, arredatore, urbanista e artista di genio, insegnante dell’istituto d’arte e scenografo, intellettuale dagli interessi pressoché enciclopedici e dalla forte sensibilità artistica, viaggiatore colto e curioso del nuovo e del diverso tanto da spaziare con gusto e competenza nell’ambito di una pluralità vastissima di arti: dalla letteratura alla pittura e alle arti popolari.
Ma è anche brillante ideologo indipendentista (una indipendenza non solo di liberazione economica e sociale ma anche di libertà di tutto il popolo sardo dal punto di vista etnico, etico e culturale) e di un nuovo Sardismo, giornalista e polemista ironico e versatile, viaggiatore colto e aperto alle problematiche delle minoranze etniche mondiali, ma soprattutto europee. Conoscendole direttamente, per così dire de visu, si rende conto della drammatica minaccia di estinzione che pesa su di esse: oramai sul bilico della scomparsa. Contro di esse è in atto infatti un pericolosissimo processo di “genocidio”, soprattutto culturale ma anche politico e sociale. Si tratta di minoranze che l’imperiale geometria delle capitali europee vorrebbe ammutolire.
Simon Mossa aveva infatti verificato la tendenza del genocidio culturale e non solo, dei popoli senza stato, delle piccole patrie, incorporate e imprigionate coattivamente nei grandi leviatani europei e mondiali, centralisti e accentrati, entro un sistema artificioso di frontiere statali, sottoposti a controllo permanente, con evidenti fini di spersonalizzazione, ridotti all’impotenza e di continuo minacciati delle più feroci rappresaglie, se mai tentassero di rompere o indebolire la sacra unità della Patria.
All’interno di tali minoranze colloca la Sardegna che considera una unità o comunità etnica ben distinta dalle altre componenti dello Stato Italiano. Per annichilire l’identità etno-nazionale dei Sardi è in atto – secondo Simon Mossa – un processo forzato di integrazione che minaccia l’identità culturale, linguistica ed etnica, anche con la complicità di molti sardi che si lasciano comprare.
Uno degli elementi che per Simon Mossa devasta maggiormente l’Identità di un popolo è l’attacco alla cultura e alla lingua locale: in Sardegna dunque il divieto e la proibizione della cultura e della lingua sarda (ad iniziare dalla scuola di stato) e segnatamente dell’uso pubblico e ufficiale del sardo.
L’ideologo nazionalitario e indipendentista sa bene che un popolo senza Identità, in specie culturale e linguistica, è destinato a morire: Se saremmo assorbiti e inglobati nell’etnia dominante e non potremmo salvare la nostra lingua, usi costumi e tradizioni e con essi la nostra civiltà, saremmo inesorabilmente assorbiti e integrati nella cultura italiana e non esisteremo più come popolo sardo. Non avremmo più nulla da dare, più niente da ricevere. Né come individui né tanto meno come comunità sentiremo il legame struggente e profondo con la nostra origine ed allora veramente per la nostra terra non vi sarà più salvezza. Senza Sardi non si fa la Sardegna. I fenomeni di lacerazione del tessuto sociale sardo potranno così continuare, senza resistenza da parte dei Sardi, che come tali, più non esisteranno e così si continuerà con l’alienazione etnica, lo spopolamento, l’emarginazione economica. Ma questo discorso è valido nella misura in cui lo fanno proprio tutti i popoli parlanti una propria originale lingua e stanziati in un territorio omogeneo, costituenti insomma una nazione che sia assoggettata e inglobata in uno Stato nel quale l’etnia dominante parli una lingua diversa.
Poliglotta e appassionato studioso di lingua e di linguistica – fra l’altro traduce in Sardo il Vangelo e scrive ottave deliziose – ritiene che Il sardo lungi dall’essere un dialetto ridicolo è già, ma in ogni modo può e deve essere una lingua nella misura in cui sia parlato e scritto da un popolo libero e capace di riaffermare la propria identità. A questo proposito pone questo interrogativo: Hai mai meditato su ciò che significa l’esclusione della nostra lingua madre dalle materie di insegnamento delle scuole pubbliche e il divieto di farne uso negli atti «ufficiali» ? Ci regalano insegnanti di un italiano spesso approssimativo e zeppo di provincialismo e noi non abbiamo il diritto di esprimerci adeguatamente nella nostra lingua! Ci hanno privato del primordiale e più autenticamente «autonomista» strumento di comunicazione fra gli uomini!
Sostiene ciò nel Luglio del 1967, molto prima che in Sardegna la questione del “Bilinguismo perfetto” diventasse oggetto di discussione prima e di Oggi noi nel 2016  sappiamo bene che la lingua sarda, al di fuori di questa prospettiva è destinata a morire o, al massimo, a vivacchiare e languire, marginalizzata, ghettizzata e folclorizzata nei bim-bo-rimbò delle feste e delle sagre paesane, magari ad uso e consumo dei turisti e dei vacanzieri annoiati.
Simon Mossa questo lo aveva capito ben più di 49 anni fa.
iniziativa politica poi: a buona ragione possiamo perciò considerare Simon Mossa, il vero profeta e anticipatore delle proposte prima e della Legge regionale 26 sul Bilinguismo poi. Con acume e perspicacia aveva capito che il problema della lingua sarda non era tanto o soltanto parlarla, magari nell’ambito familiare, ma scriverla e soprattutto insegnarla nelle Scuole di ogni ordine e grado come materia curriculare; usarla nella Pubblica Amministrazione, nei media, (da quelli tradizionali: Giornali e Radio, ai nuovi: Internet ecc.); nella Toponomastica, nella Pubblicità. Il problema era cioè (ed è) la sua ufficializzazione.

Grazia Deledda –Università della Terza Età di Quartu- a cura di Francesco Casula

Grazia Deledda –Università della Terza Età di Quartu- a cura di Francesco Casula

La vitaRisultati immagini per grazia deledda

Grazia Maria Cosima Damiana Deledda è nata a Nuoro il 27 Settembre del 1871 da una famiglia benestante, “un poco paesana e un poco borghese”. Il padre, Antonio curava i possedimenti che aveva  e per hobby si dilettava con la poesia sarda improvvisata.La madre, Francesca, si dedicava alla casa e alla cura dei suoi sette figli. Deledda è morta a Roma il 15 Agosto del 1936, dopo una malattia incurabile e molto dolorosa: un tumore. Una grossa disgrazia che si aggiungerà a quelle che aveva avuto in giovinezza nella sua famiglia: un fratello, Santo, era alcolizzato, un altro Andrea era stato arrestato per un furto: il padre non aveva potuto sopportare la vergogna e muore di crepacuore. A Roma Deledda si era recata per seguire il marito,Palmiro Madesani, impiegato nell’Intendenza di Finanza, che aveva conosciuto la prima volta che era andata a Cagliari nel 1809, invitata dalla Direttrice della rivista “Donna sarda”. Con lui si sposerà l’11 gennaio del 1900 a Nuoro e avrà due figli chiamati Francesco e Sardo.
Dopo la morte le sue spoglie sono state trasferite il 21 Giugno 1959 dal cimitero di Roma “Il Verano” alla chiesa della “Solitudine” di Nuoro, dove, ancora oggi, la si può visitare. E infatti ogni anno, soprattutto schiere di giovani studenti e di turisti vanno a visitarla.
Grazia Deledda ha frequentato solo le scuole elementari, fino alla Quarta, in seguito riceverà lezioni di italiano, latino e francese ma essenzialmente diventerà “un’autodidatta”, imparando dunque a scrivere non attraverso i libri ma ascoltando i Contos , i racconti degli anziani, persino negli ovili dove andava ad ascoltare i pastori, accompagnata da un fratello o dai cugini. E’ lei stessa ad ammettere che più che quello che era scritto nei libri gli piacevano i racconti e le storie paristorias meravigliore e incredibili che ascoltava dai pastori nei paesi, nelle feste paesane, nelle novene, negli ovili delle valli nuoresi e vicino a Nuoro. E finanche a casa sua, ascoltando i racconti dei servi, in inverno, vicino al focolare, nelle interminabili notti.
Per dirla alla maniera di un altro grande intellettuale  e scrittore sardo, Michelangelo Pira, Deledda ha frequentato più la scuola “impropria” della comunità nuorese che la scuola “propria” dello stato. Nel contempo si è formata una cultura per conto suo, leggendo scrittori e poeti sardi ma soprattutto la Bibbia e Omero ma anche scrittori italiani (Manzoni e Verga, Tarchetti, Capuana, Fogazzaro, D’Annunzio) francesi (Dumas,Balzac e Victor Hugo) e russi (Dostoevskij e Tolstoj).
Durante la sua vita ha conosciuto i più grandi scrittori e critici letterari italiani del suo tempo (Giovanni Verga, Giuseppe Giacosa, Ruggero Bonghi, Mario Rapisardi, Luigi Capuana, Ada Negri, Edmondo De Amicis, Emilio Cecchi, Alfredo Panzini) con cui ha anche intrattenuto rapporti epistolari.
I suoi romanzi sono stati tradotti in quasi tutte le lingue del mondo. Con la traduzione in francese di Anime oneste (Amês honnêtes, Lyon, A. Effantin, 1899) inizia la sua fortuna fuori dell’Italia. E mai c’è stata in Italia una scrittrice così c0onosciuta e così famosa. Tanto che nel 1926 vinse il Premio Nobel con questa motivazione:” la sua potenza di scrittrice sostenuta da un alto ideale che ritrae in forme plastiche la vita qual è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano la rende degna di stare insieme con Carducci, Pirandello e Quasimodo, gli altri tre italiani insigniti del premio Nobel per la Letteratura”.
Grazia Deledda, fino a oggi è stata l’unica donna in Italia che abbia ottenuto il Premio Nobel per la letteratura (alla faccia di Benedetto Croce secondo il quale la deledda non sapeva neppure scrivere in italiano!) e insieme a Rita Levi Montalcini (Premio Nobel per la medicina nel 1986), l’unica donna che in assoluto abbia ricevuto il Premio Nobel.
Una vicenda che quasi sempre si sottace parlando della vita della Deledda –ma opportunamente la ricorda Raimondo Bonu in “Scrittori Sardi” (1961)- è che la scrittrice nel 1909 accetta la candidatura per le elezioni politiche nel Colleghio di Nuoro nelle Liste radicali che fin da allora erano sostenitori dei Diritti civili a cominciare da quelli delle donne.
Con tale scelta Deledda in modo chiaro si schiera per l’autodeterminazione della donna. Ci cui aveva parlato e scritto in molte lettere. Forse, è anche per questa sua scelta di femminista ante litteram che a Nuoro, nella Nuoro del primo Novecento, la guardano con sospetto, tanto che alle elezioni i nuoresi non la votano: prenderà solo 34 voti e le preferiranno un certo Garavetti che al contrario ne prenderà più di mille|

L’opera
L’attività letteraria di Grazia Deledda va dal 1880 al 1936 e, con il romanzo autobiografico di Cosima, publicato dopo la morte fino al  1937. Abbraccia 350 novelle in 18 volumi; 30 racconti; 8 favole;50 articoli; una cinquantina di poesie e 35 romanzi. Oltre il Premio Nobel ha ottenuto grandi riconoscimenti da parte di Stati e personaggi prestigiosi.
Nel 1935 la sua effigie è stata stampata in un francobollo voluto dal governo turco in una serie filatelica dedicata alle donne più famose del mondo. La sua voce è stata la prima ad essere registrata in Italia nella Fonoteca dello Stato.
Le sue opere, pubblicate dopo la sua morte dall’Editore Mondadori di Milano, sono state tradotte nelle più importanti lingue di tutto il mondo, persino in cinese, giapponese e indiano, in serbo-croato e in africano. Tutta l’opera di Deledda è stata tradotta e pubblicata in russo
Deledda ha scritto dunque moltissimo, in quarant’anni di attività letteraria,per un autore del suo tempo. Comincia a scrivere da ragazza: quando ha appena 17 anni, nel 1888 pubblica infatti la novella Sangue sardo in una rivista popolare di Roma che si chiamava L’ultima moda; nello stesso anno scrive Remigia Helder e il romanzo Memorie di Fernanda.
Dal 1889 collabora con giornali come “La Sardegna”, “L’Avvenire di Sardegna”, “Vita sarda” e altri ancora. Nel 1890 pubblica le novelle Nell’azzurro.                        
Subito dopo inizia a scrivere opere tardo-romantiche e d’appendice chi piacciono a un pubblico molto vasto.Si firma con uno pseudonimo esotico Ilia de Saint Ismael. Ecco alcuni titoli di queste opere: Stella d’oriente, Amore regale, Amori fatali, La leggenda nera, Nell’abisso, Fior di Sardegna, che ci fanno ben comprendere i temi che affronta. Ci troviamo di fronte a una Deledda ancora “continentale” e sentimentale, alla guisa del primo Verga di Storia di una capinera, Eva, Eros, Tigre reale.
Nel 1892 comincia a scrivere di cultura popolare e di folclore nella rivista “Natura ed Arte” di Angelo De Gubernatis: tutto il materiale che raccolgie lo pubblicherà in seguito nel volume Tradizioni popolari di Nuoro in Sardegna nel 1895.
Lo studio e la conoscenza della cultura popolare per la Deledda rappresenta un’occasione per una riflessione sopra la realtà barbaricina e dunque per una migliore comprensione della stessa: e le servirà in seguiot quando inizierà a scrivere i suoi romanzi più belli e mpiù riusciti. A cominciare dal romanzo “familiare” Anime oneste del 1895 ma soprattutto  La via del male del 1896, recensito con favore da un critico grande e autorevole come Luigi Capuana.
La Deledda più grande e più creativa però l’abbiamo dal 1902 al 1920 quando scrive romanzi come Elias Portolu (1903) che a parere di un grande critico italiano come  Attilio Momigliano, è la sua migliore opera. Ma scrive anche altri romanzi molto famosi come l’Edera (1908 ), Canne al vento 1913) –il libro preferito dall’Autrice-, Colombi e sparvieri (1912), Marianna Sirca (1915), dove la Deledda sembra riunire tutti i grandi temi che riguardano il romanticismo della sua gioventù: in primis l’amore come peccato e rimorso.
Quando, dopo Il segreto dell’uomo solitario (1921), ha voluto ambientare fuori della Sardegna quasi tutti i suoi racconti e romanzi da La fuga in Egitto (1925) a Annalena Bislini, (1927) ,Deledda non dimostrerà più l’energia creativa che aveva denotato prima. Questo perché la sua arte affoda le radici nell’etnos sardo più profondo e misterioso, nei costumi e nelle tradizioni antichissime di un popolo, quello sardo, che ha saputo conservare per secoli e secoli i propri valori: quando Deledda se  ne allontana, la sua arte non è più quella di una volta e dunque perde di qualità.
Altri romanzi scritti dalla Deledda sono: La Giustizia (1899); Il vecchio della montagna (1900); Dopo il divorzio (1902); Cenere (1904 ): da questo romanzo farnnao un film con la regia di Febo Mari e l’attrice Eleonora Duse come protagonista; Nostalgie (1905); L’ombra del passato (1907); Il nostro padrone (1910); Sino al confine (1910); Nel deserto (1911); Le colpe altrui (1914); L’incendio nell’oliveto (1918); La madre (1920); Il dio dei viventi (1922); La danza della collana (1924); Il vecchio e i fanciulli (1928); L’argine (1934).
L’ultimo romanzo che ha scritto è Cosima romanzo autobiografico (1937), pubblicato dunque dopo la sua morte.
Le sue novelle invece sono queste: Amore regale (1891); L’ospite (1897); Le tentazioni (1899); I giuochi della vita (1905); Amori moderni (1907); Il nonno (1908); Chiaroscuro (1912); Il fanciullo nascosto (1915); Il flauto nel bosco (1923); Il sigillo d’amore (1926); La casa del poeta (1930); Il dono di Natale (1930); La vigna sul mare (1932); Sol d’estate (1933); Il cedro del Libano (1939)
Deledda ha scritto anche delle poesie, ricordo quelle raccolte in  Paesaggi sardi. Ma qui mi fermo perché non è possibile ricordare e enumerare tutti i suoi scritti, ma non si possono dimenticare alcuni racconti (come La regina delle tenebre) o favole (come Le disgrazie che può cagionare il denaro e  Nostra Signora del buon consiglio)

I protagonisti dei romanzi della Deledda: La Sardegna, le donne, la natura.
La protagonista principale dei libri della Deledda è la Sardegna, che ha conosciuto nella fanciullezza e che non dimenticherà mai né nella vita né in tutta la sua opera. Quando la metterà da parte cone in Annalena Baslini, mla sua arte ne risentirà. Dunque sensa la Sardegna la sua opera vale poco: ciò l’aveva ben compreso un grandee critico italiano come Luigi Capuana, il teorico del Verismo. Deledda –scrive Capuana- fa bene a non allontanarsi dalla Sardegna, una miniera di umanità reale e sostanziale.
Fino a un certo punto della sua vita, ogni anno, in estate ritornava in Sardegna, ma anche quando non è più tornata, se non dopo la morte, la sua terra, la sua patria era sempre presente nei nsuoi scritti, con i ricordi dei tempi antichi, con la civiltà, le tradizioni, la cultura di un intero popolo che aveva creato la visione che essa aveva della vita, della storia, del mondo.
L’idea della vita e dell’amore governati da una misteriosa fatalità, l’amore come peccato e dunque i rimorsi e la necessità di scontare la macchia del peccato, perdurando i tormenti, una sorta di malattia che consuma i personaggi dei suoi romanzi sia fisicamente che moralmente, nelle azioni come nei sentimenti e pensieri.
Insieme alla Sardegna, grandi protagoniste sono le donne: valenti e capaci di qualsiasi sacrificio, fino alla morte: penso soprattutto a Maddalena di Elias Portolu; donne di valore, innamorate e fedeli, che nutrono passioni, sentimenti, forti, quasi violenti, come Marianna Sirca, protagonista del romanzo omonimo. Gli uomini invece sono deboli, incerti, pieni di dubbi.
Altro grande protagonista è la natura, che gli antichi sardi chiamavano dea madre e che la Deledda ancora così spesso la considera. Una natura selvaggia, con le tanche dei printzipales nuoresi e barba ricini, con i boschi e le roccie, i monti e i ruscelli, gli alberi e la macchia mediterranea, gli animali e le fate. Una natura misteriosa con le stagioni che sno in sintonia con i sentimenti dei personaggi.
Della Sardegna, o meglio, della Sardegna nuorese e barbaricina, delle case e dei palazzi, Deledda è capace di rappresentare con maestria, in modo “verista”, verrebbe da dire, gli internis, la cucina con il fuoco e il cannicio dove si affumicano le forme di formaggio e di ricotta, il pozzo del cortile,l’orto, i mucchi di fascine di legna, gli norcioli per l’acqua e anche per il vino.
Per non parlare della grande capacità della Deledda nel descrivere con precisione la geografia domestica con le provviste per tutto l’anno, soprattutto in certe famiglie di pastori e contadini: le corbuli confezionate con l’asfodelo, piene di grano, orzo, patate, fave, faggioli ma anche di pere, mele o uva, appesa per conservarsi meglio e più a lungo. E ancora: lardo ben salato, salami, salsicce, prosciutti.
Una descrizione che ancora oggi conserva non solo un valore letterario ma finanche etnico, etnologico e antropologico, utile anche per scrivere la storia di quel periodo.

I giudizi dei critici sardi e italiani.
Comincio dai critici sardi, scegliendone tre: prima di tutto raimondo Bonu, che parla della concezione della vita da parte della Deledda m anche del suo linguaggio. Così scribe Bonu: “Argomento prevalente degli scritti di Grazia Deledda è la terra di Nuoro e la sua gente, presentate questa e quella nel rapporto osservazione-descrizione. Base del piccolo mondo è l’ordine morale, visto senza straordinarie meditazioni dottrinali e ridotto alla fatalità della colpa e all’inseparabilità della pena: dalla prima concezione discendono pervertimenti, odi e delitti; dalla seconda scaturiscono rimorsi, sofferenze, espiazioni….lo stile della Deledda è generalmente limpido, facile, fluido, piacevole: è assai delicato nella descrizione di scene di natura, riflette la sovrabbondanza del sentimento e la fecondità della fantasia e non è privo di vigoria…” .
Un altro critico, nonché grande storico sardo è Raimondo Carta-Raspi, famoso soprattutto per una be4lla e interessante Storia della Sardegna (Mursia editore, 1971, Milano). Dice il Carta-Raspi: ”La letteratura narrativa psicologico-folclorico-sarda nasce e si afferma con la Deledda, subito seguita e <bardanescamente> imitata”.
L’ultimo cruitico sardo che mi piace ricordare è Francesco Alziator, forse il più grande che fino ad oggi abbiamo avuto, che elogia la Deledda considerandola come la voce poetica e letteraia sarda più alta. Ecco cosa scrive:”Questo è il miracolo della Deledda: mutare in passo di danza il camminar quotidiano delle creature vive. L’eterno incantevole miracolo della poesia. Per questo miracolo la Sardegna tornò ad avere, dopo millenni una sua voce e una sua vita nel mondo delle cose immortali. Grazia Deledda operò il miracolo traendo l’ispirazione dalla stessa affaticata anonima folla di madri, di eroi, di fanciulli, di giovani, di animali e di cose che già i Sardi di una remotissima età avevano fermato nei bronzi votivi dei nuraghi. Essa riudì la voce di quelle genti, ne ripetè il dramma e il mito, talvolta con una lingua tanto diversa e sua da non saper più se fosse italiano o il suo parlare sardesco voltato parola per parola in italiano. Comunque si esprimesse la sua fu voce di canto. La più alta e intensa che mai l’Isola abbia avuto”   
Passando in rassegna i critici italiani occorre ricordare che ne abbiamo avuto di ogni risma, che della Deledda ne hanno parlato e scritto sia positivamente che negativamente. Molti infatti l’hanno esaltata oltremodo, altri invece hanno cercato di “interrarla”, altri ancora la trovano mediocre o, più precisamente “con molte luci ma anche con molte ombre”..
Certo, occorre rammentare, che all’inizio della sua attività letteraria, Deledda accentua a dismisura la presenza del folclore nella sua opera, ripetendosi più di una volta. Mi parrebbe comunque difficile e ingeneroso non riconoscerle una incredibile fantasia, una ricchezza di sentimenti, una non comune abilità nella descrizione dei paesaggi, dell’ambiente, dei personaggi e della Sardegna.
Ma ecco alcuni giudizi di critici italiani, comincio da quelli positivi, da uno dei più grandi e prestigiosi,Attilio Momigliano chi forse è quello che più di tutti l’ha compresa e apprezzata: ”Deledda ha una capacità simile a quella di delitto e Castigo e dei Fratelli Karamazof, di ritrarre la potenza trascinante del peccato come una crisi che libera dal loro profondo carcere tutte le forze di un uomo, quelle sublimi e quelle perverse, e finisce per sollevare lo spirito in una sfera che forse non raggiungerebbe altrimenti”.
Prosegue il Momigliano- ”Nessuno dopo Manzoni ha arricchito e approfondito come lei, in una vera opera d’arte, il nostro senso della vita…e la Deledda è soprattutto un grande poeta del travaglio morale cui l’avvenire serberà il posto che fin’ora non gli fu assegnato, non inferiore a quello di alcuni fra i maggiori scrittori della seconda metà dell’Ottocento e del primo novecento”.
Un altro grande critico italiano che esalta la Deledda è Francesco Flora che scrive:” “All’arte di Grazia Deledda fu materia spontanea e cioè di memoria diretta, la vita isolana della nativa Sardegna. E’ in quella memoria che aveva formato il suo dizionario fondamentale di passioni, idee, linee, parole, ella cominciò a scrivere i suoi temi più complessi, rendendo più lieve la materia ed il linguaggio. La sua arte, anzi il suo stile se ne avvantaggiò e il suo linguaggio fu tanto più universale quanto più seppe aderire sinceramente a quest’ispirazione. Così ella fu sentita in Europa…”

Grazia Deledda e il suo linguaggio.
Per comprendere bene la lingua che utilizza la Deledda nei suoi scritti occorre partire da questa premessa: La lingua sarda non è un dialetto italiano – come purtroppo ancora molti affermano e pensano, in genere per ignoranza –  ma una vera e propria lingua. Noi sardi dunque, siamo bilingui perché parliamo contemporaneamente il Sardo e l’Italiano. Anche la Deledda era bilingue. Era una parlante sarda e i suoi testi in Italiano rispecchiano, quale più quale meno le strutture linguistiche del sardo, non tanto o non solo in senso tecnico quanto nei contenuti valoriali, nei giudizi, nei significati esistenziali, nelle struttura di senso inespresse ma presenti nel corso della narrazione.
Vi sono innumerevoli vocaboli tipicamente sardi e solamente sardi che Deledda inserisce nelle sue opere quando attengono all’ambiente sardo: pensiamo a tanca, socronza (usatissima in Elias Portolu (consuocera), corbula (cesta), bertula (bisaccia), tasca (tascapane), leppa (coltello a serramanico), leonedda /zufolo), cumbessias o muristenes (stanzette tipiche delle chiese di campagna un tempo utilizzate per chi dormiva là per le novene della Madonna o di Santi), domos de janas.
Vi sono inoltre intere frasi in sardo come: frate meu, Santu Franziscu bellu, su bellu mannu (il bellissimo, letteralmente il bello grande), , a ti paret, corfu ‘e mazza a conca,, ancu non ch’essas prus.
Per non parlare dei nomi che risultano tronchi nella sillaba finale quando è  “complemento vocativo”, tipico modo di dire sardo ma soprattutto nuorese e barbaricino: Antò, Colù,, Zosè= Zoseppe,, Zuamprè=Zuampredu, pride Defrà= pride Defraia.
Pro finire ricordo anche che la Deledda traduce vocaboli sardi o espressioni tipicamente sarde, quando non esiste il corrispondente in italiano: Perdonate= perdonae in nugoresu (voce verbale con cui ci si scusa con un accattone quando non gli si può o non gli si vuole fare l’elemosina); botteghiere= buttegheri in nugoresu (invece di bottegaio); male donne= malas feminas in nugoresu (invece di donnacce); maestra di parto= mastra ‘e partu in nugoresu (invece di levatrice); maestro di muri, maestro di legno, maestro di ferro= mastru ‘e muru, mastru ‘e linna, mastru ‘e ferru (invece di muratore, falegname, fabbro)
Occorre però chiarire che i sardismi linguistici della Deledda non derivano dalla sua incapacità di utilizzare correttamente la lingua italiana ma da una scelta voluta e consapevole. L’influsso della Sardegna e della lingua sarda nelle opere della Deledda non riguarda solo le forme sintattiche o il lessico ma anche – per non dire principalmente – le tematiche, i costumi, le immagini, i detti, i proverbi: per dirlo con una sola parola: l’intera civiltà sarda.
Ma sui “Sardismi” della Deledda ecco cosa scrive una critica sarda, Paola Pittalis  “La Deledda utilizza costantemente “Zio” –e più spesso ziu –  per indicare “signore”. Si tratta di uno dei tanti “sardismi” presenti nella sua opera insieme a numerosi vocaboli tipicamente ed esclusivamente sardi (socronza:consuecera; bertula:bisaccia, leppa:coltello); o a calchi sintattici (come venuto sei? Traduzione letterale del sardo bennidu ses?).
L’uso dei “sardismi” linguistici da parte della Deledda anche nelle opere della maturità – è il caso di Elias Portolu –  è consapevole e voluto. Rappresenta anzi una chiara e decisa scelta di linguaggio letterario, di canone stilistico e fa parte del suo essere “bilingue”. Ciò non significa che in questa scelta non sia stata condizionata da fenomeni letterari e culturali esterni, –  come il verismo – che prevedevano la raffigurazione oggettiva della realtà da parte dello scrittore che doveva riportare fedelmente il linguaggio popolare e “dialettale” dei personaggi.
A questo proposito occorre secondo molti critici liquidare risolutamente il luogo comune della “cattiva lingua” e della “mancanza di stile” appoggiato alla valutazione di intellettuali di prestigio da Dessì (le “sgrammaticature” di Deledda) a Cecchi (la sua lingua “spampanata”). Si tratta invece – secondo Paola Pitzalis – “di forme nate dall’incontro fra dialetto e italiano nel momento di formazione delle varietà designate oggi come <italiani regionali>. L’uso di vocaboli dialettali, sardismi sintattici e atti linguistici frequenti in Sardegna è intenzionale, tanto è vero che scompaiono quando l’interesse di Deledda si sposta dal romanzo <verista> e <regionale> al romanzo <psicologico> e <simbolico> (dopo il 1920). La sintassi prevalentemente paratattica, non equivale alla mancanza di stile; deriva dal trasferimento nella scrittura di modalità anche linguistiche di costruzione del racconto orale (è questo un percorso suggestivo sul quale da tempo lavora con esiti personali Sole). Ed è il contributo modernizzante di Deledda allo snellimento della lingua letteraria italiana costruita sul modello della frase manzoniana…”

 Deledda, la cultura e le tradizioni popolari.
Deledda non è stata solo una scrittrice e poetessa ma anche una studiosa della cultura e delle tradizioni popolari sarde pur se per un breve periodo: infatti scriverà nella Rivista delle tradizioni popolari italiane diretta da Angelo De Gubernatis per tre anni (1893-94-95); in seguito comincerà la collaborazione con Vita Sarda, un prestigioso periodico di Cagliari e infine si interesserà di storia delle tradizioni popolari scrivendone nella Nuova Antologia.

-GOSOS DE NOSTRA SEGNORA DE GONARE

Alta Reina Singolare
de su Chelu Imperadora
O soverana pastora
De su monte de Gonare    
 
In custu monte chi tue
Habitas, alta Signora
Grassias e benes dogn’ora
Nos distillat dogni nue
O diciosu logu in ue
 Est su tou dignu habitare.
 O Soverana, etc.

 In monte d’alta grandesa
 Tenes assentadu tronu
 A tottu dande perdonu
 Cun Soverana larghesa.
 Ogni bene, ogni ricchesa
 Tenes in manos pro dare.

  Chin gloriosos resplendores
  Relughes in custu monte
  Essende de grassias fonte
  De tottu sos peccadores,
  Merzedes, grassias, favores
  Benin pro ti dimandare.

 Sa Soverania tanta
 Chi in custa montagna mostras
 Sas necessidades nostras
 Repara, Reina Santa,
 O Segnora, cantu est canta
 Sa tua grassia singolare.

    Sas roccas distillan perlas
    Sas mattas grassias e donos,
    Chin milli cantos e tonos,
    Reclaman ras aves bellas
    Sas relughentes istellas
    Falan pro ti coronare.

    Chelu si torrat su monte
    Chin sa tua alta assistenza
    A sa tua digna presenzia
    Si allegrat dogni orizonte
    Ogni riu e dogni fonte
    Si torrat allegru mare.

   Cale Pastora Serrana
    Istas in custa alta serra
    Essende de chelu e terra
    Alta Reina Soverana
    Pastora bella galana
    Serrana digna d’amare.

   Milli grassias e bellesas
   Milli tesoros e benes,
   Segnora in sas manos tenes
   Sas infinitas ricchesas,
   Mare immensu de grandesa …

I Curdi: Un popolo senza Stato, senza diritti, cancellato dalla Storia.

I Curdi: Un popolo senza Stato, senza diritti, cancellato dalla Storia.

di Francesco Casula
 
1)    I Kurdi: martoriati e repressi in Turchia

Senza Stato, senza diritti, deportato, incorporato coattivamente in una miriade di Stati stranieri – Iraq, Iran, Siria, Turchia e persino Libano e in alcune regioni asiatiche dell’ex URSS – il popolo kurdo, con più di 30 milioni di abitanti, dal lontano 1924 ha subito una politica di discriminazione razziale che non ha esempi né precedenti in nessuna altra parte del mondo.
Gli Stati che opprimono il popolo kurdo, con tutti i mezzi a loro disposizione, come la Stampa, La Radio-TV, l’esercito, la polizia, la Scuola, L’Università, hanno condotto e continuano a condurre una politica mirante non solo a negare i loro diritti inalienabili, sanciti da tutte le Convenzioni internazionali e dell’ONU, ma a eliminare la loro stessa esistenza fisica.
Per Iraq, Iran, Siria, Turchia etc. i kurdi non esistono: né come popolo, né come etnia, né come lingua, né come cultura.
In modo particolare in Turchia – ma anche gli altri Stati che li hanno incorporati non sono da meno, pensiamo solo ai massacri da parte del dittatore criminale Saddam Hussein – il popolo kurdo è soggetto a distruzione sistematica da parte di tutti i governi che si sono succeduti dal 1924.
Secondo alcuni storici (1) dal 1924 al 1941 la politica kurda è stata nei confronti dei kurdi di “etnocidio”.
Dal 1945, nonostante numerosi trattati e convenzioni per il rispetto dei diritti umani, la politica turca non è cambiata: ai Kurdi (il 23% della popolazione, circa 13 milioni di abitanti) la Turchia nega la loro lingua, la musica, le tradizioni, i costumi. Sono proibiti persino i nomi di battesimo kurdi.
Questa politica è sopravvissuta dagli anni venti fino ad oggi: in nome del principio della “integrità e indivisibilità della patria turca” e della “unità del popolo turco”. Tanto che nell’ultima Costituzione del 1982 si continua a proibire per legge la lingua kurda (art.26); le pubblicazioni in kurdo (art.28); i Partiti kurdi: sono infatti autorizzati ad esistere ed operare solo quelli che programmaticamente difendono e sostengono “l’indivisibilità della patria nazionale” (artt. 68 e 69).
Tutta la politica della Turchia è basata dunque sulla negazione dell’identità etnonazionale dei kurdi, chiamati eufemisticamente e beffardamente “Turchi di montagna” :si ha la paura, anzi il terrore, perfino del termine, del flatus vocis!
Dopo la seconda guerra mondiale la Turchia è entrata nel campo e nell’orbita occidentale, ma la sua politica non è mutata. Nel 1953 il Presidente turco Gemal Bayar, durante una visita in USA dichiarò:  ”In Turchia non esistono più minoranze nazionali”.(2) Il 27 Maggio 1960 Gemal Gursel, capo della Giunta militare e Presidente della Repubblica, in una Conferenza stampa affermò :”In Turchia non esiste nulla che abbia a che fare con l’esistenza dei Kurdi (3) e durante una manifestazione pubblica lo stesso aggiunse: ”non esiste un popolo che si chiami kurdo, voi tutti siete turchi” (4).
Nel 1967 il Presidente turco Cewdad Sonai dichiarò che “tutti coloro che vivono sul territorio turco sono turchi”.
Nel 1972 il Primo ministro Nihat Erim disse:” In Turchia esiste solo la nazione turca, Tutti i cittadini che vivono in diverse parti del paese sono felici di essere turchi”.
E i milioni di Kurdi che da circa un secolo, ininterrottamente si massacrano, si deportano, si mettono in galera, si perseguitano, magari perché parlano in kurdo, cantano o ascoltano musica kurda? Naturalmente non esistono.

2)    I Kurdi: cancellati dai Libri di storia

Ma non basta. Il dramma dei Kurdi è certamente quello di essere martoriati e “negati” negli Stati in cui sono attualmente incorporati – abbiamo visto il caso della Turchia ma non è molto diverso quello dell’Iraq, dell’Iran e della Siria – ma anche quello di essere potati e cancellati dall’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, dai media, dalla scuola.
A questo proposito mi sono preso la briga – come docente di Storia – di analizzare e visionare, in modo rigoroso e puntuale ben 32 testi scolastici di storia estremamente rappresentativi e attualmente in adozione nelle Scuole italiane, rivolti ai trienni delle scuole superiori (Licei, Magistrali, Istituti tecnici e professionali). Alcuni sono particolarmente noti, di storici di vaglia (5), di case editrici prestigiose (Laterza, Mondadori, Cappelli, Sei, Le Monnier, Bulgarini, Zanichelli ,La Nuova Italia, Bulgarini etc. etc.) e che comunque vanno per la maggiore. Ebbene, dal mio studio e dalla mia indagine risulta che su 32 testi – che diventano 96 perché ogni pomo contiene tre volumi, uno per ciascuna classe del triennio –  ben trenta non dedicano neppure una riga al problema kurdo: di più, il termine kurdo non viene neppure nominato! Eppure si tratta – come risulta dalla nota bibliografica n.5 – di storici non solo noti e prestigiosi ma di ispirazione e orientamento prevalentemente cattolica, liberale, progressista ma soprattutto di sinistra. Ahi, ahi, che brutti scherzi combinano ai “nostri” le categorie storiche statoiatriche, centralistiche, eurocentriche e occidentalizzanti!
Solo un testo (volume 3°, rivolto dunque alle Quinte superiori o alla Terza classe del Liceo classico) di Alberto De Bernardi_-_Scipione Guarraccino, accenna ai Kurdi indirettamente, quando parla di Kemal Ataturk. Ecco il riferimento testuale: ”Nel 1925 represse nel sangue la rivolta dei Kurdi che chiedevano l’applicazione dell’Autonomia in base al trattato di Sevres” (6).
Chi invece  dedica un lunga e pregevole nota è un testo firmato a più mani (il volume 3/1, Geografia della Storia – lo scontro per la supremazia mondiale – di Aruffo-Adagio-Marri-Ostoni-Pirola-Urso, ed. Capelli.
Mi piace riportare testualmente ampi stralci della nota titolata:” I Kurdi e il Kurdistan”. Eccola.

“Il Kurdistan è un territorio di frontiera, che si estende dal mare nero alla Mesopotamia, all’altopiano iranico e all’Anti Tauro. Esso è ai margini di quattro emisferi culturali, etnici e politici (arabo, persiano, turco, russo). E’ territorialmente diviso fra Turchia, Iran, Iraq e Siria. Il Kurdistan settentrionale comprende 18 delle 67 province turche. Quello meridionale comprende 4 delle 18 province iraqene. Ad oriente il territorio kurdo copre 4 delle 24 province iraniane mentre il Kurdistan siriano costituito da 3 enclaves, è considerato propaggine di quello turco.
I Kurdi sono un popolo indoeuropeo la cui lingua ne qualifica l’identità nazionale, più della religione musulmano-sunnita. Sottoposti alla disintegrazione etnica-culturale (minoranze curde esistono in Libano e nelle regioni asiatiche dell’ex URSS), alla deportazione di massa da parte turca e iraqena, alla colonizzazione, i Kurdi sono stati costretti ad emigrare per evitare persecuzioni e disoccupazione. Alla loro storia nuoce non poco il fatto di abitare territori ricchi di petrolio e divenuti centro di contese regionali e internazionali.
La storia dell’indipendentismo kurdo moderno è costellata di lotte per l’autonomia. Con l’inizio del secolo XX la causa della libertà e dell’indipendenza venne egemonizzata da intellettuali di formazione europea o educati a Istambul. In seguito agli accordi anglo-francesi di Sykes-Picot (1916) il Kurdistan meridionale fi diviso in una zona francese (area di mossul) ed in una britannica (regione petrolifera di Kirkuk). Col trattato di Sèvres fra l’impero ottomano e le potenze vincitrici della Prima guerra mondiale (1918-1920), la Turchia si impegnò a favorire la formazione di un Kurdistan autonomo nella parte orientale dell’Anatolia e nella provincia di Mossul, presupposto dell’indipendenza. Il disegno delle potenze imperialistiche  mirava a farne uno stato cuscinetto fra Russia e Turchia.
Ma la vittoria della rivoluzione Kemalista e il trattato di Losanna cancellarono i diritti del popolo kurdo. Alle rivolte kurde, Turchia, Iran, Iraq Afganistan risposero prima con feroci massacri (1925,1930,1937) e poi col Patto di Saadabed (1937).
Nel 1946 sorse, a Mahabad (Kurdistan iraniano) la repubblica kurda appoggiata dall’URSS e cancellata militarmente dallo Scià di Persia. Tre anni prima era nato il Partito nazionalista conservatore, denominato Comitato della vita del Kurdistan, clandestino, a base tribale e piccolo borghese.
Il 15 Agosto 1945 comparve il Partito democratico del Kurdistan, sostenuto dai contadini, dai lavoratori urbani, dalle tribù nazionaliste e dai medi proprietari terrieri. Il suo programma mirava alla libertà e all’autogoverno dei Kurdi, nell’ambito dello Stato iraniano. In Turchia, con Ataturk prima e con Ismet Inonu dopo (1930) vennero varate leggi (1934) che di  fatto legalizzarono l’etnocidio del popolo kurdo.
Dopo la fallita rivolta di Shaikh Said (1925) le truppe turche devastarono il Kurdistan e ricorsero a deportazioni ed esecuzioni di massa (1925,1928). In questi anni 8758 villaggi furono distrutti e 15.206 donne, bambini e uomini disarmati vennero brutalmente massacrati. Oltre 200 mila deportati morirono di fame, di stenti e di malattie. A riattivare la lotta d’indipendenza intervennero le rivolte del 1930 e quella di Darsim del 1937.
In Turchia la discriminazione socio-economica antikurda fu sancita da leggi liberticide che nel 1936, portarono all’integrazione del Codice penale degli articoli 141 e 142, ispirata alla legislazione fascista italiana (Codice Rocco).
Ancor oggi in Turchia è proibito parlare in kurdo. I Kurdi sono significativamente chiamati “I Turchi della montagna”(7).
Di contro, pressochè tutti gli altri 30 testi che non si degnano di nominare neppure i Kurdi, dedicano ampio spazio a Kemal soprannominato pomposamente “Ataturk”, ovvero “Padre dei Turchi” che dopo la Prima Guerra mondiale e la liquidazione dell’impero ottomano, fondò lo Stato Turco e fu suo Presidente dal 1923 al 1938. Il più famigerato persecutore e massacratore del popolo kurdo viene celebrato dai “nostri” storici  in modo entusiastico come “autorevole Giovane Turco”, “Valoroso ufficiale”, “ammodernatore” del Paese che grazie a lui diventerebbe “laico” e “democratico”.
Ecco – ma sono solo degli esempi – alcune “perle”. Secondo questi storici Ataturk “Fece propria la concezione modernistica e laicizzante”(8);  “Lottò per l’indipendenza e la democrazia” (9);   “Avanzò  un notevole programma di riforme: tutte le religioni furono poste sullo stesso piano, si promulgarono nuovi codici, furono occidentalizzati il calendario e l’alfabeto, si abrogarono le tradizionali restrizioni cui erano soggette le donne. Fu promossa l’agricoltura, incentivata l’industria, vennero effettuate molte opere pubbliche” (10);  “Fece varare una serie di riforme quali la fine dell’islamismo come religione ufficiale dello Stato, la laicizzazione dell’insegnamento, la promulgazione di nuovi codici, l’abolizione della poligamia, l’adozione dell’alfabeto latino”(11);  “Avviò una vasta modernizzazione del sistema politico e dell’intera società ispirandosi ai modelli occidentali”(12);  “Creò uno Stato moderno e laico”(13);  “Si impegnò in una politica di occidentalizzazione e di laicizzazione dello Stato. L’esperimento riuscì solo in parte, ma ebbe il valore di un modello( sic!) per molti paesi impegnati sulla via della modernizzazione e dell’emancipazione dai vincoli coloniali”(14);  “Potè attuare quelle grandi opere di rinnovamento interno che avrebbero trasformato un arretrato paese islamico in uno Stato laico, moderno e indipendente”(15);  “Impose una serie di riforme che occidentalizzarono e laicizzarono lo stato e la società, fu introdotto l’alfabeto latino, fu adottato il calendario occidentale” (16).
A quest’entusiasmo occidentalizzante ed eurocentrico, osannante il Giovane Turco, xenofobo e precursore delle leggi razziste contro i Kurdi, massacratore degli stessi e della Comunità armena, secondo il criterio della “pulizia etnica” (17) non sfugge neppure l’Unesco, organismo delle Nazioni Unite che ha il compito di proteggere e sviluppare le varie culture e le lingue del mondo, soprattutto nel campo dell’istruzione. Il 27 Ottobre del 1978 questo Organismo internazionale ha infatti deciso di celebrare il centesimo anniversario della nascita di Kemal Ataturk considerandolo come “Pioniere della lotta contro il colonialismo”. Nella decisione dell’Unesco si legge che il merito di Ataturk è stato quello di aver svegliato i popoli oppressi per condurli verso la libertà e l’indipendenza.Dio ci liberi da questo benemerito Organismo internazionale. C’è infatti da chiedersi: ma di quale libertà e di quale indipendenza, parla l’Unesco? Di quella forse che la Turchia riserva ai Kurdi?
Note Bibliografiche
1)    J. P. Derriennic, Le moyen Orient au XX siecle,  pag. 68
2)    J. Nebaz, Kurdistan u sorsakay, 1985, pag. 106
3)    Ibidem, pag. 107
4)    Ibidem, pag. 108
5)    Si tratta di storici – e cito solo alcuni fra i più noti –  come G. Candeloro e R. Villari, F. Della Peruta e G. De Rosa, A. Desideri e M. Themelly, A. Giardina e G. Sabbatucci, A. Brancati e T. Pagliarani, A. Camera e R. Fabietti, A. Lepre e M. Bontempelli, C. Cartiglia e M. Matteini, F. Gaeta, P. Villani, G. De Luna.
6)    Alberto De Bernardi-Scipione Guarraccino, La Conoscenza storica, Il Novecento vol.3, Edizioni scolastiche Mondadori, Milano 2000, pag. 73.
7)    Alessandro Aruffo – Carmelo Adagio – Francesca Marri – Marco Ostoni – Luca Pirola – Simona Urso, Geografie della Storia vol.3/1, Cappelli editore, Bologna 1998, pag. 124.
8)    Franco Della Peruta, Storia del ‘900, Editore Le Monnier, Firenze 1991, pag.344.
9)    Giovanni De Luna-Marco Meriggi- Antonella Tarpino, Codice Storia, vol.3, Il Novecento, editore Paravia, Milano 2000, pag. 107.
10) Antonio Desideri- Mario Themelly, Storia e storiografia, vol.3 secondo tomo, casa editrice D’Anna, Messina-Firenze, Gennaio 1992,pag.593.
11) G. Gracco-A.Prandi- F. Traniello, Le nazioni d’Europa e il mondo, vol.3, Sei editore, Torino 1992, pag. 385.
12) Mario Matteini-Roberto Barducci, Didascalica, Storia vol.3, Casa editrice D’Anna, Messina-Firenze, Gennaio 1997, pag. 44.
13) Aurelio Lepre, La Storia del ‘900, vol.3, Zanichelli editore, Bologna 1999, pag. 1115, paragrafo 51/2.
14) A. Giardina-G. Sabbatucci- V. Vidotto, Guida alla storia, Dal Novecento ad oggi, vol.3, Editori Laterza, Bari 2001, pag. 94.
15) A. Brancati- T. Pagliarani, Il Novecento, Editrice La Nuova Italia, Pesaro 1999, pag. 66.
16) Giorgio Candeloro-Vito Lo Curto, Mille Anni, vol.3, editore D’Anna, Firenze 1992, pag. 389.