29 novembre 1847: La Fusione perfetta, una data infausta per i Sardi e la Sardegna

CANDO UNOS CANTOS CANES DE ISTERZU ANT RENUNTZIADU A SU PARLAMENTU SARDU.

di Francesco Casula

La Fusione perfetta della Sardegna con gli stati sabaudi di terraferma, del 29 novembre 1847, è senza dubbio l’evento politicamente più significativo dell’Ottocento sardo. Con essa l’Isola rinunciava al suo Parlamento e con essa finiva il Regnum Sardiniae. A chiedere  la “Fusione”, che verrà decretata da Carlo Alberto, membri degli Stamenti di Cagliari e di Sassari, senza alcuna delega né rappresentatività né stamentaria né, tanto meno, popolare. Il Parlamento neppure si riunì. Tanto che Sergio Salvi, lo scrittore e storico fiorentino gran conoscitore di “cose sarde” ha parlato di “rapina giuridica”.

La speranza era quella che all’interno della lega doganale italiana fosse favorita la libertà commerciale, sia nelle esportazioni che  nelle importazioni. Si sperava inoltre in una maggiore libertà di stampa, nella limitazione del potere ecclesiastico e di polizia ecc.

La realtà fu un’altra: aggravamento fiscale e maggiore repressione: lo stato d’assedio, subito dopo in Sardegna, sia con Alberto la Marmora (1849) che il generale Durando (1852) divenne sistema di governo.

Gli stessi sostenitori della “fusione”, ad iniziare da Giovanni Siotto-Pintor, parlarono di “follia collettiva”, riconoscendo l’errore:”Errammo tutti”, ebbe a dire Pintor.

Gianbattista Tuveri scrisse che dopo la fusione “La Sardegna era diventata una fattoria del Piemonte, misera e affamata di un governo senza ciore e senza cervello.

Ad esemplificare l’estraneità della Sardegna  al Piemonte basta un episodio paradigmatico: Giovanni Siotto Pintor, uno di quegli intellettuali sardi che nel novembre del 1847 più si era adoperato perché si raggiungesse l’obiettivo  della fusione  con il Piemonte, all’ingresso di Palazzo Carignano viene fermato dal portiere. Il suo abbigliamento ( si era presentato con il costume caratteristico dei sardi , con sa berritta, orbace e cerchietto d’oro all’orecchio) contrastava con l’eleganza e severità dei suoi colleghi piemontesi o liguri o savoiardi della Camera di nomina regia.  Per questo si dice che entrò nell’aula del Senato solo dopo aver vinto con la forza le resistenze del portiere che evidentemente aveva una qualche difficoltà a riconoscere in lui un Senatore.

Il secondo episodio venne denunciato con una lettera  al Presidente della Camera dal deputato di Sassari Pasquale Tola, che, quando nel maggio del 1848 in occasione di una riunione con i colleghi delle altre province, rimarcò l’assenza dell’emblema della Sardegna nell’aula dove,invece,  erano dipinti e diversamente raffigurati quelli delle altre province del Regno.

Con la fusione si pensava di volare. Le cose andarono diversamente.

 

 

LA DISTRUZIONE DELLE FORESTE SARDE di Francesco Casula

Premessa

L’Isola “verde”

La Sardegna prenuragica e nuragica – riferisce il paleo climatologo Franco Serra – era caratterizzata da un clima subtropicale, caldo umido, propria delle attuali fascie intertropicali, caratterizzato da temperature piuttosto elevate, moderata escursione termica, piovosità abbondante. Durante il mese più freddo l’atmosfera media non era mai inferiore a 18°, per cui l’inverso era praticamente inesistente e il numero dei giorni piovosi, variava in rapporto alle diverse zone dell’Isola, dai 90 ai 140 all’anno. La media annua  delle precipitazioni atmosferiche era intorno ai 1500-2000 millimetri (oggi la media è di 430/500 miillimetri).Un altro climatologo, Francesco fedele, ribadisce cge una vegetazione ricca ricopriva il suolo dell’Isola e lo sviluppo delle specie selvatiche era proporzionato a questa ricchezza. L’alimentazione degli abitanti della Sardegna poteva dunque essere completa: frutti della terra, cereali, latte e derivati, grassi, uova, carne, miele, pesci, molluschi.

1. La distruzione delle foreste: dai fenici ai piemontesi e italiani

Quella prenuragica e nuragica era L’Isola del «grande verde», che fra il XIV e XII secolo avanti Cristo fonti egizie, accadiche e ittite dipingevano come patria dei sardi shardana. Quell’isola che soprattutto con i Piemontesi e in specie dopo l’Unità d’Italia, sarà sempre più solo un ricordo. La storia documenta che l’Isola verde, densa di vegetazione, foreste e boschi, nel giro di un paio di secoli fu drasticamente rasata, per fornire carbone alla industrie e traversine alle strade ferrate, specie del Nord d’Italia. (Raimondo Carta Raspi, Storia della Sardegna, Mursia editore, Milano 1971, pag.883).

Sulla stessa linea Gramsci che in un articolo sull’Avanti del 1919 scrive” “L’Isola di Sardegna fu letteralmente rasa suolo come per un’invasione barbarica. Caddero le foreste. Che ne regolavano il clima e la media delle precipitazioni atmosferiche. La Sardegna d’oggi alternanza di lunghe stagioni aride e di rovesci alluvionanti, l’abbiamo ereditata allora”.

Certo, il dissipamento era iniziato già con i cartaginesi e i romani, che abbatterono le foreste nelle pianure per rubare il legname e per dedicare il terreno alle piantagioni di grano e nei monti le bruciarono per stanare ribelli e fuggitivi, ma è con i Piemontesi che il ritmo distruttivo viene accelerato: fin dal 1740 come ricorda Giuseppe Dessì, a proposito della distruzione delle foreste di Villacidro e dintorni, nel meraviglioso romanzo Paese d’ombre in cui scrive:”Nel 1740 il re aveva concesso al nobile svedese Carlo Gustavo Mandel il diritto di sfruttare tutte le miniere di Parte d’Ispi in cambio di una esigua percentuale sul minerale raffinato e gli aveva permesso di prelevare nelle circostanti foreste il carbone e la legna per le fonderie, costringendo comuni a vere e proprie corvé e distruggendo così il patrimonio forestale della regione”. (Paese d’ombre, pagina 107).

I Piemontesi infatti bruciarono persino i boschi della piana di Oristano per incenerire i covi dei banditi mentre i toscani li bruciarono per fare carbone. E con essi, amici e sodali di Cavour, ad iniziare da tal Conte Pietro Beltrami, uomo d’affari che prorio con il sostegno di Cavour, acquistò dal demanio alcune foreste, soprattutto a Fluminimaggiore e nell’Iglesiente, che disboscò senza alcun criterio, mandando in fumo un intero patrimonio boschivo e meritandosi l’appellativo di “Attila delle sarde foreste” in quanto devastatore di boschi quale mai ebbe la Sardegna. Dopo l’Unità, forse per questo, fu eletto deputato per due legislature!

Ma ancora qualche decennio anno prima dell’Unità Alberto Ferrero della Marmora, scrittore, geografo e militare (Torino 1789- 1863) scrive che ai suoi tempi la Sardegna aveva dei boschi fitti che potevano ricoprire un quinto dell’Isola.

E Maurice le Lannou (1906-1996) professore al Collège de France, membro e poi presidente dell’Institut (Académie des Sciences Morales et Politiques), uno dei più grandi geografi europei del secolo scorso, nella sua opera più importante sulla Sardegna: Pâtres et paysans de la Sardaigne, (Traduzione italiana a cura di Manlio Brigaglia: Pastori e contadini di Sardegna, Cagliari, Ed. della Torre, 1979) scrive che è certo che in tre quarti di secolo (1850-1925) il patrimonio forestale della Sardegna s’è notevolmente assottigliato in conseguenze di una mostruosa accelerazione del ritmo delle distruzioni. Dal 1860 la Sardegna è uscita abbastanza bruscamente dal suo isolamento e non sempre con vantaggio. Innanzitutto la foresta sarda ha fatto le spese della costruzione delle ferrovie isolane:nel 1863 200.000 ettari di terreni di bosco o di cespugli che appartenevano allo stato furono ceduti alla compagnia inglese che costruiva le ferrovie. Ed essa ne distrusse quasi 20.000 che erano i più ricchi di alberi veri e propri.

E’ dunque con l’Unità d’Italia che il patrimonio forestale della Sardegna s’è notevolmente e ulteriormente assottigliato grazie all’opera “criminale” di italiani, inglesi, francesi e belgi che trasformarono intere distese di alberi secolari in traversine per le ferrovie e travature per le miniere e per far legna con cui fondere i minerali.

La distruzione dei boschi era infatti tutta in funzione dei bisogni e degli interessi dell’Italia del Nord cui serviva carbone per le industrie e traversine per le strade ferrate. Con l’Unità d’Italia la partita si chiude con una mostruosa accelerazione del ritmo delle distruzioni tanto che : “Lo stato italiano promosse e autorizzò nel cinquantennio tra il 1863 e il 1910 – scrive Eliseo Spiga (in La sardità come utopia, note di un cospiratore, Cuec editore, Cagliari 2006) – la distruzione di splendide e primordiali foreste per l’estensione incredibile di ben 586.000 ettari, circa un quarto dell’intera superficie della Sardegna, città comprese, con il massacro concomitante degli animali selvatici:cinghiali, cervi, daini, mufloni”.

Carlo Corbetta, scrittore lombardo (seconda metà secolo XIX),  che visita la Sardegna  dopo il 1870 con l’appoggio di Quintino Sella, scrive  in seguito a quell’esperienza un’opera in due volumi Sardegna e Corsica. Essi vengono pubblicati nel 1877 a Milano per l’editore Brigola. A proposito della distruzione dei boschi precisa:”La distruzione dei boschi la si deve in  massima parte agli speculatori e trafficanti di scorza che col loro coltello scorticatore ne denudano i tronchi  e grossi rami delle elci e quercie marine e delle quercie comuni e la spediscono in continente ad estrarne tannino per la conceria delle pelli e per le tinture. Così scorticati gli alberi, muoiono nell’anno appresso e rimangono quali fantasmi biancastri agitanti le braccia per la deserta campagna e ti danno l’idea di esseri fantastici, di anime  dannate che si dolgano del loro crudo destino, o di anime purganti nel fuoco penace, quali si vedono dipinte nelle cappellette, sui canti delle vie cam­pestri. 

E in tal guisa ridotti, i piccoli rami si tagliano e se ne fa carbone, ed i tronchi si abbruciano sul po­sto e se ne fa cenere per estrarne potassa, e il suolo di sotto rimane nudo, deserto, brullo, biancheggiante”.

Si tratta di un’analisi gravemente deficitaria. E’ vero che le sugherete erano preda subito dopo l’Unità d’Italia (a partire dal 1865) di gruppi di commercianti che cercavano il tannino e la potassa. Ma i veri responsabili che Corbetta non individua, sono ben altri. Né, probabilmente Corbetta voleva e/o poteva individuarli, essendo essi amici e contigui ai suoi sostenitori, Quintino Sella in primis e con esso il Governo piemontese post-unitario di cui abbiamo già detto.

LIBRI DI FRANCESCO CASULA IN LINGUA SARDA E ITALIANA

LIBRI di FRANCESCO CASULA 

1. in lingua sarda 

1. Gratzia Deledda, , Alfa editrice, Quartu (Ca), Maggio 2006

2. Leonora d’Arborea, Alfa editrice,  Quartu (Ca) , Giugno 2006

3. Antonio Simon Mossa, Alfa Editrice, Quartu (Ca), Ottobre 2006

4. Antonio Gramsci (coautore Matteo Porru), Alfa editrice, Quartu (Ca), Ottobre 2006

5. Amsicora (coautore Amos Cardia), Alfa editrice, Quartu (Ca),  Aprile 2007

6. Giovanni M.Angioy (coautrice Giovanna Cottu) Alfa editrice, Quartu(Ca), Aprile 2007

7. Marianna Bussalai (coautrice Giovanna Cottu) Alfa editrice, Quartu(Ca), Giugno 2007

8. Sigismondo Arquer (coautore Marco Sitzia), Alfa editrice, Quartu (Ca), Maggio 2008

9. Giuseppe Dessì (coautore Veronica Atzei),  Alfa editrice, Quartu(Ca), Maggio 2008

10. Antioco Casula -noto Montanaru- (coautore Joyce Mattu), Alfa editrice, Quartu (Ca), Maggio 2009

11. Grazia Dore, Alfa editrice, Quartu (Ca), Maggio 2009. 

Ha scritto la versione in lingua sarda di  

1) “Pupillu, Menduledda e su Dindu GLU’ GLU’” Alfa Editrice,  Quartu,   Maggio 2003.

2)“Contos de sabidoria mediterranea” ,Alfa editrice, Quartu Aprile 2004

3)”Paristorias a supra de sos logos de sa Sardinna”, Alfa editrice, Quartu,  Aprile 2004

4 )” Paristorias a supra de sos nuraghes”, Alfa editrice, Quartu, Aprile 2004

 

Libri di Francesco Casula

in Lingua italiana

  • Statuto sardo e dintorni, Artigianarte editore, Cagliari 2001.

Ÿ  Storia dell’autonomia in Sardegna, (con Gianfranco Contu), Grafica del Parteolla, Dolianova 2009.

La poesia satirica in Sardegna,Della Torre editrice, Cagliari, 2010 (di cui ha scritto la parte  riguardante la Poesia satirica campidanese).

  • Uomini e donne di Sardegna- Le controstorie, Alfa editrice, Quartu, 2010.
  •  La Lingua sarda e l’insegnamento a scuola, Alfa editrice, Quartu, 2010.
  • Letteratura e civiltà della Sardegna, 1° volume, Grafica del Parteolla Editore,  Dolianova, 2011.
  • Sa die de Bernardinu Puliga (con Vittorio Sella),    Studiostampa srl, Nuoro 2009
  • Letteratura e civiltà della Sardegna, 2° volume, Grafica del Parteolla Editore,  Dolianova, 2013

 

 

Conferenza su “La distruzione delle foreste” in Sardegna

ITAMICONTAS

Biblioteca Comunale di Flumini

 L’Associazione culturale Ita mi contas organizza per giovedì 28 novembre, (ore 17.30, presso la Biblioteca di Flumini) una Conferenza su “La distruzione delle foreste sarde, il dissesto idrogeologico e le alluvioni nella storia sarda” .

Dopo l’introduzione di Paolo Maccioni, vice presidente dell’Associazione a tenere la Conferenza sarà il professor Francesco Casula che ripercorrerà le varie fasi storiche in cui la Sardegna verrà privata delle sue foreste, con il taglio indiscriminato degli alberi.

Quella che era L’Isola del «grande verde», prenuragica e nuragica, che fra il XIV e XII secolo avanti Cristo fonti egizie, accadiche e ittite dipingevano come patria dei Sardi Shardana, nel corso dei millenni, sarà infatti spogliata dei suoi alberi: inizieranno i fenici, proseguiranno i cartaginesi e i romani e via via glia altri dominatori e occupanti. Ma sarà soprattutto con i Piemontesi e in specie dopo l’Unità d’Italia, che “l’Isola verde”, densa di vegetazione, foreste e boschi, nel giro di un paio di secoli fu drasticamente rasata, per fornire carbone alla industrie e traversine alle strade ferrate, specie del Nord d’Italia.

Scriverà Gramsci in un articolo sull’Avanti del 1919 scrive” “L’Isola di Sardegna fu letteralmente rasa suolo come per un’invasione barbarica. Caddero le foreste. Che ne regolavano il clima e la media delle precipitazioni atmosferiche. La Sardegna d’oggi alternanza di lunghe stagioni aride e di rovesci alluvionanti, l’abbiamo ereditata allora”.

Quell’alternanza di annate siccitose e di alluvioni continueranno, ininterrottamente, dalla fine dell’Ottocento fino ai nostri giorni.

Quartu – ma è solo un esempio – fu colpita da S’Unda manna, un temporale-nubrifagio, il primo sabato di ottobre del 1889. Morirono 25 persone, i feriti furono alcune centinaia, oltre 2000 gli sfollati, cinquecento edifici furono totalmente distrutti mentre molti di quelli rimasti in piedi subirono gravi danni.

Fino all’immane tragedia che ha colpito la nostra Isola domenica 17 novembre scorso, causando oltre a devastazione e distruzione, ben 16 morti e un disperso.

 

FAEDDARE IN LIMBA

 

 

FAEDDARE IN LIMBA

Acoe proite su Bilinguismu agiuat a cheschere

de FRANTZISCU CASULA

 

Dae annos amus intèndidu narende dae insinnantes e dae babbos e mamas: «Non faeddes in sardu!». Oe prus pagu, fintzas si su pregiudìtziu chi faeddare in sardu siat una làcana e unu disbalore, in prus che un’abbarru e un’impidimentu pro s’aprendimentu, galu restat. In realidade s’iscièntzia – cun pedagogistas, linguistas, glotòlogos, psicòlogos, psicoanalistas e fintzas psichiatras – narat chi sa presèntzia de sa limba mama e de sa cultura locale, a incumentzare dae su currìculum iscolàsticu, si cunfegurant non comente unu fatu incresciosu de curregire, ma comente elementu de arrichimentu chi no est de fàghere a mancu, chi non “dat impìgiu” ma, antzis, favorit s’aprendimentu e sas capatzidades comunicativas de sos istudiantes ca movet in manera positiva in sas psicodinàmicas de s’isvilupu. De su restu fintzas sos programmas iscolàsticos, mancari in medida galu tropu birgongiosa e chi pertocant ebbia s’iscola elementare, racumandant de giùghere a s’atentu de sos alunnos su chi pertocat “s’òmine e sa sotziedade umana in su tempus e in su logu, in su tempus barigadu e in su presente, pro criare interessos in tundu a s’ambiende de vida de su pitzinnu, pro fàghere crèschere intro de a issu su sentidu de fàghere parte de sa comunidade e de sa pròpia terra”.

Est còmpitu de s’iscola elementare – galu s’afirmat – inganare e isvilupare in sos pitzinnos su passàgiu a sa cultura bìvida,  inciupida dereta in s’ambiente de vida e in sa cultura, comente fràigu nou intelletuale”.

Custu cheret nàrrere – pro su chi pertocat pro essempru su Sardu – tucare dae issu pro bènnere a s’impreu de sa limba italiana e de sas àteras limbas, chentza istratzaduras drammàticas cun sa cussèntzia ètnica de su cuntestu culturale bìvidu, in un’andera de arrichimentu armònicu de s’intelletu, pro abbèrrere lòrigas de s’aera noas e prus ampras a sa formatzione e a s’istrutzione.

Sa pedagogia moderna prus abbista difatis narat chi sa limba materna e sos balores artos chi l’alimentant sunt sa linfa chi aproendant e faghent crèschere sos pitzinnos chentza cùrrere su perìgulu grave meda de èssere cullocados foras dae su tempus e dae su logu cuntestuale a sa vida issoro. Issa ebbia cunsentit de annànghere sas balèntzias de sa cultura sua a sos balores de àteras culturas. Neghende sa limba materna, chentza l’assegundare e la contivigiare, si faghet una biulèntzia grave e dismotivada subra sos pitzinnos, oghende a s’isvilupu issoro e a s’echilìbriu psìchicu issoro. Cando benint istratzados dae su nùcleu familiare de orìgine, si lis

mudat in ruinas su campu de sa prima connoschèntzia de su mundu issoro. Sos pitzinnos difatis – ma sa chistione balet

fintzas pro sos giòvanos istudentes de sas mèdias e de sas superiores – si sugetos in àmbitu iscolàsticu a unu protzessu de disraighinamentu de sa limba materna e de sa cultura de su pròpiu ambiente e territòriu, benint a èssere e resurtant inseguros, infartados, “pòberos” de cultura e de limba. A lu cunfirmare cun autorevelesa est Antonella Sorace, dotzente de Linguìstica Achisitzionale in s’Universidade de Edimburgu, interbènnida de reghente a unu Cumbènniu in Casteddu, subra iniziativa de su Servìtziu Limba e Cultura Sarda de sa Regione, suta su nùmene de “Bilinguismu Creschet”. Segundu s’istudiosa, non solu sos istùdios de s’Universidade in ue insinnat, ma fintzas sas chircas de àteros tzentros, dimustrant chi su bilinguismu mudat su cherveddu in manera sinnificativa, rendèndeˑlu prus flessìbile: crèschere unu pitzinnu “ponèndeˑlu a cara” a duas limbas est un’imbestimentu pro totu sa sotziedade. No est beru chi at a crèschere atambainadu, nen chi s’impignu de passare dae una limba a s’àtera li potzat fàghere bistentare s’isvilupu cognitivu o potzat andare a discàpitu de su rendimentu iscolàsticu in sa limba de majoria. Est beru s’imbesse.

Publicadu in su numeru 58 de LOGOSARDIGNA

 

Un mio articolo sull’Università della Terza Età di Quartu

Notiziario dei soci “Università della Terza Età – Quartu Sant’Elena”

Novembre 2013

S’omine morit imparande

di Francesco Casula

S’omine morit imparande. Recita così un famoso

e antico adagio sardo. A significare che

l’educazione e l’apprendimento non hanno limiti

e confini temporali nella vita dell’individuo:

iniziano con la nascita e terminano con

la dipartita. Per più secoli – soprattutto ad

iniziare dalla rivoluzione industriale e con

l’istituzione della Scuola e fino a qualche decennio

fa – l’apprendimento del sapere è

stato circoscritto sostanzialmente al periodo

scolare, a un’età precisa e limitata dell’esistenza:

quella adolescenziale e giovanile.

Il lavoro – dentro la concezione industrial-illuminista

– doveva venire dopo, ad apprendimento

concluso e finito, in genere nella

scuola ufficiale e di “stato”.

Confinato a uno spazio-luogo – quello scolastico

appunto – separato anche fisicamente

dal lavoro e dalla produzione, esso si poneva

come del tutto “altro” rispetto alla vita, alle

dinamiche sociali e individuali ed era finalizzato

a conoscenze sostanzialmente libresche,

poco attigue quando non in contrasto con i

saperi” tradizionali, con la cultura “materiale

legata ai mestieri e insegnata dalla

scuola non ufficiale – o per dirla con Michelangelo

Pira “alla macchia” – gestita di fatto

dagli anziani, veri e propri maestri e docenti

di saggezza. Oggi, fortunatamente questa visione

dell’apprendimento e del sapere è entrata

in crisi: la più moderna e avveduta

pedagogia e didattica si muovono su traiettorie

culturali riassunte dallo slogan della “educazione

permanente”: abbondantemente e

saggiamente anticipate dal pregnante diciu

sardo di cui parlavo all’inizio.

Di qui, per esempio, le campagne di studio e

aggiornamento, più spesso annunciate e pubblicizzate

che realizzate – occorre dire – , rivolte

a giovani e meno giovani inseriti già nel

mondo e nel circuito lavorativo; di qui le

esperienze, in qualche modo paradigmatiche,

delle Università della Terza Età, sempre più

diffuse anche in Sardegna. Di una di queste

vorrei parlare: per liquidare alcuni luoghi comuni

che su di esse vengono diffusi o comunque

circolano, ma soprattutto per

testimoniare una bella esperienza che da anni

si porta avanti a Quartu Sant’Elena.

Molti pensano a una sorta di dopo scuola per

anziani, a corsi di recupero rivolti a qualche

anziano volenteroso che non ha avuto la fortuna

di intraprendere o concludere gli studi:

niente di tutto questo. L’Università della

terza Età di Quartu, è frequentata da una pluralità

di età e con provenienze sociali, culturali,

professionali le più diverse: molti sono

anche laureati e diplomati. Che si incontrano

certo per “imparare” ma anche per stare insieme,

confrontarsi, discutere, socializzare,

divertirsi, vincere la solitudine, sconfiggere

l’idea – tipica di una società tutta giocata sul

produttivismo industrialista – che l’anziano

debba solo aspettare, rassegnato, magari in

solitudine e in angosce, la fine della sua esistenza,

e non possa quindi continuare a vivere

gioiosamente, con gli altri e per gli altri.

Nell’Università della Terza età di Quartu infatti

certo si imparano le lingue (inglese, spagnola,

tedesca, portoghese) e l’Informatica, la

filosofia, la psicologia e l’archeologia, la poesia

e la letteratura sarda, la storia dell’arte,

delle religioni e della Comunicazione ecc. Ma

si partecipa anche a laboratori teatrali e di ricerca

storica. Si canta, si disegna, si pittura e

si apprende il ballo sardo. Si gioca a scacchi

e a bridge. Si fanno attività motorie. Si presentano

libri e si organizzano viaggi e gite.

SOS ISPOGIATORES DE CATABAROS de Frantziscu Casula

 

Gramsci in un articolo del 1919 sull’Avanti, censurato e scoperto tra Carte d’archivio decenni dopo e fortemente critico nei confronti della politica italiana postunitaria, scrive che “I signori di Torino e la classe borghese torinese ha ridotto allo squallore la Sardegna, privandola dei suoi traffici con la Francia ha rovinato i porti di Oristano e Bosa e ha costretto più di centomila Sardi a lasciare la famiglia per emigrare nell’Argentina e nel Brasile”.

 

Infatti in seguito alla rottura dei Trattati doganali con la Francia (1887) e al protezionismo tutto a beneficio delle industrie del Nord, fu colpita a morte l’economia meridionale e quella sarda. Con la “guerra” delle tariffe voluta da Crispi, i prodotti tradizionali sardi (ovini, bovini, vini, pelli, formaggi) furono deprivati degli sbocchi tradizionali di mercato. Nel solo 1883 – ricorda lo storico Carta-Raspi – erano stati esportati a Marsiglia 26.168 tra buoi e vitelli, pagati in oro. Dopo il 1887 tale commercio crollerà vertiginosamente e con esso entrerà in crisi e in coma l’intera economia sarda.

Salògono i prezzi dei prodotti del Nord protetti: le società industriali siderurgiche e meccaniche fanno pagare un occhio della testa – annota Gramsci – ai contadini, ai pastori, agli artigiani sardi con le zappe, gli aratri e persino i ferri per cavalli e buoi.

Di contro crollano i prezzi dei prodotti agricoli non più esportabili: il vino, da 30-35 e persino 40 lire ad ettolitro, rende adesso non più di 6-7 lire. Discende bruscamente il prezzo del latte. E s’affrettano a sbarcare in Sardegna quelli che Gramsci chiama “Gli spogliatori di cadaveri” .

1° categoria di spogliatori di cadaveri

Sono gli industriali caseari. “I signori Castelli – scrive Gramsci – vengono dal Lazio* nel 1890, molti altri li seguono arrivando dal Napoletano e dalla Toscana. Il meccanismo dello sfruttamento (ed è un lascito della borghesia peninsulare non più rimosso) è semplice: al pastore che privo di potere contrattuale, deve fare i conti con chi gli affitta il pascolo e con l’esattore, l’industriale affitta i soldi per l’affitto  del pascolo, in cambio di una quantità di latte il cui prezzo a litro è fissato vessatoriamente dallo stesso industriale”.

Il prezzo del formaggio cresce ma va ai caseari e ai proprietari del pascolo o ai grandi allevatori non ai pastori che conducono una vita di stenti, aggravati dalle annate di siccità e dalle alluvioni:conseguenze e prodotti del disboscamento della Sardegna, opera  di un’altra categoria di spogliatori di cadaveri.

 

2° categoria di spogliatori di cadaveri

Sono gli industriali del carbone – secondo Gramsci – che scendono dalla Toscana. Stavolta il lascito perla Sardegna è la degradazione catastrofica del suo territorio. L’Isola è tutta boschi. Gli industriali toscani ne ottengono lo sfruttamento per pochi soldi. “A un popolo in ginocchio anche questi pochi soldi paiono la salvezza”, scrive Gramsci.

Così – continua l’intellettuale di Ales – “L’Isola di Sardegna fu letteralmente rasa suolo come per un’invasione barbarica. Caddero le forste. Che ne regolavano il clima e la media delle precipitazioni atmosferiche. La Sardegna d’oggi alternanza di lunghe stagioni aride e di rovesci allivionanti, l’abbiamo ereditata allora.

 

Massajos ridotti in miseria dalla politica protezionista di Crispi e pastori spogliati dagli industriali caseari, s’affollano alla ricerca di un lavoro stabile nel bacino minerario del Sulcis Iglesiente. Dove troveranno altri  spogliatori di cadaveri.

 

3° categoria di spogliatori di cadaveri

Sono quelli che arrivano dalla Francia, dal Belgio e da Torino per un’attività di rapina delle risorse del sottosuolo (che il 9 settembre del 1848, ad appena otto mesi dalla Fusione perfetta, fu esteso alla Sardegna un Editto, già operante nella terraferma, che assegnava la proprietà delle miniere – e tutte le risorse del sottosuolo – allo Stato). Questo, per quattro soldi le darà in concessione a pochi “briganti, in genere stranieri ma anche italiani.

 

Essi si limiteranno – scrive Gramsci  a pura attività di rapina dei minerali, alla semplice estrazione, senza paralleli impianti per la riduzione del greggio e senza industrie derivate e di trasformazione”

Certo, gli occupati nelle industrie estrattive passeranno da 5 mila (1880) a 10 mila (1890) ma in condizioni inumane di lavoro (11 ore consecutive) e di vita: La Commissione parlamentare istituita dopo i moti del 1906 scriverà”Si mangia un tozzo di pane durante il lavoro e per companatico mangeranno polvere di calamina o di minerale.

Sempre nella relazione della Commissione parlamentare si scrive testualmente:”S’attraversano ancora oggi nel Sulcis Iglesiente villaggi nati allora, lascito della borghesia mineraria con intonaci scomparsi, pavimenti trascurati, filtrazioni di umidità, insetti immondi, annidati dappertutto”.

Ad essere date in concessione non erano solo le miniere di carbone ma anche quelle di piombo, argento, zinco, rame.

*Di qui anche la denominazione di “pecorino romano” pur essendo nel passato ma anche oggi prodotto in Sardegna per il 90%.

Serramanna, 15-11-2013: Lectio magistralis di Francesco Casula in occasione della inaugurazione dell’Anno accademico 2013-2014 dell’Università della Terza Età.

 

 FUNZIONE DELLA LINGUA E DELLA LETTERATURA SARDA NELLA SCUOLA E NELLA SOCIETA’ DI OGGI

 di Francesco Casula

PREMESSA. L’enorme buco nero della Scuola italiana in Sardegna

La scuola italiana in Sardegna è rivolta a un alunno che non c’è: tutt’al più a uno studente metropolitano, nordista e maschio. Non a un sardo. È una scuola che con i contesti sociali,ambientali, culturali e linguistici degli studenti non ha niente a che fare. Nella scuola la Sardegna non c’è: è assente nei programmi, nelle discipline, nei libri di testo. Si studia Orazio Coclite, Muzio Scevola e Servio Tullio: fantasie con cui Tito Livio intende esaltare e mitizzare Roma. Non si studia invece – perché lo storico romano non poteva scriverlo – che i Romani fondevano i bronzetti nuragici per modellare pugnali e corazze; per chiodare giunti metallici nelle volte dei templi; per corazzare i rostri delle navi da guerra.Nella scuola si studia qualche decina di piramidi d’Egitto, vere e proprie tombe di cadaveri di faraoni divinizzati, erette da centinaia di migliaia di schiavi, sotto la frusta delle guardie; ma non si studiano le migliaia di nuraghi, suggestivi monumenti alla libertà, eretti da migliaia di comunità nuragiche Indipendenti e federate fra loro. Si studia Napoleone, «piccolo e magro, resistentissimo alla fatica!», ma non si spende una sola parola per ricordare che il tiranno corso, venuto in Sardegna, bombardò La Maddalena e, sconfitto da Domenico Millelire, con la coda fra le gambe dovette ritirarsi e abbandonare «l’impresa».

 

Si studia insomma l’Italia «dalle amate sponde» e «dell’elmo di Scipio», ma la Sardegna, con le sue vicissitudini storiche, le dominazioni, la sua civiltà e i suoi tesori ambientali, culturali e artistici è del tutto assente: un diplomato sardo e spesso persino un laureato, esce dalla scuola senza sapere nulla dell’architettura nuragica, della Carta de Logu, di Salvatore Satta e della Lingua sarda. Quest’ultima pare addirittura cancellata.

 

A fronte di ciò credo non più dilazionabile una battaglia – in tutte le sedi, comprese quelle istituzionali, ad iniziare dalla Regione – per l’inserimento organico nei programmi e dunque nei curricula scolastici (almeno per la quota del 15%) lo studio della Lingua sarda e con essa della cultura, della letteratura, della storia, della civiltà dei Sardi. A tal fine occorre una precisa legge ad hoc che preveda espressamente l’istituzione nelle scuole isolane di ogni ordine e grado delle cattedre di Cultura, Lingua, Storia e Letteratura sarda. Ne ha la potestà e il diritto: ma anche il dovere. 

 

1. Le basi storico-culturali della richiesta e della proposta del Bilinguismo perfetto e della istituzione delle cattedre di Cultura, Lingua, Storia e Letteratura sarda

a) La ‘censura’ e la ‘proibizione’ della storia e della lingua sarda nel passato

 

Nel 1720, quando i Savoia prendono possesso della Sardegna, la situazione linguistica isolana è caratterizzata da un bilinguismo imperfetto: la lingua ufficiale – della cultura, del Governo, dell’insegnamento nella scuola religiosa riservata ai ceti privilegiati – è il castigliano, mentre la lingua del popolo, in comunicazione subalterna con quella ufficiale, è il Sardo.

 

Ai Piemontesi questa situazione appare inaccettabile e da modificare quanto prima, nonostante il Patto di cessione dell’Isola del 1718 imponga il rispetto delle leggi e delle  consuetudini del vecchio Regnum Sardiniae. Per i Piemontesi occorre rendere ufficiale la Lingua italiana. Come prima cosa pensano alla Scuola per poi passare agli atti pubblici. Ma evidentemente le loro  preoccupazioni non sono di tipo glottologico. Attraverso l’imposizione della Lingua italiana vogliono sradicare la Spagna dall’Isola, rafforzare il proprio dominio, combattere il «Partito spagnolo» sempre forte nell’aristocrazia ma non solo. Pensano allora di elaborare il «Progetto di introdurre la Lingua italiana nella scuola», affidandone lo studio e la gestione ai Gesuiti. Nella prima fase il progetto coinvolgerà comunque pochi giovani, appartenenti ai ceti  privilegiati. Il problema diventa molto più ampio ai primi dell’Ottocento, quando il Governo inizia a interessarsi dell’Istruzione del popolo. I bambini «poverelli» ricevono gratuitamente due libri in lingua italiana: Il Catechismo del Bellarmino e il Catechismo agrario, «giacchè l’agricoltura è precipuo sostegno di ogni stato e in particolare della Sardegna».

 

Ciò nonostante il popolo continuerà a parlare diffusamente, come sotto la dominazione spagnola, la lingua sarda, affermando con essa la sua Identità, la sua cultura, la sua concezione del mondo.

 

Per quanto attiene all’insegnamento della storia la situazione è analoga: a Pietro Martini – uno dei padri della storiografia sarda, e siamo in pieno Ottocento! –, intenzionato a introdurre fra gli studenti dell’Isola l’insegnamento della Storia sarda, capitò di sentirsi rispondere seccamente dalle autorità governative piemontesi che «nelle scuole dello Stato debbasi insegnare la storia antica e moderna, non di una provincia ma di tutta la nazione e specialmente d’Italia».

 

Tale concezione, da ricondurre a un progetto di omogeneizzazione culturale – che per l’Isola significherà dessardizzazione –, la ritroviamo pari pari nelle Leggi sull’istruzione elementare obbligatoria nell’Italia pre e post unitaria: del Ministro Gabrio Casati (1859), Cesare Correnti (1867) e Michele Coppino (1877).

 

I programmi scolastici, impostati secondo una logica rigidamente nazional-statale, o statalista che dir si voglia, e italocentrica, sono finalizzati a creare una coscienza «unitaria», uno spirito «nazionale», capace di superare i limiti – così si pensava – di una realtà politico sociale  estremamente composita sul piano storico, linguistico e culturale.

 

Questo paradigma fu enfatizzato nel periodo fascista, con l’operazione della«nazionalizzazione-italianizzazione» dell’intera storia italiana. A onor del vero, proprio nell’incipiente periodo fascista non mancò chi, come Giuseppe Lombardo Radice, estensore dei Programmi della Scuola elementare, sostenne la necessità di valorizzare il locale e il dialetto e di partire proprio dalla lingua viva per facilitare l’apprendimento e lo sviluppo intellettuale degli scolari (G. L. Radice, Lezioni di didattica).

 

Sempre nello stesso periodo, fu lo stesso Gentile a voler introdurre la Lingua sarda nelle scuole isolane, con altre lingue minori in altre Regioni italiane: subito dopo, però, estromesse dal regime perché avrebbe messo in pericolo «l’Italianità» della Sardegna!

 

L’idiosincrasia – uso volutamente un termine eufemistico – nei confronti di tutto ciò che è  sardo, e in modo particolare de Sa Limba, continuerà comunque anche nel dopoguerra. Nel 1955, nei programmi elementari elaborati dalla Commissione Medici si introduce l’esplicito divieto per i maestri di rivolgersi agli scolari in dialetto. E in tempi a noi più vicini, con una nota riservata del Ministero – regnante Malfatti – del 13.02.1976, si sollecitano Presidi e  direttori Didattici a «controllare eventuali attività didattiche-culturali riguardanti l’introduzione della Lingua sarda nelle scuole». Una precedente nota riservata dello stesso anno del 23.01 della Presidenza del Consiglio dei Ministri aveva addirittura invitato i capi d’Istituto a «schedare» gli insegnanti.

 

E non si tratta di pregiudizi presenti solo negli apparati statali e ministeriali romani: il segretario provinciale sardo di un Partito politico, allora ferocemente centralistico, sia pure di un «centralismo democratico», nel 1978 invitava, con una circolare spedita a tutte le sezioni, di non aderire, anzi di boicottare la raccolta di firme per la Proposta di legge di iniziativa popolare sul Bilinguismo perché «separatista» e attentatrice all’Unità della Nazione! Oggi finalmente qualcosa inizia a muoversi: ad iniziare dalla concezione della storia locale. Dopo interi secoli di riserve e, spesso, di vera e propria insofferenza nei confronti della storia locale anche in Italia – sia pure in ritardo abissale rispetto ad altri paesi europei, come la Francia, per esempio –, si sta superando il paradigma storiografico secondo il quale solo la «storia generale» è degna di essere studiata.

 

Soprattutto in seguito alle significative posizioni di storici come Marc Bloch e Lucien le Febvre, con la creazione nel 1929 degli Annales, e con il pensiero di Fernand Braudel, la storiografia più avveduta supera e rifiuta la storia come grande evento politico-militare, rivalutando la storia locale che si pone anzi come ‘laboratorio’ della nuova concezione storiografica secondo la quale non vi è una gerarchia di rilevanza fra storia locale e storia generale.

 

Così oggi la storia locale ha acquisito un ruolo importante e stabile e «la storiografia – è lo storico Franco Catalano a sostenerlo – si è liberata dalle innaturali concezioni che celebrano la grande storia», per cui la nuova storia, oltre che abbattere le vecchie recinzioni storiografiche, per una storia aperta e senza barriere disciplinari, è capace di valorizzare la vita degli uomini nel tempo e nello spazio, indagando a tutto campo: dalla cantina al solaio. Ma non di questo solo si tratta: l’impostazione pedagogica, didattica e culturale tutta giocata sulla proibizione, cancellazione e potatura della Storia locale – ma lo stesso discorso vale per la cultura e la lingua sarda – ha prodotto effetti devastanti negli studenti, e nei giovani in genere in modo particolare.  

 

b) Gli effetti della proibizione della cultura locale

 

La smemorizzazione. Provate a chiedere a uno studente sardo che esca da un Liceo artistico, cosa conosce di una civiltà e di un’architettura grandiosa come quella nuragica, sicuramente fra la più significative dell’intero Mediterraneo; provate a chiedere a uno studente del Liceo

classico cosa sa della parentela fra la lingua sarda e il latino; provate a chiedere a uno studente di un Istituto tecnico per Ragionieri e persino a un laureato in Giurisprudenza cosa conosce di quel monumentale codice giuridico che è la Carta de Logu di Eleonora d’Arborea. Vi  endereste conto che la storia, la lingua, la civiltà complessiva dei Sardi dalla Scuola ufficiale è stata non solo negata ma cancellata, interrata.

 

Lo sradicamento e la perdita dell’Identità. Una scuola monoculturale e monolinguistica, negatrice delle specificità, tutta tesa allo sradicamento degli antichi codici culturali e basata sulla sovrapposizione al «periferico» di astratti paradigmi e categorie che le «grandi civiltà»

avrebbero voluto irradiare verso le «civiltà inferiori», ha prodotto in Sardegna, soprattutto negli ultimi decenni, giovani che ormai appartengono a una sorta di area grigia, a una terra di nessuno. E Nicola Tanda (storico della Letteratura e per decenni docente di Letteratura e Filologia presso l’Università di Sassari) aggiunge: «Ora l’Italiano, la lingua letteraria o standard, grazie ai media, e soprattutto alla televisione, bene o male viene parlata e scritta da italiani e non italiani. Con quali conseguenze? Che una lingua stereotipata e male appresa non sempre riesce a comunicare le emozioni del vissuto. È diventata insomma una lingua di plastica, inodore, insapore e incolore».  

 

L’omologazione e la standardizzazione. I giovani soprattutto, sono oggi appiattiti e omologati nell’alimentazione come nell’abbigliamento, nei gusti come nei consumi, nei miti come nei modelli in cui quelli di Cagliari non sono molto diversi da quelli di Detroit. Una delle cause fondamentali è sicuramente la mancanza di memoria storica. Mi piace a questo proposito citare quanto sostiene Umberto Eco nel suo monumentale romanzo L’Isola del giorno prima: «Io  sono memoria di tutti i miei momenti passati, la somma di tutto ciò che ricordo». O l’afgano Khaled Hosseini, che nel suo primo romanzo di grande successo Il cacciatore di aquiloni, scrive «Non è vero come dicono molti che si può seppellire il passato. Il passato si aggrappa con i suoi artigli al presente». A significare cioè che l’individuo esiste e ha una sua identità in quanto possiede la memoria storica. Recisa ed estinta questa, sia come singoli che come comunità, saremmo semplicemente omologati, soggetti e comunità indifferenziate, senza la ricchezza delle specificità culturali e storiche.

 

La frattura fra città e campagna. I Programmi ministeriali, complessivamente, almeno fino ad oggi – come dicevo nella premessa –, sono stati costruiti su un allievo che non c’è. Un allievo astratto, maschio, tutt’al più nordista e, soprattutto, metropolitano. Anche in Sardegna

la scuola è tutta sbilanciata a favore della città contro la campagna e i paesi. Essa ha insegnato e ancora insegna che il paese è «un mondo chiuso» e che crescendo occorre «uscire  definitivamente dall’orizzonte mentale del paese d’origine, per entrare nel mondo aperto della città, e che occorre ancora un lungo processo di civilizzazione perché nessuno si sente più cittadino di Ollolai» (la frase virgolettata è tratta dall’articolo di un docente di Filosofia teoretica dell’Università di Cagliari, poi divenuto Preside della Facoltà di Lettere e ora docente a Roma, ed era rivolta polemicamente proprio al sottoscritto). Oggi, fortunatamente, qualcosa sul versante della cultura identitaria e della differenza inizia a cambiare: nella società come nella scuola. 

 

2. Fiducia illimitata nel progresso, globalizzazione e primi segni di crisi e messa in discussione

Solo fino a qualche decennio fa sembrava vittoriosa su tutti i fronti l’ideologia, vacuamente ottimistica e credente nelle «magnifiche sorti e progressive», tutta basata su una crescita e uno sviluppo materiale illimitato, che avrebbe dovuto eliminare le nazionalità minori e marginali, le diversità e specificità linguistiche e culturali, bollate sic et simpliciter, come primordiali e arcaiche, quando non veri e propri cascami e residui del passato. Sull’altare di tale sviluppo e progresso, scandito dalla semplice accumulazione di beni materiali e fondato sulla onnipotenza tecnologica, si è devastato l’ambiente, compromettendo forse in modo irreversibile gli equilibri dell’ecosistema e nel contempo sono state sacrificate e distrutte risorse artistiche, lingue, codici, culture, soggetti, intere etnie. Si è trattato e si tratta – perché il perverso processo, sia pure oggi messo, almeno parzialmente in discussione, continua – di una vera e propria catastrofe antropologica, se solo pensiamo a quanto ci rende noto il Centro studi di Milano «Luigi Negro», secondo il quale ogni anno scompaiono nel mondo dieci minoranze etniche e con esse altrettanti lingue, culture e civiltà, modi di vivere originali, specifici e irrepetibili. Con questo ritmo, persino i più ottimisti fra i linguisti – ricordo per tutti Claude Hagègè – prevedono che tra appena cento anni la metà delle settemila lingue ancora parlate nel pianeta oggi, scomparirà. Il pretesto e l’alibi di tale genocidio è stato che occorreva superare, trascendere e travolgere le arretratezze del mondo «barbarico» – per noi Sardi, «barbaricino» –, le sue superstizioni, le sue «aberranti» credenze, i suoi vecchi e obsoleti modelli socio-economicoculturali, espressione di una civiltà preindustriale e rurale ormai superata. I motivi veri sono invece da ricondurre alla tendenza del capitalismo e degli Stati – e dunque delle etnie dominanti – a omologare e assimilare, in nome di una falsa «unità», della globalizzazione dei mercati, della razionalità tecnocratica e modernizzante, dell’universalità cosmopolita e scientista, le etnie minori e marginali, e con esse le loro differenze e specificità, in quanto altre, scomode e renitenti. Quella «unità» di cui parla il compianto Eliseo Spiga nel suo recente suggestivo e potente romanzo, Capezzoli di pietra: «Ormai il mondo era uno. Il mondo degli incubi di Caligola. Un’idea. Una legge. Una lingua. Un’eresia abrasa. Un’umanità indistinta. Una coscienza frollata. Un nuragico bruciato. Un barba ricino atrofizzato. Un’atmosfera lattea. Una natura atterrita. Un paesaggio spianato. Una luce fredda. Città villaggi campagne altipiani nazioni livellati ai miti e agli umori di cosmopolis». Che vorrebbe – aggiungo io – un mondo uniforme, una sfera rigida e astratta nell’empireo e non invece tanti mondi, ciascuno col proprio movimento e con un suo essere particolare e inconfondibile. 

 

3. Primi segni di cambiamento anche nella scuola

Oggi, dicevo, fortunatamente, sia pure con difficoltà e lentamente, inizia ad affermarsi la convinzione e la consapevolezza che la standardizzazione, l’omogeneizzazione e l’omologazione, insomma la reductio ad unum, rappresenta una catastrofe e una disfatta, economica e sociale ancor prima che culturale, per gli individui e per i popoli. Di qui la necessità del recupero, della valorizzazione e dell’esaltazione delle diversità e delle differenze, ovvero delle specifiche Identità: certo per aprirci e guardare al futuro e non per rifugiarci nostalgicamente in una civiltà che non c’è più; per intraprendere, come Comunità sarda, una via locale alla prosperità e al benessere e partecipare così, nell’interdipendenza, agli scambi e ai rapporti economici e culturali. Oggi, anche nella scuola, l’operazione è più facile rispetto al passato: i nuovi e recenti programmi della Scuola elementare – e, sia pure ancora in misura insufficiente della scuola media e superiore – raccomandano di portare l’attenzione degli alunni «sull’uomo e la società umana nel tempo e nello spazio, nel passato e nel presente, nella dimensione civile, culturale, economica, sociale, politica e religiosa per creare interesse intorno all’ambiente di vita del bambino, per accrescere in lui il senso di appartenenza alla comunità e alla propria terra». «È compito della scuola elementare – si afferma ancora – stimolare e sviluppare nei fanciulli il passaggio dalla cultura vissuta e assorbita direttamente dall’ambiente di vita, alla cultura come ricostruzione intellettuale».

Ciò significa – per quanto attiene per esempio alla lingua materna – partire da essa per pervenire all’uso della lingua italiana e delle altre lingue, senza drammatiche lacerazioni con la coscienza etnica del contesto culturale vissuto, in un continuo e armonico arricchimento della mente e dell’intelletto, per aprire nuovi e più ampi orizzonti alla formazione e all’istruzione. La pedagogia moderna più attenta e avveduta infatti ritiene che la lingua materna e i valori alti di cui si alimenta sono i succhi vitali, la linfa, che nutrono e fanno crescere i bambini senza correre il gravissimo pericolo di essere collocati fuori dal tempo e dallo spazio contestuale alla loro vita. Solo essa consente di saldare le valenze e i prodotti propri della sua cultura ai valori di altre culture. Negando la lingua materna, non assecondandola e non coltivandola si esercita grave e ingiustificata violenza sui bambini, nuocendo al loro sviluppo e al loro equilibrio psichico. Li si strappa al nucleo familiare di origine e si trasforma in un campo di rovine la loro prima conoscenza del mondo. I bambini infatti – ma il discorso vale anche per i giovani studenti delle medie e delle superiori –, se soggetti in ambito scolastico a un processo di sradicamento dalla lingua materna e dalla cultura del proprio ambiente e territorio, diventano e risultano insicuri, impacciati, poveri culturalmente e linguisticamente. Oggi sono – almeno parzialmente – gli stessi programmi scolastici ministeriali ad indicare nelle esperienze linguistiche e nelle culture locali i fondamenti su cui costruire tutto il processo di apprendimento della stessa lingua italiana ma soprattutto la formazione della personalità dello studente: una profonda conoscenza dell’ambiente come base ineludibile e come condizione necessaria del processo educativo e didattico degli studenti e dei giovani. Certo l’ambiente naturale con i suoi monti fiumi e pianure, con la sua flora e la sua fauna, ma soprattutto l’ambiente come società umana con le sue specificità culturali: storiche e linguistiche in primis.

Da questo punto di vista i moderni studi e le nuove concezioni sulla Letteratura italiana, sulla  storia e sul valore della lingua materna sono di grande aiuto, perché la lingua, la cultura e la  storia sarda entrino finalmente, in modo organico, nella scuola di ogni ordine e grado e nei curricula scolastici.

Ma vi è di più: la cultura della «differenza», la nuova sensibilità per le lingue locali e minoritarie ha avuto un formale riconoscimento giuridico e normativo prima a livello europeo con la Carta Europea per le lingue regionali e minoritarie, poi a livello regionale con la Legge n. 26 del 15 Ottobre 1997 sulla «Promozione e valorizzazione della cultura e della lingua della Sardegna» e infine a livello nazional-statale italiano con la Legge n. 482 del 15 Dicembre 1999 riguardante «Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche» in cui è presente la Lingua sarda.

Lo studio della Cultura e della Lingua sarda nella Scuola, per noi Sardi è dunque oggi favorito dalla nuova normativa comunitaria, statale e regionale. Di qui l’urgenza e la necessità di utilizzare tutti gli spazi, gli strumenti e i finanziamenti che tali normative mettono a disposizione. Per studiare – ripeto – in modo particolare la storia e la lingua sarda ma in generale l’intero universo culturale dell’Isola. A tal fine occorrerà anche pensare anche alla modifica e aggiornamento della stessa Legge 26, che oggi risulta arretrata rispetto alla Legge 482 dello Stato: questa – fra l’altro – prevede che si possa insegnare in Sardo, ovvero la possibilità dell’uso veicolare della Lingua sarda per l’insegnamento curriculare – mentre questa possibilità non è prevista dalla Legge 26 

 

4. Letteratura italiana (scritta in italiano) o Letteratura degli Italiani?

 

L’Idea di una letteratura italiana che comprenda quasi esclusivamente le opere scritte in italiano può considerarsi ormai tramontata: in questi ultimi anni infatti si assiste a un rinnovato interesse per le letterature delle diverse Regioni.

 

Il concetto stesso di letteratura italiana si è dilatato sino a comprendere l’insieme delle opere scritte in tutto il territorio dello Stato italiano, indipendentemente dalla lingua utilizzata. Pertanto la letteratura regionale, un tempo considerate minori, sono diventate le diverse componenti di un quadro nazionale – più correttamente occorrerebbe dire «statale» – più vasto.

 

Ciò che sostanzialmente deve essere riconsiderato è il rapporto fra il «centro» e le «periferie», dal momento che – come scrive Carlo Dionisetti, il principale teorico di questi studi – «la storia della marginalità reca un contributo essenziale alla storia totale in costruzione, perché si manda lo storico, senza tregua, dal centro alla periferia e dalla periferia al centro».

 

Si muove sulla stessa linea il già citato Nicola Tanda, secondo il quale «dopo le risoluzioni del Parlamento europeo, la Carta europea delle lingue regionali e minoritarie non si può più parlare di una letteratura italiana costruita secondo categorie concettuali del secolo scorso. Semmai di letteratura degli italiani. Si impone a questo punto un nuovo canone o statuto che tenga conto della geografia delle letterature prodotte dalle lingue e dai dialetti impiegati nelle varie regioni. Finalmente i fenomeni letterari possono essere considerati per il loro valore artistico, estetico, storico e culturale e non in base a un sistema linguistico o letterario, considerato comune a tutti».

 

Poiché la letteratura è legata saldamente al territorio in cui nasce ed è espressione diretta dei sentimenti e delle necessità dei popoli che tale territorio abitano, non si può scrivere una storia della letteratura senza definirne contestualmente anche una geografia. Spesso sono proprio i caratteri tipicamente regionali a definire la specificità di una determinata produzione letteraria a prescindere dalla lingua utilizzata o dagli stili e generi nei quali si inquadra. Riportare la letteratura a una dimensione territoriale non significa isolarsi né è indice di provincialismo. Aiuta invece a comprendere lo sviluppo dei fenomeni in rapporto alle realtà locali; consente di valutare meglio il contributo dato dalle singole esperienze alla storia della cultura nazionale e internazionale o cultura tout court. E questo può essere fatto senza doversi confrontare in ogni momento con le opere e le idee dei grandi personaggi che, secondo una concezione tipicamente idealistica, avrebbero fatto la storia della letteratura. In quest’ottica, ogni forma di comunicazione scritta, destinata a un pubblico più o meno vasto, acquista rilevanza. La storia della letteratura dunque viene a coincidere con la storia della cultura scritta – in lingua italiana, in lingua sarda o nei dialetti italici, poco importa – nelle sue particolarità locali, in relazione con la storia delle idee e della comunicazione nel resto del mondo. Anche la Sardegna ha maturato una propria identità e si è confrontata con altre culture dalle quali ha tratto idee e forme di espressione, raggiungendo risultati spesso significativi e  altamente validi, che vale perciò la pena di conoscere e approfondire.  

 

5. La Letteratura sarda

 

Esiste e sempre è esistita una letteratura sarda che risulta autonoma, distinta e diversa dalle altre letterature. E dunque non una sezione di quella italiana: magari gerarchicamente inferiore. Nasce anche da qui l’esigenza di un’autonoma trattazione delle vicende letterarie sarde: ad iniziare da quelle scritte in Lingua sarda. Da considerare non dialettali, ma autonome, nazionali sarde, vale a dire. A questa stessa conclusione arriva, del resto, un valente critico letterario (e cinematografico) italiano come Goffredo Fofi, che nell’Introduzione a Bellas Mariposas, di

Sergio Atzeni, scrive: «Sardegna, Sicilia. Vengono spontanei paragoni che indicano la diversità che è poi quella dell’insularità e delle caratteristiche che, almeno fino a ieri, ne sono derivate, di isolamento e di orgoglio. È possibile fare una storia della letteratura siciliana o una storia della letteratura sarda, mentre, per restare in area centro-meridionale non ha senso pensare a una storia della letteratura campana, o pugliese, o calabrese, o marchigiana, o laziale… Il mare divide e costringe: la letteratura siciliana e la letteratura sarda possono essere studiate – nonostante la comunanza della lingua con quella di altre regioni, almeno dopo l’Unità – come “Letterature nazionali”. Con un loro percorso, una loro ragione, loro caratteri e segni». Dalle origini del volgare sardo fino ad oggi, non vi è stato periodo nel quale la lingua sarda non abbia avuto una produzione letteraria. Certo, qualcuno potrebbe obiettare che essa,  rispetto ad altre lingue romanze, ha prodotto pochi frutti: può darsi, ma dato e non concesso – si poteva pensare che un cavallo per troppo tempo tenuto a freno, legato e imbrigliato potesse correre? –, la lingua sarda, certo, deve crescere e sta crescendo: ha soltanto bisogno che le vengano riconosciuti i suoi diritti, che le venga proprio riconosciuto il suo status di lingua, e dunque le opportunità per potersi esprimere, oralmente e per iscritto, come avviene per la lingua italiana.

 

La Lingua sarda, dopo essere stata lingua curiale e cancelleresca nei secoli XI e XII, lingua dei Condaghi e della Carta de Logu, con la perdita dell’indipendenza giudicale viene infatti ridotta al rango di dialetto paesano, frammentata ed emarginata, cui si sovrapporranno prima i linguaggi italiani di Pisa e Genova, poi il catalano e il castigliano e infine di nuovo l’italiano.

 

Ma anche prescindendo dal codice linguistico usato – molti hanno scritto appunto in catalano, in castigliano e in italiano –, pare difficile non ritrovare in tale produzione letteraria una specifica e particolare sensibilità locale, «una appartenenza totale alla cultura sarda, separata e distinta da quella italiana», diversa dunque e «irrimediabilmente altra», come scrive il critico sardo Giuseppe Marci.

 

L’importante è soprattutto – come scrive Antonello Satta – «che gli autori sappiano andare per il mondo con pistoccu in bertula, perché proprio in questo andare per il mondo, mostrano le stimmate dei sardi e, quale che sia lo scenario delle loro opere, vedono la vita alla sarda». Miguel de Unamuno era basco e scriveva in castigliano, ed era anche contrario a una ripresa dell’euskera come lingua letteraria. Eppure Unamuno, se fa parte della letteratura  spagnola fa anche anche parte della letteratura basca e il mondo intero, così presente nella sua opera, è per lui una Bilbao dilatata: «Hermanos somos todos los humanos / el mundo entero es un Bilbao más grande».

 

Anche tra Italia e Sardegna vi sono appartenenze comuni: e dunque negli autori sardi vi sono anche elementi di assimilazione e di integrazione e persino «imitatori» di movimenti e stili oltre Tirreno, e non solo.

 

Pensiamo – per esempio – a due grandi del primo Novecento: Sebastiano Satta e Grazia Deledda. Il primo vanta robuste ascendenze carducciane e pascoliane; la seconda è copiosamente influenzata sia dal Verismo oltreché dai romanzieri russi di fine Ottocento: eppure ambedue sono soprattutto i cantori della sardità e pongono al centro della loro scrittura la Sardegna e i Sardi.

 

Ma anche quando la Sardegna non è protagonista – pensiamo a Un anno sull’altipiano e Marcia su Roma e dintorni – emerge comunque l’identità etno-nazionale sarda. Nel caso di Lussu, è evidente nella sua scrittura che, come ha sostenuto autorevolmente il linguista sardo Leonardo Sole, «si incardina nella cultura orale e in particolare perfino nel ritmo narrativo della fiaba sarda»: fortemente ritmizzata e caratterizzata da un giro di parole essenziale e rapido.

 

Riferendosi in modo particolare al romanzo sardo, Nereide Rudas, uno degli intellettuali sardi più lucidi e colti nel suggestivo e brillante saggio l’Isola dei coralli scrive: «Il romanzo sardo pur collocandosi all’interno dell’universo linguistico e culturale italiano, se ne discosta per molti aspetti. Leggendo le opere di Grazia Deledda, di Salvatore Satta, di Emilio Lussu e, a ben guardare anche di Antonio Gramsci, cogliamo subito una specificità e una diversità. Confrontate con le altre opere letterarie italiane esse ci appaiono in un certo senso omogenee fra loro e nel contempo “irrimediabilmente altre”».  

 

6. Valenze dello studio della storia locale: identitarie, conoscitivo-didattiche ed educative

 

Abbiamo parlato di Storia della Sardegna come storia «locale». In realtà dovremmo parlare di Storia della Sardegna come storia «generale» e «primaria». Scrive a questo proposito il maggior storico medievista della Sardegna, Francesco Cesare Casula «La nostra non è una storia mitologica locale da cantare in piazza a ottavas o da narrare a contus de forredda o da

lasciare all’insipienza della Regione Autonoma della Sardegna perché la valorizzi o, al massimo, da presentare come cultura indigena agli alunni sardi in aggiunta alla storia peninsulare; ma è una storia generale e primaria, senza la quale non si capisce lo sviluppo della storia italiana. Da inserire quindi – di dovere – all’interno del manuale scolastico nazionale adottato sia a Cagliari che a Milano, a Roma come a Napoli e a Palermo, perché, oltretutto, dalle ceneri della splendida civiltà giudicale nacque nel 1324 quel regno di Sardegna che nel 1861 si trasformò di nome in Regno d’Italia e che per questo costituisce la base istituzionale dell’attuale nostra repubblica».  

 

a. Valenze Identitarie. La storia è la radice del nostro essere, della nostra realtà e Identità collettiva e individuale. Nessun individuo, come nessun popolo, può realmente e autenticamente vivere senza la conoscenza e coscienza della sua Identità, della sua biografia, dei vari momenti del suo farsi capace di ricostruire il suo vissuto personale e storico. Un filo ben preciso lega il nostro essere presente al passato: il filo della nostra identità e diversità-specificità, come individui e come comunità etno-nazionale. Se non fossimo diversi non potremmo neppure dialogare, confrontarci, conoscere. Noi conosciamo in quanto siamo diversi: avremmo altrimenti l’hegeliana «notte nera in cui tutte le vacche sono nere». La diversità ci salva dalla omologazione-standardizzazione. Sia ben chiaro: la coscienza di essere diversi non esclude la consapevolezza di essere e di vivere dentro un universo più vasto.   

 

b. Valenze conoscitive e didattiche. Dissolto – soprattutto grazie agli storici francesi degli  Annales – l’eurocentrismo storiografico e, contestualmente liquidato il pregiudizio secondo il quale vi erano nella ricerca storiografica delle gerarchie fra storia generale «più alta e più importante» e storia locale meno prestigiosa, oggi possiamo con buone ragioni sostenere che lo studio della storia locale è indispensabile non solo per la conoscenza della storia specifica della Sardegna ma per capire e interpretare la stessa storia generale: sia come verifica della ricaduta a livello locale di fenomeni generali (pensiamo solo, per esempio, alle conseguenze a livello sardo, delle politiche economiche e fiscali dei governi italiani post-unitari); sia come individuazione degli effetti che scelte e spinte che provengono dal locale, dal basso, inducono e producono nelle scelte di ordine generale.  

 

c. Valenze educative. La conoscenza della nostra storia, delle nostre radici etno- linguistiche ed etno-culturali ci aiutano a superare i conflitti fra le diversità, in quanto la coscienza della nostra storia peculiare deve portarci non all’esaltazione acritica del nostro passato, magari in termini mitologici, né all’etnocentrismo, né alla chiusura verso l’esterno e/o il diverso: bensì al dialogo e alla tolleranza e – perché no? – alla contaminazione e al meticciato, in cui la nostra Identità si plasma e si trasforma, arricchendosi e irrobustendosi con l’innesto di nuove culture.  

 

7. Lo studio della lingua sarda, all’interno dello specifico locale, risulta oggi ancor più importante e urgente

 

Ci si potrà obiettare che si tratta di un’operazione antistorica, a fronte del processo ormai inevitabile della globalizzazione e dell’unificazione, a livello planetario, soprattutto dell’economia e del mercato. Ebbene rispondo che proprio il mercato che con le sue leggi sembra unificare il mondo, in realtà lo divide, soprattutto con le guerre.  La lingua invece, che nella pluralità disseminata delle sue forme, sembra dividere e separare il mondo e le culture, di fatto, attraverso la traduzione apre varchi, mette in rapporto popoli lontani ed estranei. Si traduce perché si vuole rendere familiare lo straniero, rispettando la sua fisionomia, il suo timbro, la sua cultura. Ogni traduzione infatti mette in relazione due lingue, preservando l’identità dell’una e dell’altra. Per questo la babele delle lingue interpretata tante volte come una condanna, non è affatto una maledizione, una caduta al di fuori dell’unica comprensiva lingua: è anzi, specialmente oggi, l’occasione perché quel che è diverso, possa essere conservato nella ricchezza della sua diversità. Nell’epoca della globalizzazione, il rapporto fra le lingue è un banco di prova – e anche una grande metafora – del rapporto fra le culture. Comunicare restando diversi, ascoltare l’altro senza rinunciare alla propria pronuncia, essere radicati in una tradizione senza fare di questo un elemento di separatezza o di esclusione o di sopraffazione: il rapporto fra le lingue – la compresenza attiva di moltissime lingue – dimostra che è possibile tendere alla comprensione salvando la differenza.

 

È triste registrare che nella nostra epoca, come muoiono specie animali e vegetali, così anche molte lingue si estinguono o sono condannate alla sparizione. Per ogni lingua che muore è una cultura, una memoria ad essere abolita. Un universo di suoni e di saperi si dilegua. Preservare allora le specie linguistiche – nonostante le migrazioni, le egemonie mercantili, le colonizzazioni mascherate – dovrebbe essere il primo compito dell’ecologia della cultura e del sapere. L’idea di una lingua unica perduta è solo un sogno: «un frivolo sogno», lo definiva già Leopardi nello Zibaldone. E anche l’idea che sia necessaria una lingua unica che permetta a tutti di intendersi immediatamente non riesce a nascondere il disegno egemonico: disegno che è in particolare di ordine mercantile. Sia l’imposizione di una lingua sulle altre, sia il malriuscito progetto di una lingua convenzionale e artificiale vorrebbero abolire la lontananza togliendo a essa la sua profondità. Vorrebbero togliere alla diversità la sua stessa radice e ridurre così la ricchezza del confronto e dello scambio. Le lingue imposte via via dai colonizzatori hanno sbaragliato e mortificato e distrutto le forme e l’energia inventiva delle lingue locali. Il controllo politico, le ragioni di mercato, i progetti di assimilazione hanno sacrificato tradizioni e culture, suoni e nomi, relazioni profonde tra il sentire e il dire. E tuttavia più volte è accaduto che quelle culture vinte abbiano attraversato le lingue egemoni irrorandole di nuova linfa creativa: è quel che è accaduto meravigliosamente nelle letterature ibero-americane, è quel che accade oggi nelle letterature africane di lingua portoghese, inglese e francese o nella letteratura nordamericana o in quella inglese. Inoltre le migrazioni hanno dappertutto esportato saperi, confrontato stili di vita e di pensiero, contaminato linguaggi e sogni e memorie. Molti poeti e scrittori del Novecento appartengono a una storia di migrazioni tra le lingue: da Canetti a Celan, da Nabokof a Brodskij, da Singer a Rushidie, da Gombrowitz a Naipaul. Tra le diverse forme di scrittura, la poesia – per via del suo rapporto intimo e assoluto con il linguaggio – vive l’intero ventaglio delle questioni qui accennate.  

 

8. Importanza della Lingua materna

 

a. Lingua della poesia. La prima lingua della poesia è la lingua materna, il dantesco «parlar materno». Lingua della poesia e della musica. Tanto che, storicamente, i confini fra poesia e musica e danza, sono sempre stati labili e sfumati a tal punto che gli antichi poeti –gli aedi greci per esempio– non scrivevano poesie ma le cantavano, accompagnandosi con la lira: non a caso nasce il termine “lirica” e “aoidòs” in greco significa “cantore”. Ma “cantano” anche Dante e Petrarca, Ariosto e Tasso e Leopardi. E i “cantadores” sardi, soprattutto gli improvvisatori.  Cantano con quella lingua materna che riassume la fisionomia, il timbro, l’energia inventiva, la cultura, la civiltà peculiare del nostro popolo. Una lingua – il Sardo – che è insieme memoria e universo di saperi e di suoni. Che sottende –talvolta in modo nascosto e subliminale– senso e insieme oltresenso, musica, ritmo e ballo. Segnatamente il ballo tondo: momento magico in cui l’intera comunità, tott’umpare, si pesat a ballare, si muove in cerchio. E con questo esprime una molteplicità di segni,significati, simboli e riti: l’armonia dell’universo, il movimento dell’acqua e del fuoco, il Nuraghe. E con esso tutta la civiltà e la cultura nuragica che evoca e richiama: la democrazia federalista e comunitaria, il rifiuto del capo, del gerarca, del sovrano – la Sardegna è sempre stata acefala- la difesa intransigente dell’autonomia e dell’indipendenza di ogni singola comunità, di ogni singolo villaggio. Una lingua abitata anzitutto dai silenzi che stanno all’ombra delle sillabe e nel cuore stesso delle vocali. Una lingua abitata da una voce: segreta tessitura che resisterà sotto ogni futura pronuncia del poeta, come risonanza di un timbro, di una presenza. Hölderlin, a proposito della formazione del, poeta ricordava questa muta pedagogia materna. La lingua materna è, per il bambino, per l’infante, soprattutto lingua di vocali: dunque aerea, leggera, impalpabile. E le vocali sono per il poeta l’anima della lingua. Sono il nesso tra lingua e il canto. Fra la poesia e i numeri della musica. Tra la poesia e il vento. L’elemento per il poeta è anche la terra. La terra considerata nel suo cerchio di necessità e bellezza: situarsi in questo cerchio, con lo sguardo e la passione di chi vuole conoscere e preservare e non offendere o distruggere, è sempre stato da sempre uno dei compiti della poesia. Nella lingua della poesia coesistono, dunque, la lingua materna – corporale, vocalica, leggera – e la lingua che il poeta ha scelto per la sua scrittura. Questa lingua scelta è sempre in un certo senso straniera, anche quando essa è la lingua del proprio paese: è straniera in quanto altra dalla lingua materna. Per alcuni poeti tuttavia, questa lingua è straniera in senso stretto: l’esilio, la migrazione, il dominio coloniale o mercantile o, qualche volta una scelta personale dislocano il poeta fuori dalla lingua della propria comunità di appartenenza. Ma tutti i lettori di poesia sanno che c’è qualcosa che trascorre sotto la lingua dei versi, al di là della sua pronuncia e delle sue parole linguisticamente definite. C’è qualcosa che trascorre sotto la molteplicità delle lingue. Ed è questa sostanza nascosta sotto la lingua – senso e insieme ultrasenso, musica e ritmo – che permette alla traduzione, quando riesca ad essere una buona traduzione, di sperimentare una sorprendente e miracolosa contraddizione: togliere al poeta quello che ha di più proprio, cioè la sua lingua, e tuttavia riuscire a preservare l’energia e il timbro e la singolarità della sua poesia. Quel che qui si dice della poesia, certo, è in gran parte estensibile ad altre forme del fare letterario come la narrazione o il teatro. Ma nella poesia questo movimento fra le lingue e questa sostanza che sottende ogni lingua appaiono in tutte le implicazioni – estetiche e antropologiche – e in modo trasparente.

 

b. Lingua della Identità. La Lingua rappresenta l’architrave, la più forte ed essenziale componente della Identità di un popolo. Per questo la Lingua sarda deve essere non solo recuperata e valorizzata e dunque studiata e conosciuta ma ufficializzata, vale a dire parificata all’Italiano, la lingua ufficiale dello Stato, e dunque utilizzata anche in tutte le occasioni ufficiali, insegnata nelle scuole di ogni ordine e grado e adoperata come lingua veicolare per trasmettere e comunicare qualunque contenuto e messaggio, ovvero l’intero universo culturale. Si può e si deve discutere sui tempi e sui modi, ma questo è l’obiettivo che occorre porsi se davvero vogliamo un bilinguismo che non sia zoppo o mutilato.  

 

9. Il Bilinguismo perfetto

 

Ci si obietterà che la realizzazione del bilinguismo perfetto, specie in ordine all’insegnamento delle scuole, sarà estremamente difficoltosa se non altro perché il Sardo è una lingua pluralizzata. Certo. Ma vi è una sola ragione plausibile – mi chiedo – che vieti che la lingua oggi pluralizzata assurga al piano e al ruolo pratico e giuridico, di lingua unificata? Come peraltro è successo a molte lingue europee negli ultimi 170 anni della nostra storia: per esempio al Rumeno, all’Ungherese e al Finlandese e, più recentemente, al Catalano e al Lituano? Iniziando a prendere come modello Sa Limba sarda comuna, proposta dagli studiosi nominati dalla Regione sarda?

 

Si obietterà ancora che la Lingua sarda ha «prodotto poco» e cultura bassa. Come ho già sostenuto prima – dato e non concesso che abbia prodotto poco (in realtà non è vero ha prodotto molto, ma non conosciamo la produzione in sardo, specie dei secoli passati): ci sarebbe da meravigliarsi che la Lingua sarda abbia prodotto poco? Forse le è stato permesso?

 

Non è forse stata la Lingua sarda un cavallo per troppo tempo tenuto a freno e impastoiato? Un volta libero di correre al galoppo, non potrà forse esprimere, abbondantemente, qualunque contenuto culturale? Per quanto attiene invece al problema della cultura ‘bassa’, occorrerebbe finalmente iniziare a liquidare certi equivoci gerarchici sulla cultura e sulle sue forme, per cui ci si attarda ancora a parlare di cultura «alta» e cultura «bassa», di cultura «materiale» (miniere, artigianato, agricoltura, pastorizia, turismo) inferiore e subordinata alla cultura «immateriale» (lingua, letteratura, arte, musica, diritto, ecc.), o di cultura orale inferiore alla cultura «scritta» e dunque meno degna di essere conosciuta e studiata. La cultura, senza gerarchie, deve essere intesa in senso antropologico, ovvero nei valori sottostanti alle scelte collettive e individuali e quindi agli ideali che orientano i comportamenti, con particolare riferimento a quelli sociali.

 

Si obietterà infine che comunque l’istruzione complessiva – specie quella universitaria – non potrà svolgersi attraverso la Lingua sarda come strumento veicolare. Ebbene, uno dei massimi studiosi del Bilinguismo a base etnica, J. A. Fishman, a tale obiezione  così risponde: «Ogni e qualsiasi lingua è pienamente adeguata a esprimere le attività e gli interessi che i suoi parlanti affrontano. Quando questi cambiano, cambia e cresce anche la lingua. In un periodo relativamente breve, qualsiasi lingua precedentemente usata solo a fini familiari, può essere fornita di ciò che le manca per l’uso nella tecnologia, nella Pubblica Amministrazione, nell’Istruzione».

 

Certo, occorre intelligenza ed equilibrio nell’utilizzo del Sardo come lingua veicolare: si può iniziare a parlare e trattare in Sardo i temi dell’ambiente, del gioco, del lavoro, delle feste, delle tradizioni popolari, delle vicende storiche. Anche perché – è il linguista Renzo Titone a sostenerlo – «l’insegnamento della lingua come materia a sé, non produce effetti significativi, se la lingua non è usata come strumento di insegnamento di altre materie e come mezzo per l’espletamento delle attività ordinarie, ossia come mezzo di comunicazione nelle situazioni di vita».

 

Di qui la necessità non solo che si insegni il Sardo e nel contempo che si insegni in Sardo ma che poi questa Lingua venga parlata e usata normalmente, tutti i giorni, in tutte le occasioni, a partire da quelle ufficiali: di qui insomma la necessità dell’uso sociale della Lingua sarda, altrimenti rischia di essere una lingua artificiosa e sostanzialmente morta. Ciò significa che il Sardo deve irrompere in modo organico, come lingua coufficiale nella stampa (giornali, libri, testi scolastici), nelle TV, in Internet: insomma in tutti i media. Deve essere normalmente e permanentemente utilizzata negli Enti locali come nelle Amministrazioni statali, nelle imprese e nelle società commerciali come in tutte le Associazioni, nella toponomastica (a questo proposito dobbiamo considerare ottima l’iniziativa dell’Assessorato regionale alla cultura sull’elaborazione di un Atlante toponomasticu sardu) come nelle insegne – ad iniziare da quelle stradali – e nella cartellonistica, nella pubblicità come negli avvisi.  

 

10. Alcuni motivi (didattici, culturali, civili) per introdurre il Sardo nelle scuole

 

Sono comunque plurime e di diversa natura le motivazioni – didattiche, culturali, educative, civili – che pongono con urgenza e senza ulteriori rinvii la necessità dell’introduzione del Bilinguismo nella scuola. Pedagogisti come linguisti e glottologi, psicologi come psicoanalisti e perfino psichiatri, ritengono infatti che la presenza della lingua materna e della cultura locale nel curriculum scolastico si configurino non come un fatto increscioso da correggere e controllare ma come elementi indispensabili di arricchimento, di addizione e non di sottrazione, che non ‘disturbano’ anzi favoriscono lo sviluppo comunicativo degli studenti perché agiscono positivamente nelle psicodinamiche dello sviluppo. In particolare la lingua materna (quella sarda per noi) serve:

-per allargare le loro competenze degli studenti, soprattutto comunicative, di riflessione e di confronto con altri sistemi;

 

vper accrescere il possesso di una strumentalità cognitiva che faciliti l’accesso ad altre lingue;

 

vper prendere coscienza della propria identità etno-linguistica ed etno–storica, come giovane e studente prima e come persona adulta e matura poi;

 

vper personalizzare l’esperienza scolastica, umana e civile, attraverso il recupero delle proprie radici;

 

vper combattere l’insicurezza ambientale, ancorando i giovani a un humus di valori alti della civiltà sarda: la solidarietà e il comunitarismo in primis;

 

vper migliorare e favorire, soprattutto a fronte del nuovo «analfabetismo di ritorno», vieppiù trionfante, soprattutto a livello comunicativo e lessicale, lo status linguistico. Che oggi risulta essere, in modo particolare nei giovani e negli stessi studenti, povero, banale, improprio, gergale

 

La lingua sarda è ancora libera, popolana, vera, indipendente, ricca di istinto e fantasia, passione e sentimento. A fronte delle lingue imperiali (l’inglese in primis, ma l’italiano), vieppiù fredde, commerciali e burocratiche, vieppiù liquide e gergali,invertebrate e povere, al limite dell’afasia: certo indossano cravatta e livrea ma rischiano di essere solo dei manichini.

 

Una lingua che –se insegnata con intelligenza nelle Scuole di ogni ordine e grado- potrebbe servire persino per migliorare e favorire, soprattutto a fronte del nuovo “analfabetismo di ritorno“, vieppiù trionfante, a livello comunicativo e lessicale, lo “status linguistico” . Che oggi risulta essere, in modo particolare nei giovani e negli stessi studenti, povero e banale. Tanto che qualche studioso sostiene la tesi dei giovani “semiparlanti”: che non conoscono più la lingua sarda  e parlano (e scrivono) un italiano frammentario, disorganizzato, improprio, gergale; la cui parola dice di sé solo le accezioni selezionate dal Piccolo Palazzi: senza metafore, senza natura,senza storia, senza vita.

 

Quella lingua che è soprattutto valore simbolico di autocoscienza storica e di forza unificante, il segno più evidente dell’appartenenza e delle radici che dominatori di ogni risma e zenia hanno cercato di recidere.

 

Inoltre – premesso che la sollecitazione delle capacità linguistiche deve partire dall’individuazione del retroterra linguistico, culturale, personale, familiare, ambientale dell’allievo e del giovane, non per fissarlo e inchiodarlo a questo retroterra ma, al contrario, per arricchire il suo patrimonio linguistico –, l’educazione bilingue svolge delle funzioni che vanno al di là e al di sopra dell’insegnamento della lingua: si pone infatti anche come strumento per iniziare a risolvere i problemi dello svantaggio culturale, dell’insuccesso scolastico e della stessa «dispersione» e mortalità come della precaria alfabetizzazione di gran parte della popolazione, evidente e diffusa a livello di scolarità di base ma anche superiore. Ma lo studio della lingua sarda, va al di là di questi pur importanti obiettivi.  

 

11. Studio della Lingua sarda e apprendimento delle altre lingue. Bilinguismo e Biculturalità

Lo studio e la conoscenza della lingua sarda può essere uno strumento formidabile per l’apprendimento e l’arricchimento della stessa lingua italiana e di altre lingue, lungi infatti dall’essere «un impaccio», «una sottrazione», sarà invece un elemento di «addizione», che favorisce e non disturba l’apprendimento dell’intero universo culturale e lo sviluppo intellettuale e umano complessivo. Ciò grazie anche alla fertilizzazione e contaminazione reciproca che deriva dal confronto sistemico fra codici comunicativi delle lingue e delle culture diverse, perché il vero bilinguismo è insieme biculturalità, e cioè immersione e partecipazione attiva ai contesti culturali di cui sono portatrici, le due lingue e culture di appartenenza, sarda e italiana per intanto, per poi allargarsi, sempre più inevitabilmente e necessariamente, in una società globalizzata come la nostra, ad altre lingue e culture, europee e mondiali. La Lingua sarda infatti in quanto concrezione storica complessa e autentica, è simbolo di una identità etno-antropologica e sociale, espressione diretta di una comunità e di un radicamento nella propria tradizione e nella propria cultura. Una lingua che non resta però immobile – come del resto l’identità di un popolo – come fosse un fossile o un bronzetto nuragico, ma si ‘costruisce’ dinamicamente nel tempo, si confronta e interagisce, entrando nel circuito della innovazione linguistica, stabilendo rapporti di interscambio con le altre lingue. Per questo concresce all’agglutinarsi della vita culturale e sociale. In tal modo la lingua, non è solo mezzo di comunicazione fra individui, ma è il modo di essere e di vivere di un popolo, il modo in cui tramanda la cultura, la storia, le tradizioni. 

2. Valore etico, etnico e antropologico della Lingua sarda

 

La Lingua sarda, infine, essendo la più forte ed essenziale componente del patrimonio ricchissimo di tradizioni e di memorie popolari, sta a fondamento – per usare l’espressione di Giovanni Lilliu – «dell’Identità della Sardegna e del diritto ad esistere dei Sardi, come nazionalità e come popolo, che affonda le sue radici nel senso profondo della sua storia, atipica e dissonante rispetto alla coeva storia e cultura mediterranea ed europea». Assume cioè un valore etico, etnico-nazionale e antropologico e, se si vuole, anche politico, nel senso di riscatto dell’Isola e del suo diritto-dovere all’Autodeterminazione. Il che non significa che la nostra Identità debba tradursi in forme di chiusura autocastrante o di separazione: essa deve invece essere accettata e riconosciuta come la condizione base del nostro modo di situarci nel mondo e di dialogare con gli orizzonti più diversi, «senza cedere alla tentazione – come osserva acutamente il filosofo sardo Placido Cherchi – di usare la nostra differenza come ideologia o di caricarla, a seconda delle fasi, ora di arroganze etnocentriche, ora di significati autodepressivi ». .

 

Quella lingua che è soprattutto espressione della nostra civiltà e della nostra storia dunque ma nel contempo, strumento per difendere e sviluppare la nostra identità e la nostra coscienza di popolo e di nazione, i cui lemmi che la compongono, infatti, prima di essere un suono sono stati oggetti, oggetti che hanno creato una civiltà, oggetti che hanno creato storia, lavoro, tradizioni, letteratura, cultura. E la cultura è data dal battesimo dell’oggetto.

 

Ma occorre leggere e interpretare l’Identità non con le lenti logore di un’ideologia passatista, ma con un restyling concettuale nuovo e complesso che rifiuta e oltrepassa una improbabile visione museale. Ovvero un’impostazione che riproponga un cliché che la riduce a semplice recupero acritico del passato e delle sue tradizioni o del suo folclore; o a un attributo eterno e immutabile. Provocatoriamente sosterrei anzi che la visione puramente etnografica dell’identità, certifica la morte dell’identità stessa.

 

L’attaccamento alla civiltà “primigenia”, in quanto realizza un continuum fra passato e presente, dà maggiore apertura al “mondo grande e terribile” (di cui parlava Gramsci) e sicurezza per il futuro. In questa continuità- simbiosi fra antico- moderno e post- industriale post- moderno, in cui la positività della Sardegna s’innesta nella positività mediterranea ed europea, consiste il significato profondo dell’Identità e dell’Etnia che da un lato ci libera dalle frustrazioni, dalla chiusura mentale e dal complesso dell’insularità; dall’altro ci salvaguarda dai processi imperialistici di acculturazione, distruttivi dell’autenticità delle minoranze e dal soffocamento operato dalla camicia di nesso degli interessi economico- finanziari.

 

Soprattutto i giovani devono sapere di appartenere a una peculiare storia e a una peculiare civiltà e di ereditare un patrimonio culturale, linguistico artistico e musicale, ricco di risorse da elaborare e confrontare con esperienze e proposte di un mondo più vasto e complesso. In cui, partendo da radici sicure e dotati di robuste ali, possano volare alti, i giovani e non solo.  

 

13. Cosa deve fare oggi la Regione sarda?

 

Per decenni abbiamo sentito pronunciare discorsi fumosi e generici sull’Autonomia della Sardegna e sulla necessità di adeguare il nostro sistema scolastico a quello europeo senza però che si siano operate scelte formative e iniziative politico-amministrative conseguenti dando spazio alla specificità etno-nazionale della Sardegna come valore e mettendo in campo una moderna politica educativa di collaborazione fra Scuola ed Enti Locali o iniziative legislative che fornissero strumenti per realizzare un sistema educativo integrato, per incoraggiare sperimentazioni, ricerche di gruppo e di singoli e per incrementare le potenzialità di intervento finalizzate all’istruzione.

La Regione Sarda deve intervenire per integrare i Programmi ministeriali, con scelte qualitativamente valide e adeguate rispetto ai bisogni degli studenti sardi, in specie per la salvaguardia e valorizzazione dei valori della società sarda e delle sue peculiarità etniche. A tal fine – lo ripeto – deve istituire le cattedre di Lingua, storia, letteratura e cultura sarda dedicando loro almeno il 15% dell’orario curriculare.

Inoltre:

 

vOccorre favorire la crescita dei giovani studenti stimolando il sistema scolastico  perché realizzi un reale processo di autonomia pedagogica e didattica che parta e muova dalla realtà sarda: un discorso pedagogico moderno e avveduto non può infatti prescindere dal pensare a una scuola radicata e ancorata alla tradizione, in grado di educare i giovani a conoscere prima e a padroneggiare poi la lingua e la cultura sarda: musica, arte, storia, teatro, letteratura, diritto, ecc. ecc.

 

vOccorre una scuola in cui la scoperta e la valorizzazione della tradizione negli aspetti più vivi e significativi, possa trovare l’humus per germogliare e per inserire il «locale» e il nostro specifico e peculiare nella cultura mediterranea, europea e mondiale, per continuare ad essere sardi e insieme vivere da cittadini mediterranei ed europei.

 

vOccorre cioè una scuola in cui i valori alti del passato, che reggono ai flutti di una modernità-modernizzazione effimera e fatua si coniughino dialetticamente con altre culture, con la scienza e la tecnologia, in una sorta di convivenza dei distinti, facendo cioè coesistere, conciliando dialetticamente gli elementi della «consuetudine autoctona» con quelli della modernità vera, mediando e facendo continuamente sintesi fra vecchio e nuovo, continuità e discontinuità, locale e globale. E dunque rifiutando da una parte l’etnocentrismo, dall’altra l’esterofilismo. Stando sempre attenti a che l’impatto della globalizzazione si risolva nella negazione, distruzione e/o devastazione delle culture (e delle economie) deboli, come è già avvenuto altrove – come dimostrano fra gli altri Claude Levi-Strauss in Il pensiero selvaggio e Joseph Rothscild in Etnopolitica – e come rischia di succedere anche in Sardegna.

 

Per questo

 

voccorre opporsi, a iniziare dunque dalla scuola, al fenomeno dello «sradicamento» dell’identità connaturato alla globalizzazione e al consumismo;

 

v–Occorre una scuola che ricordi – e insegni – ai giovani che senza legami con il passato, senza radici, non c’è presente né futuro, che se una comunità non dispone delle conoscenze fondamentali della sua storia (compresa quella dei singoli villaggi, che spesso consente di individuare il ceto sociale originario e il conseguente tipo di formazione storico urbanistico,

 

vedi Il giorno del giudizio di Salvatore Satta) non può maturare né il sentimento di appartenenza né la consapevolezza dell’importanza del nesso tra locale e globale che è in buona sostanza coscienza comunitaria, ossia accettazione dell’ideale della collaborazione tra popoli diversi.

 

Alla scuola spetta in definitiva il compito primario, sia di fornire gli elementi utili per la formazione moderna legata alla realtà e ai bisogni giovanili, sia gli strumenti metodologici per comprendere il nesso inscindibile, pur nella diversità, tra la storia millenaria dell’Isola e la condizione presente per permettere al giovane sardo di innestare – senza prevaricarla – la tradizione nel processo di sviluppo della società complessa; per evitare forme campanilistiche o esaltazione della minutaglia folclorica e insieme per rifiutare la mentalità caudataria tipo «pinta la legna e portala in Sardegna» che induce solo ad atteggiamenti esterofili e a complessi di inferiorità.

 

L’uomo contemporaneo, soprattutto nell’epoca della globalizzazione economica, della comunicazione planetaria in tempo reale e di Internet, non può vivere senza una sua dimensione specifica, senza radici, sia per ragioni psico-pedagogiche (un punto di riferimento certo dà sicurezza, consapevolezza di sé e fiducia nel proprio futuro), sia per motivi di ordine culturale. La comprensione del nuovo è sempre legata alla conoscenza critica della storia della società in cui si vive, alle tecniche di produzione, al senso comune, alle tradizioni. È questo l’antidoto più efficace contro la sub-cultura televisiva e à la page, circuitata ad arte da certa comunicazione mass-mediale che riduce la tradizione a folclore e spettacolo ad uso e consumo dei turisti. Altrimenti prevalgono solo processi di acculturazione imposti dal «centro», dalle grandi metropoli, dai poteri forti, arroganti ed egemonici che riducono le peculiarità etniche a espressione retorica, pura mastrucca, flatus vocis.

 

Occorre però concepire e tutelare lo «specifico individuale e collettivo», non come dicotomia ma in connessione con il generale, vivendo l’identità sarda con dignità e orgoglio ma senza attribuirgli un significato ideologico o di mito; identità non come dato statico e definitivo ma relativo, fluido e dinamico, da conquistare-riconquistare, costruire- ricostruire dialetticamente e autonomamente, adattandolo e sviluppandolo, quasi giorno per giorno. L’attaccamento alla civiltà primigenia, in quanto realizza un continuum fra passato e presente, dà maggiore apertura al gramsciano «mondo grande e terribile» e sicurezza per il futuro. In questa continuità-simbiosi fra antico/moderno e post-industriale/post-moderno, in cui la positività della Sardegna s’innesta nella positività europea, consiste il significato profondo dell’Identità e dell’Etnia che da un lato ci libera dalle frustrazioni, dalla chiusura mentale e dal complesso dell’insularità; dall’altro ci salvaguarda dai processi imperialistici di acculturazione, distruttivi dell’autenticità delle minoranze e dal soffocamento operato dalla  camicia di nesso degli interessi economico-finanziari. 

 

Pro cuncruire

La conoscenza e l’uso della Lingua sarda e dunque il ritrovamento e la valorizzazione della nostra Identità etno-nazionale deve servirci soprattutto: per superare il complesso del nanismo di cui parla in un bel romanzo lo scrittore Marcello Fois: «Da nani ci hanno trattato sempre. E noi da nani ci siamo lasciati trattare… a elemosinare contributi… con l’orgoglio attaccato a sputo e l’invidia per chi nano non è. Nani con lo sguardo nano. Uno sguardo che non oltrepassa il cortile di casa. Questo è il morbo: vederci nani anche quando siamo giganti. Si deve prendere la vita nelle proprie mani, rifiutando di continuare a delegarla a politici nani… abbiamo una storia talmente sussurrata che bisogna tacere per sentirla. Una storia di nani che aspettano giganti che li portino sulle spalle, oltremare, altrove, nel mondo». Dobbiamo liquidare insomma il complesso di nanismo che atavicamente ci portiamo nella nostra storia, smettendola di aspettare i giganti che ci salvino: i giganti non esistono e comunque non arriveranno mai per salvarci; possiamo salvarci solo con le nostre forze.

 

 

 

 

 

Cagliari 11-11-2013: Francesco Casula presenta SCURIGAT silloge poetica di Rosanna Podda.

Scurigat, la silloge di Rosanna Podda  raccoglie un corpus poetico di 73 liriche in lingua sarda-campidanese con traduzione in italiano a fronte. Scritte fra il 2004 e il 2012, pur con notevoli fili rossi che tengono insieme in un continuum tutta la raccolta e dove tutto è armoniosamente compaginato, credo di poter individuare dei percorsi tematici differenti, anche se preponderanti risultano quelli più intensamente lirici: l’amore: il terriccio nel quale germoglia la vita; l’intricata trama degli affetti che ci avvolge e che plasma la nostra identità; i sogni reiterati; la magia del paesaggio sardo, la dimensione della memoria e del ricordo, la musica della vita (su sonu de sa vida).

Così vi sono le poesie di forte impegno sociale, di intensa passione etica-politica, con un messaggio però mai insistito né predicatorio. In esse l’anima della poetessa vibra e si innalza, cantando valori alti come la libertà, la fratellanza, la pace, la giustizia, la solidarietà. Per intraprendere rotte nei mari diversi/e difficili…/dell’uguaglianza[me in maris diversus/e traballosus…/de s’uguagliantzia].

 

Penso in modo particolare a Pratza de Maju, con il ricordo delle madri dei desaparecidos che “cercano ancora i figli/mostrando ritratti/di giovani né morti né vivi/”desaparecidos”/da troppo tempo/mamme che insieme condividono/il dolore e la speranza/di poter ridar voce e memoria/o in estremo che abbiano/una tomba dove mettere un fiore/dove piangere i figli perduti/che hanno lasciato un lutto/senza fine; [circant ancora is fillus/amostendi ritratus/de giovunus ni mortus ni bìus/sparèssius de tropu tempus,/mamas ch’impari prètzint/unu disprexeri e una spera/de podi torrai boxi e memoria/i-a magadeba chi tengant/una losa anca ponni unu frori/anca prangi is fillus stramancaus/chi anti lassau unu lutu/chen’e acabu… ]  

Penso a Scideus is bisus (Svegliamo i sogni) in cui Rosanna Podda, in modo accorato invoca, per sé, “Non legate la libertà/delle mie mani/con falsi lacci di seta/che imbavagliano/la verità del cuore ; [Non m’accappieis/sa libertadi de is manus/cun falsu allongius de seda/chi ammutint sa veridade de su coru] .

E per il mondo intero: Non leghiamo noi, il mondo/con corde insanguinate di guerra/e catene roventi di ingiustizia./Salpiamo onde di pace/stendendo vele di distensione; [Non accappiaus su mundu/cun funis insanguentadas/de gherra e cadenas/abbrigadas de ingiustitzia/Pigheus su mari/asub’ ‘e undas de cuncordia/spraxendi velas de apaxiu].

O penso a In custu tempus (In questo tempo), dolente ma deciso e sdegnato canto contro la discriminazione, l’emarginazione e  l’intolleranza nei confronti dei “dannati della terra”, degli “ultimi”, dei più poveri, degli infelici, in qualsiasi modo… [ de is prus poburus/de is desdiciaus/a calisisiat manera…].L’Autrice si pone un interrogativo inquietante e drammatico: chi sono quelli/che durante la notte/hanno di benzina intriso/e dato fuoco a un Cristo/mentre dormiva/coperto di cartoni?[Chini funt cussus/chi, aintr’ ‘e noti/ant de benzina abangiau/e postu fogu a unu Cristu/in s’interis chi dromiat/imbussau de cartocius? ]

Mentre in un’altra poesia S’arrisu intzetau  (Il sorriso intuito) celebra, con tono commosso, la solidarietà, con la volontaria che cura un lebbroso e gli restituisce il sorriso e la vista.

O penso ancora a S’umbra de Cainu (L’ombra di Caino) con la denuncia e la condanna netta e inappellabile della pena di morte (e della guerra) da parte dello Stato, come fatto di civiltà e di alto umanesimo, “de umanidade noa”: che nessuno tocchi Caino [Chi nemus/tocchit a Cainu], esordisce. E continua lo stato…padrone/che a morte/può condannare/anche lui/torna in un giro/senza fine; [Su stadu…meri/chi a morti//podit cundennai/issu e totu torrat/in d’unu giru…/chen’ e acabu]

 

Ma, dicevo, i territori più amati dalla poetessa, senza però alcuna concessione all’autocommiserazione lamentosa e al sentimentalismo languido e svenevole, sono i lidi dolceamari dei sogni e dei tremori, dei turbamenti, dei palpiti (tocus) e degli smarrimenti esistenziali, della rassegnazione (s’acunnotu) e della malinconia, del rimpianto (surrungiu) e della nostalgia, particolarmente intensa in Si fessit ariseru, in cui ricorda, in modo tenero e smagato, la sua fanciullezza con i giochi e i racconti confusi al fuoco del cammino [cun is giogus e is contus cunfundius in su fogu de sa ziminera].

O in Torrant, dedicata al suo paese natale, Serramanna,: Tornano a galla/dal profondo, d’un tratto, qui/afferrate al cuore…oggi,/rimasuglie di pensieri,,,/col via vai dei carri/a trasportare grano e cereali/e tini odorosi di vendemmia [Torrant a pillu di a fundu/de pinnicas di amentus/de suncunas innoi/afracadas a coru…oi/rimasullas de pensus…/cun su manici de is carrus/a tragai trigu i atrus loris/e cubidinas fragosas/de binnenna]

 O quelli più angoscianti e dolenti, dell’affanno e della sofferenza, della tristezza, del vuoto vivere (su bivi buidu), che spesso si accompagnano soprattutto alla solitudine, causata dalla condizione di mortale fragilità.

Scrive in Ita at a essi: Cosa sarà…/adesso, questo pianto/di solitudine…/questo stupore che scuote/e riempie di tristezza/cuore e sentimento./Cosa sarà…/questo vivere vuoto/da sola…/di amarezza e rimpianto/per un delirio sconosciuto/e perso per via[Ita at a essi’…/immoi custu prantu/de soledadi …/custu prantu chi scutullat/e prenit de tristura/coru e sentidu/Ita at a essi?/custu bivi buidu/a sa sola…/de amargura e surrungiu/po unu schissiu inconnotu/e perdiu pe-i bia]

Il sogno è uno dei protagonisti assoluti nella poesia di Rosanna Podda: come nella lirica Bisu (Sogno):Sogno di boschi/oscuri, fogliosi/alla riva di sabbie/a confini orlati/di azzurri lucenti/sotto l’ultimo tramonto[Bisu…de padentis/oscurus follosus/a s’oru de arenas brundas/a lacanas bordadas/di axulus lucenti/asuta ‘e s’urtima/calada de soli]

E con il sogno la dimensione della memoria di giorni perduti/e di notti…/che giocano incerte/trafitte da un domani/che audace si affaccia/sapido di stupori nuovi,[de diis perdias/e de notis…/chi giogant intzertas/infrissias de unu cras/chi atrivìu s’incarat/ sabìdu de spantus nous]

Memoria che è ripercorsa dall’autrice non soltanto con disposizione elegiaca e d’incanto, … ed è volato il tempo…che oggi torna…e ieri m’incantava [e s’est bolau su tempus/chi oi torrat…i ariseru/m’amajàda],ma con sottile consapevolezza culturale, sì che la vicenda narrativa ci si offre insieme nel suo ritmarsi lirico e in un delicato controcanto più che critico coscienziale, che la storicizza nell’istante stesso in cui le si abbandona.

E con la memoria i ricordi (is arremonius) con il ritorno geloso alle immagini di emozioni d’amore (ecisaus de amoris) e di affetti amicali, entro il quale il sentimento si colma e si consuma all’infinito tra sempre nuove nostalgie e sempre nuove rivelazioni e aspettative, come in Neas de abisai (Albe da inventare).

Una poesia, quella di Podda che  oscilla continuamente tra la solitudine infinita e muta (sa soledadi estremada e muda), le ansie (apretus), il dolore e lo sconforto (su dolu e su disisperu), i tormenti (is turmentus), il patire antico (su patiri antigu), il singhiozzo muto ((su sungutu mudu), lo stordimento (su scimingiu), la tristezza (sa tristura), il pianto dolce e lento (su prantu lentu e druci), lo straniamento e il buio denso (su scuriu callau), l’amarezza e il rimpianto (s’amargura e su surrungiu), la paura e il buio (sa timoria e su scuriu), da una parte. Dall’altra una luce che sa di tenerezza e di vita, acchetata in cerca di lidi più tranquilli (calas de riposu) e meno tempestosi, di porti protetti (portus riparaus) dove le stelle in cielo brillano preziose ((is stellus in celu luxint pretziosus). In cerca di un sollievo lento (unu discantzu sullenu) e di serenità (asseliu), verso la porta del sole (conca a s’enna ‘e su soli), in giardini di gioie (in giardinus de gosus), in piena luce (in luxi prena),) per poter gridare: “ci vedo, ci vedo!” (nci biu, nci biu)!

Perché è vero che il buio tarda a dileguarsi (su scuriu trigat a svanessi) ma prima o poi il ritmo seducente e magico del suono e del rumore dolce della vita ritorna (sa cadentza amajadora e fadada de su sonu e de s’arremoriu druci de sa vida torrat…) con attimi di sorrisi (greis de arrisus) e segni e luci (sinnius e luxis) che ci indicano l’aria di rosa che albeggia a nuovo giorno (s’airi…di arrosa/chi obrescit a dì noa) e dunque sentieri d’amore e infinità di cielo (moris di amori e téntas de xelu). E distese azzurre senza confini (tentas de asulu chen’ ‘e lacanas). Per giungere salvo in porto col cuore più leggero (po  giungi salvu in portu, a coru discantzau). Per andare verso il sole (po movi’ faci a soli…)

Per tessere giorno per giorno/ con filo d’oro lucente/trama a trama…/la tela preziosa della vita (po tessi’ dì po dì, a fil’e oru luxenti /trama a trama…/sa tela pretziosa de sa vida). perché rifioriscano nel mondo,  sogni e primavere nuove… (po chi torrint a frorì ’n su mundu/bisus e beranus nous…). Quando ritornerà, dolce e carezzevole, l’alito amato (druci e carinniosu, su sùlidu amau).

   Non si addice infatti il pianto dirotto e tanto meno la disperazione a chi comunque crede nei valori della vita e non dimette la speranza di un diverso avvenire quando troveremo cale tranquille/inventando porti protetti,/dove gente saggia/in tempi avari di pace/possa alleggerire…/ali di speranza[Eus agatai calas de reposu/abbisendi portus iparaus/anca genti assentada,/in tempus asurius de paxi,/potzat alliggerai…/alas de sperantzia].

L’antinomia però non è superata, il conflitto non è risolto e il mistero non è disvelato, almeno totalmente: nelle liriche della poetessa infatti non vi è alcuna risposta totale alla drammatica condizione di inettitudine, di limitazione, di anomia, di inidentità della condizione umana, che continua a pascersi di ricordi illusioni e sogni, di brividi antichi (strioris antigas), di silenzi attese e speranze di sollievo (abetus e speras de discantzu). Per aspettare che la notte, nel silenzio nascosto, confonda la notte  che brama l’oblio [po abetai chi sa noti/in su mudori cuadinu/mi scimingit su sentidu/chi bramat di olvidai]

Ma tutto rimane senza un perché definitivo e definitorio. Non credo comunque che ciò sia un limite: il poeta scrive anche se nulla è certo. Il grande poeta italiano Franco Fortini ha persino scritto che la poesia non cambia nulla.

 

Ma è proprio così? Io credo di no. Io credo che la poesia – come la letteratura in genere segnatamente quella in cui è forte e intensa la dimensione etico-sociale, dell’engagement, – direbbe il filosofo francese, Emmanuel Mounier, teorico del personalismo cristiano –, sia una  una difesa contro le offese della vita (Cesare Pavese); faccia  l’uomo libero (Ludwig Andreas Feuerbach) ma soprattutto miri a vendicare i vinti (Shakespeare), ma non convinti aggiungerebbe il nostro più grande poeta etnico, Cicitu Masala, vinti che sono i simboli dell’umana liberazione ha scritto Elio Vittorini. E comunque rappresenti una catarsi e una liberazione: soprattutto per chi la scrive, ma anche per chi la legge e ne fruisce.

 

A questo punto il lettore potrebbe chiedersi: si tratta di poesie autobiografiche? Puntare semplicemente sulla biografia e sul  vissuto storico del poeta significa, a mio parere, ignorare la fictio presente in ogni discorso letterario: ciò non significa non tenerli in debito conto.

Ma la poesia di Rosanna Podda, pur non staccata dall’attrito della storia e pur nutrendosi di dati personali, pur intridendosi delle sue esperienze di vita, anzi, di attimi…roventi di vita (de greis …abrigaus de vida), pur esprimendo la storia dell’anima (s’istoria de s’anima) non si limita però a rappresentarle e per così dire a filmarle, le esperienze:  ma le vela e le fascia. Travestendole allegoricamente e assegnando loro i segni di una condizione umana più universale, trasformando sentimenti ed emozioni in una occasione di epifania rispetto alla pura realtà, scarnificando e ottundendo la condizione storica precisa ed evaporando la dimensione temporale e spaziale.

Così gli stessi paesaggi e la stessa natura, indubitabilmente sarda, con i graniti roventi (is granidus arridaus): con i castagni e le antiche quercie, (is castangius e ilixis antigus);  con boschi oscuri e fogliosi (is padentis oscurus e follosus): con cale erose, bianche/lambite da preziose/acque di cristallo (cun  calas smenguadas/biancas,sciustas/de acuas cristallinas/pretziosas ); vengono sfumati. E comunque la poetessa non slitta nel compiacimento idillico fine a se stesso, di una troppo realistica felicità di “quadretti alla fiamminga”.

 

E l’Isola … odorosa/di mirto ginepro e cisto/gialla di fiori d’oro e di ginestre (s’Isula…fragosa de murta/tzinnibiri e murdegu/groga ‘e oru de tiria e caragànzu/arrubia ‘e bababois de seda); l’Isola, questa terra circondata di mare/fasciata e domata dai venti/che scuotono foglie e sentimenti (custa terra ingiriada de mari/fascada i amasedada de bentus/chi scutullant follas e sentidus); come i cangianti nitori atmosferici, con gli arcobaleni (circhiollas in colori) o con il vento che accarezza a spire leggere e dolci (su bentu chi caritziat a speras ligeras e druci ); o ancora con il sole/ che incrina e screpola/con raggi di fuoco/l’anima…inaridendo/ogni dolcezza (su soli/chi scannit e tzacat/cun rajus de fogu/s’anima…arridendi/donnia druciori…), sono momenti di un paesaggio e di una geografia, nel loro valore simbolico universale e intensamente allusivo.

 

Tutte le poesie di questa silloge, sono state ultra premiate in numerosissimi Concorsi letterari: una, Scurigat, proprio recentemente, il 29 settembre scorso, ha ottenuto il premio speciale “Tonino Ledda” nel più prestigioso Premio di Letteratura sarda, quello di Ozieri. A dimostrazione che ci troviamo di fronte a una poetessa di gran vaglia. Di fronte a delle liriche di qualità; frutto certo di personale valentia poetica ma anche di un lungo tirocinio tecnico- stilistico e di esercitazione scrittoria in cui ha sottoposto la sua poesia a un processo di affinamento e di alleggerimento, per così dire a un duro sforzo ascensionale.

 

A dominare, nella poesia di Rosanna Podda è la parola, cui dedica persino due singole liriche: Is fueddus e Paraulas. E non a caso. Mentre infatti nella prosa devi possedere bene ciò di cui vuoi parlare e poi troverai le parole adatte: rem tene verba sequentur; per la poesia accade tutto l’opposto, prima t’innamori delle parole, e il resto verrà da sé: verba tene res sequentur: due apoftegmi che ben esprimono l’antica saggezza dei latini..

 

Ma ogni parola, ogni vocabolo contiene un deposito di storie. Non si tratta infatti di flatus vocis, di pura forma, ridotta a orpello o decorazione, a musica o immagine ridondante, semplice prodotto estetico o luccicore sontuoso. E’ invece lingua e forma come strumento alto per cantare – spesso in modo dolente – la storia, propria e degli altri.

Le parole sono infatti conchiglie: che sembrano vuote ma dentro ci puoi sentire il mare. E con le parole fanno ressa nel circuito compositivo, silenzi e pause, cromatismi, ossimori e sinestesie, contrazioni sintattiche, brachilogie e metafore: queste ultime, abbondantissime. Ma soprattutto a dominare è la musicalità: con l’uso sorvegliato dei suoni e dei ritmi, delle onomatopee e delle assonanze. Con una naturale attitudine al verso, che sembra carezzare e coccolare e che nelle liriche più belle, l’Autrice tesse abilmente, tanto che la sua scrittura si risolve spesso nel terso nitore della parola, nel giro musicale della frase, nella misura metrica di ritmi sapientemente scanditi e guidati da un attento orecchio musicale. Che riesce a ordire, con acuta selezione di lessemi, aggettivi e fonemi, fini ricami di immagini potenti e di metafore ardite. Eccone alcune, proprio nella lirica Is Fueddus (le parole): sono da tener d’occhio/le parole…/a laccio corto/senza spreco/per non fare danni…/e a fune lunga/per confortare/e carezzare cuori/trovando sentieri…/mettendo toppe/e rammendi…dolci/a sentimenti bucati [Funti ‘e tenni di ogu/is fueddus…trobius/a corrìa crutza/chen’ ‘e sperditziu/po no fai arroris…/i-a funi longa/po cunfortai/e caritziai corus/agatendu moris…/ponendo tzàpulus/i aconcius…drucis/a sentidus trapaus].

 

Le poesie sono scritte in lingua sarda (con le traduzioni in italiano a fronte, alcune veramente eccellenti): la nostra lingua materna o ancestrale ((nel senso internazionale della parola: langues des ancêtres). Il dantesco “parlar materno”. Quella lingua che è soprattutto senso, suoni, musica. Lingua di vocali. Dunque corporale e fisica e insieme aerea, leggera e impalpabile. E le vocali sono per il poeta l’anima della lingua, sono il nesso fra la lingua e il canto; fra la poesia, i numeri della musica, il ritmo e il ballo.

Tanto che, storicamente, i confini fra poesia e musica e danza, sono sempre stati labili e sfumati a tal punto che gli antichi poeti – gli aedi greci per esempio – non scrivevano poesie ma le cantavano, accompagnandosi con la lira: non a caso nasce il termine “lirica” e aoidòs in greco significa “cantore”.

Ma “cantano” anche Dante e Petrarca, Ariosto e Tasso e Leopardi. E i “cantadores” sardi, soprattutto gli improvvisatori.  

Essi – come Rossana Podda – cantano con quella lingua materna che nel contempo con la sua magia evoca e penetra, il mistero dell’anima e riassume la fisionomia, il timbro, l’energia inventiva, la cultura, la civiltà peculiare del nostro popolo. Una lingua – il Sardo – che è insieme memoria e universo di saperi e di suoni. Che sottende – talvolta in modo nascosto e subliminale – senso e insieme oltresenso, musica, ritmo e ballo. Segnatamente il ballo tondo: momento magico in cui l’intera comunità, tot’umpare, si pesat a ballare, si muove in cerchio. E con questo esprime una molteplicità di segni, significati, simboli e riti.

 

Quella lingua che è soprattutto espressione della nostra civiltà e della nostra storia dunque ma nel contempo, strumento per difendere e sviluppare la nostra identità e la nostra coscienza di popolo e di nazione. Una lingua, i cui lemmi che la compongono, infatti, prima di essere un suono sono stati oggetti, oggetti che hanno creato una civiltà, oggetti che hanno creato storia, lavoro, tradizioni, letteratura, cultura. E la cultura è data dal battesimo dell’oggetto.

Quella lingua che è ancora libera, vera, indipendente, ricca: istinto e fantasia, passione e sentimento. A fronte delle lingue imperiali, vieppiù fredde, commerciali e burocratiche, vieppiù liquide e gergali,invertebrate e povere, al limite dell’afasia: certo indossano cravatta e livrea ma rischiano di essere solo dei manichini.

Quella lingua che è soprattutto valore simbolico di autocoscienza storica e di forza unificante, il segno più evidente dell’appartenenza e delle radici che dominatori di ogni risma e zenia hanno cercato di recidere.

Ma nessun ripiegamento nostalgico o risentito verso il passato: ma il passato sepolto, nascosto, rimosso, censurato e falsificato, si tratta prima di tutto di ricostruirlo, di dissotterrarlo, di conoscerlo e in qualche modo, anche di inverarlo, perché diventi fatto nuovo che interroga l’esperienza del tempo attuale, per affrontare il presente nella sua drammatica attualità, per definire un orizzonte di senso, per situarci e per abitare, aperti al suo respiro, il mondo, lottando contro il tempo della dimenticanza e della smemoratezza.

 

L’uomo contemporaneo, soprattutto nell’epoca della globalizzazione economica, della comunicazione planetaria in tempo reale e di Internet non può vivere senza una sua dimensione specifica, senza “radici”, sia per ragioni psico-pedagogiche (un punto di riferimento certo dà sicurezza, consapevolezza di sé e fiducia nel proprio futuro) sia per motivi di ordine culturale. La comprensione del nuovo è sempre legata alla conoscenza critica della storia della società in cui si vive, alle tecniche di produzione, al senso comune, alle tradizioni, alla propria lingua.

E’ questo l’antidoto più efficace contro la sub-cultura televisiva e à la page, circuitata ad arte da certa comunicazione mass-mediale, che riduce la tradizione a folclore e spettacolo, a merce, ad uso e consumo dei turisti. Altrimenti prevalgono solo processi di acculturazione imposti dal “centro”, dalle grandi metropoli, dai poteri forti, arroganti ed egemonici che riducono le peculiarità etniche e linguistiche a espressione retorica, pura mastrucca, flatus vocis. Occorre però concepire e tutelare lo “specifico individuale e collettivo” non come dicotomia ma in connessione con il generale, vivendo l’identità sarda con dignità e orgoglio ma senza attribuirgli un significato ideologico o di mito; identità non come dato statico e definitivo ma relativo, fluido e dinamico, da conquistare-riconquistare, costruire-ricostruire, dialetticamente, adattandolo e  

sviluppandolo, quasi giorno per giorno.

Occorre infatti leggere e interpretare l’Identità non con le lenti logore di un’ideologia passatista, ma con un restyling concettuale nuovo e complesso che rifiuta e oltrepassa una improbabile visione museale. Ovvero un’impostazione che riproponga un cliché che la riduce a semplice recupero acritico del passato e delle sue tradizioni o del suo folclore; o a un attributo eterno e immutabile. Provocatoriamente sosterrei anzi che la visione puramente etnografica dell’identità, certifica la morte dell’identità stessa.

L’attaccamento alla civiltà “primigenia”, in quanto realizza un continuum fra passato e presente, dà maggiore apertura al mondo grande e terribile (di cui parlava Gramsci) e sicurezza per il futuro. In questa continuità- simbiosi fra antico- moderno e post- industriale post- moderno, in cui la positività della Sardegna s’innesta nella positività mediterranea ed europea, consiste il significato profondo dell’Identità e dell’Etnia che da un lato ci libera dalle frustrazioni, dalla chiusura mentale e dal complesso dell’insularità; dall’altro ci salvaguarda dai processi imperialistici di acculturazione, distruttivi dell’autenticità delle minoranze e dal soffocamento operato dalla camicia di nesso degli interessi economico- finanziari.

Soprattutto i giovani devono sapere di appartenere a una peculiare storia e a una peculiare civiltà e di ereditare un patrimonio culturale, linguistico artistico e musicale, ricco di risorse da elaborare e confrontare con esperienze e proposte di un mondo più vasto e complesso. In cui, partendo da radici sicure e dotati di robuste ali, possano volare alti, i giovani e non solo.

 

 

Conclusione

La poesia di Rosanna Podda è introspezione psicologica, respiro e voce dell’anima, che amalgama parole piene di sentimento (boxi de s’anima,chi cumpossat fueddus, prenos de sentudu)). E’ fatta di momenti sofferti e altri goduti (momentus sunfrius i atrus gosaus), con cui punta dritto al cuore delle cose, delle passioni umane e dei drammi coscienziali e planetari. E’ esperienza segreta e segregata, spesso difficile da leggere e da capire, che esige uno scuotimento di tutto il proprio sapere, un farsi esile e inerme, un ridursi alla nervatura della foglia. Per questo è sempre da leggere e rileggere. Soffermandosi. Non si tratta di “aguzzare la vista”, ma di lasciarla vivere, la sua poesia intendo, nel proprio sguardo. D’altronde la poesia è uno specchio ustorio e, prima di fissarla negli occhi, bisogna pensarci due volte. Bisogna fermarsi su ogni singola parola, immagine, metafora. Frequentarla a lungo, farsela amica, riempirla di domande, attenderla con trepidazione. Abitarla. Vivere emozioni. Per poterla godere. Oltre che capirla.

Francesco Casula

 

Intelligente, avveduta e opportuna risposta della giornalista Daniela Pinna (Unione Sarda) a un lettore che aveva criticato un articolo dell’amico Tore Cubeddu perché scritto in Lingua sarda e non corredato della traduzione in italiano.

 

L’ARTICOLO DI TORE CUBEDDU (Unione Sarda 5 novembre 2013)

 

La terra dei luoghi senza nome

Onni borta chi atòbiu a unu pitzinneddu chi non cumprendet su sardu, o unu babbu o una mamma chi mi narant ca diat a èssere prus profetosu a istudiare bene s’inglesu, mi pranghet su coro, non pro ite non pentzo chi s’inglesu siet importante, ma ca creo chi de motivos pro imparare su sardu a fìgios nostros nde diamus a tènnere medas.

Intendo babbos e mammas imparende a sos fìgios Maldiventre intames de Maluentu (vento cattivo), Isola dei cavoli invetzes de Ìsula de is càvurus (dei granchi), Golfo aranci e non Gulfu di li ranci (dei granchi), Margine rosso invetzes chi Margiane arrùbiu (volpe rossa). Bio biddas renuntziende a sos nòmenes insoro, timende chi non ddas agatent prus sos italianos o sos americanos in Google maps. Timent de abarrare sena coordinadas, ispèrdidos. Immàgino a sos pitzinneddos sardos andende a mare, a Mare Pintau, a Putzu Idu, a Sa Mesa Longa, a Sas Linnas Sicas, a S’Architu, sena de ischire ite cherent nàrrere custos nòmenes. O a su sartu, a Molineddu, a Genna Ponte, a su Cungiau de sa figu bianca, comente chi èsserent logos israighinados dae terra.

Che a istràngios ant a èssere, figlios nostros, sena de «ischire prus mancu sa terra chi ddos apoderat». E issaras non nos depimus ispantare si perdent s’istima pro sa terra insoro, pro sas domos insoro, si ddis benit prus fàtzile a si nche andare. Sa curpa at a èssere sa nostra.

 

LA CRITICA DEL LETTORE La critica del lettore  Giovanni U. Floris

Perché si scrive in sardo e senza traduzione

Sono in Sardegna dal 1960 e da allora compro L’Unione Sarda che, alle volte, riporta più notizie o spiega meglio i fatti di giornali più blasonati. Perciò mi sento autorizzato a criticare l’articolo di Tore Cubeddu (“La terra dei luoghi senza nome”) sulla Prima pagina di ieri. Criticare non tanto per l’articolo in quanto tale, probabilmente suggestivo, non tanto perché è scritto in sardo, lingua da non tutti comprensibile, quanto perché non c’è la traduzione in italiano. L’Unione vuole essere un giornale qualificato come gli altri, non un giornale locale che possa essere letto solo da chi capisce la lingua sarda, che poi non è neppure unica, su come deve essere scritta ci sono opinioni diverse. Ringrazio e continuerò a comprare il giornale. Ma un’altra volta traducete. E questa richiesta resterebbe valida anche se l’articolo fosse stato scritto interamente in qualsiasi lingua che non fosse l’italiano.

 

 

LA RISPOSTA DI DANIELA PINNA

 

È proprio sicuro, gentile lettore, che servisse una traduzione per capire la breve provocazione di Tore Cubeddu? Credo di no. Parola di lingua-mozza, che il sardo neppure lo balbetta. Capire però è un altra cosa. L’unico requisito è la voglia di ascoltare. O di leggere, in questo caso. Perché anche chi non parla il sardo (che è una lingua sola, con le sue varianti, come tutte le lingue) in qualche modo se lo porta dentro. L’ha sentito dai nonni, per strada, nelle canzoni, nei nomi dei fiumi e delle spiagge; ne porta impressa la sintassi, che riaffiora nell’italiano. Quindi può capire, può ri-scoprire. Cubeddu ci ha invitati a ricollegarci con la terra che ci sostiene e nutre, con i suoi nomi antichi, la sua lingua. Con noi stessi. Perciò non aveva senso tradurre in italiano. Riprovi a leggere, si stupirà.