Presentazione “Letteratura e Civiltà della Sardegna” di Francesco Casula

 

  

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Il volume dedica più del 50% delle pagine a Autori che scrivono in Lingua sarda e ai corrispettivi testi :dai primi documenti in volgare sardo ai  Condaghes, dalla Carta De Logu di Eleonora d’Arboreaa Antonio Cano, da Gerolamo Araollae Antonio Maria da Esterzili a Matteo Garipa, da Sa scomunica de Predi Antioguarrettori de Masuddas a Efisio Pintor Sirigu, da Francesco Ignazio Mannu a Diego Mele e Peppino Mereu ( cui sono state dedicate molte pagine e la foto nella copertina), fino a Antioco Casula (Montanaru) e Pedru Mura.
Fra gli Autori che scrivono in Lingua italiana sono presenti Giambattista
Tuveri, Antonio Gramsci, Emilio Lussu, Grazia Deledda, Sebastiano Satta, Salvatore Cambosu, Antonio Pigliaru, Giuseppe Fiori, Giuseppe Dessì e Salvatore Satta.
Vi è anche un Autore bilingue Michelangelo Pira (che ci ha lasciato testi in Sardo e in Italiano) e uno quadrilingue, Sigismondo
Arquer, che ha scritto in Sardo, Latino, Castigliano e Catalano.
Il secondo volume dovrebbe uscire, sempre per le Edizioni Grafica del
Parteolla a maggio-giugno prossimo, con Autori che arriveranno fino ai nostri giorni.

Venerdì , 4 maggio alle ore 19,00
al Caffè Letterario di
Villacidro
Verrà presentato il libro

di Francesco Casula
Letteratura e Civiltà della Sardegna
Volume I
Edizioni  Grafica del
Parteolla

A Onifai un Convegno su “Identità della SARDEGNA e della CORSICA, due Popoli a confronto”

 

 

 

Onifai  SABATO 28 APRILE 2012:

Convegno su

“Identità della SARDEGNA e della CORSICA, due Popoli a confronto”

Organizzato dall’Associazione ICHNOS

 

 

RADICI STORICHE DELL’AUTONOMIA IDENTITARIA SARDA

  • NELLA RIVOLUZIONE ANGIOYNA
  • E NEL VENTENNIO DI RIVOLTE E LOTTE ANTIFEUDALI DI FINE  SETTECENTO
  •  

 di Francesco Casula

 

“Firmaisì! E arrazza de brigungia! Arrazza ‘e onori! Sardus, genti de onori! E it’ant

 a nai de nosus, de totus! Chi nc’eus bogau s’istrangiu po amori ‘e libertadi? Nossi,

Nossi po amori de s’arroba! Lassai stai totu! Non toccheis nudda! Non ddi faeus nudda de sa merda de is istrangius! Chi ddi sa pappint a Torinu cun saludi! A nosus

interessat a essi meris in domu nostra! Libertadi, traballu, autonomia!”

 

Nella divertente e brillante finzione letteraria e teatrale, in “Sa dì de s’acciappa” lo scrittore cagliaritano Piero Marcialis16 fa dire così a Francesco Leccis, – beccaio, protagonista della rivolta cagliaritana contro i Piemontesi – rivolgendosi ai popolani che, infuriati volevano assaltare i carri, zeppi di ogni ben di dio, per sottrarre ai dominatori in fuga “s’arroba” che volevano portarsi a Torino.

Ed è questo – a mio parere – il significato profondo, storico e simbolico, della cacciata

dei Piemontesi da Cagliari il 28 aprile 1794: i sardi, dopo secoli di rassegnazione, di

abitudine a curvare la schiena, di acquiescenza, di obbedienza, di asservimento e di

inerzia, per troppo tempo usi a piegare il capo, subendo ogni genere di soprusi, umiliazioni, sfruttamento e sberleffi, con un moto di orgoglio identitario, di orgoglio nazionale e un colpo di reni, di dignità e di fierezza, si ribellano e alzano il capo, raddrizzano la schiena e dicono: basta! In nome dell’autonomia e dunque, pro essere meres in domo nostra. E cacciano i Piemontesi e savoiardi e nizzardi, rappresentano il dominio colonialista e con esso l’arroganza, la prepotenza e il potere.

 

Si è detto e scritto che si è trattato di “robetta”: di una semplice congiura ordita da un manipolo di borghesi giacobini, illuminati e illuministi, per cacciare qualche centinaio di piemontesi. Non sono d’accordo.

A questa tesi, del resto ha risposto, con dovizia di dati, documenti e argomentazioni,

Girolamo Sotgiu. Il prestigioso storico sardo, gran conoscitore e studioso della Sardegna sabauda e non sospettabile di simpatie sardiste e nazionalitarie, polemizza garbatamente ma decisamente proprio con l’interpretazione data da storici filosavoia come Giuseppe Manno o Vittorio Angius (l’autore dell’Inno Cunservet Deus su re) che avevano considerato la cacciata dei Piemontesi alla stregua, appunto, di una congiura.

“Simile interpretazione offusca   a parere di Sotgiu – le componenti politiche e sociali e, bisogna aggiungere senza temere di usare questa parola «nazionali». Insistere sulla congiura – cito sempre lo storico sardo – potrebbe alimentare l’opinione sbagliata che l’insurrezione sia stato il risultato di un intrigo ordito da un gruppo di ambiziosi, i quali stimolati dagli errori del governo e dalle sollecitazioni che venivano dalla Francia, cercò di trascinare il popolo su un terreno che non era suo naturale, di fedeltà al re e alle istituzioni”.

A parere di Sotgiu questo modo di concepire una vicenda complessa e ricca di suggestioni, non consente di cogliere il reale sviluppo dello scontro sociale e politico

né di comprendere la carica rivoluzionaria che animava larghi strati della popolazione

di Cagliari e dell’Isola nel momento in cui insorge contro coloro che avevano dominato da oltre 70 anni.

 

Non fu quindi congiura o improvviso ribellismo: ad annotarlo è anche Tommaso Napoli, padre scolopio, vivace e popolaresco scrittore ma anche attento e attendibile

testimone, che visse quelli avvenimenti in prima persona.

Secondo il Napoli “l’avversione della «Nazione Sarda» – la chiama proprio così – contro i Piemontesi, cominciò da più di mezzo secolo, allorché cominciarono a riservare a sé tutti gli impieghi lucrosi, a violare i privilegi antichissimi concessi ai Sardi dai re d’Aragona, a promuovere alle migliori mitre soggetti di loro nazione lasciando ai nazionali solo i vescovadi di Ales, Bosa e Castelsardo, ossia Ampurias. L’arroganza e lo sprezzo – continua – con cui i Piemontesi trattavano i Sardi chiamandoli pezzenti, lordi, vigliacchi e altri simili irritanti epiteti e soprattutto l’usuale intercalare di Sardi molenti, vale a dire asinacci inaspriva giornalmente gli animi e a poco a poco li alienava da questa nazione”.

 

Sempre sulla cacciata dei Piemontesi scrive Giovanni Lilliu: ““Fu un momento esaltante – ha scritto Giovanni Lilliu – fu un’azione, poi bloccata dalla reazione“realista”, tesa a procurare un salto di qualità storica. Fu il tentativo di ottenere il passaggio da una Sardegna asservita al feudalesimo ad una Sardegna libera, fondando nell’autonomia, nel riscatto della coscienza e dell’identità di popolo

una nuova patria sarda, una nazione protagonista”.

 

Infatti in quello scontro politico e sociale, specie nel triennio rivoluzionario 1793-1796 che vedrà protagonista principale Giovanni Maria Angioy si afferma l’idea di nazione sarda e di popolo sardo. O meglio: I Sardi, prendono coscienza di sé e del proprio essere “popolo” e “nazione” prima quando si battono con successo contro l’invasione francese poi quando cacciano i piemontesi da Cagliari con il “Vespro Sardo” del 28 Aprile 1794.

 

A proposito della lotta contro i francesi è stato scritto che si è trattato semplicemente di una Vandea: di una semplice lotta del popolo strumentalizzato dal clero e dai nobili contro i rivoluzionari francesi.  

Certo, la presenza di una componente politica ed ideologica di tipo “vandeano” non può essere negata. Tuttavia una valutazione così unilaterale – che intende dilatare oltre ogni limite il mito della fedeltà dei Sardi alla Corona – non rende assolutamente conto del complesso intreccio di fattori e motivazioni che stanno alla base della risposta data ai Francesi dalle popolazioni, dalle truppe miliziane e da chi si mise alla loro testa. A smentire queste interpretazioni contribuiscono innanzitutto una serie di fatti, in parte oscuri, che si svolsero durante le prime settimane di quell’anno. La tesi infatti di un Novantatre come Vandea, crolla se solo si guarda ai protagonisti della difesa della Sardegna. Fra coloro che provvidero alla riorganizzazione della macchina militare si distinse una atipica figura di aristocratico come Francesco Maria Asquer, visconte di Flumini, in seguito sospettato di giacobinismo e di filofrancesismo. Il governo alcuni anni dopo lo esiliò e lo perseguitò in modo da decretare praticamente la sua rovina economica.

Nel 1793 lo stesso Giovanni Maria Angioy fece giungere da Bono un nerbo di cavalleria miliziana che poi mantenne a sue spese a Cagliari. Nella capitale accorse anche Pietro Muroni con un manipolo di 37 uomini, il cui soggiorno di tre mesi fu pagato dal fratello Francesco, parroco di Semestene, che di lì a poco sarà in prima fila nel movimento antifeudale. Tutti questi personaggi più che da un profondo odio antifrancese furono spinte a battersi e a ben figurare da una prospettiva di elevamento sociale, dall’esigenza di onori e prebende da chiedere come ricompensa dei servigi prestati. Ma soprattutto occorre ricordare la ri-comparsa di un profondo sentimento nazionale sardo che si delinea in quei momenti e lo sarà ancor più di lì a poco, come una corposa realtà concreta ed operante.

 

Fu un vantaggio per la Sardegna? Difficile dire se fu un bene per la Sardegna: molti storici infatti ritengono che sarebbe stata più utile per l’Isola una vittoria delle armi francesi, perché avrebbe messo fine al feudalesimo inserendola nel più vasto circuito e flusso economico dell’Europa. Fatto sta che l’invasione francese fu respinta per merito – su questo non vi è alcun dubbio neppure da parte degli storici filopiemontesi- sopratttutto dei Sardi che – cito Natale Sanna – “dopo secoli di inerzia e di supina quiescenza, finalmente consapevoli del proprio valore e la classe dirigente fiera della sua forza e dei risultati ottenuti, credettero giunto il momento di chiedere al re il riconoscimento dei propri diritti, tanto più che a Torino, mentre si concedevano in abbondanza promozioni ed onori ai piemontesi si ignorava l’elemento sardo”.

Infatti – ricorda Girolamo Sotgiu –  seguendo le indicazioni del vice re Balbiano, le onorificenze militari accordate dal Ministero della Guerra furono tutte concesse, con evidente ingiustizia, alle truppe regolari, che avevano dato così misera prova di sé…e alla Sardegna che aveva conservato alla dinastia il regno concesse ben povera cosa: 24 doti di 60 scudi da distribuire ogni anno per sorteggio tra le zitelle povere e l’istituzione di 4 posti gratuiti nel Collegio dei nobili di Cagliari…”. E altre simili modeste concessioni.

 

Di qui la decisione del Parlamento sardo composto dai cosiddetti stamenti: –  quello militare (o feudale), quello ecclesiastico e quello reale, (formato dai rappresentanti delle città) –  riuniti nel Marzo-Aprile del 1793 di inviare un’ambasceria a Torino per presentare al sovrano 5 precise richieste: 1) il ripristino della convocazione decennale del Parlamento, interrotta nel 1699; 2) la conferma di tutte le leggi e privilegi, anche di quelli caduti in disuso o soppressi pian piano dai Savoia nonostante il trattato di Londra; 3) la concessione ai “nazionali” sardi” di tutte le cariche ad eccezione di quella vicereale e di alcuni vescovadi; 4) la creazione di un Consiglio di stato, come organo da consultare in tutti gli affari che prima dipendevano dall’arbitrio del solo segretario; 5) la creazione in Torino di un Ministero distinto per gli affari della Sardegna. Si trattava, come ognuno può vedere di richieste tutt’altro che rivoluzionarie: non mettevano in discussione l’anacronistico assetto sociale né le feudali strutture economiche, anzi, in qualche modo tendevano a cristallizzarle. Esse miravano però a un obiettivo che si scontrava frontalmente con la politica sabauda: volevano ottenere una più ampia autonomia, sottraendo il regno alla completa soggezione piemontese, per affidare l’amministrazione agli stessi Sardi.

 

La risposta del re Vittorio Amedeo non fu solo negativa su tutto il fronte delle domande ma fu persino umiliante per i sei membri della delegazione sarda (Monsignor Aymeric di Laconi e il canonico Pietro Maria Sisternes de Oblites per lo stamento ecclesiastico; gli avvocati Antonio Sircana a Antonio Maria Ramasso per lo stamento reale; Girolamo Pitzolo e Domenico Simon per lo stamento militare).

 Il Pitzolo scelto dalla delegazione per illustrare le richieste, non fu neppure ricevuto dal sovrano né ascoltato dalla Commissione incaricata di esaminare il documento….Non solo: il ministro Graneri neppure si curò di comunicare alla delegazione ancora in Torino la decisione negativa del re, trasmettendola direttamente al vice re a Cagliari. Commenta opportunamente il Carta-Raspi: ”Ai Sardi non era concesso più di quanto ricevevano dall’iniziativa sovrana, cioè nulla”. E ancora: “Ora più che mai l’avversione contro i Piemontesi non è più solo questione di impieghi e cariche. I Sardi volevano liberarsene non solo perché essi simboleggiavano un dominio anacronistico, avverso all’Autonomia e contrario allo stesso progresso dell’Isola, ma pure e forse soprattutto per esserne ormai insopportabile l’alterigia e la sprezzante invadenza”.

 

Ancor più emerge l’idea identitaria, di nazione e popolo sardo nella cacciata dei Piemontesi prime e con Giobvanni Maria Angioy dopo.

Al di là delle cause che stanno alla base di questo evento e della stessa dinamica di quelle giornate, fu indubbiamente l’esasperazione dell’atteggiamento colonialistico, quasi razzista dei ministri regi (ampiamente documentato da uno storico in questo verso insospettabile come il Manno) la classica goccia che fece traboccare il vaso. Il senso di appartenenza identitaria e di “nazione sarda” sarà fortemente presente persino nella stampa e negli scritti di quel periodo di grandi cambiamenti, per esempio  

vNel Giornale di Sardegna,  un foglio periodico organo ed espressione del gruppo più dinamico e politicamente più progressivo degli Stamenti sardi.

vAncor più forte sarà il sentimento di “popolo sardo” e di “comunità nazionale” nell’Inno di Francesco Ignazio Mannu Su patriotu sardu a sos feudatarios;

vnell’Achille della sarda liberazione (*1);

vnella lettera Sentimenti del vero patriota sardo che non adula in cui l’istanza dell’abolizione del giogo feudale si coniuga con un atteggiamento anticoloniale e un sentimento nazionale sardo.

vMa soprattutto tale “Identità sarda” emerge nel Memoriale al Direttorio di Giovanni Maria Angioy (Agosto 1799) in cui l’Alternos cerca di cogliere e di interpretare i tratti distintivi, peculiari e originali della individualità sarda, cominciando dal quadro geografico e morfologico, proseguendo con cenni sugli usi, i costumi, le tradizioni, i rapporti comunitari, l’atteggiamento dei sardi verso gli stranieri fino a quello che si potrebbe chiamare un abbozzo “del carattere nazionale” isolano. In queste pagine non c’è solo il risentimento anticoloniale o il rimpianto per gli antichi diritti e i privilegi acquisiti dalla Sardegna nel corso dei secoli: il punto di approdo dell’esperienza e della riflessione angioyna nell’esilio parigino è ormai una repubblica sarda sia pure (come del resto era inevitabile) sotto il protettorato della Grande Nation.

 

 

(*1)L‘Achille della sarda liberazione è un opuscolo redatto durante la rivolta antipiemontese e antifeudale del 1793-96. Esso in brevi enunciati articolati in quattro para­grafi (1. Analisi della sarda costituzione politica; 2. Politica machiavellica del Mini­stero [degli affari sardi a Torino]; 3. Schiavitù feudistica [sulla natura oppressiva del regime feudale]; 4. Inimicizia piemontese) argomenta le ragioni delle tendenze più avanzate del movimento, formulando un programma rivoluzionario di notevole interesse storico. Le concezioni politiche implicite riecheggiano tematiche legate all’esperienza francese, e confermano ciò che risulta da altri documenti: un diretto influsso nell’isola del più avanzato pensiero giuspolitico europeo. L’ordinamento del­lo Stato è visto come risultato di un patto tra Sovrano e Nazione sarda, e viene teo­rizzato il diritto alla resistenza quando questo patto (che limita l’«assoluta Monarchia» e tutela le prerogative del «Reame di Sardegna», viste come fondamento di una politica che permetta lo sviluppo anche economico dell’isola), viene violato: co­me dimostrano le manifestazioni di «politica machiavellica» del governo sabaudo. Il feudalesimo sardo è inoltre considerato nell‘Achille un ordinamento che soffoca il libero consenso dei popoli: la struttura feudale è infatti contraria al «diritto delle genti», alla «giustizia più rigorosa» e alla «ragione». L’opuscolo svolge un pensiero che si muove tra modernità e tradizione, ma il richiamo a quest’ultima sembra avere prevalentemente una funzione di mediazione, quasi strumentale, per obiettivi politi­ci immediatamente operativi.

 [testo: da L. Del Piano, Osservazioni e note sulla storiografica angioiana, in “Studi sar­di”, vol. XVII, 1961]

 

 

 

 

 

Il significato storico e simbolico della cacciata dei Piemontesi da Cagliari

SADIE E I SARDI CHE UN GIORNO SI RIBELLARONO.

di Francesco Casula

Gramsci aveva chiamato “I nipotini di padre Bresciani” – il gesuita ultrareazionario che insegnò nell’Università di Sassari – molti scrittori italiani del primo novecento che si muovevano, sul versante culturale e politico, sulle sue orme. Parafrasando il grande intellettuale di Ales, sarei tentato di etichettare come “I nipotini di Giuseppe Manno e Vittorio Angius” coloro che si attardano ancora, a proposito de sa Die de sa Sardigna, a parlare di una ricorrenza fondata su un evento storico debole. Furono proprio i due storici sardi filosavoia  a considerare “robetta”, l’avvenimento del 28 aprile del 1794, alla stregua cioè di una congiura. “Simile interpretazione offusca – scrive Sotgiu – le componenti politiche e sociali e, bisogna aggiungere senza temere di usare questa parola, «nazionali». Insistere sulla congiura – cito sempre lo storico sardo – potrebbe alimentare l’opinione sbagliata che l’insurrezione sia stato il risultato di un intrigo ordito da un gruppo di ambiziosi…” . A parere di Sotgiu questo modo di concepire una vicenda complessa e ricca di suggestioni, non consente di cogliere il reale sviluppo dello scontro sociale e politico né di comprendere la carica rivoluzionaria che animava larghi strati della popolazione di Cagliari e dell’Isola nel momento in cui insorge contro coloro che avevano dominato da oltre 70 anni. Non fu quindi congiura o improvviso ribellismo: ad annotarlo è anche Tommaso Napoli, padre scolopio, vivace popolaresco scrittore ma anche attento e attendibile testimone, che visse quelli avvenimenti in prima persona. Secondo il Napoli “l’avversione della «Nazione Sarda» – la chiama proprio così – contro i Piemontesi, cominciò da più di mezzo secolo, allorché cominciarono a riservare a sé tutti gli impieghi lucrosi, a violare i privilegi antichissimi concessi ai Sardi dai re d’Aragona…”. Questo a livello storico. Ma ancor più importante è il significato simbolico: i Sardi, dopo secoli di rassegnazione e di asservimento, di abitudine a curvare la schiena, subendo ogni genere di soprusi, umiliazioni e sfruttamento, con un moto di orgoglio identitario, e un colpo di reni, di dignità e di fierezza, si ribellano e dicono: basta! In nome dell’Autonomia e dunque, pro esser meres in domo nostra. E cacciano i Piemontesi che rappresentano il dominio e con esso l’arroganza e la prepotenza.

Pubblicato su SARDEGNA Quotidiano del 28-4-2012

Il 27 aprile a Neoneli e il 28 a Onifai per parlare di Sa Die de sa Sardigna.

Neoneli studia il passato della Sardegna

NEONELI Hanno cominciato ieri il viaggio a ritroso nel tempo intrapreso per conoscere il passato e comprendere il presente. Gli alunni delle scuole primarie sono destinatari e soggetti attivi del progetto didattico Meledare pro su benidore (Meditare per le generazioni future), che la Regione ha finanziato al Comune per celebrare la ricorrenza di Sa die de sa Sardigna. Le attività hanno preso il via con il laboratorio in lingua sarda sui Vespri sardi. Scelta che mira a «Sviluppare la conoscenza della storia e dei valori dell’autonomia tra le nuove generazioni – come spiega il sindaco Salvatore Cau –, per capire l’importanza di una partecipazione attiva al dibattito democratico sulla vita politica in Sardegna, avviare un percorso verso il concetto che la democrazia non dev’essere più soltanto rappresentativa ma soprattutto partecipata». In quest’ottica gli scolari ripercorreranno i fatti che portarono all’insurrezione popolare del 1794 culminata nell’espulsione dei Piemontesi dall’isola. Nel corso delle prossime lezioni quella pagina di storia sarà studiata e rielaborata dagli alunni, aiutati in questo compito dagli operatori dell’Ufficio della lingua sarda della Provincia di Nuoro e dell’associazione culturale Sa bertula antiga. L’appuntamento conclusivo è per il 27 aprile, data della conferenza del professor Francesco Casula e della presentazione dei lavori realizzati in classe. (mac.)

Da La Nuova Sardegna del 12/04/2012

   
   

A Onifai l’Associazione ICNOS organizza il FESTIVAL DELLE IDENTITA’.
Manifestazione a carattere internazionale di scambi culturali, musicali e delle tradizioni popolari. Due popoli a confronto: SARDEGNA e CORSICA.


Due giorni di attività (28-29 aprile) dove il visitatore potrà:

·        partecipare a convegni, dibattiti sui temi dell’identità Sarda e Corsa;

·        assistere alle dimostrazioni dei vari “Mastros” sulle lavorazioni dei diversi prodotti agroalimentari e artigianali;

·        degustare e acquistare prodotti agroalimentari e artigianali;

·        vivere momenti di spettacolo con tenores, cori, gruppi musicali etnici.

 

   

Si svolge nel centro storico del Comune di ONIFAI, Provincia di Nuoro

 

PROGRAMMA MANIFESTAZIONEPROGRAMMA MANIFESTAZIONE

   
   

SABATO 28 APRILE 2012:

ore 10,00 Convegno “Identità della SARDEGNA e della CORSICA, due Popoli a confronto”
relatori:
Sig.Gianfranco Pintore (giornalista, scrittore),
Prof. Francesco Casula (storico, scrittore),
Prof. Pierre Jean Campocasso (antropologo, scrittore)

Saluti del

ore 13,00 DEGUSTAZIONE DEI PRODOTTI AGROALIMENTARI.

 

 

 

Per non dimenticare la tragedia nazi-fascista

Sul 25 Aprile meno polemica e più memoria.

di Francesco Casula 

Un 25 aprile zeppo ancora di polemiche. Si dirà: per responsabilità anche di chi vuole riproporre una ricorrenza datata, roba vecchia, in quanto il Fascismo è morto e servirebbe solo all’antifascismo per vivere di rendita, parassitariamente. Si dirà ancora che occorre finalmente una “pacificazione” fra i due fronti opposti e che su tutti i morti, della Resistenza come della Repubblica sociale italiana di Salò, occorre riversare la nostra pietas. Certo: è morto il fascismo storico. Ma pensiamo veramente che siano morte e sepolte le coordinate ideologiche, culturali e persino economiche e sociali che hanno fatto nascere, alimentato e fatto crescere e vivere il fascismo? Pensiamo sul serio che la cultura – o meglio l’incultura – della guerra e della violenza, del sopruso, della sopraffazione e dell’intolleranza, dell’ipocrisia e del perbenismo, del servilismo e dell’informazione addomesticata e velinara, sia morta per sempre? Certo per tutti i morti di quella vicenda tragica non possiamo che nutrire tutta intera la nostra pietas: ma per favore senza metter sullo stesso piano oppressi e oppressori; chi si batteva per la libertà e chi invece ce  la voleva togliere ed eliminare. Tener viva la memoria e la verità significa ricordare infatti a chi lo dimentica e a chi non l’ha mai saputo che la Repubblica sociale, fu uno stato fondato sulla tortura, sulla persecuzione razziale e politica, sulla distruzione fisica degli avversari, sulla delazione: né settanta né cento anni bastano a cancellare tutto questo. E chi ancora inneggia a quello stato fantoccio dei nazisti non ha diritto di cittadinanza in un mondo libero. Come non hanno diritto di cittadinanza quei cialtroni e falsari che  autoaccreditatisi  storici, vorrebbero persino cancellare e azzerare l’olocausto e i lager, negandone addirittura l’esistenza. Evidentemente Primo Levi, nei suoi deliri onirici si è inventato Auschwitz e tutti gli storici hanno fantasticato su ben 900 campi di sterminio e di concentramento disseminati soprattutto in Germania e nell’Europa orientale ma anche in Italia (Fossoli, Bolzano, Trieste, Borgo San Dalmazzo). Che si continui dunque nella celebrazione del 25 aprile come Festa della Liberazione ma soprattutto come momento e occasione di studio, di discussione sul nostro passato che non possiamo né rimuovere, né recidere né dimenticare.

Pubblicato su SARDEGNA Quotidiano del 25 aprile 2012

 

Gli universitari di Sassari a favore del Sardo nelle scuole

Universitarios in campu pro sa limba

di Francesco Casula

Sos dischentes de s’Universidade de Tatari falant in campu a favore de sa limba sarda. S’atera die unu frustiu de su sotziu “Su Majolu”, a pustis de aer arregollidu milli firmas, ant presentadu a sos medios de comunicatzione una petitzione in ue pedint a sa autoridades iscolasticas e politicas (a sos Retores  de s’Universidade de Tàtari e de Casteddu, a su Presidente de sa Regione, a su Cossigiu regionale ecc) isseberos pertzisos a favore de su Sardu. Sos universitarios sunt cumbintos chi pro pònnere su sardu comente matéria de istúdiu e manizare su sardu in sa didàtica in totu sas iscolas primàrias e segundàrias de sa Sardigna, tocat de amanitzare in presse su personale  docente E sigomente pro fàghere sa professione docente bi cheret una làurea chi assiguret sa formatzione netzessària professionale e iscientífica de sos mastros, cheret chi a totu cuddos chi punnant a fàghere custa professione si lis cuncordet apostadamente unu Cursu de laurea chi sas Universidades sardas tenent su pertzisu dovere de istituire. In custa diretzione pedint s’istitutzione, pro s’annu 2012-2013 de unu cursu de làurea pro sa “Formatzione Primària in Limba Sarda”, abilitante a sa docentza in sardu e a sa didàtica de su sardu in sas iscolas elementares e prima iscola, e semper pro s’annu benidore, unu cursu de làurea in “Limba e Literadura Sarda”, abilitante a sa docentza de su sardu e de àteras matérias umanísticas in sas iscolas medias e superiores. Pro totu su chi pertocat sa formatzione chi custu cursu si proponet, a totu cuddos chi ant a èssere docentes de sardu, a prus de cantu s’istúdiat cun sos cursos de laurea in Literas, si lis depet imparare sa limba sarda faeddada e iscrita, linguistica e glottologia de su Sardu, sas printzipales propostas de regularizatzione istandard fintzas pro unu probàbile isséberu, in sos annos benidores, de unu Sardu istandard non solu pro sos documentos in essida a manizu de sa regione sarda, ma fintzas pro l’impitare in sos ufítzios públicos e in sas iscolas.

S’Universidade, comente istitutzione, at tentu semper s’impreu de omologare in sa limba italiana totu sos tzitadinos de s’Istadu italianu: issa in Sardigna tenet una responsabilidade manna e grave in s’iscontróriu e s’irbandonu de sa limba e de sa cultura sarda. Tocat chi remediet a totu sos dannos e guastos chi at fatu e sighit a faghere.

Pubblicato su SARDEGNA quotidiano del 23-4-2012

Il libro di Massimo Pistis “RIVOLUZIONARI IN SOTTANA”

La rivoluzione in sottana e il 28 aprile.

di Francesco Casula

Si avvicina il 28 aprile con Sa Die de sa Sardigna che ricorda la cacciata dei Piemontesi: per comprendere il significato di quell’avvenimento come dell’intero triennio rivoluzionario, del movimento antifeudale e dello stesso Giovanni Maria Angioy ho trovato di estrema utilità il saggio-ricerca “Rivoluzionari in sottana” edito da Albatros-Il Filo di Roma, di Massimo Pistis. un giovane che ha al suo attivo anche romanzi e poesie. Particolarmente interessante il capitolo Terzo, in cui Pistis, in sintonia con la nuova concezione storiogra­fica degli “Annales”, indaga a tutto campo, “dalla cantina al sola­io”, superando la “vecchia storia” tutta incentrata sull’evento politico-militare dei “grandi uomini” e si sofferma invece sulla situazione economica, sociale, culturale, scolastica di un piccolo centro come Ales o sul ruolo della Chiesa locale. Ancor più significativo è il capitolo Quarto con i Moti Ale­resi e le reazioni delle popolazioni nei confronti delle vessa­zioni e delle tassazioni feudali non più tollerabili. Infine intrigante l’ipotesi, avanzata dall’Autore, sia pure come semplice dubbio, che potesse essere stato lo stesso vescovo di Ales e Terralba, Michele Antonio Aymerich, a ispirare l’attività dei propri col­laboratori, accusati di essere amici di Angioy, quali il suo cap­pellano e un canonico della Cattedrale, che lo accompagnaro­no a Torino, per la famosa missione delle Cinque domande, in rappresentanza dello stamento ecclesiastico Si tratterebbe di un’ipotesi clamorosa: era infatti noto il suo “conservatorismo” ed era figlio del marchese di Laconi, Ay­merich di Villamar: clamorosa ma non assurda. Anzi, “conseguente e interessante”,la definisce Pistis, ricordando non solo i due collaboratori fìlorivoluzionari ma il Vicario generale della Diocesi Pietro Obino Meloni, zio dei fratelli Obino di Santu­lussurgiu, angioiani anche loro a cui gli Stamenti negarono il passaporto. Da parte mia aggiungo che il vescovo Monsignor Aymerich, parlando a Torino in nome dei tre Sta­menti, in occasione della presentazione delle Cinque domande, sostenne la necessità di convocare ogni anno il Parlamento e di conferire solo ai sardi residenti tutte le cariche civili e reli­giose dello Stato. Si dirà che non si tratta di posizioni antifeu­dali, certo, ma neppure si possono assimilare a quelle conservatrici e filosabaude.

Pubblicato su SARDEGNA Quotidiano del 17-4-2012

 

 

 

La Polpost blocca il ladro dell’identità di Casula

Twitter La Polpost blocca il ladro dell’identità di Casula

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del 16/04/2012


Tra i più utilizzati, ma attenti ai furti di identità

INTERNET Per circa un mese

l’anonimo “troll ” ha usato

la foto dello scrittore

per insultare i vip sulla rete

Francesco Casula può tirare un

sospiro di sollievo. La denuncia

inoltrata alla Polizia postale ha fatto

il suo corso, e da qualche giorno

si è registrata la chiusura dell’ac –

count di Twitter “Acrop Annodam”,

il cui anonimo titolare aveva

avuto la bella pensata di utilizzare

indebitamente la foto dello scrittore.

La vicenda era cominciata circa

un mese fa, quando un anonimo

utente del social network aveva cominciato

a cinguettare oscenità

prendendo di mira soprattutto personaggi

della tv (Barbara D’Urso e

Melissa Satta tra le sue vittime preferite),

della musica e dello sport

(gettonatissimi Marco Materazzi e

Edgard Davids). In mezzo, una

escalation di allusioni sessuali e

pesanti bestemmie gradite da un

insospettabile numero di followers,

ma non certo da Casula che,

indignato, si era rivolto alla Polpost

per far cessare quella che considerava

una farsa a suo danno. «Vedere

abbinata la mia immagine a questi

obbrobri mi sconvolge», aveva dichiarato

amareggiato, «tantopiù

perché in quanto credente mi sento

oltraggiato dal ricorso continuo alla

bestemmia». Sul web sono noti

come “Troll ”, ovvero provocatori

che si divertono a insultare gratuitamente

tutto e tutti celandosi dietro

falso nome. Veri e propri ladri di

identità, e sfortunato chi finisce

nelle loro grinfie. Uno degli aspetti

più incredibili di questa storia riguarda

i sostenitori di “Acrop ”, che

in questi giorni ne stanno piangendo

la “dipartita”. Non si esclude che

lo stesso Troll ora bloccato dalla

Polizia postale possa tornare a colpire

sotto nuove mentite spoglie.

Nel frattempo, Casula può rallegrarsi

della fine di questa surreale

vicenda.

Fabio Marcello

Proibita la Lingua sarda a un processo

Sì alla Limba anche davanti al giudice

di Francesco Casula

Il Comitadu pro sa limba sarda attraverso una denuncia del suo Presidente Mario Carboni, esprime una forte protesta contro un intollerabile atteggiamento di discriminazione linguistica attuata dal Pubblico ministero Armando Mammone nel processo a Salvatore Meloni a Oristano. Questi i fatti: mentre l’imputato parlava in Sardo, il giudice Mammone non solo lo interrompeva ma  eccepiva sull’uso della lingua sarda nel dibattimento. C’è da chiedersi: ma Mammone conosce la legislazione che permette a un imputato il diritto e la facoltà di potersi esprimere in lingua sarda? Sarebbe gravissimo che un alto funzionario dello Stato che in suo nome opera, non conosca una legge che lo riguarda direttamente. Non ci sono giustificazioni di sorta. Ancor più grave sarebbe se conoscesse la legislazione e non la mette in pratica. Sia come sia, si tratta – come sottolinea Carboni –  di un ennesimo atto di prevaricazione linguistica ai danni di un diritto collettivo dei sardi, contro il diritto civile inalienabile di un intero popolo a parlare la propria lingua e a essere giudicati nella propria lingua in Sardegna, territorio abitato da una minoranza nazionale come lo è la sarda. Diritto peraltro riconosciuto non solo dall’ONU e dal diritto internazionale ed europeo ma codificato chiaramente da una Legge statale (la n. 482 del 1999) e ancor prima dalla legge regionale n.26 del 1997. Diritto rivendicato dal difensore di Meloni, l’avvocato Cristina Puddu, secondo cui “l’uso del Sardo è ampiamente previsto dal codice penale con indiscussa applicazione in tutto il territorio”. Sulla rete, a proposito del giudice Mammone che vieta l’uso del Sardo, circola la proposta di una raccolta di firme per spedirlo oltre Tirreno. Altri vorrebbero accompagnarlo, fuori dalla città di Oristano, in groppa a un asino: come si faceva un tempo nei confronti di individui “indesiderati”. L’importante comunque è che Mammone la smetta di discriminare la Lingua sarda e che alla ripresa del processo si attenga alla Legge. Che parla chiaro. E che deve solo osservare. Anche se, non fosse d’accordo. Rimane il ragionevole dubbio e sospetto che un giudice di tal fatta, che nutre tali pregiudizi e tali ostilità nei confronti del Sardo, possa giudicare con serenità e obiettività i “reati” ambientali ed edilizi nell’occupazione di Maldiventre, di cui Meloni è imputato.

Pubblicato su SARDEGNA Quotidiano del 13-4-2012

 

 

Lezione del Prof. Francesco Casula sul dominio romano in Sardegna

Università della Terza Età di San Gavino

Venerdi 13 Marzo alle ore 17 nella Mediateca di Viale Rinascita

CONFERENZA SUL DOMINIO ROMANO IN SARDEGNA (ecco la sintesi)

Con il dominio romano fu ancora peggio che con i Cartaginesi. Fu un etnocidio spaventoso. La nostra comunità etnica fu inghiottita dal baratro. Almeno metà della popolazione fu annientata, ammazzata e ridotta in schiavitù. “Negli anni 177 e 176 a.c – scrive lo storico Piero Meloni– un esercito di due legioni venne inviato in Sardegna al comando del console Tiberio Sempronio Gracco: un contingente così numeroso indica chiaramente l’impegno militare che le operazioni comportavano”. Alla fine dei due anni di guerra – ne furono uccisi 12 mila nel 177 e 15 mila nel 176- nel tempio della Dea Mater Matuta a Roma fu posta dai vincitori questa lapide celebrativa, riportata da Livio: “Sotto il comando e gli auspici del console Tiberio Sempronio Gracco la legione e l’esercito del popolo romano sottomisero la Sardegna. In questa Provincia furono uccisi o catturati più di 80.000 nemici. Condotte le cose nel modo più felice per lo Stato romano, liberati gli amici, restaurate le rendite, egli riportò indietro l’esercito sano e salvo e ricco di bottino, per la seconda volta entrò a Roma trionfando. In ricordo di questi avvenimenti ha dedicato questa tavola a Giove”.

Gli schiavi condotti a Roma furono così numerosi che “turbarono“ il mercato degli stessi nell’intero mediterraneo, facendo crollare il prezzo, tanto da far dire allo stesso Livio “Sardi venales“ : Sardi da vendere, a basso prezzo.

Altre decine e decine di migliaia di Sardi furono uccisi dagli eserciti romani in altre guerre, tutte documentate da Tito Livio, che parla di ben otto trionfi celebrati a Roma dai consoli romani e dunque di altrettante vittorie per i romani e eccidi per i sardi.      

Chi scampò al massacro fuggì e si rinchiuse nelle montagne, diventando dunque “barbara” e barbaricina, perché rifiutava la civiltà romana: ovvero di arrendersi e sottomettersi. Quattro-cinque mila nuraghi furono distrutti, le loro pietre disperse o usate per fortilizi, strade cloache o teatri; pare persino che abbiano fuso i bronzetti, le preziose statuine, per modellare pugnali e corazze, per chiodare giunti metallici nelle volte dei templi, per corazzare i rostri delle navi da guerra.

La lingua nuragica, la primigenia lingua sarda del ceppo basco-caucasico, fu sostanzialmente cancellata: di essa a noi oggi sono pervenuti qualche migliaio di toponimi: nomi di fiumi e di monti, di paesi, di animali e di piante.

Le esuberanti creatività e ingegnosità popolari furono represse e strangolate. La gestione comunitaria delle risorse, terre foreste e acque, fu disfatta e sostituita dal latifondo, dalle piantagioni di grano lavorate da schiere di schiavi incatenati, dalle acque privatizzate, dai boschi inceneriti. La Sardegna fu divisa in Romanìa e in Barbarìa. Reclusa entro la cinta confinaria dell’impero romano e isolata dal mondo. E’ da qui che nascono l’isolamento e la divisione dei sardi, non dall’insularità o da una presunta asocialità.

A questo flagello i Sardi opposero seicento anni di guerriglie e insurrezioni, rivolte e bardane. La lotta fu epica, anche perché l’intento del nuovo dominatore era quello di operare una trasformazione radicale di struttura “civile e morale”, cosa che non avevano fatto i Cartaginesi. La reazione degli indigeni fu fatta di battaglie aperte e di insidie nascoste, con mezzi chiari e nella clandestinità. “La lunga guerra di libertà dei Sardi –è sempre Lilliu a scriverlo – ebbe fasi di intensa drammaticità ed episodi di grande valore, sebbene sfortunata: le campagne in Gallura e nella Barbagia nel 231, la grande insurrezione nel 215, guidata da Amsicora, la strage di 12.000 iliensi e balari nel 177 e di altri 15.000 nel 176, le ultime resistenze organizzate nel 111 a.c., sono testimonianza di un eroismo sardo senza retorica (sottolineato al contrario dalla retorica dei roghi votivi, delle tabulae pictae, dei trionfi dei vincitori)”.