SIGISMONDO ARQUER: Lo scrittore vittima dell’Inquisizione e condannato al rogo in Spagna (1530-1571)

  

UNIVERSITA’ Terza Età di Quartu Sant’Elena 27-2-2013

8° Lezione del Corso di Letteratura Sarda di Francesco Casula

 

Sigismondo Arquer nasce a Cagliari nel 1530, studia teologia e legge nell’università di Pisa dove nel maggio del 1547 consegue la laurea in Diritto civile e canonico, mentre nell’università di Siena si laurea in Teologia. Tornato in Sardegna diviene avvocato del fisco a Cagliari. Nel settembre del 1548 lascia di nuovo l’Isola per recarsi presso il re Carlo I (Carlo V imperatore) a Bruxelles, a perorare la causa della sua famiglia alla quale erano stati posti sotto sequestro i beni.

   Durante un breve soggiorno a Basilea, su invito di Sebastian Münster, geografo, cartografo e di fede luterana presso il quale era ospite, scrive una monografia sulla Sardegna Sardiniae brevis historia et descriptio, cui era allegata una carta dell’isola e una veduta di Cagliari (Tabula corographica insulae ac metropolis illustrata), che viene inserita nella Cosmografia scritta dallo stesso Münster. La parte composta dall’Arquer  fu pubblicata nell’edizione del 1550, ma la stesura più nota in Italia è quella del 1558, riportata nelle Antiquitates Italicae Medii Evi di Ludovico Muratori. Il libro dell’Arquer sulla Sardegna fu inserito anche da Domenico Simon, insigne giurista e letterato algherese del secolo XVIII, nel suo Rerum Sardoarum Scxiptores, stampato a Torino nel 1778.

  Sulla figura dell’Arquer scrissero, tra gli altri, anche gli storici sardi Pasquale Tola, Pietro Martini e Giuseppe Manno. La Breve storia della Sardegna, rappresenta  la più antica descrizione dello stato e dei problemi dell’Isola in cui l’Arquer traccia anche un ritratto censorio del corrotto clero del tempo. La descrizione che egli presenta della condizione dei religiosi cagliaritani dell’epoca non è diversa da quella che espose nel 1562 l’Arci­vescovo Antonio Parragues de Castillejo, ma per tale censura l’Arquer incorse nelle ire dell’Inquisizione spagnola, è accusato di luteranesimo e incarcerato a Toledo nello stesso anno 1562. Riesce ad evadere, ma non può uscire dalla Spagna perché vengono inviate a tutte le frontiere le indicazioni sulla sua persona, per cui è imprigionato una seconda vol­ta.

L’Arquer sostiene appassionatamente la sua innocenza ed in carcere scrive un’autodifesa  in  lingua castigliana, la Passione. Il poema –che segna l’inizio della drammaturgia religiosa in Sardegna- si compone di 45 strofe, ognuna delle quali comprende dieci versi ottosillabi con rima assonante mista, ossia baciata e alternata. Il manoscritto del poema sulla Passione fu rinvenuto nel 1953 fra le carte del processo a carico di Arquer presso “l’Archvio Historico Nacional” di Madrid da Francesco Loddo e Alberto Boscolo, studiosi di storia sarda, durante un loro viaggio nella capitale spagnola, che lo pubblicarono nel volume XXIV dell’Archivio storico sardo. Nel poema l’Arquer esalta la passione di Gesù Cristo così simile alla sua, ma i suoi nemici cagliaritani, tra i quali vi erano gli Aymerich e gli Zapata, intrigheranno contro di lui raccogliendo prove tali da accelerarne la fine. Egli sosterrà sempre la propria innocenza ed anzi si dichiarerà martire della vera fede, schernendo quegli stessi ministri del culto che lo esortavano al pentimento. Per questo, durante il terribile “auto da fé” (l’espressione deriva dal portoghese e significa atto della fede), ossia la proclamazione pubblica della sentenza, lo si metterà alla sbarra prima che venisse addossato al palo, ed i carnefici vedendo che non solo non si pentiva ma che anzi esaltava il suo martirio, lo trafiggeranno con le lance e lo getteranno poi nel rogo degli eretici. Così morirà nel il 4 Giugno del 1571 a Toledo, dopo sette anni e otto mesi di detenzione.

La sua figura “assai complessa e conflittiva e di dimensione europea” –la definisce  Marcello Maria Cocco, studioso dell’Arquer- e la sua opera, ignorata dagli scrittori sardi contemporanei e pressoché sconosciuta fino alla metà del ‘700, quando ne parlerà Ludovico Muratori-  verrà riscoperta e riproposta nell’800 con un triplice atteggiamento nei suoi confronti: di compassione per la sua tragica fine; di indispettita disapprovazione per le sue critiche impietose formulate nella Sardiniae brevis istoria; di ammirazione per la incisività e la concisione della sua prosa ma soprattutto per il sacrificio della sua vita che segna il trionfo della libertà di coscienza.

Lo storico Dionigi Scano, autore dello studio più ampio sull’Arquer, sostiene che il luteranesimo non fu che un pretesto di cui si servì la classe nobiliare cagliaritana per disfarsi di un terribile avversario. E sarebbe dunque la Cagliari della prima metà del ‘500, con i suoi odi e le lotte intestine a segnare la fine drammatica di Sigismondo Arquer.

 

Presentazione del testo

L’opera scritta da Sigismondo durante il soggiorno basileense dal 21 Aprile al 5 Giugno del 1549, è un brevissimo saggio di 12 pagine articolato in sette paragrafi, redatto in un latino di rara  raffinatezza, chiaro, semplice ed elegante. Si tratta di un’opera informativa più che storica da cui emerge un agile ritratto della Sardegna del tempo, corredato da buone illustrazioni quali la carta dell’Isola, la riproduzione del muflone e la pianta schematica di Cagliari.

Poche pagine ma fitte di notizie, spesso di prima mano, di giudizi critici su alcune credenze superstiziose, di indagini sui problemi della lingua dei sardi, che confronta con il catalano e il latino, portando ad esempio una trascrizione del Pater Noster in queste tre lingue.

Particolarmente interessanti il quadro che offre della fauna della Sardegna, le informazioni sulle terme, sulle miniere, sulle saline. Più discutibili invece le brevi note sulle antiche vicende storiche che si rifanno alle fonti classiche, che affondano abbondantemente le loro radici nelle leggende e nei miti. Non manca un accenno alla validità e bontà della Carta de Logu di Eleonora d’Arborea, la Costituzione della Sardegna in vigore dal 1392 e nel capitolo VII, un quadro, riportato nel testo, che riguarda le magistrature, le condizioni della religione, della cultura, della morale in genere nonché delle condizioni economiche che si riflettono nell’uso del vestiario più o meno di lusso.

Il “librillo” –così lo chiama l’autore- è privo di organicità e anche piuttosto frammentario tanto che l’Arquer, conscio dell’incompletezza, ci fa sapere che nutre il proposito di scrivere una più completa storia dei Sardi, “Si dominus requiem e ocium dederit” (Se il Signore ci darà pace e tempo libero). Pace e tempo libero che purtroppo gli mancarono. In ogni caso La qualità intrinseca dell’opera, unita al prestigio della collocazione nella quale apparve, fanno della Sardiniae brevis historia et descriptio una pietra miliare nel panorama delle lettere isolane, anche perché si tratta dell’archetipo di una serie di scritti del genere letterario storico-descrittivo, destinato ad affermarsi con i secoli nella cultura isolana.

 

MAGISTRATURE, NATURA DEGLI ABITANTI, LORO COSTUME, LEGGI E RELIGIONE

 […] Le cariche ecclesiastiche in Sardegna sono regolate secondo i decreti del Papa. Infatti vi si trovano tre arci­vescovi, a Cagliari, Arborea e Torres o Sassari, i quali hanno sotto di sé alcuni vescovi. Vi è pure un inqui­sitore generale contro gli eretici, gli apostati e gli stregoni, come av­viene in Spagna, al quale sono con­cessi altri diritti, oltre quelli che, per norma generale voluta dai re e dai papi, sono concessi agli altri inqui­sitori. Gode di grandissimi privilegi e non ha sopra di sé nessuno all’in­fuori del supremo inquisitore di Spa­gna, del quale è delegato. Nessuno in Sardegna può contare più di lui. Egli, per suo conto, nomina, come suoi dipendenti, altri inquisitori e funzionari, dei quali è giudice; co­storo agiscono contro chi è sospet­tato, con tanta durezza che non è possibile accennarne solo con poche parole. Infatti, tengono in carcere per molti anni dei poveri infelici, e li interrogano e li sottopongono a torture prima di decidere se devono condannarli o assolverli. Hanno an­che, per esercitare le loro funzioni, dei libri, come il Malleum malefica­rum, il Directorium inquisitorum e alcuni altri volumi. Inoltre hanno del­le istruzioni segrete e molte altre disposizioni che interpretano secondo il loro personale giudizio. I Sardi hanno anche un Commissarium Crociatae1, che non ha alcun superiore, oltre il pontefice, ecc. Infine, per quanto riguarda i costumi e la natura dei Sardi, dirò che essi son robusti, per lo più rudi e avvez­zi alla fatica, all’infuori di pochi che si abbandonano al lusso; son poco dediti allo studio delle lettere, men­tre amano moltissimo la caccia. Mol­ti sono pastori e a loro bastano cibo agreste e acqua. Quelli che abitano nei borghi e nei villaggi, vivono tran­quilli e sono ospitali e gentili; vivo­no alla giornata e vanno vestiti di poverissimo panno; non conoscono guerra ed hanno anche poche armi; ciò che è ancora più straordinario è il fatto che, in un’isola così vasta, non vi è chi fabbrichi spade, pugnali e altre armi; ma queste vengono dalla Spagna e dall’Italia. I Sardi si servono invece di frecce, soprattutto quando vanno a caccia. Ma se tal­volta sbarcano nell’isola, per far pre­da, pirati turchi o africani, vengono subito volti in fuga dai Sardi o son fatti prigionieri.

Gli isolani son ottimi cavalieri e di colorito bruno a causa del sole ar­dente; vivono onestamente, secondo le leggi di natura, e meglio vivreb­bero se avessero degli onesti pre­dicatori della parola di Dio.

Quando i contadini celebrano qual­che festa, dopo la Messa, per tutto il resto della giornata e della notte ballano -uomini e donne- dentro la chiesa del Santo, cantando canzoni profane; inoltre uccidono maiali, montoni e buoi e mangiano allegra­mente di queste carni in onore del Santo. Vi sono anche di quelli che ingrassano qualche maiale in onore di un santo, per poterlo poi mangiare durante la festa, spesso in una chie­sina costruita fra i boschi. E se la famiglia non è tanto numerosa da poter consumare tutta quella carne, perché non ne avanzi, invitano altre persone al banchetto che si fa den­tro la chiesa stessa. Le donne cam­pagnole sono modestissime nel ve­stire che non ostenta lussi; ma le signore delle città, che son ricchis­sime, abusano del fasto e del lusso, ostentandoli superbamente. I sacer­doti sono ignorantissimi al punto che è raro trovarne tra essi, come tra i monaci, uno che conosca il latino. Vivono con le loro concubine e si danno con più impegno a mettere al mondo figli che a dedicarsi alla lettura.

 

Arquer plurilinguista

L’Arquer usava un latino di rara raffinatezza, chiaro, conciso, semplice ed elegante: tacitiano insomma. Conosceva bene, oltre che il latino, il sardo, il castigliano e l’italiano, come dimostrano le sue Lettere a Gaspar Centelles e le Coplas a l’imagen del Crucifixo, (Strofe a immagine di Cristo, contenute nella Passione), composte durante la prigionia a cui fu sottoposto durante il lunghissimo processo per eresia.

Arquer scrive però solo in latino, in italiano e in castigliano, non ci sono pervenute invece testimonianze scritte nelle sue due lingue madri ovvero in catalano e in sardo, (tranne, in quest’ultima lingua, che il  Babbu nostru “Padre nostro” contenuto nella Descriptio Sardiniae). Tuttavia dichiara che tutti i processi era solito redigerli in catalano “la lingua de mi tierra” (la lingua della mia terra).

La lingua scritta che gli era più congeniale era però certamente il latino, il compendio Sardiniae brevis historiae infatti è sempre stato ammirato per la classicità della sua prosa, che risulta –come abbiamo già detto- sintetica, nuda robusta ed essenziale.

Sulla lingua sarda scrive che: corrupta fuit multum lingua eorum, relictis (ne rimase corrotta poiché nell’Isola sopraggiunsero diversi popoli) etiamsi ipsi mutuo sese recte intelligant ( ma i Sardi fra loro si intendono ugualmente bene).

Aggiunge specificando che nell’Isola due sono le lingue principali che si parlano: una è quella usata nelle città, l’altra è quella usata fuori di essa. Infatti nelle città si parla quasi dovunque la lingua spagnola, tarragonese o catalana, che gli abitanti hanno appreso dagli Spagnoli, che quasi sempre vi tengono i posti di comando, gli altri mantengono intatta la lingua sarda.

I catalanismi e gli ispanismi presenti nel sardo sono numerosi e riguardano la vita sociale, l’amministrazione dello stato, i cerimoniali religiosi, le arti e i mestieri, la vita quotidiana, l’abbigliamento, la gastronomia, l’oggettistica, la nomenclatura delle piante, la medicina e più in generale i modi di dire e quindi, almeno in certa misura, i modi di pensare. Si può conclusivamente affermare con Wagner che l’elemento catalano spagnolo è, naturalmente dopo il latino, di gran lunga il più importante del sardo. 

 

– Il multilinguismo nella Sardegna del ‘500/’600

Sigismondo Arquer rappresenta emblematicamente ed esprime il multilinguismo presente in Sardegna nel ‘500/’600: occorre infatti ricordare che insieme all’Arquer nel Cinquecento in Sardegna scrittori come Antonio Lo Frasso, Girolamo Araolla, Pietro Delitala, utilizzano con intenti letterari una o più lingue delle almeno quattro comunemente usate. Arquer conosce il sardo e il catalano –che apprende in famiglia, da ricordare che l’Arquer era di origine spagnola- l’italiano che apprende e approfondisce a Pisa, il castigliano che impara in seguito, durante la lunga permanenza a corte in Spagna. Essa è la lingua ufficiale scritta, insieme al Latino, quest’ultima  specie all’interno della Chiesa.

Ha dunque due lingue madri: il catalano e il sardo, appartenenti alla sfera dell’oralità, mentre il latino, italiano e castigliano vengono impiegati nella scrittura, con una diversità di funzioni: il castigliano che utilizzerà per scrivere “Passione” e altre brevi preghiere, finirà col diventare “la lingua para hablar con Dios” (la lingua per parlare con Dio), come diceva Carlo V; mentre il latino, che utilizzerà nell’Historia, sarà la lingua scritta che gli è più congeniale.

 

1. De Sardorum lingua [testo tratto da Sardiniae brevis istoria et descriptio di Sigsmondo Arquer a cura di Cenza Thermes, Gianni Trois editore, Cagliari 1987, pag. 29]

La lingua dei Sardi

Un tempo i Sardi ebbero una lingua propria, ma poiché nell’isola soprag­giunsero diversi popoli e la terra sarda fu dominio di signorie stra­niere, come quelle dei Latini, dei Pisani, dei Genovesi, degli Ispanici e degli Africani, la lingua ne rimase corrotta, sebbene tuttora vi si tro­vino moltissimi vocaboli che non e­sistono in nessun’altra lingua. Ci re­stano molte parole latine, soprattut­to nei monti della Barbagia, dove gli imperatori romani stanziarono i loro presidi, come è detto nel libro II C. De officio prae. Afric.

Da quanto ho detto precedentemen­te, ne è derivato il fatto che i Sardi, nei diversi luoghi, parlano lingue tan­to diverse, a seconda dei dominato­ri; ma fra di loro si intendono bene.

Nell’isola, due sono le lingue prin­cipali: una è quella usata nelle cit­tà, l’altra è quella usata fuori di esse. Infatti, nelle città si parla quasi do­vunque la lingua spagnola, tarrago­nense o catalana, che gli abitanti hanno appreso dagli Spagnoli, che quasi sempre vi tengono i posti di comando; gli altri mantengono intatta la lingua sarda. Ecco, dunque, un esempio dell’una e dell’altra lingua, in una preghiera rivolta al Signo­re.

 

2. Il Padre nostro trilingue: in latino, catalano e sardo [testo tratto da Sardiniae brevis istoria et descriptio di Sigsmondo Arquer a cura di Cenza Thermes, Gianni Trois editore, Cagliari 1987, pag. 41]

Pater noster qui es in coelis sanc­tificetur nomen tuum. Adveniat

Pare nostre che ses en los cels sia santificat lo nom teu. Venga

Babu nostru sughale ses in sos che­ius santu siada su nomine tuo. Ben­giad

regnum tuum, fiat voluntas tua sicut in coelo et in terra:

lo regne teu, fasase la voluntat tua axicom en lo cel i en la terra:

su rennu tuo, faciadsi sa voluntade tua comenti in chelo et in sa terra:

Panem nostrum quotidianum da nobis hodie, et dimitte nobis

lo pa nostre cotidià dona a nosaltres hui, i dexia a nosaltres

su pane nostru dogniedie dona a no­sateros hoae, et lassa a nosateros

debita nostra, sicut et nos dimittimus debitoribus nostris, et ne

los deutes nostres, axicom i nosal­tres dexiàm als deutors nostres, i no

is debitus nostrus, comente e nosa­teros lassaos a is debitores nostrus, e no

inducas in tentationem, sed libera nos a malo, quia tuum est

nos induescas en la tentatio, mas livra nos del mal perché teu es

nos portis in sa tentatione, impero libera nos de su male, poiteu tuo esti

regnum, gloria et imperium, in secula seculorum amen.

lo regne, la gloria i lo imperii en los sigles de les sigles, amen.

Su rennu, sa gloria e su imperiu in sos seculos de sos seculos, amen.

 

 

SIGISMONDO ARQUER: Lo scrittore vittima dell’Inquisizione e condannato al rogo in Spagna (1530-1571)ultima modifica: 2013-02-22T07:57:53+01:00da zicu1
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