VIA Umberto I!

VIA Umberto I!
di Francesco Casula
Alcune motivazioni perché Umberto I di Savoia non è degno di essere intestatario di una Via, una Piazza o altri simili ed equivalenti “onori” e riconoscimenti nei paesi e nelle città della Sardegna

Umberto I di Savoia, re d’Italia dal 1878 al 1900 fu responsabile (o comunque corresponsabile in quanto capo dello stato) delle scelte più devastanti e perniciose, che furono prese dai Governi, che operarono durante il suo regno, nei confronti della Sardegna. In modo particolare nel campo economico e fiscale,nel campo ambientale (con la deforestazione selvaggia), nel campo delle libertà civili e della democrazia, con leggi liberticide e una repressione feroce.

1. campo fiscale.
Le tasse che la Sardegna paga sono superiori alla media delle tasse che pagano le altre regioni italiane, talvolta persino superiori a quelle delle regioni più ricche. Scrive Giuseppe Dessì nel romanzo Paese d’ombre “La legge del 14 luglio 1864 aveva aumentato le imposte di cinque milioni per tutta la penisola, e di questi oltre la metà furono caricati sulla sola Sardegna, per cui l’isola si vide triplicare di colpo le tasse.
In molti paesi del Centro, quando gli esattori apparivano all’orizzonte, venivano presi a fucilate e se ne tornavano, a mani vuote, ma più spesso l’esattore, spalleggiato dai Carabinieri, metteva all’asta casette e campicelli e tutto questo senza che nessuno tentasse di difendere gli isolani. I politici legati agli interessi del governo, predicavano la rassegnazione. I sardi si convincevano di essere sudditi e non concittadini degli italiani…”

a. tassa sul macinato
Durante il suo regno permarrà  l’imposta sul macinato (istituita nel 1868 ed abolita nel 1880), l’imposta più odiosa di tutte, “perché gravava sulle classi più povere, consumatrici di pane e di pasta e particolarmente dura in Sardegna, dove il grano veniva di solito macinato nelle macine casalinghe fatte girare dall’asinello”. (Natalino Sanna, Il cammino dei sardi, vol.III, Editrice Sardegna, pagina 440).
b. aggio esattoriale
Scrive lo storico Ettore Pais:”Nelle altre province del regno l’aggio esattoriale ha una media che non supera il 3%, in Sardegna non è minore del 7% e in alcuni comuni arriva persino a 14%” (F. Pais Serra, Antologia storica della Questione sarda a cura di L. Del Piano, Cedam, Padova, 1959, pagina245).
c. sequestro di immobili
A dimostrazione che la pressione fiscale in Sardegna era fortissima e comunque più forte che nelle altre regioni ne è una riprova il fatto che dal 1 gennaio 1885 al 30 giugno 1897 – anni in cui Umberto I è re – si ebbero in Sardegna “52.060 devoluzioni allo stato di immobili il cui proprietario non era riuscito a pagare le imposte, contro le 52.867 delle altre regioni messe insieme” (F. Nitti, Scritti nella Questione meridionale, Laterza, Bari, 1958,pagina 162). Ed ancora nel 1913 – regnante il figlio Vittorio Emanuele III, di cui vedremo – , la media delle devoluzioni ogni 1000.000 abitanti era 110,8 in Sardegna e di 7,3 nel regno, è sempre Nitti nel libro sopra citato a scriverlo.

2. Campo economico
In seguito alla rottura dei Trattati doganali con la Francia (1887) e al protezionismo tutto a beneficio delle industrie del Nord, fu colpita a morte l’economia meridionale e quella sarda. Con la “guerra” delle tariffe voluta da Crispi, i prodotti tradizionali sardi (ovini, bovini, vini, pelli, formaggi) furono deprivati degli sbocchi tradizionali di mercato.
La “Guerra delle tariffe con la Francia – scrive ancora Giuseppe Dessì in Paese d’ombre – aveva interrotto le esportazioni in questo paese e diversi istituti bancari erano falliti. Clamoroso fu il fallimento del Credito Agricolo Industriale Sardo e della Cassa del Risparmio di Cagliari.
Mentre  Raimondo Carta Raspi annota: ”Nel solo 1883 erano stati esportati a Marsiglia 26.168 tra buoi e vitelli, pagati in oro. Malauguratamente il protezionismo a beneficio delle industrie del nord e la conseguente guerra doganale paralizzarono per alcuni anni questo commercio e l’isola ne subì un danno gravissimo non più rifuso coi nuovi trattati doganali” (Raimondo Carta Raspi, Storia della Sardegna, Ed. Mursia, Milano, 1971, pagina 882)
Dopo il 1887 tale commercio crollerà vertiginosamente e con esso entrerà in crisi e in coma l’intera economia sarda. Salgono i prezzi dei prodotti del Nord protetti: le società industriali siderurgiche e meccaniche fanno pagare un occhio della testa – sostiene Gramsci – ai contadini, ai pastori, agli artigiani sardi con le zappe, gli aratri e persino i ferri per cavalli e buoi.
Di contro crollano i prezzi dei prodotti agricoli non più esportabili: il vino, da 30-35 e persino 40 lire ad ettolitro, rende adesso non più di 6-7 lire. Discende bruscamente il prezzo del latte. Anche come conseguenza di ciò arrivano in Sardegna gli spogliatori di cadaveri.

3. Campo ambientale
L’Isola del «grande verde»,  che fra il XIV e XII secolo avanti Cristo fonti egizie, accadiche e ittite dipingevano come patria dei Sardi shardana è sempre più solo un ricordo. La storia documenta che l’Isola verde, densa di vegetazione, foreste e boschi, nel giro di un paio di secoli fu drasticamente rasata, per fornire carbone alla industrie e traversine alle strade ferrate, specie del Nord d’Italia. Certo, il dissipamento era iniziato già con Fenici Cartaginesi e Romani, che abbatterono le foreste nelle pianure per rubare il legname e per dedicare il terreno alle piantagioni di grano e nei monti le bruciarono per stanare ribelli e fuggitivi, ma è con i Piemontesi che il ritmo distruttivo viene accelerato. Essi infatti bruciarono persino i boschi della piana di Oristano per incenerire i covi dei banditi mentre i toscani li bruciarono per fare carbone e amici e parenti di Cavour, come quel tal conte Beltrami “devastatore di boschi quale mai ebbe la Sardegna”, mandò in fumo il patrimonio silvano di Fluminimaggiore e dell’Iglesiente.
Con l’Unità d’Italia infine si chiude la partita con una mostruosa accelerazione del ritmo delle distruzioni, specie con il regno di Umberto I a fine Ottocento. Scriverà Eliseo Spiga” lo stato italiano promosse e autorizzò nel cinquantennio tra il 1863 e il 1910 la distruzione di splendide e primordiali foreste per l’estensione incredibile di ben 586.000 ettari, circa un quarto dell’intera superficie della Sardegna, città comprese”. (La sardità come utopia, note di un cospiratore, Ed. CUEC, Cagliari 2006, pagina 161).
Mentre il poeta Peppino Mereu, a fine Ottocento, mette a nudo la “colonizzazione” operata dal regno piemontese e dai continentali, cui è sottoposta la Sardegna, proprio in merito alla deforestazione: Sos vandalos chi cun briga e cuntierra/benint dae lontanu a si partire/sos fruttos da chi si brujant sa terra, (I vandali con liti e contese/ vengono da lontano/a spartirsi i frutti/dopo aver bruciato la terra). E ancora: Vile su chi sas jannas hat apertu/a s’istranzu pro benner cun sa serra/a fagher de custu logu unu desertu (Vile chi ha aperto la porta al forestiero /perché venisse con la sega/e facesse di questo posto un deserto).
E Giuseppe Dessì, sempre nel suo romanzo Paese d’ombre scrive: La salvaguardia delle foreste sarde non interessava ai governi piemontesi, la Sardegna continuava ad essere tenuta nel conto di una colonia da sfruttare, specialmente dopo l’unificazione del regno.  

4. Gli spogliatori di cadaveri
Gramsci in un articolo del 1919 sull’Avanti, censurato e scoperto tra Carte d’archivio decenni dopo e fortemente critico nei confronti della politica italiana postunitaria, scrive che : I signori di Torino e la classe borghese torinese ha ridotto allo squallore la Sardegna, privandola dei suoi traffici con la Francia ha rovinato i porti di Oristano e Bosa e ha costretto più di centomila Sardi a lasciare la famiglia per emigrare nell’Argentina e nel Brasile”.
Infatti in seguito alla rottura dei Trattati doganali con la Francia (1887) e al protezionismo tutto a beneficio delle industrie del Nord, fu colpita a morte l’economia meridionale e quella sarda: di qui lì emigrazione biblica.
Con la “guerra” delle tariffe voluta da Crispi, i prodotti tradizionali sardi (ovini, bovini, vini, pelli, formaggi) furono deprivati degli sbocchi tradizionali di mercato. Nel solo 1883 – ricorda lo storico Carta-Raspi – erano stati esportati a Marsiglia 26.168 tra buoi e vitelli, pagati in oro. Dopo il 1887 tale commercio crollerà vertiginosamente e con esso entrerà in crisi e in coma l’intera economia sarda.
Salgono i prezzi dei prodotti del Nord protetti: le società industriali siderurgiche e meccaniche fanno pagare un occhio della testa – annota Gramsci – ai contadini, ai pastori, agli artigiani sardi con le zappe, gli aratri e persino i ferri per cavalli e buoi.
Di contro crollano i prezzi dei prodotti agricoli non più esportabili: il vino, da 30-35 e persino 40 lire ad ettolitro, rende adesso non più di 6-7 lire. Discende bruscamente il prezzo del latte. E s’affrettano a sbarcare in Sardegna quelli che Gramsci chiama “Gli spogliatori di cadaveri” .
1° categoria di spogliatori di cadaveri
Sono gli industriali caseari. I signori Castelli – scrive Gramsci – vengono dal Lazio nel 1890, molti altri li seguono arrivando dal Napoletano e dalla Toscana. Il meccanismo dello sfruttamento (ed è un lascito della borghesia peninsulare non più rimosso) è semplice: al pastore che privo di potere contrattuale, deve fare i conti con chi gli affitta il pascolo e con l’esattore, l’industriale affitta i soldi per l’affitto  del pascolo, in cambio di una quantità di latte il cui prezzo a litro è fissato vessatoriamente dallo stesso industriale.
Il prezzo del formaggio cresce ma va ai caseari e ai proprietari del pascolo o ai grandi allevatori non ai pastori che conducono una vita di stenti, aggravati dalle annate di siccità e dalle alluvioni:conseguenze e prodotti del disboscamento della Sardegna, opera  di un’altra categoria di spogliatori di cadaveri.
2° categoria di spogliatori di cadaveri
Sono gli industriali del carbone – secondo Gramsci – che scendono dalla Toscana. Stavolta il lascito perla Sardegna è la degradazione catastrofica del suo territorio. L’Isola è ancora tutta boschi. Gli industriali toscani ne ottengono lo sfruttamento per pochi soldi.: a un popolo in ginocchio anche questi pochi soldi paiono la salvezza, scrive ancora Gramsci.
Così – continua l’intellettuale di Ales –L’Isola di Sardegna fu letteralmente rasa suolo come per un’invasione barbarica. Caddero le foreste. Che ne regolavano il clima e la media delle precipitazioni atmosferiche. La Sardegna d’oggi alternanza di lunghe stagioni aride e di rovesci alluvionanti, l’abbiamo ereditata allora.
Massajos ridotti in miseria dalla politica protezionista di Crispi e pastori spogliati dagli industriali caseari, s’affollano alla ricerca di un lavoro stabile nel bacino minerario del Sulcis Iglesiente. Dove troveranno altri  spogliatori di cadaveri.
3° categoria di spogliatori di cadaveri
Sono quelli che arrivano dalla Francia, dal Belgio e da Torino per un’attività di rapina delle risorse del sottosuolo. Ricordiamo  che il 9 settembre del 1848, ad appena otto mesi dalla Fusione perfetta, fu esteso alla Sardegna un Editto, già operante nella terraferma, che assegnava la proprietà delle miniere – e tutte le risorse del sottosuolo – allo Stato. Questo, per quattro soldi le darà in concessione a pochi “briganti”, in genere stranieri ma anche italiani.
“Essi si limiteranno – scrive Gramsci –  a pura attività di rapina dei minerali, alla semplice estrazione, senza paralleli impianti per la riduzione del greggio e senza industrie derivate e di trasformazione”
Certo, gli occupati nelle industrie estrattive passeranno da 5 mila (1880) a 10 mila (1890) ma in condizioni inumane di lavoro (11 ore consecutive) e di vita: La Commissione parlamentare istituita dopo i moti del 1906 scriverà: Si mangia un tozzo di pane durante il lavoro e per companatico mangeranno polvere di calamina o di minerale”.
Sempre nella relazione della Commissione parlamentare si dice testualmente:S’attraversano ancora oggi nel Sulcis Iglesiente villaggi nati allora, lascito della borghesia mineraria con intonaci scomparsi, pavimenti trascurati, filtrazioni di umidità, insetti immondi, annidati dappertutto.
Ad essere date in concessione non erano solo le miniere di carbone ma anche quelle di piombo, argento, zinco, rame.

5. Nel campo delle liberta e della democrazia. La “Caccia grossa” e i fatti di Sanluri.
Umberto I non fu solo connivente con la politica coloniale,autoritaria, repressiva e liberticida dei Governi di fine Ottocento, da Crispi in poi, ma un entusiasta sostenitore: appoggio le infauste “imprese” in Africa (con l’occupazione dell’Eritrea (1885-1896) e della Somalia (1889-1905), che tanti lutti e spreco di risorse finanziarie comportò: ben 6.000 uomini (morirono nella sola battaglia e sconfitta di Adua nel 1896 e 3.000  caddero prigionieri.
Fu altrettanto sostenitore del tentativo, di imporre leggi liberticide da parte del governo del generale Pelloux nel 1898, tendenti a restringere le libertà (di associazione , riunione ecc) garantite dallo Statuto. Sempre nel 1898 (8 e 9 maggio), “le truppe del generale Fiorenzo Bava Beccaris spararono sulla folla inerme uccidendo circa 80 dimostranti e ferendone più di 400” Franco della Paruta, Storia dell’Ottocento, Ed. Le Monnier, Firenze, 1992, pagina 461).
Ebbene il re Umberto, ribattezzato dagli anarchici Re mitraglia, forse per premiare il generale stragista per la portentosa “impresa” non solo lo insignì della croce dell’Ordine militare di savoia ma in seguito lo nominerà senatore!
Questo in Italia. In Sardegna l’anno seguente nel 1899 assisteremo alla “Caccia grossa”! Il capo del governo, il generale Pelloux – quello delle leggi liberticide che non passeranno solo per l’ostruzionismo parlamentare della Sinistra – invierà in Sardegna un vero e proprio esercito che, con il pretesto di combattere il banditismo,  nella notte fra il 14 e il 15 maggio arrestò migliaia di persone.
Ecco come descrive  la Caccia grossa Eliseo Spiga ”Lo stato rispondeva la banditismo cingendo il Nuorese con un vero e proprio stato d’assedio, senza preoccuparsi,,,di un’intera società che si vedeva invasa e tenuta in cattività come un popolo conquistato…Ed ecco gli arresti, a migliaia donne, vecchi e ragazzi…sequestrate tutte le mandrie e marchiate col fatidico GS, sequestro giudiziario…venduti in aste punitive tutti i beni  degli arrestati e dei perseguiti…Gli arrestati furono avviati a piedi, in catene, ai luoghi di raccolta, Un sequestro di persona in grande, per fare scuola”- ((La sardità come utopia, note di un cospiratore, Ed. CUEC, Cagliari 2006, pagina 162).
Ma la Sardegna, la repressione poliziesca durante il regno di Umberto I l’aveva conosciuta anche prima del 899, in particolare a Sanluri. In questo grosso centro del Campidano, in un clima di povertà, di incertezza e disperazione, il 7 agosto 1881, scoppiò una sommossa popolare contro il carovita e gli abusi fiscali, (SU TRUMBULLU DE SEDDORI ), sommossa repressa violentemente: ci furono 6 morti.
Il fatto suscitò notevole apprensione in tutta l’isola. e in gran parte della terra ferma, per i morti e per le gravi conseguenze giudiziarie .
L’8 novembre 1882 ebbe inizio il ” PROCESSO” giustamente chiamato della fame, perché venivano processati dei poveracci morti di fame: Tale processo per il numero degli imputati e per la sua durata, (terminò il 26 febbraio 1883) fu ritenuto uno dei processi più importanti dell’isola.
La sentenza fu molto pesante, soprattutto verso alcuni imputati giovanissimi: Venne condannato a 10 anni di reclusione Franceschino Garau Manca, detto “Burrullu” di anni 16, mentre Giuseppe Sanna Murgano di anni 19  ed Antonio Marras Ledda di anni 18 furono condannati a 16 anni di Lavori Forzati.

Ma i Sardi sono pocos locos y mal unidos?

 

Ma i Sardi sono pocos locos y mal unidos?

16 giugno 2016

 
Francesco Casula

Il filosofo e politico inglese Francesco Bacone li aveva definiti Idola fori : sono i pregiudizi, i luoghi comuni. Essi si creano e si sedimentano nel tempo e sono frutto per lo più dell’ignoranza. Molti attengono alla lingua sarda, uno in particolare: sarebbe grezza, arretrata, premoderna.

Scava scava e scopri che tale “pregiudizio” più che dalla piazza però ha una precisa origine e provenienza storica. Carlo Baudi di Vesme, imprenditore e storico, invitato da Carlo Alberto a scrivere una “memoria” sulla nostra Isola pubblicò Considerazioni politiche ed economiche sulla Sardegna (Stamperia reale, Torino 1848) in cui propone di “proibire severamente l’uso dei dialetti sardi per incivilire quella nazione”.

L’italiano dunque al posto del sardo per “incivilirci”. Il via dunque a che noi sardi stessi ripetessimo il refrain della lingua sarda arretrata.Altro becero e trito luogo comune è quello sui sardi pocos, locos y mal unidos, attribuito addirittura a Carlo V, ma mai verificato in alcun documento o altra fonte storica.

Del resto l’imperatore poco doveva conoscere la Sardegna se non dai dispacci “interessati” dei vice re: solo due volte la visitò direttamente. Nel 1535 quando durante la spedizione contro Tunisi e i Barbareschi sbarcò a Cagliari trattenendosi alcune ore e nell’ottobre del 1541, nella seconda spedizione, questa volta contro Algeri, il più attivo nido dei Barbareschi.

In questo caso la flotta imperiale sostò in Sardegna: ma non – come ebbe a sostenere Carlo V – per visitare Alghero, dove passò la notte del 7, bensì per esserne abbondantemente approvvigionato, a spese della popolazione della città catalana e dell’intero sassarese.In realtà quel giudizio malevolo non Carlo V lo pronunciò ma Martin Carrillo, Visitador del Reyno de Cerdeña.Questi, ambasciatore del re Filippo IV nel 1641, in un resoconto stilato per il sovrano spagnolo in merito alla situazione linguistica e culturale della Sardegna scriverà: Il Catalano e lo Spagnolo vengono utilizzati e capiti nelle città, mentre il Sardo è la lingua comunemente utilizzata nei villaggi.

E a tal proposito definirà appunto i Sardi: pocos, locos y mal unidos. E si riferiva ai sardi in relazione alla situazione linguistica, non in quanto tali. Ma tant’è: tale luogo comune, è stato interiorizzato da molti sardi, con effetti deleteri e devastanti, specie a livello psicologico e culturale  (vergogna di sé, complessi di inferiorità, poca autostima, voglia di autocommiserazione e di lamentazione) ma con riverberi in plurime dimensioni: tra cui quella socio-economica.

I Sardi certo sono pocos: e questo di per sé non è necessariamente un fattore negativo. Ma non locos: ovvero stolti, stolidi e men che meno imbecilli. Certo le esuberanti creatività e ingegnosità popolari dei Sardi furono represse e strangolate dal genocidio e dal dominio romano. Ma la Sardegna, a dispetto degli otto trionfi celebrati dai consoli romani, fu una delle ultime aree mediterranee a subire la pax romana, afferma lo storico Piero Meloni. E non fu annientata. La resistenza continuò. I Sardi riuscirono a rigenerarsi, oltrepassando le sconfitte e ridiventando indipendenti con i quattro Giudicati: sos rennos

Certo con catalani, spagnoli e piemontesi furono di nuovo dominati e repressi: ma dopo secoli di rassegnazione, a fine Settecento furono di nuovo capaci ai alzare la schiena e di ribellarsi dando vita a quella rivoluzione antifeudale, popolare e nazionale che porrà la base della Sardegna moderna.

Certo, si è tentato in ogni modo di scardinare e annientare lo spirito comunitario, la solidarietà popolare, quella pluralità di reti sociali e di relazione che avevano caratterizzato da sempre le Comunità sarde con variegati sistemi e costumi solidaristici di aiuto reciproco e di forte unità: basti pensare a s’ajudu torrau o a sa ponidura: costumanza che colpirà persino un viaggiatore e visitatore come La Marmora che [in Viaggio in Sardegna di Alberto Della Marmora, Gianni Trois editore, Cagliari 1955, Prima Parte, Libro primo, capitolo VII., pagine 207-209] scriverà ”Fra le usanze dei campagnuoli della Sardegna, alcune sono degne di nota e sembrano risalire all’antichità più remota: citeremo le seguenti:

Ponidura o paradura. –  Quando un pastore ha subito qualche perdita e vuol rifare il suo gregge, l’usanza gli dà facoltà di fare quel che si dice la ponidura o paradura. Egli compie nel suo villaggio, e magari in quelli vicini, una vera questua. Ogni pastore gli dà almeno una bestia giovane, in modo che il danneggiato mette subito insieme un gregge d’un certo valore, senza contrarre alcun obbligo, all’infuori di quello di rendere lo stesso servizio a chi poi lo reclamasse da lui…”

Così le identità etnico-linguistiche, le specialità territoriali e ambientali, le peculiarità tradizionali, pur operanti in condizioni oggettive di marginalità economica sociale e geopolitica permangono. I Sardi infatti, nonostante le tormentate vicende storiche costellate di invasioni, dominazioni e spoliazioni, hanno avuto la capacità di metabolizzare gli influssi esterni producendo una cultura viva e articolata che ha poche similitudini nel resto del mediterraneo. Basti pensare al patrimonio tecnico-artistico, alla cultura materiale e artigianale, alla tradizione etnico-musicale connessa alla costruzione degli strumenti, alla complessa e stratificata realtà dei centri storici e delle sagre, agli studi sulla realtà etno-linguistica, alla straordinaria valenza mondiale del patrimonio archeologico e dei beni culturali, all’arte: da quella dei bronzetti a quella dei retabli medievali; dagli affreschi delle chiese ai murales, sparsi in circa duecento paesi; dalla pittura alla scultura moderna.

Ma soprattutto basti pensare alla lingua, spia dell’Identità e substrato della civiltà sarda. Entrambe non totem immobili (sarebbero state così destinate a una sorte di elementi museali e residuali) ma anzi estremamente dinamiche. La poesia, la letteratura, l’arte, la musica, pur conservando infatti le loro radici in una tradizione millenaria, non hanno mai cessato di evolversi, aprirsi e contaminarsi, a confronto con le culture altre. Soprattutto questo avviene nei tempi della modernità, a significare che la cultura sarda non è mummificata.

E’ segno di un popolo stolto e diviso?

Palabanda

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PALABANDA:CONGIURA O RIVOLTA RIVOLUZIONARIA?

di FRANCESCO CASULA

Di congiure è zeppa la storia. Da sempre. Da Giulio Cesare a John Fitzgerald Kennedy. Particolarmente popolato e affollato di congiure è il periodo rinascimentale italiano, nonostante gli avvertimenti di Machiavelli secondo cui “le coniurazioni fallite rafforzano lo principe e mandano nella ruina li coniurati”. Ed anche il “Risorgimento”. Esemplare la congiura di Ciro Menotti nel gennaio del 1831 ordita attraverso intrighi con Francesco IV d’Austria d’Este, dal quale sarà poi tradito e mandato al patibolo.

Congiura che però sarà ribattezzata “rivolta”, “Moto rivoluzionario”. Solo una questione lessicale? No:semplicemente ideologica. Quella congiura, perché di questo si tratta, viene “recuperata” e inserita come momento di quel processo rivoluzionario, foriero – secondo la versione italico-patriottarda e unitarista – delle magnifiche e progressive sorti del cosiddetto risorgimento italiano. Così, una “congiura” o complotto che dir si voglia diventa un tassello di un processo rivoluzionario, esclusivamente perché vittorioso. Mentre invece – per venire alla quaestio che ci interessa – la Rivolta di Palabanda viene ridotta e immiserita a “Congiura”. E con essa diventano “Congiure”, ovvero cospirazioni di manipoli di avventurieri che con alleanze e relazioni oblique con pezzi del potere tramano contro il potere stesso. Questa categoria storiografica, che riduce le sommosse e gli atti rivoluzionari che costelleranno più di un ventennio di rivolte: popolari, antifeudali e nazionali a fine Settecento in Sardegna a semplici congiure è utilizzata non solo da storici reazionari, conservatori e filosavoia come il Manno o l’Angius.

Ad iniziare dalla cacciata dei Piemontesi da Cagliari il 28 aprile 1794: considerata “robetta” e comunque alla stregua di una semplice congiura ordita da un manipolo di borghesi giacobini, illuminati e illuministi, per cacciare qualche centinaio di piemontesi. A questa tesi, ha risposto, con dovizia di dati, documenti e argomentazioni, Girolamo Sotgiu. Il prestigioso storico sardo, gran conoscitore e studioso della Sardegna sabauda e non sospettabile di simpatie sardiste e nazionalitarie, polemizza garbatamente ma decisamente proprio con l’interpretazione data da storici filosavoia come Giuseppe Manno o Vittorio Angius (l’autore dell’Inno Cunservet Deus su re) che avevano considerato la cacciata dei Piemontesi, appunto alla stregua di una congiura.

Simile interpretazione offusca – a parere di Sotgiu – le componenti politiche e sociali e, bisogna aggiungere senza temere di usare questa parola «nazionali». Insistere sulla congiura – cito sempre lo storico sardo – potrebbe alimentare l’opinione sbagliata che l’insurrezione sia stato il risultato di un intrigo ordito da un gruppo di ambiziosi, i quali stimolati dagli errori del governo e dalle sollecitazioni che venivano dalla Francia, cercò di trascinare il popolo su un terreno che non era suo naturale, di fedeltà al re e alle istituzioni” 1.

Secondo Sotgiu questo modo di concepire una vicenda complessa e ricca di suggestioni, non consente di cogliere il reale sviluppo dello scontro sociale e politico né di comprendere la carica rivoluzionaria che animava larghi strati della popolazione di Cagliari e dell’Isola nel momento in cui insorge contro coloro che avevano dominato da oltre 70 anni.

Ma veniamo a Palabanda. Si parla di rivalità a corte fra il re Vittorio Emanuele I sostenuto da don Giacomo Pes di Villamarina, comandante generale delle armi del Regno e il principe Carlo Felice sostenuto invece dall’amico e consigliere Stefano Manca di Villahermosa, che aveva un ruolo di rilievo nella vita di corte.

Ebbene è stata avanzata l’ipotesi che a guidare la cospirazione fossero stati uomini di corte molto vicini a Carlo Felice allo scopo di eliminare definitivamente i cortigiani piemontesi e di destituire il re Vittorio Emanuele I affidando al Principe la corona con un passaggio dei poteri militari dal Villamarina ad altro ufficiale, forse il capitano di reggimento sardo Giuseppe Asquer. Chi poteva incoraggiare e proteggere l’azione in tal senso era Stefano Manca di Villahermosa, per l’ascendenza di cui godeva sia presso il popolo che presso Carlo Felice.

E’ questa l’ipotesi di Giovanni Siotto Pintor che scrive: ”La corte poi di Carlo Felice accresceva il fuoco contro quella di Vittorio Emanuele: fra ambedue era grande rivalità, l’una per sistema discreditava l’altra. Villahermosa era avverso a Roburent, e tanto più dispettoso, che gli stava fitta in cuore la spina di essergli stato anteposto Villamarina nella carica di capitano delle guardie del corpo del re. Destava invero maraviglia che i cortigiani e gli aderenti a Carlo Felice osassero rimproverare i loro rivali degli stessi errori, intrighi ed arbitrij degli ultimi tempi viceragli. Pure i loro biasimi trovavano favore nelle illuse moltitudini, che giunsero a desiderare il passaggio della corona di Vittorio Emanuele a Carlo Felice, e la nuova esaltazione dei cortigiani sardi, poco prima abborriti” 2

Pressoché identica è l’ipotesi di un altro storico sardo, Pietro Martini che scrive: ”Poiché era rivalità tra le corti del re e del principe, signoreggiata l’ultima dal marchese di Villahermosa, l’altra dal conte di Roburent il quale aveva fatto nominare capitano della guardia il Villamarina, di tale discordia si giovassero per intronizzare Carlo Felice” 3 .

Si tratta di ipotesi poco plausibili. Ora occorre infatti ricordare in primo luogo che il Villahermosa, era anche legato al re tanto che il 7 novembre 1812, pochi giorni dopo i fatti di Palabanda, gli affidò l’attuazione del piano di riforma militare.

In secondo luogo non possiamo dimenticare che Carlo Felice, ottuso crudele e famelico, sia da principe e vice re che da re, era lungi dall’essere “favorevole ai Sardi” come scrive Natale Sanna che poi però aggiunge era all’oscuro di tutto 4 Ricorda infatti Francesco Cesare Casula5. che Carlo felice sarà il più crudele persecutore dei Sardi, che letteralmente odiava e contro cui si scagliò con tribunali speciali, procedure sommarie e misure di polizia, naturalmente con il pretesto di assicurare all’Isola “l’ordine pubblico” e il rispetto dell’Autorità. E comunque non poteva essere l’uomo scelto dai rivoluzionari persecutore com’era soprattutto dei democratici e dei giacobini.

In terzo luogo che bisogno c’era di una congiura per intronizzare Carlo Felice? In ogni caso a lui la corona sarebbe giunta prima o poi di diritto poiché il re non lasciava eredi maschi ed egli era l’unico fratello vivente. Quando la Quadruplice Alleanza aveva conferito il regno di Sardegna a Vittorio Amedeo II, una clausola prevedeva che il regno sarebbe ritornato alla Spagna nel caso che il re e tutta la Casa Savoia rimanesse senza successione maschile.

Scrive Lorenzo Del Piano a proposito delle ipotesi di legami e rapporti fra “i congiurati” di Palabanda con ambienti di corte e addirittura con l’Inghilterra e con la Francia: “Se dopo un secolo di indagini non è venuto fuori nulla ciò può essere dovuto, oltre che a una insanabile carenza di documentazione, al fatto che non c’era nulla da portare alla luce e che quello della ricerca di legami segreti è un problema inesistente e che comunque perde molto della sua eventuale importanza se invece che a romanzesche manovre di palazzo o a intrighi internazionali si rivolge prevalente attenzione alle forze sociali in gioco e alle persone che le incarnavano e cioè agli esponenti della borghesia cittadina che era riuscita indubbiamente mortificata dalle vicende di fine settecento e che un anno di gravissima crisi economica e sociale quale fu il 1812, può aver cercato di conquistare, sia pure in modo avventuroso e inadeguato il potere politico esercitato nel 1793-96” 6 .

Non di congiura dunque si è trattato ma di ben altro: dell’ultima sfortunata rivolta, che conclude un lungo ciclo di moti e di ribellioni, che assume tratti insieme antifeudali, popolari e nazionali.

Segnatamente la rivolta di Palabanda, per essere compresa, abbisogna di essere situata nella gravissima crisi economica e finanziaria che la Sardegna vive sulla propria pelle: conseguenza di una politica e di un’amministrazione forsennata da parte dei Savoia oltre che delle calamità naturali e delle pestilenze di quegli anni: già nel 1811 forte siccità e un rigido inverno causarono nell‘Isola una sensibile contrazione della produzione di grano, ma è soprattutto nella primavera del 1812 che la carestia e dunque la crisi alimentare si manifestò in tutta la sua drammaticità.

Cosa è stato il dramma de su famini de s’annu dox, sono storici come Pietro Martini, a descriverlo con dovizia di particolari: ”L’animo mi rifugge ora pensando alla desolazione di quell’anno di paurosa ricordanza, il dodicesimo del secolo in cui mancati al tutto i frumenti, con scarsi o niuni mezzi di comunicazione, l’isola fu a tale condotta che peggio non poteva”.

Ricorda quindi che la “strage di fanciulli pel vaiuolo, scarsità d’acqua da bere (ché niente era piovuto), difficoltà di provvisioni per la guerra marittima aggrandivano il male già di per se stesso miserando 7.

Mentre Giovanni Siotto Pintor scrive: ”Durarono lungamente le tracce dell’orribile carestia; crebbe il debito pubblico dello stato; ruinarono le amministrazioni frumentarie dei municipj e specialmente di Cagliari; cadde nell’inopia gran novero di agricoltori; in pochi si concentrarono sterminate proprietà; alcuni villaggi meschini soggiacquero alla padronanza d’uno o più notabili; i piccoli proprietari notevolmente scemarono; si assottigliarono i monti granatici; e perciò decadde l’agricoltura. Ed a tacer d’altro, il sistema tributario vieppiù viziossi, trapassati essendo i beni dalla classi inferiori a preti e a nobili esenti da molti pesi pubblici” 8.

E ancora il Martini descrive in modo particolareggiato chi si arricchisce e chi si impoverisce in quella particolare temperie di crisi economica, di pestilenze e di calamità naturali: ”Oltreché v’erano i baroni e i doviziosi proprietari i quali s’erano del sangue de’ poveri ingrassati e grande parte della ricchezza territoriale avevano in sé concentrato. I quali anziché venire in aiuto delle classi piccole, rincararono la merce e con pochi ettolitri di frumento quello che rimaneva a’ miseri incalzati dalla fame s’appropriavano. Così venne uno spostamento di sostanze rincrescevole: i negozianti fortunati straricchivano, i mediocri proprietari scesero all’ultimo gradino, gli altri d’inedia e di stenti morivano” 9.

Giovanni Siotto Pintor inoltre per spiegare le cagioni del tentativo di rivolgimento politico che meditavasi a Cagliari, allarga la sua analisi rispetto al Martini e scrive che “La Sardegna sia stata la terra delle disavventure negli anni che vi stanziarono i Reali di Savoia. Non mai la natura le fu avara dei suoi doni come nel tempo corso dal 1799 al 1812. Intrecciatisi gli scarsi ai cattivi o pessimi raccolti,impoverì grandemente il popolo ed il tesoro dello stato. A questi disastri, sommi per un paese agricola, si aggiunsero la lunga guerra marittima che fece ristagnare lo scarso commercio; le invasioni dei Barbareschi, produttrici di ingenti spese per lo riscatto degli schiavi e pel mantenimento del navile; le fazioni e i misfatti del capo settentrionale dell’isola, rovinosi per le troncate vite e le proprietà devastate e per le necessità derivatane di una imponente forza pubblica, e quindi di enormi stipendj straordinari, di nuove gravezze, e quindi dell’impiego a favore della truppa dei denari, consacrati agli stipendi dei pubblici officiali…In questa infelicità di tempi declamavano gli impiegati: i maggiori perché ambivano le poche cariche tenute dagli oltremarini; i minori perché sospesi gli stipendj, difettavano di mezzi d’onesto vivere…i commercianti maledivano il governo e gli inglesi, ai quali più che ai tempi attribuivano il ristagno del traffico…Ondechè, scadutu dall’antica agiatezza antica, schiamazzavano, calunniavano, maledivano…Superfluo è il discorrere della plebe…Questa popolare irritazione pigliava speciale alimento dalla presenza degli oltremarini primeggianti nella corte e negli impieghi, e che apertamente o in segreto reggevano le cose dello stato sotto re Vittorio Emanuele. Doleva il vederli nelle alte cariche, ad onta della carta reale del 1799, che ammetteva in esse l’elemento oltremarino, purché il sardo contemporaneamente s’introducesse negli stati continentali. Doleva che il re, limitato alla signoria dell’isola, non di regnicoli ma di uomini di quegli stati si giovasse precipuamente nel pubblico reggimento, come se quelli infidi fossero verso di lui, e non capaci di bene consigliarlo. Soprattutto inacerbiva gli animi quel loro fare altero e oltrecotato, quel mostrarsi incresciosi e malcontenti del paese ove tenevano ospizio e donde molto protraevano, indettati con certi Sardi che turpemente gli adulavano, quel loro contegno insomma da padroni” 10.

E a tutto questo occorre aggiungere le spese esorbitanti della Corte, anzi di due Corti (quella del re e quella del vice re) ambedue fameliche, che, giunte letteralmente in camicia, portarono il deficit di bilancio alla cifra esorbitante di 3 milioni, quasi tre volte l’importo delle entrate ordinarie. Mentre il Re impingua il suo tesoro personale mediante sottrazione di denaro pubblico che investirà nelle banche londinesi.

Di qui il peso delle nuove imposizioni fiscali, che colpivano non soltanto le masse contadine ma anche gli strati intermedi delle città. A tal punto – scrive Girolamo Sotgiu– che “i villaggi dovevano pagare più del clero e dei feudatari: ben 87.500 lire sarde (75 mila il clero e appena 62 mila i feudatari) mentre sui proprietari delle città, sui creditori di censi, sui titolari d’impieghi civili gravava un onere di ben 125.000 lire sarde e sui commercianti di 37 mila” 11.

Così succedeva che “Spesso gli impiegati rimanevano senza stipendio, i soldati senza il soldo, mentre ai padroni di casa veniva imposto il blocco degli affitti e ai commercianti veniva fatto pagare il diritto di tratta più di una volta12 .

Questi i corposi motivi, economici, sociali, politici, insieme popolari, antifeudali e nazionali alla base della Rivolta di Palabanda. Che in qualche modo univano, in quel momento di generale malessere intellettuali, borghesia e popolo, segnatamente la borghesia più aperta alle idee liberali e giacobine, rappresentate esemplarmente dall’esempio di Giovanni Maria Angioy. Borghesia composta da commercianti e piccoli imprenditori che si lamentavano perché “gli incassi erano pochi, la merce non arrivava regolarmente o stava ferma in porto per mesi. Intanto dovevano pagare le tasse e lo spillatico alla regina” 13.

Per non parlare della miseria del popolo: nei quartieri delle città e nei villaggi delle campagne, dove la vita era diventata ancora più dura dopo che la siccità aveva reso i campi secchi, con “contadini e pastori che fuggivano dai loro paesi e si dirigevano verso le città come verso la terra promessa” 14 .

E così “cresceva l’odio popolare contro il governo e si riponeva fiducia in coloro che animavano la speranza di un rinnovamento 15 .

Di qui la rivolta: che non a caso vedrà come organizzatori e protagonisti avvocati (in primis Salvatore Cadeddu, il capo della rivolta. Insieme a lui Efisio, un figlio, Francesco Garau e Antonio Massa Murroni); docenti universitari (come Giuseppe Zedda, professore alla Facoltà di Giurisprudenza di Cagliari); sacerdoti (come Gavino Murroni, fratello di Francesco, il parroco di Semestene, coinvolto nei moti angioyani); ma anche artigiani, operai, e piccoli imprenditori (come il fornaciaio Giacomo Floris, il conciatore Raimondo Sorgia, l’orefice Pasquale Fanni, il sarto Giovanni Putzolo, il pescatore Ignazio Fanni).

Insieme a borghesi e popolani alla rivolta è confermata la partecipazione di molti studenti e militari : “Tutto il battaglione detto di «Real Marina», formato di poco di gran numero di soldati esteri…dipartita colli suddetti insurressori per aver dedicato il loro spirito 16.

Bene: ridurre questo variegato movimento a una semplice congiura e a intrighi di corte mi pare una sciocchezza sesquipedale. Una negazione della storia.

 

 

Note bibliografiche

1. Girolamo Sotgiu, L’Insurrezione a Cagliari del 28 Aprile 1794, AM&D Cagliari, 1995.

2. Giovanni Siotto Pintor, Storia civile de’ popoli sardi dal 1799 al 1848, Libreria F. Casanova, Torino 1887, pagine 233-234.

3. Pietro Martini, Compendio della storia di Sardegna, Ed. A. Timon, Cagliari 1885, pagina 70.

4. Natale Sanna, Il cammino dei Sardi, volume III, Editrice Sardegna, Cagliari 1986, pagina 413.

5.Francesco Cesare Casula, Il Dizionario storico sardo, Carlo Delfino editore,Sassari, 2003 pagina 330.

6. Vittoria Del Piano (a cura di), Giacobini moderati e reazionari in Sardegna, saggio di un dizionario biografico 1973-1812 , Edizioni Castello, Cagliari, 1996, pagina 30.

7. Pietro Martini,Compendio della Storia di Sardegna, op. cit. pagine 60-61

8. Giovanni Siotto Pintor, Storia civile de’ popoli sardi dal 1799 al 1848, Libreria F. Casanova, Torino 1887, op. cit. pagina 222.

9. Pietro Martini, Compendio della Storia di Sardegna, op. cit. pagina 61.

10. Giovanni Siotto Pintor, Storia civile de’ popoli sardi dal 1799 al 1848, Libreria F. Casanova, Torino 1887, pagine 229-230.

11.Girolamo Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda (1720-1847), Edizioni Laterza, Roma-Bari, 1984, pagina 252.

12, Ibidem, pagine 252-253.

13. Ibidem, pagina 253.

14. Maria Pes, La rivolta tradita, CUEC,Cagliari 1994, pagina119

15. Ibidem, pagina 120.

16. Ibidem, pagina 151.

C’è da spostare una statua

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C’è da spostare una statua

di Francesco Casula

In occasione della ricorrenza di Sa Die de sa Sardigna, il 28 aprile scorso, un gruppo di cittadini (intellettuali, storici, docenti universitari) si sono ritrovati in Piazza Yenne a Cagliari e hanno dato vita a un Comitato “Spostiamo la statua di Carlo Felice”. Nel volgere di qualche settimana arrivano centinaia e centinaia di adesioni: attualmente sono più di quattromila. Nel contempo il Comitato propone la sottoscrizione di una petizione (bilingue, in Sardo e in Italiano) con una proposta-richiesta che intende presentare al Sindaco e all’Amministrazione comunale di Cagliari corredata dalle firme, che  a tutt’oggi 29 maggio sono 950.

Ma ecco in estrema sintesi i punti più salienti della proposta:

1. Spostare la statua di Carlo Felice in un museo cittadino, corredandola di adeguata ed esaustiva didascalia che, con richiami bibliografici, permetta ad ogni visitatore del museo, di prendere coscienza della storia dello stesso.

2. Rinominare la strada “Largo Carlo Felice” con qualcosa che richiami un momento positivo della storia dell’Isola e della città, quale per esempio, la data del 28 aprile giorno in cui si celebra Sa Die de Sa Sardigna.

3. Sostituire la statua di Carlo Felice con altro monumento idoneo a ricordare un eroe della lotta per la liberazione del popolo sardo dalle vessazioni dei dominatori succedutisi nei secoli (per esempio Giovanni Maria Angioy i cui seguaci furono perseguitati da Carlo Felice).

4. Concordare, con le istituzioni scolastiche della città, iniziative di informazione e formazione degli studenti sulla storia della città di Cagliari così da favorire la conoscenza e la crescita del senso di identità che oggi appare debole, effimero e non consapevole.

Nella sustraordinario ordinò di utilizzare i cannoni, per la prima volta nella storia italiana, per sparare sulla folla a proposta-richiesta il Comitato parte da un dato: le gravissime  responsabilità politiche della zenia dei savoia, su cui la storia ha emesso giudizi inappellabili di condanna. Per fare qualche esempio penso a Umberto I, soprannominato “re mitraglia” e, non a caso. L’8 maggio 1988 il generale Fiorenzo Bava Beccaris, in qualità di Regio commissario al centro di  Milano, uccidendo 80 cittadini e ferendone altri 450: una vera e propria carneficina. Il re mitraglia “ricompensa” il generale Beccaris con una bella onorificenza: prima la Gran Croce dell’Ordine militare dei Savoia: In seguito lo nominerà pure senatore. Aveva o no infatti compiuto una brillante azione militare?

Altro re savoiardo funesto è stato Vittorio Emanuele III, uno dei responsabili principali di sciagure immani: l’ingresso dell’Italia nella 1° e 2° Guerra mondiale, l’avventura tragica del Fascismo – fu lui in seguito alla cosiddetta Marcia su Roma a nominare Mussolini capo del Governo – conclusasi con una ignominiosa fuga, quando l’Italia, persa la guerra, era nel caos.

Ma il re dei Savoia più funesto – almeno per la Sardegna – è stato Carlo Felice. Di questo sovrano ottuso despota e sanguinario mi piace riportare testualmente quanto scrive Giuseppi De Nur (in Buongiorno Sardegna:da dove veniamo, Ed. La Biglioteca dell’Identità, 2013, pagina 154) :” Partito il re e lasciata l’Isola nelle mani del viceré Carlo Felice, i feudatari continuarono imperterriti a dissanguare i vassalli con l’esosità delle loro gabelle mentre il viceré oziava nella sua villa di Orri, gaudentemente intrattenuto dai cortigiani locali e d’importazione, in conflitto permanente con tutto ciò che poteva affaticarlo non solo fisicamente ma anche intellettualmente, essendo uomo di scarsa cultura che rifuggiva dagli esercizi mentali troppo impegnativi. Il bilancio dello Stato era disastroso ma non quello suo personale, ovviamente, così che poteva permettersi di ostentare elargizioni in beneficenza con ciò che aveva riservato per sé. Fu, il suo, il governo poliziesco, sostenuto efficacemente da quelle anime nere dei

feudatari, a formare un sistema di potere dispotico e predatore in danno della popolazione locale, la cui autorità si manifestava delle forche erette per impiccare i trasgressori delle sue leggi, lì imposte con la forza.
E quegli ingenui abitanti di quello sfortunato luogo innalzarono invece per lui non una forca ma una statua, in una bella città capoluogo”.

Si tratta di una ricostruzione storica assolutamente veritiera e in linea con quanto scrivono storici come Pietro Martini (peraltro di orientamento monarchico) : “avea poca cultura di lettere e ancor meno di pubblici negozi… servo dei ministri ma più dei cortigiani. O Raimondo Carta Raspi, secondo cui  diede carta bianca ai baroni per dissanguare i vassalli. Mentre a personaggi come Giuseppe Valentino affidò il governo: questi svolse il suo compito ricorrendo al terrore, innalzando forche soprattutto contro i seguaci di Giovanni Maria Angioy, tanto da meritarsi, da parte di Giovanni Siotto-Pintor, l’epiteto di carnefice e giudice dei suoi concittadini.

Divenuto re con l’abdicazione del fratello Vittorio Emanuele I, mira a conservare e restaurare in Sardegna lo stato di brutale sfruttamento e di spaventosa arretratezza: “con le decime, coi feudi, coi privilegi, col foro clericale, col dispotismo viceregio, con l’iniquo sistema tributario, col terribile potere economico e coll’enorme codazzo degli abusi, delle ingiustizie, delle ineguaglianze e delle oppressioni intrinseche ad ordini di governo nati nel medioevo”: è ancora Pietro Martini a scriverlo.

La proposta del Comitato “Spostiamo la statua di Carlo Felice” dovrebbe a mio parere, essere dunque capita, valutata ed eventualmente sostenuta, partendo da questi corposi e oggettivi dati storici, difficilmente contestabili perché :De evidentibus non est disputandum”!

A decidere se spostare o meno la Statua di Carlo feroce (così, a ragione, fu soprannominato dagli stessi Piemontesi), dovrà essere la nuova Amministrazione comunale di Cagliari che verrà eletta a giorni. Avrà essa un sussulto di orgoglio e dignità o continuerà, a permettere e tollerare che in una Piazza centrale della capitale sarda troneggi, come fosse un eroe, un despota, brutale e sanguinario persecutore dei Sardi?