Francesco Carlini

FRANCESCO CARLINI

1. Vita e opere

Lo scrittore e il poeta bilingue. Il “Rodari sardo” con il gusto dell’ironico e del fiabesco. È nato a Vallermosa (Ca) nel 1936  ma è vissuto a lungo a Cagliari e a Roma dove si è laureato in Lettere moderne discutendo una tesi su Italo Svevo. Nella capitale è stato redattore di Radio Città Futura e ha fondato e diretto la rivista Sardigna Emigrada. Scrive di critica e produzione letteraria su Il Manifesto, Paragone-Letteratura, Umana. Rientrato in Sardegna continua insegnare nelle scuole superiori Letteratura italiana e storia e scrive su S’Ischiglia e in molte riviste orbitanti nell’area del neosardismo: da Su populu sardu a Nazione sarda, da Tempus de Sardinnia a Sa Republica sarda. Attualmente si occupa quasi esclusivamente di letteratura scrivendo sulla stampa periodica poesie e racconti. Sue poesie sono state tradotte in inglese da Jack Hirschman e pubblicate in una rivista di San Francisco (poi raccolte in un volume col titolo A Mountain Under a Bridge, Berkeley, California, CC. Marimbo 2001) Scrittore e poeta, pubblica esordisce nel 1989 con una raccolta di poesie bilingui Biddaloca (Paesestolto), un’ironica silloge destinata ai bambini delle scuole, come suggerirebbe il sottotitolo “Poesias po pipìus“, ma in realtà una dolcedolente memoria dell’antico fanciullo contadino che vede il mondo dell’infanzia inghiottito dalla nuova cultura industriale. Seguirà nel 1991 un’altra silloge di poesie bilingui (sardo-campidanese–italiano) raccolta sotto il titolo di Murupintu  (Murale) con cui –scrive Giovanni Mameli nella prefazione- Carlini costruisce è una “commedia umana” ricca di personaggi disegnati con un gusto tra l’ironico e il fiabesco, non senza una sotterranea simpatia nei confronti di molti che appartengono a un mondo e parlano una lingua minacciati da più parti. A ciò bisogna aggiungere una forte componente ludica, il piacere per il gioco formale che si manifesta in parecchi testi. Nel 2004 pubblica la terza silloge poetica, Sa luna ingiusta (La luna bagnata) con la prefazione entusiasta dell’antropologo e scrittore Giulio Angioni che scrive “Si tratta di testi sapienti per linguaggio e per struttura, di una molto profonda levità, di una essenzialità frutto di molto lavoro…che hanno le movenze del tipo della filastrocca, della ninna-nanna, del proverbio, dell’iterazione, del nonsense”. Le tre raccolte ottengono lusinghieri consensi di pubblico e di critica (il primo libro è stato ristampato dopo solo due anni), fra l’altro ne sono testimonianza i pubblici riconoscimenti e i premi: fra gli altri una medaglia d’oro da parte del Comune di Villacidro.. Nel 2001 pubblica una raccolta di Racconti, S’Omini chi bendiat su tempus (L’uomoche vendeva il tempo)  con traduzione in italiano con il quale vince  il Premio Città di Selargius 2003 e ed il romanzo Basilisa  (con cui vince nel 2002 il Premio Grazia Deledda per la sezione in lingua sarda). Opera tra romanzo e biografia è ambientato a Roma fra il 1943 e 1944, ai tempi dell’invasione tedesca e racconta un’esperienza realmente vissuta attraverso gli occhi di un bambino che che non poteva non rimanere segnato dalla paura, dalla guerra e dalla fame e anche da quanto più atroce ha visto in quegli sconvolgenti giorni dell’invasione nazista.

 

Nel 2004 pubblica Su conillu beffianu (Il coniglio beffardo) nel ovvero contus e contixeddus po pipius, racconti e raccontini per bambini e  non solo, con la prefazione di Francesco Casula che mette in rilievo “il linguaggio spassoso e carico di deflagrazioni umoristiche e dalle grandi capacità allusoive, impregnato di immagini ardite, di metafore, di parabole, di simboli e di proverbi, quella scrittura e quel linguaggio che ha saputo mutuare –sia pure con grande originalità- dalla cultura tradizionale sarda e dalla oralità”. Nel 2005 pubblica un volume di favole, Marxani Ghiani e ateras faulas (Volpe Ghiani e altre favole) sempre in lingua sarda nella cui prefazione Vindice Ribichesu sottolinea: “Pur trovando le sue radici nella favolistica classica greca e latina, Carlini non si rifugia nell’Arcadia né nella nostalgia di una vita semplice, ma entra –talvolta addirittura con crudeltà anche se con misura- nella società di oggi con riferimenti anche alle cronache politiche recenti”. In lingua italiana pubblica per le Edizioni Quaderni del Pavone: L’Asino d’oro ( 2002), un poemetto scherzoso scritto a quattro mani con Efisio Cadoni e delle brevi raccolte di poesie: Lo zoo (2006) e Dialogo a una voce,(2007). 2. La poesia di Carlini Di Carlini mi ha sempre colpito lo scrittore raffinato e colto, con il suo linguaggio spassoso e carico di deflagrazioni umoristiche, dalle grandi capacità allusive, allegoriche, ironiche e inventive, con un impasto ardito di neologismi, immagini, metafore, parabole, simboli, proverbi, iterazioni, assonanze. Quella scrittura e quel linguaggio che ha saputo mutuare – sia pure con grande originalità – dalla cultura tradizionale e dalla oralità sarda. Conoscendolo negli anni, attraverso frequentazioni ma soprattutto attraverso i suoi scritti e le sue poesie in primis, ho sempre apprezzato il suo distacco e la sua saggezza, il suo moderato ottimismo, mai vacuo, però, e anzi temperato da un alone di scetticismo. Ho sempre ammirato il suo occhio sorridente, mai cattivo né arcigno, che spesso si fa ustorio ma che preferisce sempre l’ironia all’indignazione e all’invettiva; lo sberleffo satirico all’aggressione verbale; la canzonatura e il motteggio – quasi sottovoce – allo sbraitare e alzare la voce con berci e urla. Carlini, infatti, anche quando sbeffeggia le debolezze degli uomini, più che aggredire mette in ridicolo, più che sbraitare o alzare la voce con berci e urla, canzona e ironizza, quasi sottovoce, con un tono medio, divertito e divertente, per così dire goldoniano o meglio ancora oraziano. Egli è evidentemente convinto, a ragione,  che la messa in ridicolo frusti e tagli più netto e con più energia del “serioso” o dello sparare a mitraglia. È sempre presente nella sua opera la dimensione ludica, il gusto per il gioco: mai però fine a se stesso, puro divertissement. Infatti, pur mai urlato e insistito né tanto meno predicatorio, anzi sotteso, sommesso e discreto, quasi subliminale, aleggia l’engagement di Carlini, il suo impegno etico, politico e sociale, la dimensione “gnomica” e perfino didattico-didascalica che, se da una parte denuncia e stigmatizza i vizi, le ubbie, le manie e la mediocrità degli uomini, dall’altra esalta i valori alti dell’equilibrio e della moderazione, del buon senso, tipici de sa sabidoria, la saggezza sarda e mediterranea. Carlini scrive in sardo, nella sua e nostra – come sardi intendo – lingua materna, il dantesco “parlar materno” che è la prima lingua della poesia. Per il bambino, l’infante, che l’apprende direttamente dalla madre, appunto, essa è soprattutto senso, suoni, musica: lingua di vocali. Ma tale è anche per il poeta. Dunque corporale e fisica e insieme aerea, leggera e impalpabile. E le vocali sono per il poeta l’anima della lingua, sono il nesso fra la lingua e il canto; fra la poesia, i numeri della musica, il ritmo e il ballo. Tanto che, storicamente, i confini fra poesia e musica e danza, sono sempre stati labili e sfumati a tal punto che gli antichi poeti – gli aedi greci per esempio – non scrivevano poesie ma le cantavano, accompagnandosi con la lira: non a caso nasce il termine “lirica” e “aoidòs” in greco significa “cantore”. Ma “cantano” anche Dante e Petrarca, Ariosto e Tasso e Leopardi. E i cantadoris sardi, soprattutto gli improvvisatori. Cantano con quella lingua materna che riassume la fisionomia, il timbro, l’energia inventiva, la cultura, la civiltà peculiare del nostro popolo. Una lingua – il sardo – che è insieme memoria e universo di saperi e di suoni. Che sottende – talvolta in modo nascosto e subliminale – senso e insieme oltresenso, musica, ritmo e ballo. Ma Carlini non si limita solo a cimentarsi con il sardo: conduce un’ampia operazione   di   censimento,  di  scavo,  di   esplorazione,   di   ricerca,   di   studio   e   di sperimentazione di un progetto di lingua sarda che risulta insieme ricca e sobria, concisa ed espressiva, robusta e vigorosa, gustosa, viva e moderna. In più ne tenta una “ripulitura” e una standardizzazione e reimette nel circuito lessemi preziosi o desueti, alcuni particolarmente pregnanti, significanti e onomatopeici. 

 

Questo sardo permette così a Carlini di schizzare icasticamente, con brevi ritratti, con rapidi  bozzetti,  quasi  in  punta  di  penna,  fatti  e  vicende  di  paese e  di  villaggio,  ma soprattutto personaggi, scavati e descritti sia dal punto di vista psicologico che fisico. Un sardo che irrompe turgidamente espressivo e che riesce ad essere oltremodo attraente e piacevole, per il tono di celia, per il gusto amabile del motteggio, per il sapore della caricatura e della parodia, per i copiosi non sense, per la battuta scherzosa ed epigrammatica, per la raffigurazione del mondo e degli uomini, sotto un profilo che ne mette in luce gli aspetti paradossali, assurdi, ridicoli, comici. Un sardo nei momenti migliori, più divertenti e saporosi, produce un fragoroso gioco pirotecnico e un carnevale lessicale. Un sardo, quello campidanese, che a me pare, per la poesia satirica più congeniale e più adatto delle altre varianti sarde. Una satira, occorre rimarcarlo ancora una volta, che non sconfina mai però nello scherno furioso: essa, infatti, nasce al massimo dall’indignazione, mai dall’odio o dall’ira. Carlini vuole infatti certo frustare e fustigare i vizi, gli errori, le manie, i tic, le ubbie e le miserie umane, la stupidità, l’arroganza e la saccenteria; ma sempre bonariamente: così ridendo castigat mores. Solo in Marxani Ghiani la sua satira diventa più aggressiva, quasi si incattivisce, segnatamente per colpire i potenti e i prepotenti, i millantatori e i truffatori, gli opportunisti e i bugiardi: impersonati in animali non astratti ma con nomi precisi che li identificano: non il generico marxani, la volpe, ma Marxani Ghiani, Volpe Ghiani, e con lui Burricu Piricu, Somaro Piricu, Intruxi Mannu, Grande Avvoltoio, e via via elencando. In tal modo Carlini, dalla favolistica generica e tradizionale inaugura una favolistica che attiene all’attualità di oggi: e dunque ai politici come ai grandi finanzieri, ai banchieri come alla grande distribuzione, che cadono impietosamente sotto gli strali della sua satira e dei suoi indignati sberleffi. 3. Due poesie inedite di Carlini (su cui torneremo, con un commento, nei prossimi giorni)

ARENAS ARRUBIAS

S’arrennegu alimentais

in is animus prus masedus

bosàterus chi mandais is fillus,

is fillus nostus

is nebodis, is nebodis nostus

po ammanciai de arrubiu

is arenas arbigadas de is desertus.

Cincu milla eurus a su mesi no sunt meda

po una vida

ma podint abbastai

si àterus morint po prus pagu

po prus pagu meda

e balentis no ant a essi,

gherreris po sa paxi,

de nci fai intrai derettus in is lìburus de storia,

ni ant a tenni monumentus

e coronas de lau birdi postas a peis

in is dis sena ’e numeru de s’ammentu,

scéti coronas de froris arrubius, de manus amigas.

Nimmancu ananti de sa morti si fìrmant is paràulas

faulancias retóricas paràulas

de bosàterus chi dizideis de sa sorti de is àterus

e bisus fadeis chietus

poita mai una telefonada si nd’at a scidai

intremesu’e notti,

prontu? si dispraxit, fillu bostu

est mortu asuba ’e s’altari de sa paxi,

artivus siais

de nebodi bostu.

Maledittus, o bosàterus maledittus,

is fillus, is nebodis bostus

in discutega abàrrant a tant’oras de notti

e scéti po sorti podit accuntessi

chi si pozzant scerfai in su sfartu

cottus de licoris de droga,

o bivint foras po imparai

 in d’unu collegiu inglesu

in d’un’universidadi americana

de sa democrazìa sa grandu lezioni

de is mèris de su mundu.

S’arrennegu spirrònciat in su coru prus masedu

in su coru prus masedu,

po si sciòlliri a pustis

in d’unu lagu de tristura.

SABBIE ROSSE

La rabbia nutrite

negli animi più miti

voi che mandate i figli,

i nostri figli

i nipoti, i nostri nipoti

a macchiare di rosso

le roventi sabbie dei deserti.

Cinquemila euro al mese non sono poi tanti

per una vita

ma possono bastare

se altri muoiono per meno

per molto meno

ed eroi non saranno,

guerrieri per la pace,

da far entrare dritti nei libri di storia,

né avranno monumenti

e corone di verde alloro deposte ai loro piedi

negli incalcolabili giorni della memoria,

solo corone di fiori rossi, da mani amiche.

Nemmeno davanti alla morte si fermano le parole

bugiarde retoriche parole

di voi che decidete sulla sorte degli altri

e sonni dormite tranquilli

perché mai una telefonata vi svegliarà

nel mezzo della notte,

pronto? ci dispiace, vostro figlio

s’è immolato per la pace,

orgoglio della nazione

è vostro nipote.

Maledetti, o voi maledetti,

i vostri figli, i vostri nipoti

le ore piccole fanno in discoteca

e solo per caso può capitare

che finiscano sfracellati sull’asfalto

fradici di alcol e di droga,

o vivono all’estero per apprendere

in un college inglese

in una università americana

della democrazia la grande lezione

dei signori del mondo.

La rabbia rampolla nel cuore più mite

nel cuore più mite,

per sciogliersi poi

in un lago di tristezza.

SA PAGA DE SU SORDAU

No t’as a podi gosai sa paga

po ti unfrai de birra comenti penzast

attaffiai de amburgher arrusciaus a Coca Coca

in su pasiu minesciu de su gherreri

in d’unu logali de Noa York

o ti gosai sa musica chi ti fadìat ammacchiai

scéti a nci pezai attesu attesu

in d’una arruga de Noa Orleans

a pustis de is balentìas contadas a is amigus.

Curza at a essi sa zirimonia e sena de fanzarra

troppu bortas sonada po no si nci avvesai,

unu de is quàtturu mila, quàtturu mila,

torraus a domu in sa brenti de unu aeriu

no est prus una nova.

Imbùssat su baullu sa bandera

a cinquanta steddus luxentis chi connoscis

e calincunu fuèddat de sacrifiziu po sa democrazìa

chi mamma tua no bolit ascurtai

inserrada in su croxu de su turmentu chi dda trògat,

e nimmancu sa picciocca,

is ogus annappaus de làmbrigas,

chi penzàst de portai a baddai.

Attesu attesu àteras féminas

is brazzus a celu preguntendisì poita,

fragu pizziosu de morti in is propiu bias

is propiu prazzas arrubias de cittadis e biddas.

Ohi, is feminas, cantu feminas,

is nottis longas sena de acabu

in billus de steddus calamaus,

innoi

inguddanis

inguddenis

attesu attesu.

LA PAGA DEL SOLDATO

Non ti potrai godere la paga per gonfiarti di birra come pensavi, ingozzarti di hamburger innaffiati con Coca Cola nel meritato riposo del guerriero in un locale di New York, o goderti la musica che ti faceva impazzire al solo pensiero lontano lontano in una strada di New Orleans dopo le gesta raccontate agli amici. Breve sarà la cerimonia e senza fanfara, troppe volte suonata per non farci l’abitudine, uno dei quattromila, quattromila, ritornati a casa nella stiva di un aereo non fa più notizia. Copre la bara la bandiera dalle cinquanta brillanti stelle che conosci e qualcuno dice del sacrificio per la democrazia che tua madre non vuole ascoltare chiusa nel guscio dello strazio che l’avvolge, né la tua ragazza, gli occhi appannati da un liquido velo di lacrime, che pensavi di portare a ballare. Lontano lontano altre donne le braccia al cielo a domandarsi perché, acre odore di morte lungo le solite strade le solite rosse piazze di città e villaggi. Ahi, le donne, quante donne, le lunghe interminabili notti in veglie di stelle appassite, qui lontanto lontano.

a cura di Francesco Casula

Villamassargia

Villamassargia 16 Gennaio ore 17 Aula Consiliare

 

Presentazione del romanzo di Giulio Angioni ASSANDIRA

 

Relazione di Francesco Casula

 

Qualche mese fa, parlando a Cagliari un noto critico letterario italiano ha sostenuto che ormai gran parte della letteratura odierna ma segnatamente il romanzo, sta assumendo un carattere di puro intrattenimento, di gioco, spettacolo: tanto che si parla di Festival del libro, cene con l’Autore e via via elencando. Senza peraltro possedere il brillante divertissement  di un Edoardo Sanguinetti (Il gioco dell’oca, romanzo pop del 1970) o l’aperto disimpegno politico di uno Elémire Zolla (Eclissi dell’intellettuale, 1961).

 

I romanzi di Angioni, pur piacevoli e divertenti, hanno ben altro spessore: per intanto –mi riferisco in modo particolare ad Assandira– è troppo facile, banale e scontato etichettarlo come romanzo giallo, noir: banale ma soprattutto riduttivo. E non solo perché difficilmente si può incapsulare e incatenare Angioni a un genere letterario o a qualche “ismo” tradizionale o a qualche ascendenza letteraria, sarda o italiana: caso mai può evocare scrittori di frontiera come Gregor Von Rezzori o ancor più come lo scrittore caraibico di lingua inglese Naipul Vidiadhar Surajprasad, vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 2001. Ma perché nei suoi romanzi Angioni non dimentica di essere un antropologo, anzi cattedratico di antropologia, in una vita parallela a quella di scrittore. E si vede. Forse soprattutto in questo romanzo che ha per oggetto l’Identità, l’Identità stravolta, sotto forma della mascheratura. Come nel Sale sulla ferita c’era un altro motivo antropologico molto forte, quello del come si dà senso al mondo e a quello che accade, anche stravolgendolo. E a proposito di influenze, penso più a etnologi come Ernesto De Martino o a filosofi come Martin Heidegger.

 

       Ma veniamo al romanzo di cui parliamo stasera. Assandira parla di un agriturismo che deve far rivivere il passato agropastorale, con il protagonista, Costantino Saru, vecchio pastore in pensione, padre di Mario -il padrone e l’ideatore dell’agriturismo- che sulle prime recalcitra davanti al progetto. Un poco perché non trova nulla d’attraente nella vita del pastore, lui che pastore è stato per tanti anni, in decorosa povertà, segregato dal consorzio degli uomini. E anche un poco perché vede di malocchio il mettere in caricatura quella ch’è stata la sua seria, onesta vita di pastore. Ma poi cede, si adegua, e come tutti i neofiti e convertiti finisce persino coll’esagerare: indossa il costume etnico che da vero pastore non ha mai indossato, fa le sue apparizioni banditesche con la doppietta ad armacollo, ammannisce sapienti arrosti per le comitive festanti, impara perfino a dire tenchiù.

 

       Intorno al protagonista, al figlio e alla danese Grete, la sua compagna, i personaggi recitanti sono un professore malmostoso, esperto di pastoralismo, assunto come consulente di Assandira, che supervisiona e certifica il rispetto della cultura tradizionale e insieme la bontà della copia e  un assessore provinciale al turismo.

 

Ma un giorno scoppia un incendio in cui muore il figlio, –colpito alle spalle da un razzo che avrebbe dovuto animare rumorosamente una delle tante feste notturne dell’agriturismo-, rimane gravemente ferita la compagna danese di quest’ultimo, che per di più è incinta e dunque la sorte del nascituro è incerta. Bruciano vive svariate decine di animali. I carabinieri e la magistratura indagano.

 

Assandira è tutto una mascherata, un teatro, uno show: con il protagonista, Costantino Saru che indossa i gambali, i calzoni a sa sporta, la camicia senza colletto. Anche le pezze ai piedi devo mettermi di nuovo? chiede al figlio. No quelle no, -risponde- non c’è bisogno, le pezze ai piedi non si vedono e le calze nemmeno. E dunque non servono. Importante è solo quello che appare: Sembrare, Assandira era tutto un sembrare. E sembrare era tutto con caprette, la cavalla e il puledro, le galline e i conigli, le due scrofe e il cinghiale  e il cane fonnese da guardia.

 

Così Costantino ritorna a fare il pastore ma per finta. Se siamo una terra per turisti e noi amo una razza di pastori, dobbiamo essere i pastori ma per i turisti: gli ripete il figlio Mario Perché ai turisti piacciono le cose fatte così all’antica… Noi, com’eravamo, per loro siamo belli…Insomma, fingere, recitare in pro del turista, fare la parte del pastore, del pastore all’antica.

 

Così nella commedia si celebrano una serie incredibile di riti, esotici e arcaici, che una volta erano azioni quotidiane, serie e faticose. Come la mungitura, descritta minuziosamente nel capitolo su riportato, che diventa uno show, una recita per i signori e signore dell’agriturismo, che berranno il latte appena munto con la schiuma, la spuma calda e morbida che si forma nel recipiente negli spruzzi della mungitura, naturalmente, con il rispetto delle norme igieniche. Perché siamo nella modernità e nell’europa.

 

Con l’incendio dell’agriturismo il circo effimero di Mario e Grete ridotto a cenere e tizzoni.Una tragedia: Che pone fine a una commedia. Anche se c’è da chiedersi se la vera tragedia non fosse la commedia e se l’incendio in qualche modo non sia una catarsi, una liberazione da quell’oscena commedia. Tutta giocata sull’inganno, sulla finzione, sul fittizio, sul sembrare. Assandira infatti è una sorta di bengodi in cui sfaccendati turisti plaudono, gozzovigliano, fotografano,cercano un nuovo eden e si baloccano sotto le spoglie di un finto ovile in una Sardegna favolosa, quasi nuragica con annesse capanne di frasca, arrosti omerici e ettolitri di vino. Non importa se quella Sardegna pastorale, nella realtà, non c’è più, o comunque c’è di essa solo una pallida immagine.

 

Giulio Angioni in un suo libro del 1990, Tutti dicono Sardegna dedica un capitolo a “Tradizione e turismo”, al quale, si rifà Assandira. Giulio Angioni in un suo libro del 1990, Tutti dicono Sardegna dedica un capitolo a “Tradizione e turismo”, al quale, si rifà Assandira.

 

Lo stesso argomento è stato trattato, curiosamente, da Tarquinio Sini, noto soprattutto come pittore e caricaturista dai tratti rapidi ed essenziali (Sassari 1891- Cagliari 1943), in un romanzo dal titolo A quel paese… Romanzo moderno (ad imitazione di molti altri) per uso esterno, Ed. S.E.I. Cagliari 1929.

 

In esso Sini si diverte ironicamente a rivelare ai non sardi l’immagine di quella che essi ritengono sia la vera Sardegna, quella infestata da terribili banditi pronti a sparare e a uccidere, con indosso il classico costume sardo:“con la berretta infilata sulla testa che non ha mai conosciuto le forbici del coiffeur, il sottanino di orbace e le brache bianche… …i turisti davanti a questi ceffi, dai barboni arruffatti, passano da una emozione all’altra…chi viene in Sardegna in cerca di emozioni e prova tutto ciò può chiamarsi fortunato.”, scrive Sini. E questa è la Sardegna che vogliono i turisti. A tal punto che un maître d’albergo per rendere più verosimile l’esotismo impartiche al suo personale ordini perché erigano finte siepi di fichi d’india, finti nuraghi e anche altro. Ma ecco, testualmente cosa scrive il Sini: “dopo una notte insonne, una di quelle notti che portano consiglio,[il maître dell’albergo] impartisce ordini e contrordini al suo personale.

 

-Questa siepe di fichi d’india di qua! Quest’altra di là, più su più giù!

 

Questi asinelli? In ordine sparso: un po’ ovunque. Via fatemi sparire qual camioncino! Al suo posto un carrettino…bravo! Il somaro più rognoso. Adesso incominciamo ad andar bene! Il Nuraghe lassù: sulla collina al centro. Oh benissimo!…E il paesaggio sardo prende subito quel caratteristico aspetto della vera Sardegna, di quella Sardegna che tutti conoscono senza aver mai visto e che soltanto i trucchi del modernismo invadente tentano occultare”.

 

Ma manca ancora qualche cosa: ecco allora che “bisogna far passare qualche numeroso gregge da queste parti…”  afferma ancora il maître. “E dopo qualche istante… ecco il colore locale. E anche l’odore

 

“ La Sardegna –signori miei- dopo tanti anni si risveglia e senza lavarsi la faccia si rimette in cammino. Così la vogliono i poeti e i curiosi di là dal mare. Sia fatta la loro volontà!”.

 

E’ questa la conclusione, fra l’ironico e il melanconico e l’amaro, del romanzo di Sini. Siamo nel 1929 ma pare che le cose non siano cambiate granchè, almeno a leggere Assandira di Angioni. O no? 

 

Il tema affrontato da Angioni in Assandira è stato analizzato nelle Lettere dal carcere ma anche in altre opere da Gramsci. “Sì, le tradizioni popolari: le canzoni sarde che cantano per le strade i discendenti di Pirisi Pirione di Bolotana … le gare poetiche… le feste di San Costantino di Sedilo e di San Palmerio … le feste di Sant’Isidoro”. “Sai – scrive in una lettera alla mamma il 3 Ottobre 1927– che queste cose mi hanno sempre interessato molto, perciò scrivimele e non pensare che sono sciocchezze senza cabu nè coa”.

 

In altre opere Gramsci ribadirà che il folclore non deve essere concepito come una bizzarria, una stranezza o un elemento pittoresco, ma come una cosa molto seria. “Solo così –fra l’altro– l’insegnamento sarà più efficiente e determinerà realmente una nuova cultura nelle grandi masse popolari, facendo sparire il distacco fra la cultura moderna e la cultura popolare o folclore”.

 

In altre occasioni sottolinea che folclore è ciò che è e “occorrerebbe studiarlo come una concezione del mondo e della vita“, “riflesso della condizione di vita culturale di un popolo “in contrasto con la società ufficiale“.

 

Quello che invece Gramsci critica è il “folclorismo“, ovvero “l’abbandono all’isolamento storico e a una cultura arbitrariamente privata di ogni residua mobilità, che definisce, malattia mortale di una cultura disattenta ai significati progressivi della esperienza popolare e invece esaurita nel rispecchiamento della vita passata,nella celebrazione di quei “valori” che disturbano meno la morale degli strati dirigenti e rendono in questo senso più facili tutte le “operazioni  conservatrici e reazionarie”,  legando vieppiù il folclore “alla cultura della classe dominante “.

 

In altre lettere – per esempio in quelle del Novembre del 1912 e 26 Marzo del 1913 alla sorella Teresina– chiede notizie su parole in sardo logudorese e campidanese e alla madre – nella lettera del 26 Febbraio del 1927 – si figura di rinnovare una volta libero e tornato al paese il “grandissimo pranzo con culurzones e pardulas e zippulas e pippias de zuccuru e figu siccada”. In un’altra lettera del 27 Giugno 1927 le chiede di mandargli “la predica di fra Antiogu a su populu de Masullas”. E al figlio Delio che parlava russo e italiano e cantava canzoncine in francese avrebbe voluto insegnare a cantare in sardo:  “ lassa su figu, puzzone”.

 

Ma il “Sardo“ di Gramsci non si ferma qui: alle pardulas e ai bimborimbò delle feste paesane, pure importanti. Il suo rientrare insistente nella lingua materna non è un fatto solo sentimentale. Va ben oltre. Voglio ricordare che nei primi mesi di vita studentesca nella Facoltà di Lettere a Torino i suoi interessi si rivolgono in modo particolare agli studi di glottologia di qui le sue ricerche sulla lingua sarda e il suo proposito di laurearsi, con il suo grande maestro Matteo Bartoli, proprio in glottologia. O basti pensare che si fa scrivere da due bolscevichi della “Sassari“ lo slogan della futura rivoluzione in Sardegna:” Viva sa comune sarda de sos massajos, de sos minadores, de sos pastores, de sos omines de traballu” (Avanti, edizione piemontese del 13 Luglio 1919).

 

 

Carlo V

Carlo V e la divisione dei sardisti.

 

di Francesco Casula

 

Il beffardo e impietoso giudizio di Carlo Quinto sui Sardi “pocos, locos y male unidos”, sembra perseguitarci ancora come una maledizione storica. E comunque ben si attaglia ai Sardisti, che in occasione della tornata elettorale si presenteranno sciaguratamente divisi e schierati su due fronti contrapposti: la maggioranza del Partito con il centro-destra e la minoranza con Soru. Le due scelte diverse ma speculari, hanno in comune la subalternità ai due poli italioti ma soprattutto mancano di una strategia politica. E dunque rischiano di essere disastrose per la sopravvivenza stessa del Partito sardo. Eppure la storia avrebbe dovuto insegnare qualcosa: quando il PSD’AZ si è alleato con i partiti statalisti -per una lunga fase con la DC e poi con il PCI- è stato progressivamente logorato e svuotato tanto da rischiare l’estinzione, politica prima ancora che elettorale; quando invece, con la schiena dritta, si è liberato dalla subalternità rispetto ai partiti romani, elaborando un autonomo e identitario progetto economico, sociale e culturale, ha avuto il consenso di decine di migliaia di Sardi ponendosi al centro della scena politica isolana.

 

Se il PSD’AZ piange gli Indipendentisti non ridono: anch’essi si presenteranno divisi, con ben tre liste e tre candidati a Presidente! Quando invece ci sarebbe stato bisogno di un grande terzo polo, autonomista, sardista e indipendentista, che avesse dimensioni tali da rompere l’attuale situazione politica e potesse rappresentare una scelta elettorale diversa, credibile e forte: un polo tutto sardo, contrapposto e alternativo ai due poli italiani, in grado di vincere per intraprendere una via locale alla prosperità e al benessere, facendo uscire l’Isola dalla marginalità. Ci troviamo invece, ancora una volta, di fronte alla presenza di due schieramenti guidati da proconsoli, voluti e nominati dai gerarchi dei Partiti italiani –e poco importa se si tratti di Berlusconi o di Veltroni-  che verosimilmente, chiunque vinca, come nel passato, continueranno a governare la Sardegna come una provincia d’oltre mare: buona come stazione di servizio per basi ed esercitazioni militari o come sito per sfaccendati vacanzieri milionari. C’è infatti da scommettere che nonostante le promesse elettorali mirabolanti di questi giorni, i disoccupati dovranno aspettare il lavoro, la povertà aumenterà e i licenziamenti anche.

 

Ai Nuragici era nota la scrittura

uraghe.jpguraghe.jpguraghe.jpg

di Francesco Casula

Ma i Nuragici conoscevano la scrittura? La risposta degli storici “ufficiali”, è stata ed è tuttora negativa. Nei testi scolastici –e non solo- continuiamo a leggere che “l’uso della scrittura fu introdotto dai Fenici” e dunque fu posteriore alla civiltà nuragica. Da anni però alcuni studiosi sardi hanno iniziato a mettere in discussione la storiografia ufficiale sostenendo esattamente il contrario: i Nuragici conoscevano, utilizzavano e leggevano la scrittura sillabica. Mi riferisco in modo particolare ai professori Aldo Puddu di Nuoro e Luigi Sanna di Oristano. Puddu si basa soprattutto sulla Stele di Nora –risalente a suo parere al 1300 a.C. e non al periodo fenicio-  che sarebbe il primo documento storico in assoluto di scrittura sillabica, inventata non dai fenici ma dai Lidi. L’analisi testuale e filologica –scrive Puddu in “Ulisse e Nausica in Sa Costa Smeralda- è in netto contrasto con quanto afferma la storiografia ufficiale e conferma che questa stele è la più antica di ogni altro documento scritto in caratteri “cosiddetti fenici” di Biblo, di Cartagine o qualsiasi altra città fenicia o Cananea”. Sanna che si occupa con una rigorosa e ormai decennale ricerca sull’interpretazione di antichissimi documenti di scrittura, rinvenuti in Sardegna (e non solo), è arrivato alla conclusione dell’uso della scrittura da parte dei Nuragici, documentandola in modo particolare nella sua opera “Sardoa Grammata”. Anche Sanna fa risalire con certezza al periodo nuragico la stele norense: lo confermerebbe in modo incontestabile il ritrovamento recente di un documento: un ciondolo scritto, di pietra grigio-scura, di forma ellissoidale (cm 7,5 x 4,3), contenente dei segni di scrittura graffiti in entrambe le facce. A conferma della presenza della scrittura nuragica inoltre, da più di un decennio lo studioso oristanese ha proposto soprattutto le tavolette di Tzricotu di Cabras, il sigillo di S.Imbenia di Alghero,  il coccio  di Orani. Nonostante questi documenti inoppugnabili c’è da scommettere –conclude Sanna- che da parte dei soliti negazionisti e feniciomani si cercherà di soffocare il tutto con il più rigoroso silenzio o con il fumo dei ‘se’ , dei ‘però’ e dei ‘ma’. Perché evidentemente si tratta di verità “scomode” che mettono in discussione le vecchie certezze di accademici e sovrintendenti che su di esse hanno costruito le loro carriere. (Pubblicato su Il Sardegna del 10-1-8)

Intervista a Federico

Titolo: Ollolai, intervista a Bussu Federico
Autore: Murgia Gabriele
Regia: Cabiddu Gianfranco
Montaggio: Porcu Martina
Riprese: Nieddu Stefano
Editore: Regione Autonoma della Sardegna
Produzione: Karel, Space S.p.A.
Data di registrazione: 2008/10/14
Descrizione: Impiegato comunale ed ex sindaco di Ollolai, il signor Federico Bussu traccia un quadro accattivante della vita della comunità, raccontandone aneddoti e storie di vita vissuta.

la novena di Natale

LA NOVENA DI NATALE IN SARDO

di Francesco Casula

In nomini de Babbu, de su Fillu e de s’Ispiridu Santu: è iniziata con quest’invocazione in lingua sarda sa Nuina de Pasca de Nadale, il 16 Dicembre scorso a Cagliari, nella Chiesa di San Sepolcro. Ed è proseguita fino al 24. L’iniziativa di celebrare la Novena di Natale in Sardo, è stata presa dalla Parrocchia di Sant’Eulalia e dal suo Parroco Don Mario Cugusi che con il sociologo Salvatore Cubeddu, ha coordinato l’intero progetto. Così, grazie ai testi curati da Bachisio Bandinu, don Antonio Pinna, Mario Puddu ed altri, i fedeli hanno potuto così pregare e cantare con quella lingua materna –sia nella variante campidanese che in quella logudorese, alternandole- che negli ultimi 50 anni, assurdamente, era stata esclusa dalla liturgia cristiana.

 Evidentemente le “raccomandazioni” dell’ultimo Concilio plenario sardo –conclusosi dopo 15 anni di lavoro nel luglio del 2001 a Cagliari- iniziano a dare i primi frutti. E non a caso ai fedeli è stato distribuito un opuscoletto contenente  oltre che i testi delle preghiere e dei canti anche la posizione del Concilio a proposito dell’uso del sardo nella liturgia: “su Conciliu –è scritto- fendi adobias a s’isperanzia de medas chi fintzas in sa lingua sarda bint unu mediu bonu po comunicai sa fidi a su populu nostru, ndi proponit un’avaloramentu comenti si depit. Iscit chi gratzias a sa lingua sarda is generatzionis anti passau s’una a s’atera unu grandu patrimoniu de fidi e de sabidoria cristiana chi fait parti de sa cultura de is Sardus. Sa lingua materna sarda est apretziada e onorada po is pregadorias, personalis o colletivas chi nosi anti lassau is mannus e chi tocat de arregolliri e manigiai”.

                Del resto sempre il Concilio plenario sardo nel quarto documento “Chiesa che è in Sardegna” prende in esame la specifica peculiarità della religiosità popolare nell’Isola e della sua singolare “sardità cristiana”, -ove trovano spazio e forte rilevanza anche le feste patronali, le sagre e la devozione mariana- sostenendo che il popolo sardo è sempre stato un popolo con una religiosità innata, intimamente e quasi pudicamente vissuta a livello personale, oppure manifestata ed espressa in forme artistiche e corali di grande e fervente celebrazione. “Se bene orientata – si legge nel documento conciliare- essa manifesta una sete di Dio che solo i semplici e i poveri  possono conoscere”.          

 

Convegno a Villacidro

LUIGI CADONI (Bernardu de Linas)

Convegno a Villacidro 11-12-2008

di Francesco Casula

Introduzione

E’ presente in molti Sardi un luogo comune: che la poesia in limba si esaurisca, o che comunque prevalentemente “canti” una Sardegna folclorica, “bella e galana” con un lessico ridondante, superfluo e retorico che mutua dalla tropicalità vegetale del secentismo – o se vogliamo del dannunzianesimo – la parola esuberante e frondosa.

   Una Sardegna da cartolina insomma, che piace tanto ai turisti e ai nostalgici: con le pastorellerie e gli amori leggiadri e leziosi, con i bamboleggiamenti arcadici e melici, con i balli tondi e le serenate, le vendemmie e le tosature, la solitudine dei campi e le feste, i tenores e le launeddas, la fisarmonica e l’organetto.

   Sia ben chiaro: nella poesia sarda è presente anche questa Sardegna e – io aggiungo– non tutto, anche su questo versante è da buttare: ma sicuramente non si esaurisce in essa.

   In Sardegna è esistita ed esiste anche una poesia satirica, anche con un forte timbro etico e sociale, tanto che si può tranquillamente affermare che il gusto del motteggio e della battuta scherzosa, dello sberleffo, della canzonatura e dell’ironia e, più ancora, della raffigurazione del mondo “sotto un profilo che ne metta in luce gli elementi paradossali e ridicoli, fa parte non solo del costume, ma dello stesso spirito isolano, grazie anche al forte potenziale umoristico della nostra cultura” (Michelangelo Pira in “Il meglio della grande poesia in lingua sarda, Edizioni Della Torre, Cagliari 1979, pag.145).

   Una poesia satirica, comica, umoristica e, persino ridanciana, in chiave gnomica, sentenziosa e più ancora di costume che affiora, per esempio, nelle gare poetiche degli improvvisatori ma che ha avuto in particolare tre grandi poeti sardi: il cagliaritano Efisio Pintor Sirigu, che può essere considerato il primo poeta satirico isolano; l’olzaese Diego Mele, il più celebrato dei poeti satirici in Sardegna e il macomerese Melchiorre Murenu, l’Omero dei poveri, noto soprattutto per la famosissima quartina contro la legge delle chiudende: tancas serradas a muru/fattas a s’afferr’afferra/Si sui chelu fit in terra/l’aiant serradu puru, che la tradizione gli ha attribuito e che in realtà fu scritta dal frate ozierese Gavino Achea. (vedi Storia della Sardegna di Brigaglia-Mastino-Ortu, editore Laterza, Bari 2002, pag.73) .

Si tratta per lo più di testi non più in circolazione, spesso inediti o comunque posseduti da poche biblioteche e molti, ahimè, addirittura persi, come probabilmente pare sia successo a S’egua Ghiani, un poemetto poetico di Bernardu de Linas, l’autore che mi accingo a trattare.

I poeti popolareggianti, comici, umoristici e satirici si esprimono secondo moduli che sono loro del tutto naturali, il loro linguaggio è quello nel quale si sono sempre espressi: non viene da fuori né lo hanno appreso. Ciò vale anche e soprattutto per l’autore che affrontiamo oggi: Luigi Cadoni.

1.Luigi Cadoni e il suo ereu di artisti, poeti e scrittori.

Luigi Cadoni, -più noto come Bernardu de Linas ma utilizzava anche altri pseudonimi, fra cui Bernardu Mabìu- appartiene a una famiglia o meglio a un’ereu –diremmo noi barbaricini con Antonio Pigliaru- di poeti e artisti: due che come lui devono la fama alla poesia in sardo campidanese e sono Ignazio Cogotti –fratello della madre Maria- e Gino Mannu, suo cugino. Il terzo è Giuseppe Dessì: il padre di Bernardu, Antonio Cadoni è suo prozio.

Un quarto –che da quell’ereu discende- è Efisio Cadoni, intellettuale e artista a tutto tondo e polivalente: scrittore e poeta di vaglia, scultore e pittore. Oltre che indefesso diffusore e circuitatore della storia e della cultura di Biddaxidru, ad iniziare proprio dall’opera di Bernardu de Linas. Tra i suoi scritti ricordo le raccolte di poesie Eden e oltre (1965), Lenipolis (1985), Poesie da appendere (1997), Abbecedario della cuoca amorosa. Versi da mangiare e da bere (2006); e tra i libri su Villacidro e i suoi poeti e scrittori Storia del paese d’ombre (1988) Un hibou dal volo d’aquila, scritto con Martino Contu (1994). Ha inoltre curato in edizione anastatica la pubblicazione di “Favolas”, la silloge poetica in sardo campidanese di Bernardu de Linas, su cui mi intratterrò a lungo.

Ignazio Cogotti  (zio di Bernardu de Linas)

Di questo poeta, i cui componimenti rappresentano “schizzi d’ambiente, di interni e di personaggi popolari, veloci e graffianti, sui quali si distende talora un velo di melanconia” (Leonardo Sole) si conoscono complessivamente una dozzina di composizioni tra edite e inedite. Nasce a Villacidro il 27 Gennaio 1868, si laurea a Cagliari in Giurisprudenza, esercita l’avvocatura al suo paese natale –dove fu anche sindaco- e muore nel 1946.

Il Cogotti rappresenta, con sottile ironia e umorismo, una società di povera gente senza dramma e senza frustrazioni ma anche senza aspirazioni: i suoi personaggi sono ragazze da marito che attendono da un balcone cagliaritano il passo dei fidanzati, come il cacciatore attende il passo della selvaggina. Anche l’operazione seduzione è alla buona: obiettivi la servetta paesana o la domestica casereccia che, poi, non ci stanno per nulla. Le vecchie tradizioni affiorano gustosamente dai suoi versi in:

Is picciocus de crobi che divorano agnolotti;

Su fastiggiu, l’amore dalla finestra –quello che gli spagnoli chiamano pelar la pava– fatto tutto di sguardi, di piccoli cenni e di interminabili attese con la bella ritrosa al balcone e lo spasimante che monta la guardia sul marciapiede davanti alla casa;

Su colombu, dotato delle virtù grifagne dei rapaci, avvocatucolo senza clienti e senza scrupoli, che nella Piazza Yenne aspetta il paesano sempliciotto, sprovveduto e spaventato dal mondo dei tribunali e della carta da bollo;

Po is festas de Sant’Efis in cui un pescatore della laguna di Santa Gilla è rappresentato « cun su zugu prenu ‘e oru/cun is mustazzus fattus a pinzellu »

Gino Manno

Cugino di Luigi Cadoni, nipote di secondo grado di Ignazio Cogotti  nasce a Villacidro nel 1892 dove muore nel 1969. Diplomatosi nel 1912 nell’Istituto tecnico “Pietro Martini” di Cagliari – la mia Scuola, dove  ho avuto il piacere di insegnare per trent’anni e dove ho concluso la mia docenza- “non esercitò la sua professione, preferendo il lavoro dei campi e trascorrendo gli ultimi anni della sua vita vendendo il vino di sua produzione, nella bettola-cantina-studio” come ci ricorda Efisio Cadoni in “Storia del paese d’Ombre, della Gia editrice” in cui lo definisce poeta-tavernaio.

Probabilmente è stata proprio la sua scelta di lavoro e di vita a risparmiarci un ragioniere e a regalarci un poeta, che si rivela in alcuni componimenti particolarmente originale e immaginoso, scherzoso e persino satirico e beffardo come in “Coggius de Santu Paulu” in cui, indignato e feroce si scaglia contro un alto esponente del sardo-fascismo degli anni ’20, contro la sua arrogante onnipotenza. Prima “sardista fogosu” poi “fascista spramau”; “imboscau cand’is intrepidus sardus gherranta in sa trincea”; durante il Fascismo “tenit poderi de fai bentu e de proi” ma rimane pur sempre “cun d’unu sciorbeddu de conch’e ‘e pudda”.

2. La cifra umoristico-satirica e comica di Bernardu de Linas nella sua produzione poetica e giornalistica.

Come ho già anticipato, il mio sguardo sarà rivolto esclusivamente al Bernardu de Linas poeta sardo-capidanese così come emerge dalle Favolas, il suo capolavoro, in cui dimostra maggiormente la sua cifra di poeta umoristico, satirico e comico. Anche se occorre precisare che tale cifra informa non solo le altre poesie in limba (on contenute in Favolas (1909), come la trilogia di poemetti: Cosas de arriri: Chantecler sardu o siat Sa riconciliazioni de su caboni e de su margiani (1910), Unu brutt’animali,(1911-12), S’egua Ghiani, probabilmente andato perso e Concu Franciscu Elenu (1917), un’inedito poemetto in 82 strofette che ora è contenuto, insieme alla trilogia in Un Hibou dal volo d’aquila, a cura di Efisio Cadoni e Martino Contu, che abbiamo già citato) ma anche -sia pure parzialmente- le sue uniche poesie in Italiano contenute in Fantasmagorie (!904) e persino la sua produzione giornalistica, come collaboratore del settimanale cattolico La voce del popolo.

3. “Favolas in dialetto sardu campidanesu”.

La silloge, scritta a sa manera campidanesa, avendo abbandonato s’italiana rima, dopo la protasi,che funge anche da presentazione e da dedica a un amico, nella prima parte contiene 19 poesie in cui l’autore ha per ghia Esopu e Fedru. Protagonisti delle 19 favole sono su margiani, su molenti, su cerbu, su crobu, su boi, su lioni, is topis, su mulu, su bestiolu, su cani, sa coipira, sa formiga, su lupu, s’angioni, su serpenti, sa grui, is rundileddas, su zerpedderi, sa craba, is ranas. Sono gli animali tipici di Esopo e Fedro cui il poeta si ispira ma che rielabora e reinventa personalmente e che non solo parlano in sardo ma che della Lingua sarda hanno lo spirito e il respiro vitale che nutre valori di riferimento esclusivi e precisi. Ci troviamo dunque di fronte a un lavoro che pur nel rimando a modelli letterari consacrati, mostra ampi spazi di originalità. Tanto che anche quando si tratta di animali estranei al patrimonio zoologico della Sardegna, Bernardu de Linas li riduce a una dimensione geo-antropologica precisa, che li fa sembrare animali nati e vissuti in precisi  ambienti de Biddaxidru: come nel suo cortile sulla Fluminera: toponimo che ben conosciamo da Giuseppe Dessì che in Paese d’Ombre lo ricorda più volte.

In secondo luogo a fare la parte del leone è su margiani, protagonista in ben 8 poesie: e questo “presenzialismo” non è casuale. La volpe è l’animale più detestato in Sardegna. Soprattutto dai pastori. Per i danni che fa alle greggi, per i metodi perfidi con cui compie le sue stragi, per il suo continuo nascondersi che l’ha fatta assurgere a simbolo di inaffidabilità. La condanna della volpe da parte del sapere proverbiale dei sardi è senza appello, soprattutto nel mondo agropastorale. Non b’at matzone chi non fetat fine mala, recita un antico diciu sardu. E un altro: donzi matzone benit a perder sa coa. Curiosamente, espressione e paradigma di questo adagio sardo è proprio una poesia di Bernardu de Linas, anzi la prima delle Favolas: Comente margiani iat perdiu sa coa. La sua “volpinità” infatti non serve per salvarlo de unu lazzu potenti che lo rende unu margiani scoau.

I poeti in lingua sarda –soprattutto quelli più radicati nel mondo della campagna- si sono sbizzarriti a cimentarsi –come appunto Bernardu de Linas- sul tema della volpe e della ”volpinità”.

Penso a questo proposito a un poeta di oggi, come Franciscu Carlini, che della volpe parla in ben sei “Faulas in versus e in prosa” contenute nella silloge bilingue, che non a caso titola Marxani Ghiani e Ateras Faulas (edita da Edes, Sassari 2005) e che altrettanto non a caso, dedica proprio a Bernardu de Linas scrivendo: “Pro ammentu de su poeta satiricu Luisu Cadoni, alias Bernardu de Linas”.

Anche Carlini  (per cui però gli animali si vestono dei panni di veri e propri personaggi -e dunque hanno dei nomi precisi- più che essere come nelle favole tradizionali figure simboliche dei vizi umani) considera su marxani l’espressione precipua della furberia e del bugiardo che con facilità inganna “Is puddastas biancas”, ovvero i deboli e gli ingenui.

Ma sempre a proposito di altri poeti sardi che dedicano la loro poesia alla volpe voglio riprendere un famoso sonetto di Remundu Piras, il principe dei poeti improvvisatori sardi, dal titolo proprio Su matzone, ricordato da Paolo Pillonca, nella Introduzione a Contos chena tempus, una silloge poetica di favole che si ispirano a Esopo, Fedro, La Fontaine e Trilussa, di Pinuccio Canu, di Buddusò, un giovane e interessante poeta in limba sardo-logudorese, che ha al suo attivo anche un’altra bella silloge, Sa Rujada (L’attraversamento), che ho avuto il piacere di presentare a Rivoli e a Torino, davanti a centinaia di emigrati sardi entusiasti. Questa volta su matzone finisce male: come su margiani scoau di Bernardu De Linas.

Matzone

De sos matzones est destinu sumu

chi totu finin in mala manera.

Primu faghen sas bamas a bisera

ispaconende cun sa coa a pumu.

Poi morin de mossu o de piumu

o isbarrados cun nughe fiera,

tentos a canes o a matzonera

o in sa tana annegados a fumu.

E si calcunu pro sorte o pro trassas

imbetzat, isdentadu e iscunfusu

faghet sa fine trista ‘e sas bagassas.

Da chi non podet furare piusu

tando isconcat invece ‘e puddas rassas

calchi tilingia o calchi carrabusu.

(Il destino irrevocabile delle volpi è questo: tutte fanno una brutta fine. Dapprima compiono stragi di greggi, menando vanto della loro coda a piumino. Poi muoiono avvelenate, o colpite da armi da fuoco, oppure straziate da bombette, o an­che soffocate dal fumo all’interno della tana. E se qualcuna, per destino o grazie alla sua astuzia, riesce a in­vecchare, una volta persi i denti e il brio, fa la misera fine delle prostitute. Quando non può più rapinare, allora si nutre, anziché di galline grasse, di lombrichi e scarafaggi.)

4. “Atteras poesias umoristicas”

Nella seconda parte della silloge sono contenute invece 28 poesias diversas, che trattano argomenti vari e plurimi: infatti fattu prus baldanzosu, Bernardu dice adiosu a Esopu e Fedru per sighiri su viaggiu a solu, tostorrudu che unu bestiolu!!! .

E così la sua poesia, “il suo cantare vernacolo –scrive opportunamente Efisio Cadoni nella prefazione all’edizione di Favolas della Gia del 1987- “si fa più libero e forte, più elegante, più incisivo, più musicale, ricco di novità, di invenzioni, di storie, di personaggi affascinanti, trainanti, simpatici”.

Svincolato infatti da qualsiasi ascendenza o riferimento ad altri poeti, la sua poesia vola più libera e briosa, divertente e saporosa, segnatamente nei migliori sonetti in cui mette in luce gli aspetti paradossali, ridicoli, comici: penso a Su studiantichi fiat tontu che unu bestiolu” e che “po no fai un’accabu troppu miserabili/s’arruolat sergenti o guardia de presoni” mandando così in frantumi le speranze, le attese e le aspettative  della madre che lo sognava e desiderava “cun tanti de laurea o predi o generali”.

Ma eccolo integralmente il sonetto:

Su studianti.

Dogna mamma bramat tenni unu pippiu

in su cursu tecnicu o in su ginnasiali,

po chi cun su tempus ddu biat istruiu

cun tanti de laurea o predi o generali

Però candu in zucca portat pagu sali

su bravu studianti fattu bagadiu,

s’impiegu non benit e su capitali

intanti nci hat perdiu su babbu pentiu

Aici sa famiglia s’atturat in dolu

prangendi su fillu chi crediat abili

mentras chi fiat tontu che unu bestiolu

E su studianteddu senza occupazioni,

po non fai un accabbu troppu miserabili,

s’arruolat sergenti o guardia de presoni.

O penso a Maistru Cicciu:nasciu in Casteddu, basciteddu che unu fazzoni, sabateri de professioni, sabiu e onestissimu” ma che nonostante lavori “totu sa dì” non riesce mai ad arricchirsi. Si tratta di un sonetto di una musicalità scoppiettante, pirotecnica, travolgente.

Eccolo

Mastru Cicciu

Seu Maistru Cicciu

nasciu in Casteddu

e seu basciteddu

che unu fazzoni

de professionis

seu sabateri

comenti portu

scrittu ‘n paperi

sabiu e onestissimu

e gentilissimu

totus mi stimant

innoi e innì.

         

Ma traballendi

Totu sa dì

Mai no arenesciu

De arriccaimì       

Mancai mi praxiat

sa carraffina

deu sa faina

no lassu mai

Sciu traballai

finzas dormiu

ma traballendi

bessit puliu

bellu bellissimu

i elegantissimu

comenti totus

podinti bì.

        Ma, traballendi….

Deu po is messaius

e is messadoris

e po is signoris

e is signorinus

fazzu bottinus

e stivaleddus

biancus, asullus

grogus e nieddus

Aici benissimu

-seu segurissimu-

un atru maistru

non scit così.

Ma traballendi…

De is mesusolas

chi deu sciu ponni

finzas a Fonni

sa fama bandat.

Si raccumandat

dognunu a mei

poita non struppiu

mai unu pei

e divotissimu

pregu s’Altissimu

chi a su rei puru

pozza serbì.

Ma traballendi….

Ma candu is contus

mi andant mali

deu su stivali

pongu a una parti

e cun bell’arti

pensu de andai

a comprai roba

senza dinai

E segurissimu

de fai malissimu

paghendi is depidus

non m’hant a bì.

Ma traballendi…

In su dominigu

nudda no toccu

ca is leis de Coccu

depu osservai

e po onorai

santu Crispinu

buffu dus litrus

o tres de binu

Aici allirghissimu

soddisfattissimu

solu su lunis

torru a così.

Ma traballendi…

La straordinaria e prorompente musicalità del verso e della parola è presente anche in molti altri sonetti: segnalo in modo particolare Su molenti de ziu Nassissu e De mal in peus. A quest’ultimo però probabilmente nuoce un insistito moralismo predicatorio nella denuncia dei “lazzaronis, usuraios e Epulonis” ma soprattutto nell’attacco ai “lupus massonicus e socialistas, scetticus materialistas” campioni dei vizi del secolo (peus- secondo il poeta- de s’ateru): dall’ipocrisia alla superbia e alla boria. Per colpa di massoni e socialisti “su spiritu anticristianu/in mes’ ‘e is populus/regnat sovranu”. Spirito anticristiano e “miscredenzia” che secondo il poeta –in una visione cristiana che oggi potremmo definire fondamentalista e integralista- contribuisce alla crescita “de sa delinquenzia”.

5. La musicalità nella poesia di Dernardu de Linas.

Un tratto precipuo della poesia di Bernardu de Linas è dunque la musicalità: tanto che quasi tutti i suoi componimenti possiamo considerarli dei “Canti”. E per il canto Bernardu de Linas mostra una naturale attitudine. Come per il verso: che carezza e coccola e che tesse abilmente tanto che il suo lavoro –nei momenti migliori- si risolve nella cadenza della strofa, nel giro musicale della frase, nella misura metrica di ritmi sapientemente scanditi grazie a un orecchio musicale che crea sinfonismi e fonie, onomatopee e cromatismi, ritmi, assonanze e consonanze.

Certo occorre anche dire che la musicalità è un tratto tipico della stessa lingua sarda. La Lingua materna, il dantesco “parlar materno”  – per noi il Sardo– è infatti la prima lingua della poesia e della musica. Per il bambino, l’infante, che l’apprende direttamente dalla madre, appunto, essa è soprattutto senso, suoni, musica: lingua di vocali. Dunque corporale e fisica e insieme aerea, leggera e impalpabile. E le vocali sono per il poeta l’anima della lingua, sono il nesso fra la lingua e il canto; fra la poesia, i numeri della musica, il ritmo e il ballo. Tanto che, storicamente, i confini fra poesia e musica e danza, sono sempre stati labili e sfumati a tal punto che gli antichi poeti – gli aedi greci per esempio – non scrivevano poesie ma le cantavano, accompagnandosi con la lira: non a caso nasce il termine “lirica” e “aoidòs” in greco significa “cantore”.

Ma “cantano” oltre a Omero (Cantami o diva del pelide Achille…) anche Dante e Petrarca, Ariosto e Tasso e Leopardi. E i “cantadores” sardi, soprattutto gli improvvisatori.

Cantano con quella lingua materna che riassume la fisionomia, il timbro, l’energia inventiva, la cultura, la civiltà peculiare del nostro popolo. Una lingua – il Sardo – che è insieme memoria e universo di saperi e di suoni. Che sottende –talvolta in modo nascosto e subliminale– senso e insieme oltresenso, musica, ritmo e ballo.

6. Il tono della poesia di  Favolas

Prevale nella poesia di Favolas, un tono medio, per così dire ariostesco o, se vogliamo, oraziano: un tono arguto, brioso, vivace, quasi scoppiettante e sempre divertito e divertente. E insieme ironico e autoironico: mi riferisco –ma è solo un esempio- alla poesia che conchiude la silloge di Favolas e che ha per titolo “Morali”. In questa, dopo aver amabilmente ironizzato su una serie di personaggi (Maitagattu Sebastianu/est unu umili pittori/chi pofinzas a Tizianu/si creit di essi superiori; Ziu Bissenti Peitrebiu/poita liggit su breviariu/si creit di essiri istruiu/cant’e prus de su vicariu), ironizza anche su se stesso, e non solo per una sorta di par condicio: E deu puru chi mi creu/u’ segundu La Fontane /a sa fini it’est chi seu?/Un hibou fade e vilain!

In tal modo nelle Favolas il poeta villacidrese rivela –cito ancora il suo massimo studioso che è Efisio Cadoni- “la sua multiforme ironia, sdegnosa, scanzonata e canzonatoria, satirica, sottilmente dissimulatoria, paesanamente arguta… capace di saper ridere, per superare le angosce e le amarezze della vita, di tutto, di tutti e di se stesso”.

Cui aggiungerei il sapore della caricatura e della parodia, improntata però alla moderazione: che non sconfina cioè nello scherno furioso, nell’odio o nell’ira. Anche quando è mosso dall’indignazione o da un’esigenza etico-religiosa cristiana, molto forte e sentita e vuole frustare e fustigare i vizi e le miserie umane, gli errori e i tic de is concas de cipudda (vedi in particolare l’ultima poesia delle Favolas, intitolata Morali e già citata) lo fa bonariamente: per così dire, ridendo castigat mores. In cui “sa critica” –come scriverà programmaticamente in Sa torrada a s’Elicona– si coniuga sempre “cun s’ingredienti de sa pietade”.

Solo nei confronti di un assassinu (nella poesia A unu assassinu) perde in qualche modo il consueto equilibrio e tono medio ricorrendo a epiteti forti e particolarmente duri: “vili delinquenti…maledittu…su rimorsu però de su delittu/e su tristu arregordu de is feridas/t’hat atturai ‘n su coru eternamenti!” 7. Il Sardo-campidanese di Bernardu de Linas. Dopo l’esperienza poetica giovanile di Fantasmagorie, Bernardu de Linas verseggerà esclusivamente in lingua sarda: in cui, fra l’altro, darà il meglio di sé, segnatamente con il suo capolavoro Favolas. Forse non è casuale: gli è infatti che solo la lingua materna gli permetteva di “cantare” –a sa manera campidanesaliberamente, il suo mondo, ovvero senza lacci né ascendenze letterarie esterne: di Pascoli o Carducci poco importa Una lingua, che il poeta ben conosce, padroneggia, curva e piega a suo piacimento, plasmandola e curandola con maestria e sicurezza. Una lingua, quella sardo-campidanese, comunque che già di per se stessa risulta particolarmente adatta per esprimere la satira, il comico, l’ironico, il giocoso: più delle altre varianti della lingua sarda. Forse perché lo stesso dizionario di immagini, lo stesso lessico dei modi di dire e di schemi figurativi possiede già al suo interno idee e impressioni atteggiate dall’anima popolare nella forma del paradosso, della battuta, della satira. Questo spiega –fra l’altro- perché in sardo-capidanese sono state prodotti capolavori come Sa scomunica de predi Antiogu. Il sardo del poeta villacidrese inoltre si rivela –come il poeta stesso si era augurato e promesso- “tersu e luxenti, plenu de musica, de forza e briu”. Ovvero lingua duttile e flessibile, viva, fresca e prorompente, pregnante, espressiva e altamente significante, in grado di tradurre le abbondanti metafore e allegorie, le sentenze e le massime epigrammatiche, i simboli e le allusioni, i paradossi e i giochi di parole. Ma anche le ripetizioni, le contrazioni sintattiche e le brachilogie. Pur poetando in sardo-campidanese, Bernardo de Linas conosce e padroneggia anche il logudorese: in questa variante compone Risposta de Citerea, contenuta in Favolas. E anche questo non è casuale: molti cantadores e poeti campidanesi utilizzavano anche il logudorese come lingua veicolare dei loro componimenti, evidentemente ritenendolo –a torto o ragione poco importa- la variante più letteraria della Lingua sarda. 8. Gli italianismi delle Favolas. Certo, come già fece il critico de l’Unione sarda del 7 Dicembre 1909, recensendo le poesie di Favolas nella rubrica della pagina culturale “Fra libri e giornali”, si può rimproverare al suo lessico un eccessivo ricorso a degli italianismi (pugnali, soggezioni, contadinu, grandissima paura, discosceso, maliarda, zucca, maditabundu, ottobri, cretinu, lingua sporca,). Ed effettivamente alcuni di questi lessemi sono improponibili: anche perché il sardo possiede i termini corrispettivi. E ancor più inaccettabili sono i superlativi assoluti, copiosamente presenti, segnatamente nella poesia Mastru Ciccia,(onestissimu,gentilissimu,bellissimu,elegantissimu,benissimu,segurissimu,divotissimu,segurissimu,malissimu,allirghissimu,soddisfattissimu): la lingua sarda infatti non prevede né ammette il superlativo assoluto con il suffisso –ìssimu. Questo è presente nella lingua italiana e latina. Al massimo nella lingua sarda il superlativo assoluto in –issimu si può utilizzare come nome, ma mai come aggettivo: es. su Santissimu, sa Purissima, s’Altissimu (utilizzato, questa volta a proposito, proprio da Bernardu de Linas nella già citata poesia Mastru Cicciu). Curiosamente però si tratta della stessa accusa che molti critici rivolsero a Montanaru, il grande poeta desulese, più o meno contemporaneo di Bernardu de Linas. A tale critici ha risposto Michelangelo Pira. Antioco Casula –scrive- “Sentì il sardo come volgare vivo, arricchendolo degli apporti nuovi che gli venivano dalla Lingua italiana, verificandolo nel parlare quotidiano, non ancora logorato o imbalsamato dall’uso scritto. Egli tentò in definitiva l’integrazione possibile con la lingua italiana all’interno della lingua sarda, facendo brillare in ogni vocabolo di questa quel che <nell’esausta parola italiana aveva perduto ogni sapore>”. La lingua sarda italianizzante –prosegue Pira- fu rimproverata a Montanaru. Ma altri che dopo di lui hanno tentato la strada della lingua sarda si sono smarriti e non hanno fatto più ritorno. Essi non sapevano o non sanno quel che Montanaru aveva capito d’istinto: che nel nostro secolo il sardo venuto a contatto con la lingua italiana è venuto modificandosi nelle sue strutture lessicali, sintattiche, morfologiche, fonetiche e semantiche. Con Montanaru il sardo fu ancora una volta lingua, mentre già nelle poesie nuoresi del Satta aveva un sapore dialettale” (Michelangelo Pira, Sardegna fra due lingue, Quaderni di Radio Cagliari, La Zattera editrice, Cagliari 1968, pag. 122). Si tratta di una risposta autorevole e importante ma che non mi convince del tutto.   9. Poeta dallo “spirito locale”? E’ sicuramente un poeta dallo <spirito locale> – scrive Martino Contu nell’antologia <Un hibou dal volo d’aquila>nel senso che il suo legame con il paese  e più in generale con la provincia spiega quasi tutta la sua poesia. Ma non è un poeta culturalmente isolato”. Sono d’accordo ma direi di più. Anzi, per spiegare il rapporto della poesia di Bernardu de Linas con Villacidro, la provincia e la Sardegna intera, penso che occorra rispondere –si licet parare magna cun parvis- come fece il suo illustre compaesano, Giuseppe Dessì che proprio a proposito del rapporto dello scrittore e delle sue opere con la Sardegna , nell’introduzione ai Passeri (1955) si domandava e rispondeva: “Perché in Sardegna? mi si chiederà ancora una volta. Perché a parte le ragioni storiche e artistiche che richiederebbero un troppo lungo discorso, come ci insegnano Spinosa, Leibniz, Einstein e Merleau-Ponty, ogni punto dell’universo è anche il centro dell’universo”. In ciò in sintonia con il grande romanziere francese Honoré de Balzac che diceva “Se vuoi essere veramente universale parla del paese dove sei nato” o con il nostro più grande poeta e scrittore etnico, Francesco Masala che ripeteva sempre: “Parla del tuo campanile e parlerai del mondo intero”: a significare che ogni piccolo paese contiene i problemi dell’umanità e laddove vive un solo uomo sono presenti tutti gli aspetti dell’universo umano. O infine con l’antropologo e scrittore Giulio Angioni, che nel suo ultimo e bel romanzo Afa, sostanzialmente sostiene –questo almeno a me pare- che scrivere della Sardegna possa essere il modo più adatto per scrivere del mondo (Afa, Sellerio editore, Palermo, 2008, pag.60). Mi sta quindi bene la definizione di Bernardu de Linas come poeta dallo “spirito locale”, purchè non si intenda “locale” in senso limitativo e angusto. I suoi personaggi infatti –e poco importa che siant a quattru cambas o a dus peis,– non sono rinchiusi e incatenati a Villacidro o nel Campidano o nella Sardegna, isolati e separati dal mondo: la microstoria dei personaggi di Bernardu de Linas (on le loro manie e ubbie  ma soprattutto con i loro vizi -avarizia prima di tutto- o le loro mediocrità -supponenza, vanagloria, superstizione, pettegolezzo, conformismo modaiolo, boria, presunzione-: pensiamo, a proposito di questi due ultimi “vizi”, al signor Semproniu Mustaioni nel sonetto “Affroddieri”- si dilata infatti a rappresentazione della generale condizione umana. E le stesse vicende, storie e luoghi sono momenti di una geografia più vasta, nel suo valore simbolico e universale. 10. Bernardu de Linas dimenticato? Efisio Cadoni, nella prefazione all’edizione da lui curata nel 1997, lamenta il sostanziale il silenzio –e conseguentemente la scarsa diffusione- dell’opera poetica di Bernardu de Linas, a cento anni dalla sua nascita. Ebbene a me pare che una risposta, a proposito della “dimenticanza” della sua poesia e di quella in sardo-campidanese in genere, l’abbia offerta Francesco Alziator (nell’Introduzione a Testi campidanesi di poesie popolareggianti”, Cagliari Filli Fossataro editori, 1969) quando scrive: “Questa scarsa diffusione lo si deve forse anche al fatto che in realtà la poesia in dialetto campidanese, anche se questo è il più diffuso nell’Isola, non ha mai avuto un grande successo fra i Sardi…ha infatti sempre gravato un doppio anatema: l’antico universale disprezzo per la poesia dialettale e il preconcetto che il logudorese sia l’idioma letterario per eccellenza”. Sono convinzioni –sostiene Alziator– tanto superate che non varrebbe neppure la pena di parlarne, se non apparisse così duro a morire: si tratta infatti un pregiudizio sommamente inveterato e  risalente ai primi studiosi della lingua sarda, a cominciare dal canonico Giovanni Spanu. Che non a caso  è nativo logudorese (di Ploaghe).

 

Già il Parini,-ai tempi della brutale polemica contro l’uso del dialetto scatenata dal suo vecchio maestro, il Padre Onofrio Branda, durata dal 1756 al 1760 e nella quale se s’ha da credere al Manzoni si venne addirittura alle mani- aveva affermato che <in ciascuna delle lingue dire e scrivere si possono belle e ottime cose, perocchè le voci ondesse constano sono per se medesime indifferenti e capaci di qualunque forma loro si doni> (Giuseppe Parini, A padre D. Onofrio Branda, ora in Tutte le opere di G. Parini, Firenze 1925, pag.575.) Voglio augurarmi che questo Convegno dia un contributo per il disseppellimento della poesia di Bernardu de Linas con la speranza che altri se ne organizzino per ricordare e studiare la sua poesia come quella in sardo-campidanese di tanti altri, ad iniziare da quella di Ignazio Cogotti, Gino Mannu e, perché no? anche quella in italiano di Efisio Cadoni.

Sardegna radio

 

Pastores Tenores 3.0
In podcast la manifestazione di Ollolai
Autunno in Barbagia con il canto a Tenore. L’11 e il 12 ottobre si è svolta a Ollolai una bella rassegna di canto durante Cortes Apertas. Sardegna Radio ha registrato la manifestazione che potrete ascoltare in podcast con i gruppi di Bortigali, Buddusò, Fonni, Norbello, Ollolai, Oniferi, Orgosolo, Orotelli, Orune, Ottana, Ovodda, Posada, Sindia, Tiana, Thiesi, Torpè, con il supporto di un breve filmato, di circa 5 minuti, che sintetizza l’andamento delle due giornate.

pastores_150.jpg

 

 

 

http://www.sardegnaradio.it/