
ANCORA RECORD NEGATIVI PER LA SCUOLA SARDA

L’aneddoto
TRE BANDITI E UN PASTORE
IL VOTO E LA DEMOCRAZIA
di Francesco Casula
Su biadu de Michele Columbu, ollolaese, scomparso nel 2012, ultimo grande patriarca del Sardismo, già deputato ed europarlamentare, ma soprattutto straordinario e delizioso scrittore bilingue, era solito raccontare questo aneddoto.
Un giorno tre banditi irrompono in un ovile di un pastore mentre nel suo pinnetu sta confezionando il formaggio. In modo brusco gli intimano di consegnare il fucile. Sai gli dice uno, per il mestiere che facciamo le armi sono indispensabili. Replica il pastore: non posso darvelo perché, insieme ai cani, è l’unica arma di cui dispongo per difendermi.
A fronte della prepotenza dei tre, è costretto a consegnare il fucile. Ma non è finita. Uno dei brutti ceffi che pare essere il capo, fruga nella tasca della giacca e si impadronisce del portafoglio, zeppo di soldi frutto di una vendita di una partita di formaggi: l’incasso di mesi e mesi di lavoro.
Il pastore cerca di opporsi, protestando con forza. Ma deve rassegnarsi: si impadroniscono dell’intera somma.
Ma ancora non è finita. Sai, gli dice il capo dei delinquenti, questi soldi non ci bastano. Abbiamo bisogno delle tue pecore, dell’intero gregge. Inviperito il pastore non ci vede più, si alza e cerca di aggredire un bandito. Il capo, stranamente conciliante, di dice disposto al dialogo. Anzi, afferma che non è giusto che gli sequestrino il gregge con la forza e la violenza. Occorre rispettare le regole e la democrazia. La decisione deve essere affidata al voto.
E votano. Il risultato è scontato: 3 a 1.
Sia pure sotto cobertàntzia, miei quattro lettori, avrete capito il significato, così va la storia: l’Italia (con il suo parlamento) vota, rispetta le regole e, in nome dell’interesse nazionale ha deciso e decide che la Sardegna deve sopportare il 60% delle servitù militari. Ha deciso e decide che il suo mare e la sua terra devono essere base, tanto per dire, di nuove servitù: quelle energetiche. La Sardegna serve alle multinazionali di mezzo mondo per realizzare nel nostro mare e nella nostra terra affari e profitti immani. Lasciando ai Sardi briciole e fra qualche decina di anni ferrovecchio arrugginito da smaltire.
Si vota anche il 25 settembre prossimo e il risultato è scontato. I banditi, vinceranno, come
sempre.
Vicenda Draghi
Media e intellettuali: cortigianeschi.
di Francesco Casula
La vicenda della “caduta” di Draghi è stata la cartina di tornasole per capire e verificare lo “status” dei media e degli intellettuali: tutti (o quasi) sempre più proni e genuflessi a fronte del banchiere, del potere e dei potenti.
Povero Shakespeare: Sono venuto a seppellire Cesare, non a tesserne l’elogio. (Orazione di Antonio).
Giornalisti (viepiù pisciatinteris e imbrutta papari) e intellettuali che rispondono ai Principi odierni. E la loro “scrittura” continua a darci un’informazione deformata e mistificata quando non falsa: tesa com’è a non disturbare i manovratori e comunque a non rompere gli equilibri del potere e dei potenti.
Ma il ruolo e la funzione della scrittura, dell’informazione, dell’intellettuale non doveva essere quello di svolgere una funzione critica? Facendo il cane da guardia della libertà?
A dolu mannu si sono ridotti a fare i cagnolini, carinamente fedeli, al potente di turno.
A questo proposito può essere molto utile andare a rileggersi Voltaire che nel suo “Del principe e delle lettere” ci esorta a meditare su questo concetto:”Se compito della letteratura è rivelare all’uomo le verità del suo animo, il suo campo non può essere che quello della libertà. La conseguenza è che la letteratura e l’opera dell’intellettuale in genere deve essere mantenuta separata dal potere, qualunque forma esso assuma, altrimenti significherebbe abdicare alla propria funzione di libertà”.
Sullo stesso crinale si muove Varlan Shalamov, uno scrittore perseguitato dal fu regime sovietico che sosteneva che “ogni scrittura è sempre una scrittura contro il potere”; o Albert Camus, secondo cui lo scrittore doveva essere la sentinella dei diritti dell’uomo e presidiare la dignità umana, dovunque fosse violata, facendo emergere –come sosteneva Gorky, ciò che è in ombra.
Certo, scrivere contro il potere comporta dei rischi: penso a Anna Politowskaja, (ma anche a tanti altri), la giornalista russa ammazzata sotto casa per aver scritto diversi articoli e soprattutto un libro sulla Cecenia fortemente critico nei confronti dell’autocrate-dittatore Putin. Ma questi rischi bisogna correrli: salvo diventare complici e correi con il potere e i potenti, anche i più nefasti e criminali.
Ricordando Sigismondo Arquer a 450anni dalla sua tragica morte.
di Francesco Casula
Ricorre quest’anno il 450°° anniversario della morte di Sigismondo Arquer, calaritanum sanctae theologiae et iuris utriuque doctorem.
Nasce a Cagliari nel 1530, a 14 anni studia legge nell’università di Pisa dove nel maggio del 1547 consegue la laurea in Diritto civile e canonico, mentre nell’università di Siena si laurea in Teologia.
Nominato avvocato fiscale dello Stato, allora una carica di assoluto rilievo, ritorna nella capitale sarda: ma ben presto grazie agli intrighi e all’ostilità di alcune famiglie nobili (gli Aymerich, Aragall, Torellas, Zapata), evidentemente “colpite” dalla sua azione di avvocato fiscale, verrà accusato di luteranesimo.
L’accurata istruttoria verrà condotta dall’arcivescovo di Cagliari Antonio Parragues de Castillejo, che lo manderà ampiamente assolto. Ma la persecuzione nei suoi confronti continuerà dopo la nomina a inquisitore di don Diego Calvo. Questi riaprì il processo che fu caratterizzato da fasi viepiù drammatiche: fu infatti arrestato e sottoposto a torture.
L’Arquer respinse ogni addebito ma fu ugualmente condotto in Spagna in stato d’arresto. Per salvarsi la vita, ricorse anche alla fuga dal carcere, ma una volta ripreso, trascorse il successivo lungo periodo di detenzione (sette anni e otto mesi) scrivendo un appassionato memoriale difensivo, Passione, in cui rivendica la sua innocenza: anzi, si dichiarerà martire della vera fede, schernendo quegli stessi ministri del culto che lo esortavano al pentimento. Per questo, durante il terribile auto da fé lo si metterà alla sbarra prima che venisse addossato al palo, e i carnefici vedendo che non solo non si pentiva ma che anzi esaltava il suo martirio, lo trafiggeranno con le lance e lo getteranno poi nel rogo degli eretici. Così morirà, bruciato vivo, il 4 Giugno del 1571 a Toledo, in Plaza de Zocodover.
Un vero e proprio martire della libertà: un Giordano Bruno sardo. Di cui però, a partire dalla Scuola, non si parla mai. Ed è dimenticato dagli stessi sardi. Eppure si tratta di un intellettuale di caratura europea: è plurilingue ed è l’autore della prima storia della Sardegna: Sardiniae brevis historia et descriptio, cui era allegata una carta dell’isola e una veduta di Cagliari (Tabula corographica insulae ac metropolis illustrata).
Sebastian Münster, il grande intellettuale luterano, geografo e cartografo, vorrà che la storia di Arquer, fosse inserita nei suoi Libri VI Cosmographiae Universalis. Ricordo che la Biblioteca del Comune di Cagliari ha la fortuna e il privilegio di possedere un esemplare del testo originario, nell’edizione latina del 1550.
Arquer scrive Sardiniae brevis historia et descriptio durante il soggiorno basileense, dal 21 Aprile al 5 Giugno del 1549, dove conosce il Münster: è un brevissimo saggio di 12 pagine articolato in sette paragrafi, redatto in un latino di rara concisione raffinatezza e incisività. Si tratta di un’opera informativa più che storica da cui emerge un agile ritratto della Sardegna del tempo, corredato da buone illustrazioni quali la carta dell’Isola, la riproduzione del muflone e la pianta schematica di Cagliari.
Poche pagine ma fitte di notizie, spesso di prima mano, di giudizi critici su alcune credenze superstiziose, di indagini sui problemi della lingua dei sardi, che confronta con il catalano e il latino, portando ad esempio una trascrizione del Pater Noster in queste tre lingue. Sempre sulla lingua sarda scrive che ne rimase corrotta poiché nell’Isola sopraggiunsero diversi popoli… ma i Sardi fra loro si intendono ugualmente bene. A proposito dei Sardi che non si capiscono!
Particolarmente interessanti il quadro che offre della fauna della Sardegna, le informazioni sulle terme, sulle miniere, sulle saline. Più discutibili invece le brevi note sulle antiche vicende storiche che si rifanno alle fonti classiche, che affondano abbondantemente le loro radici nelle leggende e nei miti. Non manca un accenno alla validità e bontà della Carta de Logu di Eleonora d’Arborea, la Costituzione della Sardegna in vigore dal 1392 e nel capitolo VII, un quadro che riguarda le magistrature, le condizioni della religione, della cultura, della morale in genere nonché delle condizioni economiche che si riflettono nell’uso del vestiario più o meno di lusso.
Il “librillo” – così lo chiama l’autore – è privo di organicità e anche piuttosto frammentario tanto che l’Arquer, conscio dell’incompletezza, ci fa sapere che nutre il proposito di scrivere una più completa storia dei Sardi, si dominus requiem e ocium dederit. Pace e tempo libero che purtroppo gli mancarono. In ogni caso la qualità intrinseca dell’opera, unita al prestigio della collocazione nella quale apparve, fanno della Sardiniae brevis historia et descriptio una pietra miliare nel panorama delle lettere isolane, anche perché si tratta dell’archetipo di una serie di scritti del genere letterario storico-descrittivo, destinato ad affermarsi con i secoli nella cultura isolana.
E la sua eresia? Lo storico Dionigi Scano, autore dello studio più ampio sull’Arquer, sostiene che il luteranesimo non fu che un pretesto di cui si servì la classe nobiliare cagliaritana per disfarsi di un terribile avversario. E sarebbe dunque la Cagliari della prima metà del ‘500, con i suoi odi e le lotte intestine a segnare la fine drammatica di Sigismondo Arquer.
E certo non lo aiutò quella critica fulminante e severa (eppure sacrosanta) che rivolse, sempre nella sua Historia a preti e frati, ignoranti e lascivi: Sacerdotes indoctissimi sunt, ut raros inter eos, sicut et apud monachos, inveniatur, qui latinam intelligat linguam. Habent suas concubinas, maioremque dant operam procreandis filiis quam legendis libris. O la dura denuncia contro gli inquisitori : tengono in carcere per molti anni dei poveri infelici e li interrogano e li sottopongono a torture prima di decidere se devono condannarli o assolverli”.
Plurilingue, conosce il latino, l’italiano (che ha imparato a Pisa e Siena, durante l’Università), il castigliano (la lingua allora ufficiale), il catalano e il sardo: le due sue lingue materne, il sardo per parte di madre e il catalano per parte di padre. In catalano e in sardo tradurrà il Pater noster, mentre scriverà la Passione e altre brevi preghiere i castigliano che per lui diventerà, come sosteneva l’imperatore Carlo V, la lingua para hablar con Dios.
I VOLTAGABBANA
Il fenomeno del trasformismo politico e dei voltagabbana è un fenomeno storico tipicamente italico. Da sempre. Fu praticato già nel Parlamento subalpino nel 1852 con il connubbio Rattazzi-Cavour e ancor più nel nuovo stato unitario con Depretis prima : teorizzato e giustificato oltre che praticato e con Giolitti poi.
Durante il fascismo il ”trasformismo” riguarderà l’intero (o quasi) popolo italiano che diventerà “fascista”. Come poi sarà “antifascista” (tutto o quasi), dopo la caduta del regime.
Ma a livello parlamentare si accentua enormemente nelle ultime tre legislature.
Nella XVI (Governi di Berlusconi e Monti) sono 180 i cambi di casacca.
Nella XVII (Governi di Letta, Renzi e Gentiloni) i voltagabbana sono 324 (il 34,11% dell’intero Parlamento).
Nella XVVIII (quella attuale) i cambi di casacca sono stati 256 (72 nel 2019; 58 nel 2020; 126 nel 2021).
Cui occorrerà aggiungere i voltagabbana grillini di questi giorni: pare 60. Si aggiungerebbero ai 256. E dunque arriverebbero a 316.
Da sottolineare che in tutte e tre legislature molti la “casacca” l’hanno cambiata addirittuta più volte! Per cui i dati che ho riportato si ingrossano smisuratamente!
Non c’è bisogno di commenti.
Solo un interrogativo: ci si continuerà a lamentare per l’astensione, arrivata ormai al 50% e più degli elettori?