VIETNAM:una guerra “sporca” e dimenticata di Francesco Casula

Vietnam:una guerra “sporca” e dimenticata. di Francesco Casula

Vietnam: una guerra “sporca” e dimenticata. Sia ben chiaro: nessuna guerra può essere considerata pulita:ma ve ne sono alcune più “sporche” di altre. E’ il caso della guerra americana contro il Vietnam: perché pur essendo ormai finita e conclusa da decenni (1975), al presente consegna ancora effetti devastanti, con ferite insanabili, nelle persone e nell’ecosistema.I Vietnamiti sono usciti da qualche anno dal brutale colonialismo francese, durato quasi cento anni (1858-1954) quando nel 1961 vengono aggrediti dalla potenza più grande del mondo, gli Stati Uniti (armati ed equipaggiati 800 volte più dei vietnamiti), che in 14 anni di guerra (1961-1975) causeranno ben 2.313.000 morti civili, durante i combattimenti  o sotto gli oltre 14 milioni e 300 mila tonnellate di  bombe cadute sull’intero paese asiatico, in modo particolare su milioni di contadini innocenti: quasi il triplo del totale delle bombe sganciate durate il secondo conflitto mondiale!

A tutto ciò occorre aggiungere i 100 milioni di litri di sostanze chimiche che gli Stati Uniti riverseranno sul terreno vietnamita, che già avevano sperimentato nella guerra in Corea e che si aggiungeranno ai micidiali bombardamenti al napalm.L’obiettivo era quella di distruggere il mantello di vegetazione che proteggeva  le piste e le basi logistiche di Vietcong e Nord Vietnamiti. Furono effettuati dei test su alcuni tratti della pista di Ho Chi Minh e fu poi lanciata l’operazione “Farm boy” che consisteva nell’impiegare  18 aerei C 123 per vaporizzare milioni di litri di diserbante nella regione a Nord di Saigon.

Seagrave Sterling nel suo libro “The yellow rain” spiega quali prodotti furono utilizzati:”Furono selezionati quattro prodotti, ognuno era designato da un codice-colore:arancio, bianco, malva e blu. Il prodotto arancio era una miscela di due diserbanti…il quarto, il prodotto blu, un erbicida a base di arsenico ed il cui componente attivo è l’acido cacodilico, noto per la sua alta tossicità…” .L’impiego degli erbicidi provocò la distruzione di più di due milioni di ettari di vegetazione di cui un decimo era destinato all’agricoltura. Avvenne una autentica catastrofe ecologica perché i cento milioni di litri di prodotti tossici, rovesciati sul terreno, dopo aver distrutto la vegetazione, si infiltrarono nel suolo e contaminarono per lungo tempo le falde freatiche e le mangrovie del litorale. Gli effetti furono tanto più gravi perché i prodotti utilizzati contenevano, fra gli altri elementi, anche la diossina, i cui effetti disastrosi conosceremo in Italia, soprattutto dopo la catastrofe di Seveso del 1976.

Il danno alla salute della popolazione civile è stato incalcolabile con le malattie cutanee incurabili, cancro del fegato, gravissime malformazioni dei feti, elevato tasso di mortalità perinatale, disturbi nervosi.Ancora oggi, a 40 anni dalla fine della guerra, molti vietnamiti nascono con gravi malformazioni:effetto di quei gas micidiali e criminali. E li puoi vedere per la strada, senza gambe, senza braccia, con malformazioni, a pagare per una guerra infame. E ancora oggi vasti territori del Vietnam sono inutilizzabili perché contaminati da quei gas o perché popolati da bombe (ben 600 mila) e mine ancora inesplose.

 

 

Capezzoli di pietra:il potente e suggestivo romanzo di Eliseo Spiga

CAPEZZOLI DI PIETRA: il potente e suggestivo romanzo di Eliseo Spiga

di Francesco Casula

Capezzoli di pietra è un avvincente e suggestivo romanzo costruito con fraseggiare, periodare e passaggi agili e felici; con un lessico acuminato, con straordinari intrecci che hanno inizio, si interrompono, si intessono di nuovo, si spezzano e infine si risolvono, facendo abbondante uso dei flash-back. Con soluzioni linguistiche e prosadiche fortemente personali: perché Spiga ha pochissimi debiti con la cultura accademica e difficilmente gli si può attagliare qualche “ismo” tradizionale.

Spiga si ribella allo sfacelo e alla società alienata della apparente razionalità capitalistica del sistema economico e sociale occidentale. In altre parole non si conforma e non si arrende alle logiche e alle ragioni della modernizzazione tecnicista, al mito dello Stato e del mercato, al dio moneta: ma non in nome di qualche società perfetta e ideale, di qualche “città del sole” utopica – alla Tommaso Moro o alla Campanella, tanto per intenderci – bensì della comunità nuragica, della sua organizzazione politica e sociale, della sua economia e dei suoi valori.

Il tema che attraverserà l’intero romanzo è annunciato solennemente ed affermato apoditticamente fin dalla prima pagina e dal primo capitolo che sopra si riporta: ”I miti della moneta e dello stato, che erano affluiti in cielo per oltre 50 secoli da tutti i punti dell’orizzonte e che si erano addossati gli uni agli altri fino a formare un’unica coltre, quasi un altro cielo, si squarciavano fragorosamente e rovesciavano sulla terra grandine vento e fuoco”.

La razionalità del sistema, la visione rettilinea e lineare della storia, la fede <nelle magnifiche sorti e progressive>, sono fatte a pezzi, ridotte in frantumi, fin dall’esordio del romanzo. La civiltà industriale, – o più propriamente l’inciviltà industriale, per usare un’espressione del grande scrittore italiano  PaoloVolponi- produce infatti immani catastrofi, mostruosi disastri, ciclopiche sciagure. L’Ordigno –questa è la potente immagine e il simbolo che Spiga utilizza per riassumere il trinomio città/stato/moneta- cui si oppone l’Organismo, ovvero la triade campagna/comunità/beni d’uso,  ha creato nuove barbarie: la pascoliana “truce ora dei lupi”.

La Sardegna è diventata così “un atollo nuclearizzato” in mezzo al mediterraneo e “l’occhio vitreo” dell’Ordigno, da milioni di teleschermi impone ordini sul mangiare, sul vestire, sul pensiero e sul sapere. Perché vuole ridurre tutto all’unità: ”Un mondo. Una legge. Un’umanità indistinta, Una coscienza frollata. Un paesaggio spianato,. Una luce fredda“. Insieme nelle città “persino l’aria scarseggiava e l’acqua era diventata quasi un articolo da farmacia”.

Cagliari è distrutta da un uragano di fuoco e di acqua e Nurgulè – il protagonista del romanzo è “trasportato dal diluvio come arca inzuppata, sullo sperone più alto del promontorio di Sant’Elia, nella sfera del delirio, al di là del tempo e dello spazio”.

Perché – ecco un altro suggestivo tema del romanzo – l’uomo contemporaneo non è più in nessun luogo e il tempo non sa ormai cosa sia. La moderna inciviltà urbana e industriale crea infatti sradicamento, estraneità, tragica solitudine, costante declino di tutti i valori, perdita orribile e insanabile del senso della totalità, disperante lacerazione e cancrena dell’individuo. E insieme cancella la dimensione del tempo storico: sia lo spessore del passato che la prospettiva del futuro, riducendo tutto a un presente astorico e senza tempo.

A fronte di tale catastrofe e disfatta, Nurgulè rientra nel ventre materno e risale il tempo, con il suo spirito disincarnato, fino all’origine della biforcazione fatale in cui si era smarrita una parte dell’Umanità.

Ritorna così al mondo delle origini, al mondo della natura, a uno splendido passato di bellezza: che ci lascia un’impressione di letizia, come se avessimo attraversato un paese amabile e felice.

Il periodo nuragico, la società nuragica è infatti vista, descritta, rappresentata, cantata e celebrata nel romanzo come l’età dell’oro, arcana e felice,- soprattutto a confronto con il buio del presente  – solcata com’è da lampi di magia che creano nel lettore stati d’incanto.

E’ la civiltà della sovranità comunitaria, che non costruisce città ma villaggi, perché “la città è ostile alla terra, agli alberi, agli animali e inselvatichisce gli uomini, pretende tributi insopportabili per accrescere le sue magnificenze…crea i funzionari del tempio e del sovrano…i servi e gli schiavi”.

E’ la civiltà della gestione comunitaria delle risorse, della democrazia, dell’egalitarismo, dei rapporti amichevoli con gli altri popoli del Mediterraneo.

E’ la civiltà che rispetta l’ambiente, la natura, gli equilibri dell’ecosistema, della terra perché “non ci appartiene e siamo noi che le apparteniamo, siamo solo i suoi figli e non i suoi padroni”.  E’ la civiltà che identifica la Comunità e la Nazione sarda con i suoi nuraghi, “fiaccole perenni di indipendenza”, simbolo “della libertà eterna della Confederazione delle Comunità nuragiche” che si oppone “alla pretesa eternità delle monarchie divine raffigurate dalle piramidi nilotiche”.

E’ la civiltà con il suo peculiare idioma, che sarà <tagliato> e proibito dai Romani, che avevano decretato il taglio della lingua e la crocifissione per chiunque fosse stato sorpreso a pronunciare una parola nuragica. ”Le croci da quel momento furono i nuovi alberi piantati dallo stato: Ne furono piantati dovunque e in tutte le stagioni. Ciascuna di esse riguardava l’obbligo del mutismo. E col l’abolizione della lingua si dissolveva anche l’ultimo segno di riconoscimento e di appartenenza alla Comunità. Un mutismo che sapeva di peste. E la peste spingeva tutti verso l’ebetudine, dissecava il pensiero, calcificava le idee, annientava la creatività”.

 Si tratta solo di lacerti lirici e onirici? Di struggente nostalgia per un antico splendore? Di una favola – sia pure bella – che Spiga sogna, invoca, almanacca, come una necessità fantastica e biologica, ma pur sempre una favola? L’invocazione di un mondo salvo e salvifico, di una tana, di un’arca di Noè per salvarci dalla disumanizzazione di una realtà dominata dall’Ordigno? Certo, può darsi. Ma non solo. E comunque se di favola si tratta, è una favola che parla di noi, di noi sardi e di noi uomini e donne del 2007. Dei nostri problemi. Delle nostre ossessioni.

Per cui il romanzo risulta, con le ardite metafore, con lo scatenamento figurale, con l’ottimismo vitale, con la simpatia creaturale, una sorta di Odissea di Nurgulè e dei Sardi tutti, una sorta di Bibbia, con il suo Iavè e le tavole della legge, con precisi e potenti valori.

Così l’arte di Eliseo Spiga, altamente civile, etnica, etica e testimoniale, non edulcorata né normalizzata né falsa, mira a “vendicare i vinti” (Shakespeare), attraverso una Comunità pacifica, gloriosa e felice, simbolo e modello di una umanità liberata dalla malaria, dalle malattie, dal bisogno, dalla tirannide, che assapora la vita in una chiave elementarmente e sanamente edonistica, robinsoniana e felice.

 

Grazia Deledda e il suo Bilinguismo

IL BILINGUISMO DI GRAZIA DELEDDA

di Francesco Casula

Specie in occasione della presentazione della mia Letteratura e civiltà della Sardegna (2 volumi, Edizioni Grafica del Parteolla, 2011-2013) spesso mi si chiede :”come mai Deledda per i suoi racconti e romanzi non ha usato la lingua sarda, che pur conosceva bene”?

Per comprendere bene la lingua che utilizza la Deledda nei suoi scritti occorre partire da questa premessa: la lingua sarda non è un dialetto italiano – come purtroppo ancora molti affermano e pensano, in genere per ignoranza – ma una vera e propria lingua. Noi sardi dunque, siamo bilingui perché parliamo contemporaneamente il Sardo e l’Italiano. Anche la Deledda era bilingue. Era una parlante sarda e i suoi testi in Italiano rispecchiano, quale più quale meno le strutture linguistiche del sardo, non tanto o non solo in senso tecnico quanto nei contenuti valoriali, nei giudizi, nei significati esistenziali, nelle struttura di senso magari inespresse ma presenti nel corso della narrazione. Voglio sostenere che la Deledda struttura il suo vissuto personale, la fenomenologia delle sue sensazioni e del profondo in lingua sarda ma lo riversa nella lingua italiana che risulta così semplice lingua strumentale. In tal modo opera un transfert del suo universo interiore nuorese, dell’inconscio, della fantasmatica.

Poteva non operare tale transfert e scrivere in Sardo? Certamente. Se non lo ha fatto è stato perché non vi era in quel momento storico (siamo a fine Ottocento-inizio Novecento) la cultura, la sensibilità, l’abitudine da parte degli scrittori, specie di romanzi, di utilizzare il sardo. Prima con i Savoia e poi con lo Stato unitario e ancor più con il fascismo, la lingua sarda viene infatti proibita negata criminalizzata.

Dopo il passaggio della Sardegna dalla Spagna al Piemonte (per un baratto di guerra) i Savoia (che parlano il francese!) introducono (e impongono) formalmente l’italiano al posto dello spagnolo, proibendo il sardo. Scriverà Carlo Baudi di Vesme, uno spocchioso storico di Cuneo, amico di Carlo Alberto (in Considerazioni politiche ed economiche sulla Sardegna,Torino 1848) che “In materia d’incivilimento della Sardegna e d’instruzione pubblica, innovazione importantissima si è quella di proibire severamente in ogni atto pubblico civile l’uso dei dialetti sardi, prescrivendo l’esclusivo impiego della lingua italiana”. E ancora ripete e insiste :”E’ necessario inoltre scemare l’uso del dialetto sardo e introdurre quello della lingua italiana per incivilire alquanto quella nazione…”.

Insieme alla lingua verrà proibita e negata la storia sarda, perché – risposero le autorità governative piemontesi a Pietro Martini  che voleva introdurre fra gli studenti dell’Isola l’insegnamento della Storia –  “nelle scuole dello Stato debbasi insegnare la storia antica e moderna, non di una provincia ma di tutta la nazione e specialmente d’Italia”.

Tale concezione, da ricondurre a un progetto di omogeneizzazione culturale, – che per l’Isola significherà dessardizzazione – la ritroviamo pari pari nelle Leggi sull’istruzione elementare obbligatoria nell’Italia pre e post unitaria con i programmi scolastici, impostati secondo una logica rigidamente statalista e italocentrica, finalizzati a creare una coscienza “unitaria“, uno spirito “nazionale“, capace di superare i limiti – così si pensava – di una realtà politico-sociale estremamente composita sul piano storico, linguistico e culturale. Questo paradigma fu enfatizzato nel periodo fascista, con l’operazione della “nazionalizzazione-italianizzazione” dell’intera storia italiana. Non c’è quindi da meravigliarsi che, una volta negata e proibita, gli scrittori – anche per avere una maggiore visibilità e diffusione delle loro opere – scrivano in italiano: la Deledda come tanti altri. Ma – dicevo –  Deledda rimane bilingue: pensa in sardo e traduce, spesso meccanicamente in italiano, soprattutto “nel parlare dialogico” – lo sostiene il linguista Massimo Pittau e io sono d’accordo – come in :”Venuto sei? –che traduce il sardo: Bennidu ses?; o “Trovato fatto l’hai? – Accatadu fattu l’as?; o ancora “A Luigi visto l’hai? –A Luisu bidu l’as?; o “Quando è così, andiamo – Cando est gai, andamus.

Vi sono poi innumerevoli vocaboli tipicamente sardi e solamente sardi che Deledda inserisce nelle sue opere quando attengono all’ambiente sardo: pensiamo a tanca (terreno di campagna chiuso da un recinto fatto in genere di sassi), socronza, usatissima in Elias Portolu (consuocera), corbula (cesta), bertula (bisaccia), tasca (tascapane), leppa (coltello a serramanico), cumbessias o muristenes (stanzette tipiche delle chiese di campagna un tempo utilizzate per chi dormiva là per le novene della Madonna o di Santi), domos de janas (tombe rupestri e letteralmente “case delle fate”).

O addirittura intere frasi in sardo come: frate meu (fratello mio), Santu Franziscu bellu (San Francesco bello), su bellu mannu (il bellissimo, letteralmente il bello grande), su cusinu mizadu (il borghese con calze), a ti paret? (ti sembra?), corfu ‘e mazza a conca (colpo di mazza in testa), ancu non ch’essas prus (che tu non ne esca più :è un’imprecazione).

Qualche volta Deledda ricorre a frasi italiane storpiate in sardo o frasi sarde storpiate in italiano:Come ho ammaccato questo cristiano così ammaccherò te (…) o Avete compriso?”.

Occorre però chiarire che i sardismi linguistici della Deledda, non solo lessicali ma anche sintattici, non derivano dalla sua incapacità di utilizzare correttamente la lingua italiana. Scrive a questo proposito la critica sarda Paola Pittalis:””L’uso dei “sardismi” linguistici da parte della Deledda anche nelle opere della maturità –è il caso di Elias Portolu– è consapevole e voluto. Rappresenta anzi una chiara e decisa scelta di linguaggio letterario, di canone stilistico e fa parte del suo essere “bilingue”. Ciò non significa che in questa scelta non sia stata condizionata da fenomeni letterari e culturali esterni, -come il verismo- che prevedevano la raffigurazione oggettiva della realtà da parte dello scrittore che doveva riportare fedelmente il linguaggio popolare e “dialettale” dei personaggi.

A questo proposito occorre secondo molti critici liquidare risolutamente il luogo comune della “cattiva lingua” e della “mancanza di stile” appoggiato alla valutazione di intellettuali di prestigio da Dessì (le “sgrammaticature” di Deledda) a Cecchi (la sua lingua “spampanata”). Si tratta invece –secondo Paola Pitzalis- “di forme nate dall’incontro fra dialetto e italiano nel momento di formazione delle varietà designate oggi come <italiani regionali>. L’uso di vocaboli dialettali, sardismi sintattici e atti linguistici frequenti in Sardegna è intenzionale, tanto è vero che scompaiono quando l’interesse di Deledda si sposta dal romanzo <verista> e <regionale> al romanzo <psicologico> e <simbolico> (dopo il 1920). La sintassi prevalentemente paratattica, non equivale alla mancanza di stile; deriva dal trasferimento nella scrittura di modalità anche linguistiche di costruzione del racconto orale (è questo un percorso suggestivo sul quale da tempo lavora con esiti personali Sole). Ed è il contributo modernizzante di Deledda allo snellimento della lingua letteraria italiana costruita sul modello della frase manzoniana…” [Paola Pittalis, Il ritorno alla Deledda, <Ichnusa>, rivista della Sardegna, anno 5, n.1 Luglio-Dicembre 1986, pag.81].

 

I QUATTRO MORI NON SI TOCCANO di Francesco Casula

 

La bandiera sarda non si tocca!

Sciola, i Quattro Mori e Barracciu

di Franceco Casula  

1.Sciola e i Quattro Mori

Ho grande stima di Pinuccio Sciola: come uomo prima ancora che come eccellente e poliedrico artista. Vero e proprio omine de gabale, da sempre impegnato nella diffusione della cultura e della lingua sarda e nella difesa della Sardegna che vorrebbe più prospera, bella e libera. Ricordo che nel  1983 quando alcuni intellettuali (fra cui, oltre al sottoscritto, Francesco Masala, Joyce Lussu, Franco Carlini, Mario Puddu Emilio Cuccu,Giuseppe Caboni) costituirono un Comitato contro le basi militari, Sciola partecipò attivamente e disegnò (gratuitamente) il Manifesto che lanciava la campagna  per la raccolta delle firme su una “Proposta di legge nazionale di iniziativa popolare”Liberazione della Sardegna dalle basi militari e da ogni struttura nucleare”.

Questa volta invece la proposta di Sciola sul cambiamento del simbolo dei Quattro Mori, mi trova assolutamente in disaccordo. Lo scultore adduce come motivazione il fatto che evocherebbero “un’immagine cruenta”.

Io penso invece che, nell’immaginario collettivo dei Sardi, nella loro coscienza, nel loro cuore e nella loro mente oggi quei Quattro Mori rappresentano semplicemente il simbolo della loro Identità, come popolo e come nazione. La storia e il tempo hanno evaporato quella “violenza” e quei Quattro Mori non evocano ormai alcuna immagine violenta e, ancor meno alcuna offesa verso altre popolazioni.

2.Barracciu e i Giganti

Il sottosegretario alla Cultura Francesca Barracciu vorrebbe invece sostituire i Quattro Mori con i Giganti di Mont’ ‘e Prama. Vorrei consigliarle sommessamente di lasciar perdere. Piuttosto, se ha tempo e voglia, una cosa potrebbe meritoriamente fare: operare nel Ministero e nel Governo, perché la Sardegna sia dotata, anche formalmente, di un Inno nazionale sardo. Da insegnare nelle scuole. Da far conoscere a tutti. Da cantare in ogni occasione:ad iniziare da quelle ufficiali. Quello italiano di “Fratelli d’Italia”, impastato com’è di vieto e becero nazionalismo italiota, bellicista e guerresco, è improponibile. O dovremmo come Sardi inneggiare alla “romanità”:ovvero ai nostri carnefici che cercarono di sterminarci?

GRAZIA DORE : La giornalista Virginia Saba su “LA DONNA SARDA” ricostruisce la vita e l’opera della grande poetessa di Olzai

Tra pagine ingiallite la scoperta della poesia di Grazia Dore

scritto da: Virginia Saba 12 Febbraio 2015

Trovare un piccolo libro di poesie, “Giorni“, 1957. Sfogliare pagine ingiallite e scoprire liriche che aprono un varco tra ciò che è eterno e l’anima: solitudine. Così possiamo chiamare quello spazio infinito, che non è un’invenzione, ma una condizione umana, un’assenza, un vuoto, che solo Grazia Dore, donna sarda di una Olzai del ‘900, ha saputo cristallizzare con parole rigide e solitarie.                       

Poetessa, scrittrice, giornalista, attivista politica e sociale nata nel 1908 a Orune e trasferitasi subito a Olzai, qualcuno l’ha definita la Emily Dickinson italiana. Ma avrebbe tutto il diritto di stare da sola ai vertici della storia, delle donne sarde, della poesia, della politica nazionale, e senza paragone alcuno.
A Olzai divenne un punto di riferimento per i giovani che frequentavano la sua casa per ascoltarla parlare di democrazia e impegno sociale. Una scuola, da cui nacque poi l’associazione culturale che l’ex sindaco del paese della barbagia e oggi dirigente di tutti i presidi scolastici sardi, Bachisio Porru, racconta come un luogo in cui attraverso intelligenti domande e riflessioni si rompeva «il castello delle facili certezze», ovvero tutti quei concetti scontati, ideologie politiche e sociali diffuse al tempo, ma che, per questa donna, erano sempre e comunque oggetto di riflessione. Apriva le menti, Grazia, e invitava a non dare niente per scontato.

Erano gli anni sessanta, e lei portava tolleranza e rispetto per la diversità ideologica politica, religiosa e sociale in un ambiente ovviamente chiuso dagli ideali antifascisti. Persino Pier Paolo Pasolini si accorse di lei, individuando nella sua poetica religiosa l’assenza di insegnamenti o concetti da apprendere, a favore, piuttosto, del semplice lirismo. “Capacità di delirio, déreglèment, estasi o angoscia”, dirà di lei il poeta. In fondo “la squallida via apocalittica che sta percorrendo lei la stiamo percorrendo tutti”.
Era il Novecento. E lei una donna vissuta sotto l’ombra del secolo.

Figlia del deputato Francesco Dore, sorella di Peppina, giornalista, e Raffaella, esperta in pedagogia, si trasferì a Roma a nove anni. Al liceo divenne la pupilla di Alfredo Panzini, allievo di Carducci, che la pubblica nella prima pagina di una rivista, Fiera Letteraria, il 27 febbraio 1927, con un titolo indicativo: “Alfredo Panzini scompare una nuova scrittrice“. Quattro anni dopo la laurea in Belle Lettere, approfondisce la sua formazione culturale nella biblioteca vaticana e a trentacinque anni scrive la sua prima poesia, Giorni disabitati.

Maria Giacobbe, scrittrice e saggista nuorese, la ricorda come una donna schiva, quasi sdegnosa, che nonostante la sua generosità e gentilezza era estremamente severa nella critica e autocritica. “Troppo aristocratica di cultura e sentimenti, anche per cercare il rumore che quasi inevitabilmente accompagna ogni successo di critica e consenso di pubblico. La musica delle sue parole, la traslucida immediatezza delle sue immagini, mediata e decantata precisione del suo pensiero esprimono con la classicità essenziale che fu dei dei lirici greci la nostra inquietudine introspettiva di moderni insieme a quella straziante, innamorata, disperata ricerca di Dio che fu dei grandi mistici”.

Nel 1945, inizia a scrivere saggi per la rivista Ichunusa, del cugino Antonio Pigliaru, il celebre padre dell’attuale presidente della Regione Francesco, il quale ha voluto concedere gentilmente a La donna Sarda un testo inedito scritto da sua madre, Rina Fancellu, altra donna di spicco nella cultura sarda e recentemente scomparsa. Così parla della Dore.

Negli incontri con Grazia mi affascinava tutto di lei: mi raccontava, per esempio, delle sue coraggiose scelte politiche; nel ’48 si iscrisse all’UDI e al Partito comunista e per non essere privata dei sacramenti (allora vigeva la scomunica per tale scelta), lei, cattolica praticante, chiese la dispensa alla Santa Sede, con la motivazione che esprimeva la convinzione che in quel momento storico, solo la sinistra sarebbe stata capace di realizzare, per il singolo e la società, le esigenze dettate dal Cristianesimo; cioè, diceva, la società aveva necessità di questo tipo di forza politica per cambiare al meglio. (…)

E quante cose potrei ancora raccontare. Grazia mi ha insegnato il vero antifascismo (non fatto solo di affermazioni), rafforzando in me l’idea di pace e di rispetto verso tutte le diversità sia di idee sia di cultura. (…)

Nel cuore della Barbagia, durante gli anni vissuti ad Olzai, Grazia ha sicuramente insegnato ai suoi ragazzi delle medie e ai giovani che radunava intorno all’Associazione Culturale da lei fermamente voluta e che ha espresso un’attività intelligente e intensa, in particolare negli anni della sua presenza, ha insegnato, dicevo, le idee di coerenza e di democrazia, il tutto con la finezza, la forza, la fierezza ed anche con un pizzico di tristezza del suo temperamento barbaricino. (…)

Grazia non c’è più da ormai tanti anni e sinceramente mi è difficile esprimere a parole cosa è stata per me e per tutti, anche per Olzai, averla conosciuta e frequentata. Spero di essere riuscita, almeno in parte, a dare una degna testimonianza della sua figura di donna che, sorretta dalla forza della coerenza di vita e dalla sua ferma convinzione di fede, è riuscita a lasciare un patrimonio prezioso non solo al piccolo mondo olzaese.

Lo studioso e storico Francesco Casula le ha voluto dedicare un libro, una monografia in lingua sarda nella Collana dell’Alfa editrice “Omines e feminas de gabale”, oltre che un lungo capitolo nel saggio “Uomini e donne di Sardegna – Le controstorie”. L’ha accostata ad Eleonora d’Arborea, Grazia Deledda e Marianna Bussalai. «Rientrata a Olzai nel 1968 – racconta Casula – insegna nella scuola media di cui diventerà preside. Nel suo paese si batterà per salvaguardare tutto ciò che aveva un qualche interesse per la valorizzazione del patrimonio materiale e culturale del passato di Olzai. Ma soprattutto diventerà punto di riferimento per i giovani». In un lungo articolo pubblicato su Ichnusa nel mettere in rilievo i motivi auctotoni della poesia sarda insiste infatti sulla necessità di usare la lingua sarda anche per rinvigorire la cultura locale.
“Come studiosa dei problemi dell’emigrazione cui dedicherà il suo saggio più importante: “La democrazia italiana e l’emigrazione in America”, ancora oggi considerato un contributo fondamentale alla storia dell’emigrazione causata dalla mancata soluzione della “Questione meridionale” ovvero – secondo Grazia – della questione della terra e dei contadini, che anzi fu aggravata».
Ma soprattutto una poetessa, colta e raffinata, «che sullo sfondo di favolosi echi biblici, canta la condizione umana: il nostro dolore e la nostra immensa solitudine».

Grazia Dore si è spenta nel 1984 nella sua Olzai. La sua tomba si trova nel piccolo cimitero del paese accanto a quella di suo padre Francesco, noto politico e deputato, e alla sua amata sorella Raffaella.
Ad Olzai tutto sembra impossibile
e più d’ogni altra cosa un’esistenza
se riesce a manifestarsi oltre questo
massiccio cerchio di solitudine e silenzio.
Appena entrate nella nostra casa le
impressioni si rarefanno e le stesse
apparenze non sembrano che simboli
e immagini. Direi quasi che a
Olzai è possibile solo una conoscenza
poetica delle cose e persone
È puramente fantastico
Tanto che quasi finisco col dubitare
d’esserci stata mai.*
*poesia mai pubblicata