Grazia Deledda di Francesco Casula

Università della Terza Età di Quartu Sant’Elena 12-2-2014 Sesta Lezione

GRAZIA DELEDDA*

La grande scrittrice sarda vincitrice del Premio Nobel per la Letteratura nel 1926 (1871-1936).Grazia Deledda nasce a Nuoro il 27 settembre 1871. Frequenta solo le scuole elementari dopo è autodidatta e impara a scrivere, più che dai libri, ascoltando i racconti degli anziani, specie negli ovili dove accompagnata da un fratello e dai cugini si recava per ascoltare i pastori. E’ lei stessa a riferirci che ai libri preferiva l’ascolto di storie meravigliose e fantastiche, specie in inverno, davanti al caminetto, nelle notti interminabili.Non prescinde comunque dalla lettura: privilegiando la Bibbia e Omero ma anche scrittori italiani (Manzoni e Verga) francesi (Dumas,Balzac e Victor Hugo) e russi (Dostoevskij e Tolstoj).Conosce e intrattiene rapporti epistolari con gli scrittori e i critici letterari italiani più noti del tempo: Giovanni Verga, Giuseppe Giacosa, Ruggero Bonghi, Mario Rapisardi, Luigi Capuana, Ada Negri, Edmondo De Amicis, Emilio Cecchi, Alfredo Panzini.Precocissima, a 17 anni pubblica la novella Sangue sardo in “L’ultima moda” una rivista romana. Utilizzando uno pseudonimo, Ilia de Saint Ismael, prosegue con racconti e novelle che potremmo definire tardo-romantiche: Stella d’oriente, Amori fatali, La leggenda nera, Nell’abisso, sul crinale del primo Verga di Storia di una capinera, Eva, Eros, Tigre reale. ecc.Ma la Deledda “maggiore” e più creativa si manifesta dal 1902 al 1920 quando scrive romanzi come Elias Portolu (1903); l’Edera (1908); Canne al vento (1913), il più caro alla scrittrice; Colombi e sparvieri (1912); Marianna Sirca (1915), dove Deledda pare che voglia riassumere tutte le grandi tematiche riguardanti il romanticismo della sua giovinezza e tra questi soprattutto l’amore vissuto come peccato e rimorso.Quando, dopo Il segreto dell’uomo solitario (1921), vuole ambientare le vicende fuori della Sardegna, come in La fuga in Egitto (1925) o Annalena Bilsini (1927), Deledda non dimostrerà più l’energia creativa dei romanzi precedenti: il fatto è che la sua arte affonda le radici nell’etnos sardo più profondo e misterioso, nei costumi antichissimi di un popolo, quello sardo, che per secoli e secoli ha mantenuto intatti i suoi valori. Quando la scrittrice se ne allontana la sua arte perde di qualità.Altri romanzi scritti dalla Deledda sono: Anime oneste (1895); La via del male (1896); La Giustizia (1899); Il vecchio della montagna (1900); Dopo il divorzio (1902); Nostalgie (1905); L’ombra del passato (1907); Il nostro padrone (1910); Sino al confine (1910); Nel deserto (1911); Le colpe altrui (1914); L’incendio nell’oliveto (1918); La madre (1920); Il dio dei viventi (1922); La danza della collana (1924); Il vecchio e i fanciulli (1928); L’argine (1934).L’ultimo, Cosima, è un romanzo autobiografico e viene pubblicato postumo nel 1937.Scrive anche Novelle come Amore regale (1891); L’ospite (1897); Le tentazioni (1899); I Giuochi della vita (1905); Amori moderni (1907); Il nonno (1908); Chiaroscuro (1912); Il fanciullo nascosto (1915); Il flauto nel bosco (1923); Il sigillo d’amore (1926); La casa del poeta (1930); Il dono di Natale (1930); La vigna sul mare (1932); Sol d’estate (1933); Il cedro del Libano (1939). Scrive infine anche Poesie, raccolte nella Silloge Paesaggi sardi e Racconti. come  La regina delle tenebre o Le disgrazie che può cagionare il denaro o Favole come  Nostra Signora del buon consiglio.I suoi romanzi sono stati tradotti in quasi tutte le lingue del mondo. A coronamento della sua opera le viene assegnato nel 1926 il Premio Nobel per la letteratura con la seguente motivazione: per “la sua potenza di scrittrice sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita qual è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano”. Sposatasi nel 1900 si trasferisce col marito a Roma dove trascorre il resto della vita dedicandosi completamente alla famiglia e alla scrittura.  Muore a Roma il 15 Agosto del 1936.Le sue spoglie mortali traslate, nel 1950 dalla Chiesa del <Verano> della Capitale, riposano ggi a Nuoro, nella <Chiesa della solitudine>.

Elias Portolu:presentazione

Elias Portolu, è considerato il migliore romanzo della Deledda dalla maggior parte dei critici, tra cui Attilio Momigliano e Emilio Cecchi. Uscì prima a puntate su “Nuova Antologia” nel 1900 e poi in volume nel 1903.Descrive la vicenda di un giovane –Elias- che ritornato in Sardegna da un penitenziario del continente, riprende il lavoro di pastore nella tanca con il padre e il fratello Mattia. Suo malgrado si innamora di Maddalena, la fidanzata di Pietro, un altro fratello. La passione, che egli considera incestuosa, gli provoca “un’angoscia confusa, febbrile, un desiderio di mordersi i pugni, di gridare, di gettarsi per terra e piangere”.Il romanzo propone quindi la consueta conflittualità fra desideri e divieti, passione e norma etico-sociale, tipica di tutta la produzione narrativa deleddiana. Debole di carattere e incapace di affrontare la realtà, Elias non trova infatti il coraggio di seguire i consigli di zio Martinu, il saggio anziano -protagonista proprio del capitolo che seguirà- , “il padre della selva” che gli suggerisce di far valere i diritti del suo autentico sentimento, parlando con il fratello e sposando lui la donna: “Siamo tutti fratelli, Elias Portolu. Pietro non è uno stupido, egli capisce la ragione. Va, digli:<Fratello mio, io amo la tua sposa e lei mi ama; che pensi di fare? Vuoi rendere infelice fratello tuo e quell’altra creatura innocente?>”. Né d’altra parte è forte abbastanza per resistere alla tormentosa passione. L’unica risoluzione che riesce a prendere, quasi per autopunirsi, è la rinuncia, che si concretizza nella decisione di farsi prete. Nonostante il legame che lo unisce sempre più a Maddalena da cui aspetta un figlio. Dopo alcuni anni, pur avendo la possibilità di sposare la donna rimasta vedova, continua, non senza conflitti e sofferenze, nella via dell’autoespiazione, pronunciando i voti sacerdotali.Nel romanzo, costruito come un apologo-fiaba, la Deledda utilizza il discorso indiretto libero, di tipo strettamente individuale, con il quale descrive la vicenda della malattia morale dei suoi personaggi, segnatamente di Elias, il protagonista.L’apologo prevede l’infrazione (il rapporto “incestuoso”), l’espiazione (con la scelta del sacerdozio) e la catarsi con la redenzione finale: “Finalmente, finalmente era solo col suo bambino; nessuno più poteva toglierlo, nessuno più poteva mettersi fra loro. E sul suo infinito accoramento sentiva calare un tenue velo di pace e quasi di gioia –simile alla vaporosità di quella misteriosa notte autunnale- perché l’anima sua si trovava finalmente da sola, purificata dal dolore, sola e libera da ogni umana passione, davanti al Signore grande e misericordioso”.  

ANALISI

Nel romanzo Elias Portolu ma segnatamente in questo passo si può individuare un conflitto che divide e contrappone due diversi modelli di uomo: quello tradizionale e balente sardo-barbaricino e quello individualistico borghese, incrinato e contaminato da influssi tardoromantici. Da una parte zio Martinu, che rappresenta esemplarmente l’uomo razionale, laico e autoritario, rigido e severo. “Un uomo di ferro” e tutto d’un pezzo: senza sfumature. Che non sorride: ”Zio Martinu non rispose, non si commosse, non sorrise…” e tende all’isolamento sociale. “Dopo la sua infanzia, -scriverà Deledda in un’altra parte del romanzo- non aveva dormito una sola notte in paese”.Dall’altra la personalità di Elias, “un ometto di cacio fresco”, debole, espressione della coscienza turbata e ansiosa dell’uomo in crisi. Ed è questo –e non zio Martinu- l’uomo che la Deledda sembra preferire come paradigma della sua visione del mondo: di cui analizza lo smarrimento angoscioso, l’indecisione, la crisi della volontà, il peccato, il rimorso, l’espiazione: probabilmente perché esprime il sentimento di una umanità più vasta rispetto al forte e tetragono zio Martinu.Il testo, a dominanza narrativa, incorpora descrizioni ambientali e paesaggistiche che paiono tuttavia segnare uno stacco rispetto al movimento narrativo, come se si inserissero di colpo in un livello autonomo di linguaggio e costituissero un esercizio separato di discorso e di letteratura.La descrizione –penso a “…L’aurora aranciata incendiava l’oriente, versando splendori d’oro roseo sull’erba e sulle pietre della tanca, a ovest il bosco taceva sullo sfondo del cielo di lavagna chiara Il cielo impallidiva, il bosco taceva nella quiete solenne della sera…Il sole era tramontato, e i boschi e le lontananze tacevano sotto il cielo tutto roseo, d’un roseo denso quasi violaceo; tutta la tanca, le macchie lucenti, l’erba immobile, le roccie e l’acqua riflettevano quella calda luminosità di rosa peonia”- in tal modo si risolve nella celebrazione lirica, secondo le norme compositive dell’idillio, che tende all’assoluta autonomia. Così, il narrato è pausato dall’indugio sul paesaggio, che però rischia di tradursi nella pura composizione verbale, astratta dai riferimenti con la vicenda di Elias e con il suo status psicologico, creando uno iato troppo forte dal complesso della narrazione.La lingua, soprattutto nella parte dialogica, è intessuta di “sardismi”: sia nei calchi sintattici (“pensato ci hai?”che traduce letteralmente l’espressione sarda: “pessau bi as?”); sia nei nomi (zio Martinu, zio Portolu) e toponimi (Isalle), sia negli utensili e attrezzi (corcarjos sono i cucchiai e malunes sono recipienti di sughero) sia nei proverbi e modi di dire (“ogni piccola macchia porta piccole orecchie” è la traduzione letterale del proverbio sardo “Cada mattichedda juchet orichedda”).L’alta frequenza di tali “sardismi”, –secondo il più noto linguista sardo, Massimo Pittau- è da ricondurre soprattutto al fatto che la Deledda, specie  “il dialogo”, prima lo formulava e cioè lo pensava in sardo, e dopo lo traduceva quasi meccanicamente in lingua italiana.

Giudizio critico

Scrive Attilio Momigliano sulla Deledda: “I suoi personaggi si dibattono in una grandiosa e selvaggia lotta fra il bene e il male, in una rivolta senza speranza contro il destino. Ella ha una capacità simile a quella di <Delitto e Castigo> e dei <Fratelli Karamazof> di ritrarre la potenza trascinante del peccato come una crisi che libera dal loro profondo carcere tutte le forze di un uomo, quelle sublimi e quelle perverse, e finisce per sollevare lo spirito in una sfera che forse non raggiungerebbe altrimenti”.Lo stesso Momigliano, a proposito del romanzo Elias Portolu scrive: “Il motivo del libro è la rappresentazione della coscienza dei due amanti, e sopra tutto di Elias, in cui si agitano continuamente confusi la tentazione, il terrore del peccato, il desiderio del bene, l’abbandono del male. La sua forza è nella misura con cui questi sentimenti sono fusi, nella verità in cui essi informano le vicende semplici del racconto, nella lucida e dolorosa coscienza con cui la scrittrice segue questa battaglia morale. Forse è questo il libro di più alta e insieme più solida moralità che sia stato scritto in Italia dopo i <Promessi Sposi>, è quello che rispecchia meglio la severa e religiosa intelligenza della vita che ha la Deledda”. [In Il Convegno, rassegna mensile di cultura e di attualità, Luglio-Agosto 1946, Cagliari].

I “sardismi” della Deledda 

La Deledda utilizza costantemente “Zio” –e più spesso ziu– per indicare “signore”. Si tratta di uno dei tanti “sardismi” presenti nella sua opera insieme a numerosi vocaboli tipicamente ed esclusivamente sardi (socronza:consuecera; bertula:bisaccia, leppa:coltello); o a calchi sintattici (come venuto sei? Traduzione letterale del sardo bennidu ses?).

L’uso dei “sardismi” linguistici da parte della Deledda anche nelle opere della maturità –è il caso di Elias Portolu– è consapevole e voluto. Rappresenta anzi una chiara e decisa scelta di linguaggio letterario, di canone stilistico e fa parte del suo essere “bilingue”. Ciò non significa che in questa scelta non sia stata condizionata da fenomeni letterari e culturali esterni, -come il verismo- che prevedevano la raffigurazione oggettiva della realtà da parte dello scrittore che doveva riportare fedelmente il linguaggio popolare e “dialettale” dei personaggi.

A questo proposito occorre secondo molti critici liquidare risolutamente il luogo comune della “cattiva lingua” e della “mancanza di stile” appoggiato alla valutazione di intellettuali di prestigio da Dessì (le “sgrammaticature” di Deledda) a Cecchi (la sua lingua “spampanata”). Si tratta invece –secondo Paola Pitzalis- “di forme nate dall’incontro fra dialetto e italiano nel momento di formazione delle varietà designate oggi come <italiani regionali>. L’uso di vocaboli dialettali, sardismi sintattici e atti linguistici frequenti in Sardegna è intenzionale, tanto è vero che scompaiono quando l’interesse di Deledda si sposta dal romanzo <verista> e <regionale> al romanzo <psicologico> e <simbolico> (dopo il 1920). La sintassi prevalentemente paratattica, non equivale alla mancanza di stile; deriva dal trasferimento nella scrittura di modalità anche linguistiche di costruzione del racconto orale (è questo un percorso suggestivo sul quale da tempo lavora con esiti personali Sole). Ed è il contributo modernizzante di Deledda allo snellimento della lingua letteraria italiana costruita sul modello della frase manzoniana…” [Paola Pittalis, Il ritorno alla Deledda, <Ichnusa>, rivista della Sardegna, anno 5, n.1 Luglio-Dicembre 1986, pag.81].

Le “storie” della Deledda 

“Ambientate prevalentemente tra Nuoro e le montagne circostanti le storie narrate dalla scrittrice sarda sono costruite su intensi drammi d’amore, gelosia e morte, sullo scatenarsi di passioni travolgenti in un contesto sociale e umano dominato da leggi arcaiche, impulsi ancestrali, tabù sedimentati nella psiche individuale e collettive pervasi da una forte religiosità e da un misterioso senso morale della colpa e del peccato. I personaggi della Deledda si muovono all’interno di una quotidianità che si ripete immutabile, al ritmo costante di lavori stagionali, feste tradizionali e antichi riti agresti, tra scorci di paesaggi e interni domestici, scontando la fatica di ogni giorno e una immensa, profondissima solitudine. Tra l’aderenza ai temi consueti della letteratura verista e l’influenza di molta letteratura decadente italiana e straniera, la poetica della Deledda si affina progressivamente affondando la caratterizzazione psicologica nell’intimo di affetti e sentimenti, acquistando una più matura e problematica consapevolezza dell’insondabilità del reale, unendo all’essenzialità oggettiva della sua scrittura la complessità di una interpretazione lirico simbolica” [tratto I Grandi Romanzi della Deledda, Introduzione di Giacinto Spagnoletti, Grandi tascabili economici, Ed. NEWTON, Roma 1997].

 

Bibliografia essenziale

Opere dell’Autore

-I Grandi romanzi (Edizioni integrali dei dieci romanzi più rappresentativi della Deledda: Il vecchio della montagna, Elias Portolu, Cenere, L’Edera, Colombi e sparvieri, Canne al vento, Marianna Sirca, La madre, Annalena Bilsini, Cosima. Introduzione di Giacinto Spagnoletti, Grandi tascabili economici, Ed. NEWTON, Roma 1997).

Tradizioni popolari di Nuoro in Sardegna in “Rivista delle tradizioni popolari italiane”, agosto 1894-maggio 1895; Roma, Forzano e C. 1895.

Paesaggi sardi (poesie) Speirani, Torino, 1897.

-Per una Bibliografia generale su Grazia Deledda fondamentale è il libro di Remo Branca, Bibliografia deleddiana, L’Eroica, Milano 1938, integrata poi dal contributo di Eurialo De Michelis, Novecento e dintorni, Mursia, Milano 1976.

Opere sull’Autore

– Luigi Russo, I Narratori, Roma, Fondazione Leonardo, 1923.

– Francesco Flora, Storia della Letteratura italiana, Milano, Mondatori 1940.

-Benedetto Croce, La Letteratura della Nuova Italia, Bari, Laterza 1945, vol.VI.

– Attilio Momigliano, Storia della letteratura italiana dalle origini ai nostri giorni, Milano-Messina   Principato 1948.

-Natalino Sapegno, Introduzione alla riedizione di Romanzi e Novelle di G. D., Milano, Mondadori 1971.

– Anna Dolfi, Grazia Deledda, Milano, Mursia, 1978

– Nicola Tanda, Dal mito dell’Isola del mito. Deledda e dintorni, Roma, Bulzoni 1992.

– Neria de Giovanni, Come la nube sopra il mare, Vita di Grazia Deledda, Nemapress editrice, Alghero 2006.

– Frantziscu Casula, Grazia Deledda, Alfa editrice, Quartu, 2006.

*Tratto dalla mia  Letteratura e civiltà della Sardegna, volume I, Edizioni Grafica del Parteolla, Dolianova 2011, pagine 265-278

 

 

MICHELA MURGIA scrittrice*

MICHELA MURGIA scrittrice*

La vincitrice del Premio Campiello che sogna una Sardegna indipendente (1972-)

Nasce a Cabras nel 1972. Di formazione cattolica è stata educatrice[ ed animatrice nell’Azione Cattolica, ricoprendo il ruolo di Referente Regionale del settore Giovani. Ha ideato uno spettacolo teatrale rappresentato nella piana di Loreto al termine del pellegrinaggio nazionale dell’Azione Cattolica del settembre 2004, al quale ha assistito anche Papa Giovanni Paolo II.Ma rispetto alla sua vita, ecco quanto lei stessa scrive nel suo Sito ufficiale: “Sono nata in Sardegna e per quanti indirizzi abbia cambiato in questi anni, dentro non ho mai smesso di abitarla, sognandola indipendente in ogni accezione del termine. Mi sono diplomata in una scuola tecnica e dopo ho fatto studi teologici, ma questo non ha fatto di me una teologa, almeno non più di quanto studiare filosofia faccia diventare la gente filosofa. Non mi piace essere definita giovane, a 37 anni essere considerati adulti dovrebbe essere un diritto. Non fumo, non porto gioielli preziosi, detesto i graziosi cadaveri dei fiori recisi, i giornalisti che mi chiedono quanto c’è di autobiografico e gli aspiranti pubblicatori che mi mandano da valutare romanzi che non leggerò mai, perché preferisco di gran lunga i saggi. Sono vegetariana, ma so riconoscere le occasioni in cui si può fare uno strappo. Per etica politica mi definisco di sinistra, e nel mio ordine interiore quella parola ha ancora senso. Sono sposata, e questo mi ha resa una persona più trattabile, anche se mi rendo conto che a leggere questa biografia non si direbbe”.Nel 2006 ha pubblicato Il mondo deve sapere, la tragicomica storia di una ragazza al lavoro in un call center che ha poi ispirato il film di Paolo Virzì, Tutta la vita davanti.  Dal libro è stata anche tratta un’opera teatrale per la regia di David Emmer.Michela Murgia racconta, con tono esilarante e con ironia,  la storia una ragazza laureata, Camilla, che trova impiego come telefonista presso il call-center di un’azienda che vende elettrodomestici porta a porta, offrendo una versione del precariato vissuto in prima persona, sulla propria pelle e dunque visto dall’interno.Nel 2008 ha pubblicato Viaggio in Sardegna. Undici percorsi nell’isola che non si vede: ovvero oltre l’Isola oleografica delle cartoline e dei depliant turistici, rivelandone la storia, le leggende, i riti e le scaramanzie, il carattere della sua gente: una sorta di guida insomma ai luoghi meno esplorati di un’Isola. dai mille misteri a cominciare dai suoi abitanti, così diversi e dissonanti rispetto agli italiani.Questa storia – scrive Murgia –  è un viaggio in compagnia di dieci parole, dieci concetti alla ricerca di altrettanti luoghi, più uno. Undici mete, perché i numeri tondi si addicono solo alle cose che possono essere capite definitivamente. Non è così la Sardegna, dove ogni spazio apparentemente conquistato nasconde un oltre che non si fa mai cogliere immediatamente, conservando la misteriosa verginità delle cose solo sfiorate.Nel maggio 2009 ha pubblicato il romanzo Accabadora, una storia che intreccia nella Sardegna degli anni cinquanta i temi dell’eutanasia e dell’adozione. Il romanzo è uscito in traduzione tedesca nel 2010 per l’editore Wagenbach. Con questo libro ha vinto la sezione narrativa del Premio Dessì nel settembre 2009, il SuperMondello nell’ambito del Premio Mondello nel maggio 2010 e nel settembre dello stesso anno il Premio Campiello.A proposito di Accabadora Angiola Codacci-Pisanelli, sul Settimanale L’espresso del 05-06-2009  scrive: “Sarebbe bello leggere ‘Accabadora’ di Michela Murgia (Einaudi) senza sapere cosa vuol dire il titolo, e scoprire insieme alla protagonista, Maria, qual è la professione segreta della sua madre adottiva, Tzia Bonaria Urrai. Sarebbe bello ma non si può: la quarta di copertina lo spiega subito. ‘Acabar’ in spagnolo significa finire, e nella Sardegna di ieri – e forse di oggi – ‘accabadora’ è ‘colei che finisce’, colei che porta al moribondo e alla famiglia stremati dall’agonia la ‘dolce morte’. Ma non è un libro sull’eutanasia, questo romanzo della Murgia, un’altra esordiente che la febbre di nomi nuovi lancia nelle librerie in questo 2009. Malgrado la foto funerea in copertina, c’è più amore che morte in queste pagine, e c’è uno stile che disegna ogni personaggio, ogni scena, ogni frase con l’accuratezza con cui Tzia Bonaria Urrai cesella le asole. Maria nasce, quarta figlia femmina non voluta, in una famiglia poverissima, cresce come “filla de anima” di una vecchia sarta che cuce per i clienti i vestiti della festa e, quando serve l’ultimo ‘cappotto’: lo dice lei stessa ridendo tra sé, con un umorismo che corre sottotraccia per tutto il libro. Quando intuisce di cosa la sua madre “de anima” vorrebbe farla erede, Maria fugge. Ma neanche Torino è abbastanza lontana, anche lì ci sono drammi segreti, amori impossibili, e il richiamo di un destino che diventa tale solo quando lo si accetta”.Nel 2011 ha pubblicato Ave Mary, il libro, come ci tiene a sottolineare l’autrice, non è un saggio ma una conversazione con le donne e sulle donne. Contrariamente al titolo, non è un libro su Maria, ma proprio da Maria – madre di Gesù – trae spunto per discutere delle condizioni impari con cui la donna, attraverso i secoli, ha sempre dovuto combattere. 

Presentazione di Accabadora, Ed. Einaudi, Torino, 2009.

Maria «la quarta» femmina di una madre vedova, Anna Teresa Listru, per cui rappresenta un problema, un’ulteriore bocca da nutrire, l’errore dopo tre cose giuste più che una figlia da amare.  finisce a vivere in casa di Bonaria Urrai. Diventa così fill’ e anima  di Tzia Bonaria: una vecchia da quando era giovane, vestita di nero, vedova di un marito che non l’aveva mai sposata. Ma, per fortuna ricca. Perché se non fosse nata ricca, Bonaria Urrai avrebbe fatto la fine di tutte quelle rimaste senza uomo, altro che prendersi una fill’e anima.Ma perché Maria sia finita a vivere in casa di Bonaria Urrai, è un mistero che si fa fatica a comprendere a Soreni, di qui i commenti malevoli della gente, che accompagnano le loro camminate in quelle strade del paese che sembrano emerse dalle case stesse come scarti sartoriali, ritagli, scampoli sbilenchi, ricavate una per una dagli spazi casualmente sopravissuti al sorgere irregolare delle abitazioni, che si tenevano in piedi l’una all’altra come vecchi ubriachi dopo la festa del patrono.Ma il mistero è presto svelato: Tzia Bonaria ha preso Maria con sé, per farla crescere e farne la sua erede, sottraendola alla povertà estrema della sua vera famiglia, chiedendole in cambio la presenza e la cura per quando sarà lei ad averne bisogno. Maria abituata a pensarsi, lei per prima, come «l’ultima», è  sorpresa dal rispetto e le attenzioni della vecchia sarta del paese, che le ha offerto una casa e un futuro, ma soprattutto la lascia vivere e non sembra desiderare niente al posto suo.Ma c’è qualcosa in questa vecchia vestita di nero e nei suoi silenzi lunghi, c’è un’aura misteriosa che l’accompagna, insieme a quell’ombra di spavento che accende negli occhi di chi la incontra. Ci sono uscite notturne che Maria intercetta ma non capisce. Quello che tutti sanno è che Tzia Bonaria Urrai cuce gli abiti e conforta gli animi, conosce i sortilegi e le fatture, ma quando è necessario è pronta a entrare nelle case per portare una morte pietosa a chi è stremato dall’agonia. Ma Maria, inizialmente non lo immagina e non lo sospetta neppure. Quando lo scopre e se ne avvede segue il consiglio della maestra Luciana: Ti serve un’altra vita, dove nessuno sappia chi sei, di chi o di cosa sei figlia. Per ricominciare altrove, tagliarsi il cordone in un momento preciso dell’esistenza seclto da lei, senza levatrici né debiti apparenti.E Maria fugge a Torino. Ma ritorna. Come richiamata da un destino che si accetta.

 

 

Giudizi critici

Valeria Parrella  nel Settimanale Grazia scrive: “Michela Murgia, attingendo alla potenza della letteratura, traspone il dibattito attuale su testamento biologico ed eutanasia in un universo mitico, donandoci la possibilità di tornare a pensarvi senza urlare, con la giusta forza e delicatezza”.

Mentre Paola Pittalis sul Quotidiano La Nuova Sardegna sostiene:”È lei, l’accabadora, la protagonista del primo romanzo di Michela Murgia. Sullo sfondo una questione etica, tra le più delicate e drammatiche che la modernità abbia prodotto. Senza che mai Michela Murgia, con grande eleganza, cavalchi il dibattito sull’eutanasia riferendosi a episodi della cronaca recente. […] Nel romanzo la scommessa etica diventa una scommessa narrativa e linguistica. Una narrazione senza idillio e senza retorica, senza luoghi comuni. Una lingua nitida, densa di aforismi e di ossimori, di immagini che colgono il segreto legame fra vita e morte”.

A sua volta Natalia Aspesi su la Repubblica a proposito di Ave Mary commenta: “Da un paio d’anni per fortuna c’è stato un risveglio di brontolii femminili colti, intelligenti, creativi, appassionati, impeccabili, sottoforma di saggi di successo […]. In questo fervore di scrittura femminile molto terrena, che chiama in causa i poteri contemporanei, la politica, la televisione, la pubblicità, le escort e le ministre con il tacco a spillo, appare finalmente il personaggio più inaspettato, umano e celestiale, antico ed eterno, celebre e sconosciuto, mitico e universale, da imitare e inimitabile: la Madonna. […] Ave Mary intreccia sapienza e ironia, Sacre Scritture e vita, non dando tregua a tutti gli e errori che credenti chic e atei devoti hanno scritto e soprattutto diffuso attraverso la televisione.

ANALISI

Sbaglia chi pensasse che Accabadora sia un romanzo sull’eutanasia. Il tema del fine vita è collaterale, ha affermato la scrittrice in una intervista. Il tema centrale è invece la comunità. Che, nella sua scrittura torna sempre.Credo – è sempre la Murgia ad affermarlo – che alla letteratura spetti il compito di restituire la realtà desiderata. Siccome vivo in un contesto in cui si tenta di isolare il singolo, reagisco raccontando storie in cui la comunità, al contrario, lo sostiene.Storie emotivamente molto forti in cui  mette in stretto rapporto – come ha scritto Angiola Codacci- Pisanelli sull’Espresso – la modernità/attualità di relazioni e sentimenti con le tradizioni ancestrali di una terra, un’isola, che sembra ancora mantenere intatte usanze arcaiche e superstizioni antiche che sopravvivono ad ogni forma di progresso. Fra queste ataviche usanze e tradizioni la scrittrice di Cabras rievoca e descrive, almanaccando, l’accabadora e il suo gesto amorevole e finale che pone fine alle sofferenze dei malati terminali, quasi fosse un ultima madre per chi invoca una morte liberatoria. Ma quando Maria intuisce una delle attività della sua madre de anima, Tzia Bonaria Urrai, scappa. Ma ritorna.Come succede ai personaggi di molti scrittori sardi: pensiamo ai Diavoli di Nuraiò di Flavio Soriga, un universo di personaggi e figure, soprattutto di giovani, che, incatenati al villaggio, “a sa bidda” e alla “prigione” Sardegna, non vedono l’ora di evadere. E si allontanano ma poi ritornano.Così Maria. Perché molte cose che credeva di aver lasciato sulla riva da cui la nave per Genova si era staccata a suo tempo,ritornavano una dopo l’altra, come pezzi di legno sulla spiaggia dopo una mareggiata…lentamente tornarono a uno a uno visi, voci e luoghi dell’infanzia in cui era cresciuta, e Maria si scoprì ad abitarli, senza chiedere permesso.Il  rientro di Maria in Sardegna non aveva stupito nessuno. Perché «E’ il debito del fill’e anima», dicevano a Soreni come fosse un destino a cui era impossibile sottrarsi.E per la madre carnale, Anna Teresa Listru quella figlia frutto del suo più grosso errore era ora mutata nel migliore dei suoi investimenti.Accabadora è un romanzo bello e avvolgente, di grande impatto emotivo, incarnato dentro un contesto storico e ambientale preciso: la Sardegna degli anni ’50, ma insieme senza tempo. Un romanzo forte e drammatico, elegiaco e poetico, scritto con cura e accuratezza, con un lessico semplice e scabro, inframezzato da locuzioni in lingua sarda, che riesce a rapirti, emozionarti e incantarti. A tal punto che, segnatamente quando riesce a evocare storia e tradizioni, con i colori, i sapori e i profumi dell’infanzia, il lettore sperimenta e vive un’impressione di letizia, come se avesse attraversato un paese amabile e felice.

Madonna sovversiva

“In un’estate dove curiosamente scarseggiano i libri cult, compresi quelli da spiaggia, c’è un passaparola che corre fra le lettrici, in particolare quelle che hanno trovato (o ritrovato) il gusto di analizzare la condizione femminile, cioè la loro, e i suoi numerosi disastri. E forse per catturare l’attenzione ci voleva un’autrice insolita come Michela Murgia, entrata nell’olimpo letterario con la super premiata, «Accabadora», ma che si tiene alla larga da ogni star system e se apre bocca in qualche talk show riesce anche a dire qualcosa di intelligente. E intelligente, oltre che coraggiosa da parte di una “credente organica e non marginale” come lei stessa si definisce, è la scelta di “Ave Mary”, (Einaudi Stile Libero, pp. 166, e 16), rilettura dell’icona cattolica per eccellenza, la Madonna.
Mitizzata fino a farne scomparire l’umanità, è la tesi di Michela Murgia, Maria è stata usata dalla Chiesa attraverso i secoli per giustificare il dominio maschile, anche se non erano stati i preti ad inventarlo. Nella narrazione ecclesiastica la ragazza di Nazareth che accetta l’annuncio dell’Angelo diventa lo stereotipo della “donna che dice sì”, creatura docile e ubbidiente a quel che le viene chiesto: come moltitudini di sue simili dovranno fare nei confronti della famiglia e della religione. Ma di Maria e della sua vita ricca di sorprese c’è un’altra narrazione possibile. Proprio con quel sì a una gravidanza misteriosa, inaccettabile secondo l’ordine sociale dei tempi, la ragazza compiva una scelta sovversiva, proprio come sarà il messaggio del Cristo. Non è una Madonna in chiave femminista quella della Murgia, quanto una figura storica riletta attraverso i Vangeli e altri testi dimenticati da una chiesa che nel ‘900 aveva poi trasformato Maria «in una statuina da nicchia»“.

[ Chiara Valentini, L’espresso, 05/08/2011]

La femina agabbad6ri : sacerdotessa del mistero

“C’è a Luras, in Gallura, un museo: Galluras. Il nome vorrebbe richia­mare «le Gallure», cioè le diverse parti di questa ampia cuspide della Sardegna che, pur omogenea nei costumi e nel linguaggio, si differen­zia nella configurazione geografica e nella dimensione storico-tradi­zionale. Tra gli altri oggetti del museo, su un cuscino ricamato fa bella (!) mostra di sé un martello di legno.Era lo strumento di morte, il mazzuolo che la femina agabbad6ri (dallo spagnolo acabar,  «terminare»), usava per finire una persona sofferente che «non riusciva a morire».Probabilmente l’arnese esposto nel museo è un modello, una copia di quello che era in realtà lo strumento di morte, ben più solido e pesan­te: chi scrive lo ha visto, più di una trentina di anni fa nelle mani di un centenario, nipote di una vera femina agabbad6ri. Era un rustico maz­zuolo di legno di olivastro stagionato, reso lucido dall’uso per essere passato negli anni in tante mani. Non un martello costruito da un arti­giano, ma un corto spezzone di ramo, lungo poco meno di trenta centi­metri, con una conferenza di circa 45. Il manico, corto e robusto, con­sentiva la presa sicura per assestare un unico colpo, pesante e deciso. Veniva usato, si dice, soltanto da donne forti, sempre e solo donne, vere «benefattrici» della piccola umanità dei paesi e delle campagne galluresi, quando sembrava che la morte, dispensatrice di quiete ma anche di estenuanti agonie, si divertisse a utilizzare tutta la sua trista cattiveria prolungando il tempo dello strazio. E allora, eccola lì, la donna della notte che accorreva al capezzale dei sofferenti per «mi­gliorare le condizioni del moribondo» favorendone il passaggio a  «miglior vita» , come affermano gli studiosi Alessadro Bucarelli (pre­maturamente scomparso qualche anno fa) e Carlo Lubrano, docenti all’Università di Sassari, nella loro opera Eutanasia ante litteram in Sardegna. Sa femmina acabbadora. Di questi riti tribali come le accabadoras (o femina agabbadori, in gallurese) rimangono memorie e anche tracce. Queste “terminator” al femminile, si pensa abbiano agito fino alla metà del secolo XIX, anche se alcuni studiosi sostengono che in qualche parte dell’isola abbiano operato in data a noi più vicina.Il filologo Zenodoto (vissuto nel III secolo a.C., ebbe da Tolomeo Fi­ladelfo l’incarico di bibliotecario e si occupò soprattutto di studi ome­rici) parla di una colonia di Cartaginesi, nominata da Eschilo, che, ve­nuta in Sardone (Sardegna), sacrificava a Saturno i vecchi ultrasettan­tenni. Il sacrificio veniva consumato mentre tutt’intorno la gente si ab­bracciava sorridendo come durante una festa: in simili occasioni pian­gere e disperarsi sarebbe stato per i Cartaginesi quantomeno disdicevo­le, se non addirittura sacrilego. Pare che proprio da queste lontane usanze derivi anche l’espressione “riso sardonico”: il riso forzato dei Sardi, il riso amaro dei vinti, per dirla con il poeta Francesco Masala,Anche per lo storico Timeo di Siracusa (vissuto all’incirca tra il 356 e il 260 a.C.) sarebbe stato costume dei Sardonii far precipitare i parenti più stretti, diventati vecchi e sofferenti, dall’ alto di una rupe o dall’ orlo di una tomba già scavata, mentre i figli ridevano enfatizzando la finta felicità che provavano nel togliere la vita a chi l’aveva loro donata.A questo punto, nell’impossibilità di datare con esattezza la fine di cotanta barbarie, non resta che prendere per buone, sempre restando nello statuto indefinito dell’ipotesi, le parole del «mio»  testimone cen­tenario che verrà presentato fra poco. Dalle sue dichiarazioni e da un conteggio all’indietro fino agli anni in cui la sua antenata   «avrebbe esercitato», si può approssimativamente desumere che l’opinione co­mune sulla datazione di questa pratica può coincidere con quella che risulta dalle affermazioni del centenario. E che l’«eutanasia nuragica»  – sempre negata – avveniva, in tempi non troppo remoti, anche nella civilissima Gallura. Così risulta dalla confessione sofferta del cente­nario cui ci si riferiva poc’anzi e che ripeto pari pari com’era avvenu­ta; già annotata, peraltro, nel mio Antica terra di Gallura”.

[Franco Fresi, La Sardegna dei misteri, Ed. Newton compton, Roma, 2010, pagine 101-102].

*Tratto da Letteratura e civiltà della Sardegna” di Francesco Casula , volume II, Edizioni Grafica del Parteolla, Dolianova 2013, pagine 187-196

LA LINGUA SARDA A SCUOLA

Alcuni motivi (didattici, culturali, civili) per insegnare il Sardo.

di Francesco Casula

La Questione del Bilinguismo a scuola entra prepotentemente nella campagna elettorale in vista delle elezioni regionali sarde del prossimo 16 febbraio. Dopo decenni di discussioni, pare che finalmente anche le forze politiche si siano accorte della necessità e dell’urgenza, non più rinviabile, di introdurre la lingua sarda, come materia curriculare, nelle scuole di ogni ordine e grado.

Pedagogisti come linguisti e glottologi, psicologi come psicoanalisti e perfino psichiatri, ritengono infatti che la presenza della lingua materna e della cultura locale nel curriculum scolastico si configurino non come un fatto increscioso da correggere  e controllare ma come elementi indispensabili di arricchimento, di addizione e non di sottrazione, che non “disturbano” anzi favoriscono lo sviluppo comunicativo degli studenti perché agiscono positivamente nelle psicodinamiche dello sviluppo. In particolare la lingua materna (quella sarda per noi) serve: per allargare le loro competenze degli studenti, soprattutto comunicative, di riflessione e di confronto con altri sistemi; per accrescere il possesso di una strumentalità cognitiva che faciliti l’accesso ad altre lingue; per prendere coscienza della propria identità  etno-linguistica ed etno–storica, come giovane e studente prima e come persona adulta e matura poi; per personalizzare l’esperienza scolastica, umana e civile, attraverso il recupero delle proprie radici;

per combattere l’insicurezza ambientale, ancorando i giovani a un humus di valori alti della civiltà sarda: la solidarietà e il comunitarismo in primis; per superare e liquidare l’idea del “sardo“ e di tutto ciò che è locale come limite, come colpa, come disvalore, di cui disfarsi e , addirittura, “vergognarsi“; per migliorare e favorire, soprattutto a fronte del nuovo “analfabetismo di ritorno“, viepiù trionfante, soprattutto a livello comunicativo e lessicale, lo status linguistico. Che oggi risulta essere, in modo particolare nei giovani e negli stessi studenti, povero, banale, improprio, “gergale“.Con un numero di parole ormai ridotto al minimo.

E poiché tra il pensiero e il linguaggio c’è un’interazione ne deriva che il pensiero si è anchilosato, come il linguaggio.

Inoltre, premesso che la sollecitazione delle capacità linguistiche deve partire dall’individuazione del retroterra linguistico, culturale, personale, familiare, ambientale dell’allievo e del giovane, non per fissarlo e inchiodarlo a questo retroterra ma, al contrario, per arricchire il suo patrimonio linguistico, l’educazione bilingue svolge delle funzioni che vanno al di là e al di sopra dell’insegnamento della lingua: si pone infatti anche come strumento per iniziare a risolvere i problemi dello svantaggio culturale, dell’insuccesso scolastico e della stessa “dispersione” e mortalità come della precaria alfabetizzazione di gran parte della popolazione, evidente e diffusa a livello di scolarità di base ma anche superiore. Ma lo studio della lingua sarda, va al di là di questi pur importanti obiettivi.

Lo studio e la conoscenza della lingua sarda, può essere uno strumento formidabile per l’apprendimento e l’arricchimento della stessa lingua italiana e di altre lingue, lungi infatti dall’essere “un impaccio“, “una sottrazione”, sarà invece un elemento di “addizione”, che favorisce e non disturba l’apprendimento dell’intero universo culturale e lo sviluppo intellettuale e umano complessivo. Ciò grazie anche alla fertilizzazione e contaminazione reciproca che deriva dal confronto sistemico fra codici comunicativi delle lingue e delle culture diverse, perchè il vero bilinguismo è insieme biculturalità, e cioè immersione e partecipazione attiva ai contesti culturali di cui sono portatrici, le due lingue e culture di appartenenza, sarda e italiana per intanto, per poi allargarsi, sempre più inevitabilmente e necessariamente, in una società globalizzata come la nostra, ad altre lingue e culture, europee e mondiali. La lingua sarda infatti in quanto concrezione storica complessa e autentica, è simbolo di una identità etno-antropologica  e sociale, espressione diretta di una comunità e di un radicamento  nella propria tradizione e nella propria cultura. Una lingua che non resta però immobile – come del resto l’identità di un popolo – come fosse un fossile  o un bronzetto nuragico, ma si “costruisce”  dinamicamente nel tempo, si confronta e interagisce, entrando nel circuito della innovazione linguistica, stabilendo rapporti di interscambio con le altre lingue. Per questo concresce all’agglutinarsi della vita culturale e sociale. In tal modo la lingua, non è solo mezzo di comunicazione fra individui, ma è il modo di essere e di vivere di un popolo, il modo in cui tramanda la cultura, la storia, le tradizioni.

La Lingua sarda infine, essendo la più forte ed essenziale componente del patrimonio ricchissimo di tradizioni e di memorie popolari, sta a fondamento – per usare l’espressione dell’archeologo Giovanni Lilliu – dell’Identità della Sardegna e del diritto ad esistere dei Sardi, come nazionalità e come popolo, che affonda le sue radici nel senso profondo della sua storia, atipica e dissonante rispetto alla coeva storia e cultura mediterranea ed europea.

Assume cioè un valore etico, etnico-nazionale e antropologico e, se si vuole, anche politico, nel senso di riscatto dell’Isola e del suo diritto-dovere all’Autodeterminazione e all’Indipendenza.

Il che non significa che la nostra Identità debba tradursi in forme di chiusura autocastrante o di separazione: essa deve invece essere accettata e riconosciuta come la condizione base del nostro modo di situarci nel mondo e di dialogare con gli orizzonti più diversi, senza cedere alla tentazione – come osserva acutamente il filosofo sardo Placido Cherchi – di usare la nostra differenza come ideologia o di caricarla, a seconda delle fasi, ora di arroganze etnocentriche ora di significati autodepressivi .

Emilio Lussu

EMILIO LUSSU*

Il mitico comandante militare, il fondatore del Partito sardo, il combattente antifascista, il grande scrittore.

Emilio Lussu nasce ad Armungia (Ca) il 4 Dicembre 1890 in cui conosce “gli ultimi avanzi di una società patriarcale comunitaria senza classi”. Laureatosi a Cagliari in Giurisprudenza nel 1915, interventista convinto e chiassoso, partecipa con entusiasmo, “con l’elmo di Scipio in testa” alla Prima Guerra mondiale, trascinato da una forte passione civile, ispirata a sentimenti democratico-risorgimentali, introiettati durante le giovanili esperienze nell’Università di Cagliari.    Al fronte, sperimenta invece sulla propria pelle, l’assurdità e l’insensatezza della guerra: la vita dei soldati sardi morti, a migliaia, in inutili azioni dimostrative richieste dalla scellerata strategia del generale Cadorna (“più utile al nemico da vivo che da morto” lo definirà) susciterà in lui un moto di ribellione consapevole e una rivolta morale alla guerra e alla classe che la provoca.Leggendario comandante della “Brigata Sassari”, prima tenente poi capitano, per il suo eroismo gli verranno assegnate ben quattro medaglie, diventando poi per i Sardi –e non solo per gli ex combattenti- un vero e proprio mito.Finito il conflitto bellico, Lussu viene trattenuto in servizio di punizione alla frontiera iugoslava, “colpevole” di aver dimostrato i traffici illeciti di un generale a danno dei beni dell’esercito. Rientrato in Sardegna solo nel 1919, partecipa alla fondazione del Partito sardo d’azione la cui nascita, secondo lo stesso Lussu , è da porre in stretta relazione con l’esperienza della guerra, con il senso di solidarietà creatosi fra i soldati sardi al fronte, con la presa di coscienza politica che era avvenuta non solo in lui ma anche da parte dei suoi compagni.  “Non fu –scriverà Lussu- propriamente un movimento di reduci, come quello dei combattenti in tutta Italia. Fin dal primo momento fu un generale movimento popolare, sociale e politico, oltre la cerchia dei combattenti. Fu il movimento dei contadini e dei pastori”.Nelle liste del Partito sardo d’azione Lussu verrà eletto deputato nel 1921 e 1924, rappresentandolo in Parlamento fino al 1926, quando dovette fare i conti con il nascente fascismo di Mussolini e con le provocazioni e le violenze dello squadrismo in camicia nera.Dichiarato decaduto in quanto “aventiniano”, il 31 Ottobre del 1926 quando ormai il fascismo stava imponendo la sua dittatura con le “leggi fascistissime”, lo scioglimento dei partiti e dei sindacati di ispirazione socialista e cattolica, Lussu viene assalito nella sua casa a Cagliari da un gruppo di fascisti. Quello stesso giorno a Bologna, c’era stato un attentato, fallito, contro il duce e i fascisti non perdono l’occasione per scatenarsi ovunque alla caccia degli oppositori. Per difendersi Lussu spara un colpo di pistola contro il primo squadrista che gli si presenta davanti e lo uccide. Arrestato e assolto dai giudici in istruttoria per legittima difesa, viene però condannato in via amministrativa da una commissione fascista, in base alle leggi eccezionali per la difesa dello Stato, volute da Mussolini, a cinque anni di deportazione a Lipari dove conosce –fra gli altri- Ferruccio Parri, Carlo Rosselli e Fausto Nitti, con cui nel 1929, dopo quattro tentativi falliti riesce a evadere avventurosamente per rifugiarsi a Parigi.Qui da esule, insieme ad altri emigrati politici italiani –fra cui Gaetano Salvemini e Carlo Rosselli-  sarà fra i fondatori di “Giustizia e Libertà” di cui rappresenterà l’ala rivoluzionaria. Nel 1936 verrà ricoverato nel sanatorio di Clavadel-Davos dove sarà sottoposto a un difficile intervento chirurgico ai polmoni, in seguito all’aggravarsi di una malattia seria, la Tbc, contratta nel carcere fascista, malcurata a Lipari e trascurata nell’esilio.Nel corso della degenza porterà a termine la stesura dell’opera Teoria dell’insurrezione in cui sostiene l’insurrezione popolare antifascista e un nuovo ordine statuale improntato al federalismo democratico e repubblicano. Nel 1937 scrive Il Cinghiale del diavolo, racconto sulla caccia che diviene pretesto per riepilogare le radici antropologiche dell’autore che, in quanto avvertite come autentiche, sono rievocate positivamente e ottimisticamente. Nel 1938 scrive il suo capolavoro: Un anno sull’altipiano, grande e mirabile denuncia di quel “macello permanente” che è la guerra.L’altra opera più famosa, in cui rievocherà le vicende politiche del decennio 1919-1929, Marcia su Roma e dintorni, la scriverà fra il ’29 e il ’33, insieme a La Catena. Nel 1968 scriverà il saggio politico Sul Partito d’azione e gli altri, mentre uscirà postumo La difesa di Roma nel 1987.Partecipa alla guerra civile in Spagna poi alla Resistenza in Francia e in Italia. Ministro all’assistenza post-bellica (1945) e per i rapporti con la Consulta (1945-46), fu deputato alla Costituente e in seguito senatore prima di diritto (1948) poi eletto fino al 1968.Muore a Roma alle 14 di Mercoledì 5 Marzo del 1975 a 85 anni, povero e in casa d’affitto.

1. Marcia su Roma e dintorni

In Marcia su Roma e dintorni Lussu rievoca le vicende politiche del decennio 1919-1929: un libro testimoniale da cui comunque è possibile ricavare un nitido e complessivo quadro della situazione politica italiana e sarda di quel decennio. Così la lotta degli antifascisti, i cedimenti e le complicità con le illegalità fasciste dei poteri costituiti, (che avrebbero dovuto difendere invece e garantire le istituzioni liberali e democratiche), gli opportunismi dei singoli pronti a schierarsi, – è il caso dell’onorevole Lissia – in barba ai principi proclamati fino al giorno prima, con i più forti del momento, diventano oggetto di una narrazione avvincente, sostenuta da una forza ironica non comune.“Ironia che –scrivono Rosario Contarino e Marcella Tedeschi in Letteratura Italiana, Dal fascismo alla Resistenza, Editori Laterza, Roma-Bari 1980, pag137- è senza alcun dubbio strumento del moralismo di Lussu, ma, lungi dal condurre a una lettura sorridente e conciliativa, tesse sempre inquietante lo spettacolo con la ferocia erosiva di chi, fedele al suo modo di fare politica, nella volontà attivistica vede l’unica chance di salvezza per un’epoca tragica”. 

Giudizio critico

In una interessantissima “vita” di Emilio Lussu, Giuseppe Fiori scrive: ”capitò all’autore di Un anno sull’altopiano e di Marcia su Roma e dintorni di definirsi <un cavaliere di razza fenicia>. E cavaliere fu: non nel senso di cavaliere medievale, armatura e lancia in resta; ma sicuramente nel senso di <balentia>, <hominia>, umanità e carattere, fermezza sui principi, rigore, disinteresse personale, mani pulite…”. Lo stesso Fiori a proposito di Marcia su Roma e dintorni scrive: “Un racconto vivo, alto, godibile tutto…la stupidità del generale Leone ha un che di grandioso, di monumentale. E per contrasto ci coinvolge e tocca l’ineroicità del pastore-contadino-soldato pronto all’adempimento del dovere ma con passione per la vita non per la morte” [Giuseppe Fiori, Il cavaliere dei rossomori, Einaudi editore, Torino, 1985, pag.304]

Per Geno Pampaloni, Marcia su Roma e dintorniè connotata da un’impeto espressivo di forte suggestione, da storico aggressivo e incisivamente ironico dell’avvento fascista”.

ANALISI

A metà Ottobre del ’22, dunque meno di due settimane prima della nomina di Mussolini a capo del governo, -è l’autore a riferircelo in Marcia su Roma e dintorni–  Lussu ha un colloquio a Roma con  l’on. Lissia. Questi sosterrà enfaticamente: ”Se il fascismo trionfa la civiltà del nostro paese rincula di venti secoli”. E ancora: “Abbiamo il dovere di batterci fino all’ultima goccia di sangue. Se non lo faremo sarà l’onta per noi e per i nostri figli”.“Cisalutammo come due combattenti – prosegue Lussu – che si danno appuntamento in trincea. Dopo di che rientrai in Sardegna ed egli rimase a Roma per sistemare degli affari”.“Quale non fu la mia meraviglia nell’apprendere, subito dopo la <Marcia su Roma> che egli faceva parte del Ministero di Mussolini, come sottosegretario alle Finanze”, commenta Lussu.Poco tempo dopo infatti il vice ministro fu inviato in Sardegna come fiduciario del duce, con ampi poteri, soprattutto di promesse”. In un capitolo l’autore descrive, in modo spassoso, il “ricevimento” organizzato nell’Aula del Consiglio Provinciale. La comicità esilarante della descrizione è “giocata” soprattutto sulla “danza del sigaro” messa in scena dall’oratore viceministro: che occorrerebbe leggere, parola per parola, per poterla “gustare”. “Danza del sigaro” che potrebbe diventare un topos letterario e l’espressione quindi essere elevata a metafora del fenomeno del “voltagabbanismo”.La prosa lussiana si muove nel caratteristico tempo narrativo pieno di fatti e cose, nello stile rapido e impaziente. Distante da ogni forma di pietismo, la storia che narra non vuole essere storia interiore ma lucida cronaca in cui l’autore, io narrante, si riserva il ruolo di indagatore e censore, in questo caso del “voltagabbanismo” di Lissia.Lussu, scrittore irregolare, difficilmente incasellabile in qualche “ismo” tradizionale, refrattario alle etichette e senza maestri, manifesta segnatamente in questo capitolo –ma il discorso attiene alla sua opera complessiva, specie ai due capolavori – una scrittura che è agli antipodi della vuota retorica dannunzianae futurista, con cui identifica la letteratura tanto da assegnare a questa una valenza negativa. E comunque sfugge agli schemi tradizionali della letteratura accademica, come fuga dalla realtà e tutta ripiegata in se stessa: la sua scrittura infatti impastata di realtà e di valori etico-politico-sociali alti e forti è caratterizzata da un giro di parole essenziale e rapido, dai gesti e dagli scatti veloci e ironici, dai toni vivaci, dal sapido, icastico e sottile umorismo, dai tratti parodistici intinti nel sarcasmo, dal gusto dei ritratti satirici e corrosivi, tanto che in essi possiamo sentire “lo schiocco delle scudisciate” (Peppino Fiori). 

L’ironia di Lussu e il lessico sardo-campidanese.

L’ironia di Lussu trova fondamento nella tradizione umoristica sarda. A conferma di quanto lui stesso sostiene “…Nella letteratura non ho maestri. L’ironia che mi viene attribuita come caratteristica dei miei scritti non è mia ma sarda. E’ sarda atavicamente…”Ciò vale in modo particolare per la letteratura in lingua sarda ma segnatamente nella variante campidanese che Lussu ben conosce. Essa s’impernia su una abitudine canzonatoria e ironica: meno sonora e sostenuta del logudorese, si presta infatti maggiormente alla beffa e al rapido motto. Essa infatti già di per se stessa risulta particolarmente adatta per esprimere la satira, il comico, l’ironico, il giocoso: più delle altre varianti della lingua sarda. Forse perché lo stesso dizionario di immagini, lo stesso lessico dei modi di dire e di schemi figurativi possiede già al suo interno idee e impressioni atteggiate dall’anima popolare nella forma del paradosso, della battuta, della satira. Questo spiega –fra l’altro- perché in sardo-capidanese sono state prodotti capolavori come Sa scomunica de predi Antiogu.

2. Un anno sull’altipiano

Durante l’esilio francese e la permanenza in un sanatorio svizzero, presso la casa di cura di Clavadel dove si era ricoverato per curare un’infezione polmonare, nella primavera del 1936 quando in Spagna già infuriava la guerra civile, Emilio Lussu scrisse Un anno sull’altipiano, pubblicato per la prima volta a Parigi su insistenza di Gaetano Salvemini nel 1938. In Italia l’opera uscì solo nel 1945, a Liberazione avvenuta. La forzata sosta dell’attività politica indusse dunque l’uomo Lussu a rievocare uno dei momenti più importanti della sua vita e della sua formazione umana e civile che più che nelle aule universitarie si era realizzata proprio nelle trincee degli Altipiani di Carso, di Asiago della Bainsizza, con la Brigata Sassari.Un anno sull’altipiano è la cronaca di guerra direttamente vissuta da Lussu, in una posizione drammatica: da una parte interventista, dall’altra oppositore della classe dirigente. “Io non ho raccontato che quello che ho visto […] ho rievocato la guerra così come noi l’abbiamo realmente vissuta”, scriverà in seguito. Lineare nella struttura –viene scartato persino l’artificio consueto del diario-  il libro racconta la storia di un anno cruciale (il 1917) come intuizione di esiti reazionari insospettati e di possibilità iniziali di rivolta. “Per la prima volta –scriverà Lussu in La Brigata Sassari e il Partito sardo d’azione– si rendevano conto che la guerra la facevano solo i contadini, i pastori, gli operai, gli artigiani. E gli altri dov’erano?…Altra scoperta: anche dall’altra parte la guerra la facevano i contadini e gli operai. E anche loro perché la facevano?”.Cogliendo e descrivendo gli aspetti quotidiani della cruda e confusa vita e realtà della trincea, drammatici, assurdi e grotteschi insieme, Lussu nel passo che si riporta spiega qual è il diaframma culturale che divide gli uomini in guerra, rinserrati dentro la stessa trincea ed esposti a tragiche sortite comuni: da una parte i fanti, i contadini, i pastori e dall’altra gli ufficiali, ma soprattutto i generali, di cui Leone ne è un significativo emblema, che mandano al macello sicuro i soldati. Due classi che non riescono a fondersi neanche attraverso l’orrore delle esperienze comuni, in mezzo al sangue e al fango. La barriera resta insuperabile. Solo alla fine alcuni ufficiali subalterni, poco a poco, capiscono il rapporto e vogliono superarlo a costo della vita, e i soldati pastori o contadini, alla fine si incontrano esprimendosi contro le menzogne, le ipocrisie, le ambizioni di una casta di generali che trovava giustificazione al proprio esistere esclusivamente nei mascheramenti patriottici. Sono loro i nemici, prima e oltre che gli austriaci, i nemici naturali. 

Giudizi critici

Carlo Salinari a proposito di Un anno sull’altipiano scrive “Chiudendo il libro al di là dei personaggi tragici e comici, delle scene di orrore, dei massacri e dei sacrifici, ti rimane nella mente il profilo pensoso dell’autore, sospeso nell’angoscioso dilemma che lo dilania: di aver voluto la guerra e di aver visto cadere tutte le sue illusioni”. Per lo stesso Salinari l’arte di Lussu si nutre “di un nuovo modo di guardare il mondo in cui forte era l’esigenza della scoperta dell’Italia reale, nella sua arretratezza, nella sua miseria, nelle sue assurde contraddizioni”. Per Leonardo Sole “la forza narrativa di Un Anno sull’altipiano nasce da una descrizione lineare (cornice scenica) che si fa racconto, si rafforza emergendo potentemente dalle sequenze di azioni teatrali (i dialoghi) e si restituisce alla linearità narrativa in forme del tutto nuove, che sanciscono la novità e la modernità di questa prosa polimorfica, in cui l’azione è ora fisica ora fortemente interiorizzata in forme magmatiche e implosive” [Il Teatro della parola in un Anno sull’altipiano, Leonardo Sole, in Emilio Lussu, trent’anni dopo, Alfa editrice, Quartu 2006, pag.46]

ANALISI

Il Lussu che scrive Un Anno sull’altipiano, ha lo sguardo puntato su fatti e persone la cui tragicità, unita alla tensione dolorosa della memoria, ha potentemente fissato inun eterno presente la drammaticità e lo scontro con gli alti ufficiali e generali, -in questo brano personificati dal generale Leone- con la loro incapacità, i limiti morali e la protervia, i vizi e le miserie, il disprezzo del valore della vita dei subalterni, gli atti di giustizia sommaria. Il testo costituisce l’esame di coscienza di un intellettuale che quella guerra aveva voluto e combattuto, accettandone tutte le conseguenze e soprattutto condividendo tutti i rischi di quanti l’avevano invece solo subita, ad iniziare dai contadini e dai pastori sardi in grigioverde, suoi commilitoni e compagni d’armi che a migliaia moriranno sul fronte.Al fronte dunque, nella cruda realtà della trincea, davanti a quei reticolati che almeno cinque milioni di Italiani vennero chiamati a rompere semplicemente con i loro petti, matura una nuova coscienza contro la mostruosa macchina bellica, e senza retorica e senza trionfalismi denuncia l’insopportabilità, anche fisica della guerra, quella tragica, crudele e assurda guerra di trincea, che si tramutò in un grande massacro, in una <inutile strage>, per utilizzare l’espressione del papa Benedetto XV. Altro che inebriante bellezza del sacrificio gloriosamente consumato al servizio della patria, come D’Annunzio e futuristi avevano retoricamente esaltato!Con il suo stile icastico e antiretorico, lapidario e colorito, dotato del vigoroso sapore dell’immediatezza, la rapidità e la brevità espressiva ovvero la secchezza strutturale della sua pagina unita alle folgorazioni metaforiche, Lussu è capace di immergere il lettore al centro della vicenda narrata e vissuta dall’autore, rendendolo così testimone e partecipe lui stesso alla vicenda.Attento osservatore della realtà circostante, uomo che si era formato nell’azione, a contatto con la vita pulsante degli uomini, ma anche uomo di robusta moralità posta a confronto con l’universo assurdo delle gerarchie militari, egli trovò nell’ironia lo strumento più adatto per far luce su un passato troppo a lungo mistificato.Ma dietro l’ironia, tagliente e corrosiva, l’umorismo, e persino il sarcasmo, si nasconde la tragedia di un dramma collettivo: nel sorridere degli eventi, ne scopre infatti il nocciolo di verità di una guerra che comporterà <l’inutile strage>.

Sarcasmo e ironia, che sono gli elementi caratterizzanti della prosa lussiana, universalmente considerati fra i tratti emblematici del suo stile e che rivelano le tracce di una ascendenza isolana di tipo etnico e culturale indubitabile. Un’ironia, “quella sottile e fredda ironia che all’improvviso rompe il racconto e lo commenta, o meglio costringe il lettore a farlo dentro di sé” (Enzo Enriques Agnolotti).

 

Bibliografia essenziale

Opere dell’Autore

Marcia su Roma e dintorni, Parigi 1923, Editore Einaudi,  Roma 1945.

Teoria dell’insurrezione, Parigi  Editore <Giustizia e Libertà>, 1936; Ed. Jaca-Book , Milano 1969.

-Un anno sull’altipiano, Parigi, Edizioni italiane di cultura, 1938; Edizioni Einaudi, Roma 1945.

-Il Partito d’azione e gli altri, Editore Mursia, Milano 1968.

-Il cinghiale del diavolo e altri scritti sulla Sardegna, a cura di Simonetta Silvestroni, Editore Einaudi, Torino 1976.

– La difesa di Roma, a cura di Giancarlo Ortu e Luisa Maria Plaisant, Editrice democratica sarda, Sassari, 1987.

Opere sull’Autore

-Rosario Contarino e Marcella Tedeschi, Letteratura Italiana, Dal fascismo alla Resistenza, Editori Laterza, Roma-Bari 1980.

-Giuseppe Fiori, Il cavaliere dei rossomori, Einaudi editore, Torino, 1985.

-Eugenio Orrù e Nereide Rudas (a cura di), L’uomo dell’altipiano, Riflessioni, testimonianze, memorie su Emilio Lussu, Tema editore, Cagliari 2003.

Emilio Lussu, trent’anni dopo (scritti di Giuseppe Caboni, Francesco Casula, Gianfranco Contu, Graziano Milia, Eugenio Orrù, Matteo Porru, Antonio Quartu, Nereide Rudas, Leonardo Sole, Renato Soru, Eliseo Spiga), Alfa editrice, Quartu, 2006.

* Tratto da Letteratura e civiltà della Sardegna di Francesco Casula, volume I, Edizioni Grafica del Parteolla, Dolianova, 2011, pagine 146-165.