Conferenza sulla Lingua sarda

Quartu Sant’Elena – Ita mi contas, una rassegna su lingua e storia sarda

 
 
Martedì, 25 Settembre, 2012

Alla riscoperta delle proprie radici: l’associazione “Ita mi contas”, in collaborazione con la Biblioteca comunale di Flumini, organizza per questo autunno una serie di incontri per la conoscenza e la diffusione della lingua e della storia sarda.
Il primo appuntamento di questa rassegna è per giovedì alle 17.30, nella sede di via Mar Ligure 3 (nella lottizzazione di Stella di Mare 2), con una conferenza tenuta dal docente Francesco Casula.
Sono diversi gli aspetti che saranno approfonditi: le origini e le influenze della letteratura in sardo, i pregiudizi e le dispute (lingua o dialetto e differenziazioni territoriali), il dibattito sulla limba sarda comuna , l’insegnamento nelle scuole, l’uso ufficiale nelle istituzioni, l’utilizzo nei mass media e la legislazione europea. «Sul sardo», spiega Casula, «sono presenti, e spesso messi in circolo ad arte, una serie di pregiudizi e luoghi comuni. Sono sedimentati nel tempo, frutto insieme dell’ignoranza e della malafede da parte dei nemici della lingua sarda». (g. mdn.)

Da L’Unione Sarda del 25/09/2012

In ricordo di Gianfranco Pintore

Gianfranco Pintore oggi, dopo una lunga malattia ci ha lasciato. Con lui scompare un amico, un giornalista e intellettuale di gran vaglio, uno scrittore bilingue di valore, uno strenuo combattente per la Lingua sarda, un nazionalista sardo convinto.

Lo voglio ricordare pubblicando le 14 pagine che gli ho dedicato, come scrittore, soprattutto in lingua sarda, nel 2° volume della mia Letteratura e civiltà della Sardegna (Grafica del Parteolla editore) che uscirà a ottobre. 

 

GIANFRANCO PINTORE 

Il giornalista, saggista e scrittore bilingue e identitario (1939-2012)

Gianfranco Pintore nasce ad Irgoli (Nuoro) il 31 agosto 1939. Nel 1951 lascia la Sardegna. A Firenze frequenta il ginnasio, il liceo classico e si iscrive all’Università. Ha in testa un’idea: la laurea non serve per il mestiere di giornalista che vuol fare e fa gli esami che gli interessano: in Architettura con Ludovico Quaroni, in Scienze politiche con Giovanni Spadolini, di Giurisprudenza. Intanto, a partire dal 1962 fa il “volontario di cronaca” nella redazione fiorentina di “L’Unità” e nel 1965 è chiamato alla redazione centrale a Roma, per la quale lavora prima nella sezione cronaca e quindi in quella degli esteri. È inviato speciale e per un certo periodo corrispondente da Varsavia. Dopo le sue dimissioni da ”L’Unità” in seguito all’invasione della Cecoslovacchia, lavora nel settimanale “Mondo Nuovo e quindi, a Milano, nel settimanale “Abc come inviato e infine come redattore capo.

Nel 1973 stipula con la casa editrice Mazzotta di Milano un contratto per la redazione di un saggio che l’anno successivo è pubblicato con il titolo “Sardegna: regione o colonia?”. È lo studio del rapporto conflittuale fra la comunità di Orgosolo e lo Stato, giocato fra storia, tradizione orale, testimonianze, ed è anche la ricerca di quanto Orgosolo rappresentasse lo spirito dell’intera Sardegna, di quanto in altre parole la Sardegna potesse sentirsi rappresentata dal sentimento comunitario del paese, altrimenti e altrove descritto come “il paese dei banditi”.

All’uscita del libro decide di restare in Sardegna, come corrispondente di “L’Espresso” di Eugenio Scalfari prima e successivamente di “Tempo illustrato” di Lino Jannuzzi. Lavora anche per “La Nuova Sardegna” di cui fa l’inviato e conduce una serie di campagne di stampa. Quella per il bilinguismo e quella per la Zona franca gli costerà il licenziamento in tronco per richiesta esplicita di un dirigente di partito decisamente contrario e all’uno e all’altra. Dirige a Nuoro la prima, e per ora unica, radio libera bilingue, “Radiu Supramonte” e fonda a San Sperate il mensile “Sa Sardigna”, anch’esso bilingue.

Nel 1981 esce il suo romanzo in italiano Sardigna ruja, storia della contrastata industrializzazione forzata delle Terre interne della Sardegna che ha come effetto il sorgere di una banda guerrigliera che dà il nome al romanzo. A questo fa seguito, nel 1984, Manzela, romanzo in italiano sugli effetti che il conflitto fra codice italiano e legge consuetudinaria ha sulla vita di un giovane intellettuale e della sua compagna, Manzela (Mariangela).

Dalla seconda metà degli anni Ottanta alla prima metà del decennio successivo a Cagliari dirige il periodico del Partito sardo d’azione “Il Solco”. Nel frattempo, nel 1986, pubblica con Rizzoli Sardegna sconosciuta, un viaggio in cento tappe all’interno della civiltà dei sardi per raccontare a turisti curiosi l’altra faccia, quella più intima e insolita, di un’isola prevalentemente visitata per le sue spiagge (una seconda edizione, riveduta e corretta, è pubblicata, sempre da Rizzoli, nel 2001).

Nel 1989 il suo romanzo Su Zogu ottiene il premio Casteddu de sa Fae di letteratura in lingua sarda : in un futuro non molto lontano, in una Sardegna divisa tra Coste e Terre interne, un gruppo di giovani si ribella alla dittatura paternalistica imposta al centro dell’isola. Nel 2000, con il titolo La caccia, ne esce la traduzione in italiano.

Nel 1996, pubblica il saggio sul federalismo La sovrana e la cameriera, titolo evocativo del rapporto esistente fra l’autogoverno pieno che avrebbe dovuto realizzare i diritti storici della Sardegna in quanto nazione e l’autonomia storicamente realizzatasi in Sardegna.Tornato a Nuoro, dirige l’emittente bilingue “TeleSardegna”, per la quale cura anche il primo telegiornale in sardo, Telediariu, e fa l’editorialista per il quotidiano “L’Unione sarda”.

Nel 2002, pubblica il romanzo in sardo “Nurai”. Nel 2006, insieme a Natalino Piras e a Giulio Angioni, pubblica il volume Lula. Nel 2007 scrive un altro romanzo in lingua sarda Morte de unu Presidente, un noir che prende le mosse dall’assassinio del Presidente della Regione sarda. Sembra un omicidio a sfondo sentimentale ed è ben altro. Nel 2009 pubblica un altro romanzo in lingua sarda Sa losa de Osana (La stele di Osana).

Muore, dopo una lunga malattia, il 24 settembre 2012. 

 

Presentazione del testo [passo tratto dal romanzo Nurai, Ed. Papiros, Nuoro 2002, pagine 12-15) ]

Con il romanzo Nurai, una storia di spie e omicidi, ambientata nella Sardegna degli ultimi anni, Pintore continua la sua esperienza di autore di romanzi gialli dopo Sardigna Ruja – in cui uscendo dai canoni tradizionali del folklore, analizza e approfondisce i codici di comportamento di un popolo –  ma soprattutto dopo Manzela – in cui l’autore ha voluto mostrare il contrasto fra le due leggi, quella italiana e quella sarda, e il travaglio esistenziale che ne deriva –  e in parte anche dopo Su Zogu, anche se questo è più ascrivibile al romanzo fantascientifico.

Una storia quella di Nurai  – nella quale Pintore riesce a trovare una mediazione stilistica fra il saggio e il romanzo – molto intritzida (complessa, intricata) e avvincente, con decine di morti, di feriti, di incidenti, di bombe. Così intritzida che solo nell’ultima parte del romanzo s’isboligat totu su misteriu (si chiarisce, si dipana, tutto il mistero) tanto da far dire all’Autore che la vicenda est comente cuddos contos de Shakespeare chi agabant cun sa morte de totu sos pessonarzos  (è come i racconti di Shakespeare che terminano con la morte di tutti i personaggi). Con intrecci che hanno inizio, si interrompono, si spezzano. Con personaggi –poliziotti maschi e femmine, carabinieri, bandititi e ladri, giornalisti e generali, giovani e belle ragazze, militanti nazionalisti e persino un deputato autonomista e un primo Ministro italiano – che si cercano, si fuggono, si perdono e si ritrovano, in una inesauribile girandola di avventure e di intrighi.

      Pintore in Nurai almanacca, racconta e rappresenta la Sardegna reale, con i suoi drammatici problemi. nuovi e antichi, in cui allo specifico locale e identitario si sovrappone la ”modernità”, arrivata dall’esterno: Sas bases militares e Maschinganna (Le basi militari e “Maschinganna”: un poligono militare segreto); su traficu burdellosu e sena ordine e sas trumbas de sas veturas, impressadas e nevroticas, chimente in Zordania o Maroco (il traffico chiassoso e disordinato e i clacson delle auto frettolose e nevrotiche come in Giordania o Marocco); sas fileras de machinas longas cantu sa carrela (le file delle macchine lunghe come un’intera strada); sos palatos inieddados dae su gas de sas machinas (i palazzi anneriti dall’inquinamento dei gas delle auto); sas duas turres de sa fabrica de Otana chi ghetant lughes tabachinas e fumu biancu contra a sas nues (le due ciminiere della fabbrica di Ottana che mandano luci color tabacco e fumi bianche verso le nuvole); sas iscritas mannas in sos mureddos e in sas rocas contra a unu Parcu (le scritte cubitali nei muri e nelle rocce contro un Parco).

 

NURAI E MINTONIA

 

[…] Nurài aìat ascurtadu sena si tremer, pigadu dae sas paraulas de tiu Valurta. Non cumprendiat ite bi pitzigaiat su contu cun sos fatos chi l’interessaiant, ma cudd’òmine l’aìat incantadu. Seidu in su tupeddu de fèrula acurtzu a sa tziminera pintada de ruju, sas palas semper tèteras sena unu mamentu de istrachitùdine, Naniu1 Valurta depiat esser unu chi petzi su connotu aìat fatu saviu.”Mi diat agradare a li pregontare si at ascurtadu mai unu telediariu” at atinadu Nurài. Sa televisione fit alluta dae cando fit intradu a cudda coghina e fit gasi bassa chi azomài mancu nd’essiat sonu. Ghetende una mirada pagu cuidada, at bidu sa locudora moende sas lavras e deretu a pustis sas imàzines de una tzitade. L’at reconnota deretu s’arvorada de Sarajevo. E un’òmine, chi a sos tempos aìat intervistadu unu bene de bias, pesende sas manos in artu e riende. “Tando bi l’at fata a bincher torra, tiu Isetbegovic” at murmutadu. In sa domo pariat non b’aeret àtera zente in prus de sos tres òmines. Ma — l’aìat imparadu àteras bias bisitende Orgovèi2  — in medas domos sa televisione abarraiat semper alluta. Comente chi esseret unu servitziu dèpidu a s’istranzu: tocaiat a isse leare su pessu de artiare s’audiu e de si pompiare su chi l’agradaiat o de la dassare comente fit e istoriare paris cun sos meres de domo.

“Bisse'”3 at mutidu tiu Naniu. E comente chi esseret isetende cussa boghe, dae palas de sa zanna est intrada una fèmina in beste niedda, sos pilos cuados dae unu mucadore tabachinu bene presu chi li faghiat cuadru a sa cara lisa de una de binti annos, mancari nd’aeret tentu nessi duas bias.

“Ue’, Boe’4. Inoghe sezis?” at naradu issa a Boelle e l’at porridu sa manu a Nurài. “E s’istranzu, sanieddu sezis?”

“Gheta·lis a biber” at ordinadu su betzu. E deretu una zòvana est intrada cun una safata in manos chi b’aìat tres tzìcheras e una tziculatera nuscosa de cafè essinde.

“Ue'” at saludadu. “E tando, nant chi ses unu zornalista. Ello, mortos a sas bistas b’at?” at naradu, acurtziende·li sa safata cun sa tzìchera prena. Su tonu fit de brulla, sas paraulas fint zustas zustas sas chi cheriat narrer.

“Si no nd’ischis tue chi ses de sa bidda” l’at torradu isse, cun su matessi tonu de brulla.

S’est posta a rier e sas lavras longas e prenas si sunt abertas iscuguzende duas filas de prendas biancas. Ma sos ogros, issos non fint riende e ant iscoviadu, prus de sas allegas, s’astiu chi sa pitzoca teniat in corpus. Boelle puru si nd’est sapidu: “Minto’5, est s’istranzu meu, Nurài” l’at fatu a murru tostu, comente pro lordinare a la segare in curtzu. Sa chi tiu Naniu aìat mutidu Bissenta, at bogadu tres tzichetes e un’ampulla de abardente dae unu rebustu lùghidu che bidru e est essida saludende: “Istentade·bos”.

“Boe’, no as a esser su primu nen s’ùrtimu chi trampant, custos” l’at torradu Mintònia, issa puru a murru postu. “Ite lis interessat a issos? Benint a inoghe cun sa conca prena de ideas belle cuncordadas in antis de moer e a sa furca su beru si s’atrivit de cuntrastare sos prezudìtzios issoro.” Sas paraulas nche l’essiant arrajoladas sena mancu fagher mustra, como, de esser allegas de brulla. Sos pilos nieddos, longos finas a palas, mòidos cun sa manu nervosa, ant mustradu su tugru longu e benas inchietas. “E pessas chi benint pro contare in bonu sos problemas de bidda? Nono, issos falant che gurturzos petzi cando intendent fragu de petza pudende. Sighint s’arrastu de sa morte mala in antis chi b’apat arrastu…”

“Minto’, Mintònia ti naras, beru?” at naradu Nurài, agatende unu badu in cussu riu de allegas. “So de acordu cun tegus, meda prus de su chi podes pessare.”

“Ca tue ti pessas diferente dae sos àteros, marranu.”

“S’incapas so diferente o si podet dare lu pesso ebia. Ma, pro ite non l’averguas tue etotu? Non bi cheret mancu meda: bastat de lu legher su chi iscrio. Tando as a cumprender si sos gatos sunt totu murros ca los pòmpias a de note o si est a beru chi tenent totus su pannu murru. Salude” at naradu Nurài acurtziende a lavras sa tassighedda chi sa zòvana l’aìat prenadu de abardente.

“E bida” l’at torradu Naniu. “Mintònia est istudiende in Casteddu”6 at sighidu cun s’àera de li bogare còntigas a sa fiza.

“Nade, tiu Nani’, e it’est chi est capitadu in Gorthene?7 Tres annos como, mi paret chi azis naradu” at pregontadu Nurài.

“Una mortina est capitada. Unu burdellu mannu: tres mortos b’at àpidu sa die. Si sunt isparados a pare zustìtzia e bandidos nant chi fint: tres òmines nche los ant regortos in fustes birdes.”

“Su chi ant contadu zustìtzia e zornalistas” fit narende Mintònia cando est intrada un’àtera fèmina […]. 

 

  Note

1. Naniu: in Italiano Anania

2. Orgovei: nome di pura fantasia, che risponde, più che a un preciso paese sardo, a un “luogo dello spirito”, a una metafora. Per indicare che non solo Orgosolo – come il lettore di primo acchito potrebbe pensare – ma molti paesi sardi del Nuorese avrebbero potuto essere teatro delle vicende narrate.

3. Bissè: diminutivo del sardo Bissente, in italiano Vincenza.

4. Boè: diminutivo del sardo Boelle, in italiano Raffaele.

5. Mintò: diminutivo del sardo Mintonia, in italiano Maria Antonia.

6. Mintonia est istudiende in Casteddu (Mintonia sta studiando a Cagliari) dice il padre a Nurai, per significare che ormai la ragazza è fuori dall’ambiente del paese –no est de sos nostros, non è dei nostri insomma –   e per questo parla in quel modo. 

7. Gorthene: precisa località ubicata a Osposidda, dove avvenne uno scontro armato fra polizia e banditi con l’uccisione di tre persone. 

 

Traduzione

Nurài aveva ascoltato in silenzio, affascinato dalle parole del vecchio Valurta. Non capiva che cosa c’entrasse il suo racconto con i fatti che a lui interessavano, ma quell’uomo l’aveva ammaliato. Seduto su un panchetto di ferula, accanto al caminetto verniciato di rosso, le spalle sempre impettite senza un cenno di stanchezza, Naniu Valurta era certo di quelli che solo la conoscenza delle usanze aveva fatto saggio.

“Mi piacerebbe chiedergli se ha mai dato ascolto a un telegiornale” pensò Nurài.

Il televisore era acceso da quando era entrato in quella cucina e il tono era così basso che quasi non ne usciva suono. Dandogli uno sguardo distratto, ha visto il movimento delle labbra della lettrice e subito dopo le immagini di una città. Riconobbe subito un viale di Serajevo. E vide un uomo, che in altri tempi aveva intervistato molte volte, levare le mani in alto e sorridere. “Dunque ce l’hai fatta a vincere ancora, vecchio Isetbegovic” , sussurrò.

In casa sembrava non ci fosse altra gente, oltre a loro tre. Ma – aveva imparato nelle altre occasioni in cui aveva visitato Orgovèi – in molte case il televisore rimaneva sempre acceso. Quasi fosse un servizio dovuto all’ospite: spettava a lui decidere di sollevare l’audio e di guardare ciò che più gli interessava o di lasciarlo così com’era e discorrere con i padroni di casa.

“Bissè” chiamò zio Naniu. E come se stesse aspettando quel richiamo, da dietro la porta entrò una donna vestita di nero, i capelli nascosti da un fazzoletto marrone ben legato che incorniciava un volto liscio di una ventenne, anche se certo avesse almeno il doppio di quegli anni.

“Uè, Boè. Qui siete?” disse a Boelle, porgendo la mano a Nurài. “E il forestiero, in salute siete?”

“Versate da bere agli ospiti” ordinò il vecchio. E subito una ragazza entrò con un vassoio in mano su cui erano tre tazzine e una caffettiera odorosa di caffè gorgogliante.

“Uè” salutò. “E dunque pare che sei un giornalista. Cos’è? morti in vista ci sono?” disse, avvicinandogli il vassoio con una tazzina piena. Il tono era scherzoso, le parole erano giusto giusto quelle che voleva dire.

“Se non lo sai tu che sei di qui” rispose lui, con lo stesso tono allegro.

Scoppiò a ridere e le labbra lunghe e piene si aprirono scoprendo due file di perle bianche. Ma gli occhi non sorrisero, mostrando anzi, più delle parole, un astio che la ragazza aveva in corpo. Anche Boelle se ne accorse: “Mintò, è mio ospite, Nurài” fece a muso duro, come per intimarle di farla finita. La donna che zio Naniu aveva chiamato Bissenta portò tre bicchierini e una bottiglia di acquavite tolta da un mobile di fòrmica luccicante e uscì salutando: “Trattenetevi”. “Boè, non sei il primo né sarai l’ultimo che imbrogliano, questi” rispose Mintònia, anche lei a muso duro. “Che cosa interessa a loro? Vengono qui con la testa piena di idee ben confezionate prima di partire e vada al diavolo la verità se osa contrastare i loro pregiudizi”. Le parole le uscivano furenti senza più far finta di essere frasi scherzose. I capelli neri, lunghi fino alle spalle, mossi da una mano nervosa, mostrarono il lungo collo e vene stizzite. “Pensi davvero che vengano qui per raccontare con interesse i problemi del paese? No, loro scendono come avvoltoi solo quando sentono tanfo di carne marcia. Seguono il sentore della mala morte ancor prima che ci sia l’odore…”

 “Mintò, Mintònia ti chiami, vero?” disse Nurài, trovando un guado in quel torrente di parole. “Sono d’accordo con te, molto più di quanto tu possa pensare.”

“Chiaro, perché tu ti credi diverso dagli altri.”

“Forse sono diverso e forse lo penso solamente. Ma perché non verifichi tu stessa? Non ci vuole molto: basta leggere quel che scrivo. Allora capirai se i gatti sono tutti scuri perché li guardi di notte o se davvero tutti hanno il pelo scuro. Salute” disse Nurài avvicinando alle labbra il bicchierino che la ragazza aveva riempito di acquavite.

“E vita” rispose Naniu. “Mintònia sta studiando a Cagliari” continuò con l’aria di trovare una qualche scusante alla figlia. “Ditemi, tiu Nanì, cos’è che è capitato davvero a Gorthene? Tre anni fa, mi pare che abbiate detto” chiese Nurài.

“Una strage è successa. Una gran confusione: ci sono stati tre morti, il giorno. Si sono sparati polizia e banditi, a quel che hanno detto: tre uomini, li hanno trasportati su barelle di rami verdi.”

“Questo è quello che hanno raccontato polizia e giornalisti” stava dicendo Mintònia, quando nella stanza è entrata un’altra donna. 

 

Giudizio critico

Per Francesco Casula Nessuna sintesi può dare anche una sola pallida idea di Nurai: tanti e tali sono infatti le figure e i personaggi, gli episodi e le descrizioni paesaggistiche e ambientali di cui il romanzo di Gian Franco Pintore è tramato. E che si intrecciano con riflessioni personali – sul ruolo e sulla deontologia professionale del giornalista, per esempio – digressioni ragionanti, excursus etno-antropologici, immagini e metafore mutuate dalla vita rustica, soprattutto barbaricina che l’autore ben conosce e, direttamente.

Sempre Casula, a proposito della lingua sarda utilizzata scrive che “Vi è in Nurai, più che nei suoi precedenti romanzi in Lingua sarda, un suo personale, ampio e corposo tentativo di censimento, di scavo, di esplorazione, di ricerca, di studio e di sperimentazione di un progetto di Limba, unificata, standardizzata e sovraordinata, una sorta di Koinè linguistica e ortografica”.

[Francesco Casula, Nurai: una paristoria meda intritzida de Gianfranco Pintore, Sardinna, rivista quadrimestrale bilingue di politica, cultura, economia, anno I, numero II, Nadale 2002, Alfa editrice, Quartu, pagine 89-91].

Scrive invece Giuseppe Marci, riferendosi a Pintore autore dei primi tre romanzi, Sardigna Ruja, Manzela e Su Zogu: ”Gianfranco Pintore insieme rappresenta la continuità della tradizione narrativa sarda e un punto di rottura significativo. Scrittore a tesi, animato da una forte carica ideologica, non di rado pronto a sacrificare le esigenze dell’arte in nome del principio che intende affermare, sembra essere un diretto erede di quegli autori ottocenteschi che miravano attraverso i loro romanzi, alla proposta di una immagine nuova e positiva della Sardegna. […].

Ma d’altra parte egli è anche un innovatore che lavora sullo strumento linguistico, rinunciando nelle prime due opere, al conforto della lingua letteraria, per imboccare l’aspro sentiero dell’italiano regionale sardo e riprodurre le forme del parlato quotidiano e nell’ultima optando risolutamente per l’impiego del sardo”.

[Giuseppe Marci, Gianfranco Pintore: continuità e rinnovamento nella letteratura sarda, La Grotta della vipera, rivista trimestrale di cultura, anno sedicesimo, nn.50-51, 1990].

 

ANALIZZARE

Il romanzo si intride della stessa cronaca, si nutre di dati e vicende politiche e pubbliche attuali o comunque recenti, in modo particolare del cosiddetto complotto separatista di qualche decennio fa, ovvero de sa rebellia autonomista contra su Guvernude su grustiu de zente – a su chi s’ischiat in Romachi zughiat in conca de pesare burdellu in Sardinna pro che istacare sa Sardinna dae s’Istadu (del complotto autonomista contro il Governo…di un gruppo di persone – così almeno si sapeva a Roma – che aveva in mente di creare disordini in Sardegna per staccare la Sardegna dallo Stato).

Nel passo citato è messa in risalto una precisa e autentica ambientazione sarda, che pur nella sobrietà riesce a fissare con efficacia luoghi, costumi e personaggi, sia dal punto di vista fisico che psicologico: il vecchio Anania, unu chi petzi su connotu aìat fatu saviu (uno fatto saggio solo dalle usanze); Mintonia (Maria Antonia), una giovane militante nazionalista sarda che studia a Cagliari: cun sos pilos nieddos, longos finas a palas…sa manu nervosa…su tucru longu e benas inchietas (I capelli neri, lunghi fino alle spalle…una mano nervosa…il lungo collo e vene stizzite). Che quando ride cun sas lavras longas e prenas…scopre duas filas de prendas biancas (colle labbra lunghe e piene…due file di perle bianche). Ma sos ogros, issos non fint riende e ant iscoviadu, prus de sas allegas, s’astiu chi sa pitzoca teniat in corpus (Ma gli occhi non sorrisero, mostrando anzi, più delle parole, un astio che la ragazza aveva in corpo).

Astio contro chi viene da Roma per fare le indagini: issos falant che gurturzos petzi cando intendent fragu de petza pudinde. Sighint s’arrastu de sa morte mala in antis chi b’apat arrastu… ( loro scendono come avvoltoi solo quando sentono tanfo di carne marcia. Seguono il sentore della mala morte ancor prima che ci sia l’odore…).

Come si sarà capito Nurai è un romanzo scritto in Sardo: con esso Pintore prosegue l’esperienza e la sperimentazione linguistica intrapresa con Manzela e Su Zogu.

 Un Sardo che l’autore ben conosce e padroneggia, curvandolo e piegandolo a suo piacimento, con sicurezza anche quando affronta temi che riguardano “sa modernidade (la modernità) : come aveva del resto fatto in particolare anche con Su Zogu, parlando di rebellias telematicas, (ribellioni telematiche), cavos otticos (cavi ottici),carculadores (computer), enerzia atomica (energia nucleare).

 La Lingua che viene “sperimentata” risulta insieme ricca e sobria, concisa ed espressiva. C’è inoltre da sottolineare che sulla sua scrittura, – secca ed essenziale, quasi scarnificata, con la narrazione che procede per sintesi serrate e condensate, senza eccessive divagazioni – ha sicuramente  influito il suo mestiere di giornalista della carta stampata nonché i suoi telegiornali e servizi televisivi in genere, in lingua sarda.

E ciò comunque non vuol dire che il suo linguaggio sia sbrigativo e tanto meno trasandato. Anzi: Pintore infatti al lessico come alla tessitura del discorso narrativo  – un racconto lungo in discontinuità con i Contos” tradizionali in sardo – dedica cura, attenzione e studio. 

 

FLASH DI STORIA-CIVILTA’

-I libri di narrativa in lingua sarda.

Antoni Arca (in Benidores, Literatura, limba e mercadu culturale in Sardigna, Condaghes editore, Cagliari 2008) ha censito i libri di narrativa in lingua sarda pubblicati in meno di 30 anni.

Nei primi dieci anni (1980-1989) le pubblicazioni sono state 22, fra cui 11 romanzi.  

Il primo a rompere il ghiaccio della incomunicabilità fra la lingua sarda e il romanzo (quella con il racconto, soprattutto orale non c’è mai stata) è Larentu Pusceddu con S’àrvore de sos tzinesos. Il libro scatenò, quando uscì nel 1982, una lunga querelle letteraria che ebbe per alcuni il merito e per altri la colpa di portare alla ribalta la questione della lingua sarda.

Tra i romanzi pubblicati nel decennio 1980-1989, oltre a quelli già ricordati in questa Letteratura (Sos Sinnos di Michelangelo Pira; Mànnigos de memoria di Antonio Cossu; Po cantu Biddanoa  di Benvenuto Lobina; S’Istoria, Condaghe in limba sarda di Frantziscu Masala e su Zogu di Zuanne Frantziscu Pintore, da menzionare sono Su traballu est balore (1984) di Francesca Cambosu; Alivertu (1986) di Mario Puddu e Sas gamas de istelai (1988) di Albino Pau (ripubblicati ambedue nel 2004 da Condaghes editore).

Nei secondi dieci anni (1990-1999) le pubblicazioni sono più che raddoppiate: dalle 22 del primo decennio passano a 57.

Da ricordare –fra gli altri – i seguenti romanzi: Su contu de Piricu di Mario Sanna (1990); Mastru Taras (1991) di Larentu Pusceddu; Su Zuighe in cambales ((1992) di Gigi Sanna;  i romanzi in gallurese: Di stenciu a manu mancina (1993) di Giancarlo Tusceri e Lu bastimentu di li sogni di sciumma (1997) di Giuseppe Tirotto e Sciuliai Umbras (1999) di Ignazio Lecca, in campidanese.

Fra i “Contos-racconti”, di particolare interesse Nadale (1990) di Diego Corraine; Sa memoria e i sos contos (1991) di Giulio Albergoni; Contos de s’antigu casteddu (1994) di Salvatore Patatu; Contos de bidda mia (1995 di Salvator Angelo Spanu; Contus (1998) di Franca Marcialis; Is contus de nonna Severina-contus de forredda (1999) di Maria Assunta Cappai.

Nei terzi dieci anni (2000-2007) le opere narrative in sardo sono ben 107. Si casi otanta titulos in binti annos, nos sunt partos cosa manna –  scrive Antoni Arca – prus de chentu in nemmancu in sete annos, ite sunt? Fatzile: sa proa de l’acabbare de nàrrere chi sa narrativa in sardu galu no esistit. Una narrativa in sardu b’est, e como toccat a l’istudiare, sena pensare de àere giai in butzaca su modellu pro l’ispertare, ca, comente amus cunsideradu dae su 1980 a su 1999, in sardu sunt istados iscritos contos e romanzos chi tocant onni genere e onni edade, cun resurtados de onni manera, dae òperas feas  a òperas bellas, passende pro unu livellu medianu de bona legibilidade (Se quasi 80 titoli in 20 anni ci sono sembrati una gran cosa – scrive Antonio Arca – più di 100 in meno di sette anni, che cosa sono? Chiaro: la dimostrazione che occorre smetterla di dire che una narrativa in Lingua sarda non esiste ancora. Una narrativa in sardo c’è e ora occorre studiarla, senza pensare di avere in tasca un modello da interpretare, perché, come abbiamo analizzato per il periodo 1980-1999, in sardo sono stati scritti racconti e romanzi che attengono a ogni genere e a ogni età, con risultati diversi: con opere mediocri ma anche belle, e dunque complessivamente con un livello medio di buona qualità).

Tra i 107 titoli, a parte quelli già ricordati in questa Letteratura (di Benvenuto Lobina, Francesco Masala, Franciscu Carlini, Zuanne Frantziscu Pintore, Michelangelo Pira, Paola Alcioni e Antonimaria Pala) sono molti quelli degni di menzione (e solo lo spazio limitato impedisce di ricordarli tutti) fra gli altri, i romanzi:

Carrela ‘e puttu,  Presones de lussu (2000), S’Iscola de Mara (2002), Pissighende su tempus benidore. S’istoria fantastica de sa Sardigna in su XXI seculu -2001-2100 (2003) e Chenabraghetta (2005) di Nino Fadda;

-S’Isula de is canis. De s’arreumi a sa democrazia intre sa beccia e sa noa economia (2000), Contus de fundamentu. De candu sa luxi fudi scura, a candu su scuriu es luxenti (2003), Arega-pon-pon. Tempus de pintadera (2007) di Francu Pilloni;

Una frabigga di sogni (2001) di Gian Paolo Bazzoni; Corte soliana (2001) di Marina Danese; Su belu de sa bonaura (2001) e Dona Mallena (2007) di Larentu Puxeddu;  L’umbra de lu soli (2001) e Comenti óru di nèuli…(2002) di Giuseppe Tirotto; Su deus isculzu (2002) di Pitzente Mura; Is cundannaus de su sàrtidu (2003) di Sandro Chiappori; Su cuadorzu (2003) e Sa gianna tancada (2005) di Nanni Falconi; S’arte e sos laribiancos.Lìttera a Tziu Frantziscu (2003) di Bustianu Murgia; Sa sedda de sa passalitorta (2004) di Gonario Carta Brocca; Nania. Sa pitzinna chi benit dae su nuraghe (2004) di Maria Lucia Fancello; Meledda (2005) di Mariangela Dui; S’àrvule de sos sardos (2005) di Micheli Ladu; Antonandria (2006) di Paulu Pillonca; Sos de Parte “Tzier” (2007) di Costantina Frau.

Fra gli autori di “Contos e faulas-racconti e favole” di rilievo sono: S’arrisu de s’Arenada (2000) di Matteo Porru; Deu sciu unu contu (2000) di Ettore Sanna e Maria Bonaria Lai; A bassi veri (2001) e Raighinas (2003) di Nino Fois; Contus e contixeddus (2002) di Ugo Dessy; Contos e cantilenas (2002) di Maria Teresa Pinna Catte, Maria Lucia Fancello, Silavana Comez; Contos de Foghile (2003) di Francesco Enna; Contixeddus Cuatesus (2003) e S’anima de Cuattu. Is arregodus e sa lingua (2006) di Giusi Ghironi e Mariano Staffa; Contos e faulas (2003) di  Mario Puddu, Matteo  Porru, Teresa Scintu, Giovanna  Elies, Pinuccio Canu; Sos contos de Torpenet.Cuncursu de literadura sarda in su Web  (2004) di AA. VV.; Apedala dimòniu! (2004) di Amos Cardia; Memorias de Marianu (2004) di Giuseppe Puxeddu; Contus antigos (2005) di Josto Murgia; Ite timende chi so (2005) di Antonietta Zoroddu; Conti pa Pitzinni (2006) di Fabritziu Dettori; Sa paristòria de Bachis (2006),di Francesco Cheratzu.

L’elenco potrebbe continuare: per intanto con le opere narrative pubblicate dal 2007 fino ad oggi, che sono moltissime. Ricordo A ballu tango di Antoni Arca, Su calarighe di Stefania Saba, pubblicati da Condaghes che, insieme a Papiros di Nuoro, Domus de janas di Cagliari, Grafica del Parteolla di Dolianova e Alfa di Quartu, è l’editore specializzato nelle pubblicazioni in sardo e in gallurese.

L’Alfa editrice – fra l’altro –  negli ultimi anni ha pubblicato nella variante campidanese e logudorese ma anche in Limba sarda comuna (LSC), due collane, rivolte in modo particolare al mondo della scuola: S’Iscola (15 volumi di Contos e paristorias) e Omines e feminas de gabbale (15 monografie su personaggi sardi illustri:  Gratzia Deledda, Emiliu Lussu, Leonora d’Arborea, Antoni Gramsci, Antoni Simon Mossa, Frantziscu Masala, Zuanne Maria Angioy, Amsicora, Marianna Bussalai, Giuanni Battista Tuveri, Sigismondo Arquer, Giuseppe Dessì, Montanaru, Egidio Pilia, Gratzia Dore).

 

-Sa limba sarda comuna

Dopo l’incerto procedere, fra molte incomprensioni e non pochi pregiudizi, che accompagnò una prima proposta di standardizzazione della lingua, dal 2006 la Regione si è dotata di Sa limba sarda comuna,uno standard linguistico per i documenti in uscita dall’Amministrazione e di riferimento per le decine di varietà del sardo. Si tratta non di un cocktail di varianti ma di una lingua effettivamente parlata nel centro dell’Isola, qualcosa che sta al sardo come il lucchese stava all’italiano nascente.

La Limba Sarda Comuna (LSC) è stata adottata sperimentalmente dalla Regione Autonoma della Sardegna con Delibera di Giunta Regionale n. 16/14 del 18 aprile 2006 (Limba Sarda Comuna. Adozione delle norme di riferimento a carattere sperimentale per la lingua scritta in uscita dell’Amministrazione regionale) come lingua ufficiale per gli atti e i documenti emessi dalla Regione Sardegna (fermo restando che ai sensi dell’art. 8 della Legge 482/99 ha valore legale il solo testo redatto il lingua italiana), dando facoltà ai cittadini di scrivere all’Ente nella propria varietà e istituendo lo sportello linguistico regionale Ufitziu de sa limba sarda.

Anche gli avversari della LSC le riconoscono grandi meriti. Ecco cosa scrivono: ”Per la prima volta nella storia della Regione Autonoma Sarda essa si dota di norme per la lingua scritta. Ciò vuol dire che:
– La Sardegna ha una lingua (che non è un dialetto dell’italiano): già questo è un fatto che persino a molti sardi suonerà come una grande novità, se pensiamo alla scarsa considerazione che il sardo ha in molti ambienti geografici e sociali.

Questa lingua:

– è ufficiale (poiché è deliberata dalla Giunta): quindi non è un mezzo di espressione per soli poeti, scrittori o estimatori, ma può esprimere anche gli atti della politica e ha un’importanza sociale e non solo letteraria;

– vuole rappresentare una “lingua bandiera”, uno strumento per far crescere in tutti i sardi il sentimento dell’identità: è una maniera forte per sottolineare il binomio fra lingua e identità, che non può essere rotto ma che oggi s’è fatto molto debole, perché il bombardamento culturale (“la lingua italiana è meglio del dialetto sardo”) è riuscito quasi del tutto a lasciarci solo un’identità mista, incerta e quasi a rompere il filo che ci lega alla storia della nostra terra e alla nostra gente;

– vuole seminare il terreno per una rappresentanza regionale nel Parlamento europeo come espressione di lingua minoritaria: questo ci darebbe il diritto di avere un eurodeputato sardo senza doverlo disputare con la Sicilia, perdendolo sempre per motivi demografici;

– vuole essere sperimentale, dunque potrà essere ampliata, corretta e arricchita con gli aggiustamenti più opportuni: pensiamo che questo sia positivo soprattutto per quelli che non saranno contenti e non si sentiranno rappresentati pienamente dalla variante scelta dalla commissione, giacché gli darà modo di intervenire con proposte di modifiche e miglioramenti;

  non vuole eliminare le varianti linguistiche parlate e scritte nel territorio sardo, anzi si pone al loro fianco nel compito che la regione si assume di difenderle, valorizzarle e diffonderle: questo punto è buono in generale, come dichiarazione di impegno, nonostante non si dica in che modo la regione lo metterà in pratica nella realtà;

A queste considerazioni di valore senza dubbio positivo, che sono dichiarate nella stessa delibera, ci pare di poterne aggiungere altre due che ci sembrano di non poco conto:

– potrebbe riavvicinare all’uso del sardo l’Amministrazione Pubblica: ciò sarebbe positivo nel senso che gli impiegati e i funzionari pubblici che spesso usano l’oscurità della lingua burocratica per ritagliarsi la loro quota di potere (grande o piccola che sia a seconda dell’importanza che hanno nella gerarchia), riprendendo a utilizzare il sardo potrebbero riavvicinarsi alla popolazione, soprattutto alle fasce deboli dei vecchi e dei poco acculturati, aiutandoli a sentirsi più considerati e tutelati;

– potrebbe avvicinare al sardo le generazioni di giovani che non hanno mai conosciuto la lingua, sia perché sono figli di continentali che non parlano il sardo, sia perché sono figli di sardi che hanno preferito non insegnargliela per qualsivoglia ragione”.

[Documento degli studenti sulla lingua standard-Limba sarda comunna, deliberata dalla Giunta regionale, Università degli studi di Cagliari, Corso di laurea in Scienze della formazione primaria-Master Universitario di II livello in “Approcci interdisciplinari alla didattica del sardo”, Cagliari 12-Giugno-2006, pagine 22-23]. 

 

Lettura [testo tratto da Morte de unu Presidente di Zuanne Frantziscu Pintore, Ed. Condaghes, Cagliari 2007, pagine 7-8]

” […] Est abarradu s’urtimu a tancare sa domo, in su guturinu chi finas a note fata est istada corte de istentu e de tzarra pro trampare s’ora. Che a sos ateros seros, s’urtimu puru aiat bufadu pagu, tzarrende e ascurtande, chirchende de non fàghere rùghere mai s’arresonu, pro no lassare s’àidu abertu a sas allegas de su dispatzu: “Be’, no at a èssere ora de recruire?”. Ma s’àidu, in fines, s’est serradu sa note puru e tando at chircadu abidentemente non s’imbriaghera, ma cussa gasta de intontimentu chi amàniat su cristianu a su sonnu. Su sonnu, mancari gasi, si l’at dèpidu gherrare, sèdidu in su letu, leghende sas ùrtimas pàginas de su cartulàriu chi cussas dies e notes aiat prenadu, sos ogros currende in fatu de paràulas isseberadas cun cùidu e sa mente bullugiada, firma in sos pessamentos de semper. S’ùrtima ora chi aiat intesu toghende est istada sa de sas bator.

Mala a poderare, custa malancolia cumintzada paris chi, cun su portale, aiat tancadu duas chidas de cumpangia. Podiat mòvere paris cun sos àteros o pònnere cun issos s’addòviu in caminu a si bufare unu tzichete, su chi, bae e chirca, fiant faghende in s’ora sos cumpàngios, in antis de leare cada unu su caminu de domo. Su beru est chi non podiat fàghere a mancu de cuddu bullùgiu de su sàmbene, anneosu e belle gasi gradèssidu, chi fiat a grabu de nche iscantzellare mamentos de anneu e de fàghere largos sos de alligria.

Istene Demaias s’est istentadu in su gùturu intunigadu a biancu, mirende sos bator frores rujos e grogos crèschidos intro de muru e froridos cudda istade, caente che fogu, chi dae unas dies pariat imberta, tragiada dae su bentu de susu, fritu e possente, chi aiat carradu nues nigheddas. At giradu sos ogros a fùrriu, disigende chi dae sas bentanas e dae sas giannas tancadas esserent essidos sinnos de presèntzias. Sàgamu sàgamu est andadu a su cabu de sa carrera, abistende su puntu a susu chi deviat piligare Nurai, comprende pro si lu leare in fatu. A manu manca, in sa pratzita, pitzinneddos fiant gioghende, inghiriados dae isbùfidos de pùere pesados dae su bentu. At ghetadu unos passos cara a giosso e s’est sèdidu pessamentosu in s’istrada longa de granidu, ghetende un’ograda a sa gianna mèscrina de ferru de su magasineddu de Boelle Asprone. In cue fiant agabados in glòria su prus de cussos seros, chirchende de cumprèndere cussa istòria maladita de Annesa e a bellu a bellu lassinende sos arresonos cara a cosas prus pagu tristas” […].

 

Traduzione

Fu l’ultimo a chiuder casa, nel viottolo che fino a notte tarda era stato corte di veglia e di chiacchiere per ammazzare il tempo. Come le altre sere, anche quell’ultima aveva bevuto poco, discorrendo e ascoltando, cercando di non far mai cadere il discorso, per non lasciare una breccia aperta a parole di congedo: “Bene, non sarà ora di ritirarci?”. Ma il varco, alla fine, si aprì anche quella notte e cercò allora con impegno non la sbronza, ma quella sorta di intontimento che predispone un cristiano al sonno. Il sonno, però, se lo dovette faticare, seduto a letto, leggendo le ultime pagine del quaderno che aveva riempito quelle notti e giornate, gli occhi che scorrevano le parole cercate con impegno e la mente smarrita, fissa sui pensieri di sempre. L’ultima ora che sentì rintoccare fu quella delle quattro.

Brutta da resistere, questa malinconia cominciata non appena che il portone si era chiuso alle spalle due settimane di compagnia. Avrebbe potuto partire con gli altri o dar loro appuntamento per strada per bere insieme un goccio, ciò che, forse, gli amici stavano facendo in quel momento, prima di prendere, ciascuno, la strada di casa. La verità era che non poteva fare a meno di quel turbamento, molesto eppure gradevole, che era capace di cancellare ricordi di noia e di ingigantire i momenti di allegria.

Istene Demaias si fermò nel viottolo imbiancato, guardando i quattro fiori rossi e gialli cresciuti dentro il muro e fioriti quell’estate, calda come fuoco, che da qualche giorno sembrava dileguata, trascinata via dal maestrale, freddo e impetuoso, che aveva spinto nuvole nere. Si guardò intorno, struggendo dal desiderio che dalle finestre e dalle porte chiuse arrivassero segni di una qualche presenza. A passo lento andò all’inizio della strada, guardando la discesa che avrebbe preso Nurai, venendo a prenderlo. A sinistra, nella piazzetta, ragazzini giocavano, avvolti da sbuffi di polvere sollevati dal vento. Fece qualche passo nella discesa e si sedette, pensieroso, sul lungo sedile di granito, lanciando uno sguardo alla porta blu di ferro della cantina di Boelle  Apsrone. Là dentro  erano finite in gloria tante sere, cercando di venire a capo di quella maledetta storia di Annesa e poco a poco facendo scivolare i pensieri in cose meno tristi. 

 

COMPRENDERE E VALUTARE:

Altre attività didattiche per lo studente

Approfondimenti

-Approfondisci, argomentando con le tue riflessioni, il tema della “standardizzazione” e “unificazione” della lingua sarda.

-Esprimi le tue opinioni in merito all’uso della lingua sarda nella scrittura di un romanzo, che affronta “la modernità”. 

Confronti

Confronta qualche romanzo “noir” di Pintore con altri romanzi gialli di autori sardi – ma scritti in Italiano – che conosci ed esprimi le tue valutazioni anche in relazione al diverso clima di suspence che possono aver suscitato in te.

Ricerche (anche a mezzo Internet)

Servendoti anche di Internet registra e censisci gli autori che hanno scritto romanzi in lingua sarda negli ultimi 30 anni. 

 

Bibliografia essenziale

Opere dell’Autore

Sardigna ruja, Ed. Sa nae, Nuoro 1981.

Manzela, Ed. Castello,  Cagliari 1984.

Sardegna sconosciuta, Ed. Rizzoli, Milano 1986.

Su zogu, Ed. Papiros, Nuoro 1989.

 -La sovrana e la cameriera, Ed. Insula.

La Caccia, Ed. Zonza, Cagliari 2000.

Nurai, Ed. Papiros, Nuoro 2002.

Morte de unu Presidente, Ed. Condaghes, Cagliari 2007.

Sa losa de Osana, Ed. Condaghes, Cagliari, 2009. 

 

Opere sull’Autore

-Salvatore Tola, La letteratura in lingua sarda, Testi, autori, vicende, Ed. Cuec, Cagliari 2006.

-Giuseppe Marci, In presenza di tutte le lingue del mondo- Letteratura sarda, Ed. Cuec Cagliari 2005.

-G-          -Giuseppe Marci, Narrativa sarda del Novecento – Immagini e sentimento dell’identità,

 Ed. Cuec, Cagliari 1991.

 

   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

     

 

 

Conferenza di Francesco Casula sulla Lingua sarda (Flumini 27 settembre)

COMUNE DI QUARTU SANT’ELENA

SISTEMA BIBLIOTECARIO URBANO

BIBLIOTECA CIRCOSCRIZIONALE DI FLUMINI

via Mar Ligure, 3 – TEL. 070.8989014

E-mail: biblioflumini@comune.quartusantelena.ca.it

 

L’Associazione ITA MI CONTAS in collaborazione con la Biblioteca di Flumini organizza per il prossimo autunno una serie di Incontri per la conoscenza e la diffusione della lingua e della storia sarda.

Il 27 settembre alle ore 17.30

Conferenza del Professor Francesco Casula

sulla LINGUA SARDA:

Ø      Origini e influenze. La letteratura in Sardo.

Ø      Pregiudizi sul Sardo: è un dialetto non una lingua, è diviso, arcaico e inadatto a esprimere la modernità, inutile, povero, non lo parla nessuno, ha prodotto poca letteratura..

Ø      Sa limba sarda comuna: consensi e dissensi.

Ø      L’insegnamento del Sardo a scuola come materia curriculare.

Ø      L’uso ufficiale del Sardo nelle Istituzioni, negli uffici, nei luoghi di lavoro.

Ø      L’utilizzo del sardo nei Mass-media (Rai-Tv, Internet, Giornali), nella Pubblicità, nella Toponomastica.

Ø      La legislazione europea, italiana e sarda, che difende e tutela il Sardo.

L’incontro, aperto al pubblico, si terrà nella Biblioteca di Flumini (in Via Mar Ligure, 3) con inizio alle ore 17.30.

 

 

 

Sui pregiudizi e luoghi comuni rispetto al SARDO riporto quanto ho scritto nel mio libro

LA LINGUA SARDA E L’INSEGNAMENTO DEL SARDO A SCUOLA (Alfa editrice, Quartu, 2010)

Il sardo è un dialetto

Sul Sardo sono presenti -e spesso vengono circuitati ad arte- una

serie di pregiudizi e di luoghi comuni. Una sorta di Idola fori, per

dirla con il lessico forbito del filosofo e politico inglese Francesco

Bacone. Essi si sono creati e sedimentati nel tempo, frutto insieme

dell’ignoranza e della malafede da parte degli nemici della Lingua

sarda.

l pregiudizio e il luogo comune più diffuso è che il sardo sia

un dialetto. Occorre rispondere e chiarire con nettezza che nessun

linguista o intellettuale rigoroso e serio ritiene che il sardo sia un

dialetto: dal massimo studioso Max Leopold Wagner (che scriverà

una monumentale opera dal titolo inequivocabile: La lingua sarda.

Storia, spirito e forma) a un intellettuale come Antonio Gramsci che

in una lettera dal carcere del 26 marzo del 1927 alla sorella Teresina

scriverà: “Devi scrivermi a lungo intorno ai tuoi bambini, se hai

tempo, o almeno farmi scrivere da Carlo o da Grazietta. Franco mi

pare molto vispo e intelligente: penso che parli già correttamente. In

che lingua parla? Spero che lo lascerete parlare in sardo e non gli

darete dei dispiaceri a questo proposito. È stato un errore, per me,

non aver lasciato che Edmea, da bambinetta, parlasse liberamente

il sardo. Ciò ha nociuto alla sua formazione intellettuale e ha messo

una camicia di forza alla sua fantasia. Non devi fare questo errore

coi tuoi bambini. Intanto il sardo non è un dialetto…” .

Ma oggi è lo stesso Stato italiano a riconoscere al sardo lo status

di Lingua: nella Legge del 15 dicembre 1999, n.482 concernente

“Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”

l’art.2 recita testualmente: “In attuazione dell’art. 6 della Costituzione

e in armonia con in principi generali stabiliti dagli organismi

europei e internazionali, la Repubblica tutela la lingua e la cultura

delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e

croate e quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano,

il ladino, l’occitano e il sardo.

Il sardo è una lingua con proprie strutture sintattiche e grammaticali,

espressioni foniche e semantiche, peculiari, autonome e distinte

da tutte le altre lingue neolatine o romanze, ad iniziare dall’italiano.

D’altronde basta leggere un qualsiasi manuale, non di linguistica ma

di storia, basta andare a Marc Bloch, per esempio, per sapere che la

lingua sarda è nata ben 400 prima della lingua di Dante: come si può

pensare dunque che sia un dialetto italiano?

Ciò premesso occorre anche aggiungere che la linguistica moderna,

scientifica, non distingue nè fa differenze tra ciò che comunemente

si chiama lingua da ciò che si chiama dialetto e, a maggior ragione,

non distingue tra lingua egemone e lingua subalterna. Ciò che rende

differente ciò che noi chiamiamo lingua da quello che chiamiamo

dialetto non è qualcosa di insito nel sistema linguistico ma l’uso e

l’importanza sociale dello stesso. In altra parole fra lingua e dialetto

non ci sono differenze culturali ma politiche e giuridiche.

Per cui schematicamente potremmo affermare che la lingua è

un dialetto che nella storia “vince” politicamente: così è stato per

l’Attico di Atene in Grecia; per il castigliano di Madrid in Spagna;

per il francese che da “dialetto” di Parigi, in seguito alla supremazia

della città, è stato adottato come idioma di tutto lo stato francese; per

lo stesso italiano che da “dialetto” di Firenze, diviene idioma comune

a tutta la penisola per il prestigio culturale degli scrittori fiorentini,

O pensiamo ai “dialetti” dei vari paesi africani e asiatici ecc., che

una volta decolonizzati e ottenuta l’indipendenza, diventano “lingue”.

Così il Kiswahili – ma è solo un esempio – considerato “dialetto” nel

Kenya sotto il dominio inglese fino al 1964, è oggi la lingua ufficiale

di questo paese africano. È cambiata qualcosa? Sì. Lo status politico e

giuridico, non altro. Ed è proprio lo status politico, in buona sostanza,

a distinguere una lingua da un dialetto. A questo proposito è quanto

mai opportuno ricordare la famosa definizione di Max Weinreich *, il linguista tedesco-baltico”Una lingua è un dialetto con un esercito e una flotta”

 

*Nel mio libro avevo scritto che la frase fosse da attribuire a Einar Haugen Mentre Alessaxandra Porcu, da Berlino, mi ha fatto giustamente notare che è da attribuirsi a Max Weinreich.

 

Il Sardo non è unitario

Un altro diffuso e ubiquitario pregiudizio e luogo comune attiene

all’unità e unitarietà del Sardo. Non c’è un Sardo, si dice, ma molti

Sardi. Occorre rispondere con nettezza che il Sardo consta di due

fondamentali varianti o parlate: il logudorese e il campidanese. Ma il

fatto che esistano due parlate non mette minimamente in discussione

l’esistenza di una lingua sarda sostanzialmente unitaria, in quanto

la lingua, per la linguistica scientifica è considerata un sistema o un

insieme di sistemi linguistici. Inoltre la struttura del campidanese

e del logudorese è sostanzialmente identica: quando vi sono delle

differenziazioni di tratta di differenziazioni o lessicali (dovuta alla

diversa penetrazione delle lingue dei popoli dominatori, soprattutto

spagnolo e italiano) o differenze fonetiche, di pronuncia. Cioè differenze

minime. Peraltro presenti anche nei diversi paesi della stessa “zona

linguistica”. Ma non differenze sostanziali a livello grammaticale o

sintattico. Del resto, qualcuno può affermare che l’Italiano non sia

una lingua unitaria perchè viene parlata con una pronuncia che varia

– e molto! – da regione a regione, da paese a paese, da città e città?

Qualcuno può pensare che la lingua sarda non sia unitaria perchè

“adesso” in campidano risulta “immoi” e nel logudoro “como”?

Che dire allora dell’italiano “unito” a fronte di adesso, ora, mo’ per

indicare lo stesso termine? Il fatto che in sardo per indicare asino si

utilizzino molti lessemi (ainu, molente/i, poleddu, burricu, bestiolu,

burriolu, burragliu, chidolu, cocitu, unconchinu) non è forse segno

di ricchezza lessicale piuttosto che di disunità del Sardo? Una lingua

fatta di somme e di accumuli in virtù delle influenze plurime indotte

dalla presenza nei secoli, di svariati popoli, ognuno dei quali ha

influenzato e contaminato la lingua sarda?

Ma poi, dopo essere stata riconosciuta anche giuridicamente

e politicamente come lingua, chi impedisce al Sardo di assurgere

al piano e al ruolo anche pratico, di lingua unificata? Così come

è successo storicamente a molte lingue, antiche e moderne, nel

mondo e in Europa, prima pluralizzate in molte parlate e dialetti e in

seguito unificate? Negli ultimi 150 anni della nostra storia è successo

nell’800 e nel primo ‘900, tanto per fare qualche esempio, al rumeno,

all’ungherese, al finlandese, all’estone; e recentemente al catalano, le

cui varietà (il barcellonese, il valenzano, il maiorchino per non parlare

del rossiglionese, del leridano e dell’algherese) erano assai diverse

fra loro e assai più numerose delle varietà del Sardo di oggi.

Dopo l’incerto procedere, fra molte incomprensioni e non pochi

pregiudizi, che accompagnò una prima proposta di standardizzazione

della lingua, dal 2006 la Regione si è dotata di Sa limba sarda comuna,

uno standard linguistico per i documenti in uscita dall’Amministrazione

e di riferimento per le decine di varietà del sardo. Si tratta non di un

cocktail di varianti ma di una lingua effettivamente parlata nel centro

dell’Isola, qualcosa che sta al sardo come il lucchese stava all’italiano

nascente. È un primo incoraggiante inizio: occorrerà proseguire in

tale direzione.

Si potrà ancora obiettare che tra logudorese e campidanese

potrebbero esserci differenze poco sostanziali, ma come la mettiamo

con il Catalano di Alghero, il Tabarchino di Carloforte e Calasetta, e lo

stesso Gallurese e Sassarese? I linguisti rispondono a questa obiezione

con chiarezza e scientificità: si tratta di Isole alloglotte. Ovvero di

lingue e dialetti diversi dalla Lingua sarda, pur presenti nello stesso

territorio sardo. Un fenomeno del resto presente in tutto il territorio

italiano – e non solo – dove vi sono molte isole alloglotte in cui si

parla: albanese, catalano, greco, sloveno e croato oltre che francese,

franco-provenzale, friulano, ladino e occitano. Questo fenomeno ha

radici storiche precise: per quanto attiene al catalano di Alghero è da

ricondurre al fatto che nel 1354 Alghero fu conquistata dai catalani

che cacciarono i Sardi e da quella data si parlò il catalano, appunto.

Il Tabarchino parlato a Carloforte (Isola di San Pietro) e a Calasetta

(Isola di Sant’Antioco) è ugualmente da ricondurre a motivazioni

storiche: alcuni pescatori di corallo provenienti dalla Liguria e in

particolare dalla città di Pegli (a ovest di Genova, ora quartiere del

comune capoluogo) intorno al 1540 andarono a colonizzare Tabarca

(un’isoletta di fronte a Tunisi) assegnata dall’imperatore Carlo V alla

famiglia Lomellini. Nel 1738 una parte della popolazione si trasferì

nell’Isola di San Pietro. Nel 1741 Tabarca fu occupata dal bey di

Tunisi. La popolazione rimasta fu fatta schiava, Carlo Emmanuele di

Savoia, re di Sardegna, ne riscattò una parte portandola ad accrescere

la comunità di Carloforte. Di qui il tabarchino.

Diverso è invece il discorso che riguarda il sassarese, considerato

dai linguisti un sardo-italiano e il gallurese ritenuto un corso-toscano.

E da ricondurre ugualmente a motivazioni storiche.

 

Il sardo è una lingua povera

A questo luogo comune risponde con la solita ironia e cultura

Michele Columbu e poichè siamo totalmente d’accordo non ci

sogniamo neppure di aggiungere alcunchè.

“[…] Ecco, si afferma polemicamente che la lingua sarda è una

lingua povera, e si sottintende, in un confronto immediato, che la

lingua italiana è ricca… Davanti a questi giudizi mi domando con quale

criterio possa venire accertata la ricchezza o la povertà di una lingua;

mi domando se, per esempio, sia accettabile un metodo aritmetico

come contare le parole del suo vocabolario. Se un tale metro fosse

buono sarebbe possibile stabilire persino lesatto rapporto, o differenza,

di ricchezza – povertà fra due lingue, così come si può stabilire il

rapporto, supponiamo, fra due greggi di pecore e fra due conti in

banca. Pertanto, sulla base del numero delle parole, si potrebbe dire

(e qui invento i dati) che la lingua italiana, rispetto alla lingua sarda,

è il 35 per cento più ricca (o il 50, o il 70 per cento).

Senonchè, a parte il fatto che non è stato ancora convenuto quante

parole siano necessarie a una lingua perchè si possa definirla ricca, a

me pare di dover respingere il metodo aritmetico di valutazione.

Nessun dizionario infatti, per sterminato che sia, può considerarsi

una lingua. Il vocabolario della lingua italiana non è la lingua italiana;

il vocabolario della lingua sarda non è la lingua sarda. Che altro è

dunque una lingua? Forse la grammatica, la stilistica? No, neppure i

migliori trattati di grammatica e di stilistica sono una lingua.

A voler tentare una temeraria definizione – necessariamente

incompleta e provvisoria – direi che una lingua è la cultura stessa del

popolo che la parla (e la scrive, se la scrive). Per questa ragione a me

pare che, in assoluto non vi siano e non possano esservi lingue povere

né lingue ricche, ma soltanto lingue in quanto sufficienti e in grado

di esprimere tutta la cultura di cui sono appunto l’espressione. Un

contadino bolotanese capace di comunicare le proprie cognizioni relative

all’agricoltura, capace di esprimere le sue sensazioni di stanchezza, di

scoramento, di preoccupazione, di gioia, di soddisfazione, di orgoglio,

come pure le sue riflessioni sui rapporti col mondo che lo circonda,

la sua filosofia politica e sociale; ricchezza e povertà, oppressione

e libertà, giusto e ingiusto, amore e odio, e via via il vasto bagaglio

della sua cultura bolotanese, parlerà certo una lingua sufficiente, ma

se è fornito di intelligenza e di fantasia parlerà forse una ricchissima

lingua bolotanese, molto più ricca di quella italiana che si legge nel

cinquecentesco poema L’Italia liberata dai Goti, il cui autore era

colto e intelligente ma aveva scarsa fantasia.

Si potrà obiettare che il mio fantasioso contadino non è in grado

di parlare di S. Agostino nè di Dante nè di psicanalisi, nè di processi

chimici nè di missilistica; è vero, ma su questi temi non avrebbe

potuto aprir bocca neppure Marco Tullio Cicerone, un oratore senza

dubbio intelligente e fantasioso.

Del resto, se andiamo a verificare come se la cavano, in lingua

italiana, i cittadini italiani del nostro tempo, scopriremo che la maggior

parte di essi, intorno ai temi sopraenunciati, o non sono in grado di

parlare o diranno un mucchio di sciocchezze.

Si potrà ancora obiettare che il nostro bravo contadino, nel caso

in cui seguisse un regolare corso di studi in Italia fino a conseguire

il titolo di dottore e venisse a conoscenza di S. Agostino, di Dante,

della psicanalisi, eccetera, volendone parlare abbandonerebbe la

lingua sarda e si esprimerebbe in italiano, così come fanno tutti gli

intellettuali sardi che pur conoscono la lingua sarda.

Benissimo, qui vi aspettavo per potervi concedere che anche

questo è vero, ma soltanto perchè lo avrete obbligato a seguire il

regolare corso di studi in lingua italiana con rigorosa esclusione

della lingua sarda.

La questione della povertà, o insufficienza, del sardo come lingua

colta (o dotta) è tutta qui. Se la storia avesse marciato in direzione

opposta, se nel quinto secolo avanti Cristo i Greci – poeti epici, poeti

lirici, poeti tragici, oratori, storici, matematici, filosofi, astronomi,

navigatori, architetti, pittori, scultori e via dicendo – avessero conquistato

Roma ancora tutta contadina o pressappoco, e le avessero imposto

la lingua greca col dileggio continuato del latino e a forza di colpi

di bacchetta sulle mani degli scolaretti, la grande lingua di Cicerone

e di Virgilio sarebbe rimasta dentro le capanne dei pastori laziali.

Seneca e Plinio avrebbero scritto in greco, e così pure Agostino e

Tomaso, Lattanzio e Tertulliano, come ancora tutti i papi; e l’italiano,

lo spagnolo, il francese dei giorni nostri non sarebbero lingue neolatine

bensì neogreche o, chissà, neocartaginesi.

Dunque. Vogliamo restituire al Sardo la libertà e la dignità di lingua,

anche illustre, che ebbe nel medioevo e fino al giudicato di Eleonora;

consentiamole di colmare come può alcuni secoli di esclusione (un vero

bando) dal processo culturale europeo e concediamole di partecipare

– come l’italiano – al cammino della cultura che suole autodefinirsi

 “grande” e “alta” (ma chissà!), e vedrete che il sardo non sarà soltanto

la lingua umiliata dei contadini e dei pastori.

( Michele Columbu, Lingue povere e lingue ricche, in Quaderni bolotanesi:

appunti sulla storia, la geografia, le tradizioni, le arti, la lingua di Bolotana”, Vol. 4 A, 1978, n. 4.).

 

Il sardo è una lingua “arcaica” inadatto a esprimere la “modernità”

Il sardo secondo alcuni sarebbe rimasto “bloccato”, cioè ancorato

alla tradizione agropastorale, perciò incapace di esprimere la cultura

moderna: da quella scientifica a quella tecnologica, dalla filosofia

alla medicina ecc. ecc.

Intanto non è vero che il sardo sia completamente “bloccato”:

termini e modi di dire dell’italiano dovuti allo sviluppo culturale

scientifico e sociale impetuoso negli ultimi decenni sono entrati nella

lingua sarda, così come termini e modi di dire stranieri – soprattutto

inglesi – sono entrati nella lingua italiana che li ha giustamente

assimilati. Questo “scambio” è una cosa normalissima e avviene

in tutte le lingue e tutti i sistemi linguistici, sia quelli di società “più

avanzate”, scientificamente ed economicamente, sia di società “più

arretrate” sono in grado di esprimere i più moderni concetti e le più

moderne e complesse teorie, prendendo in prestito terminologia e

lessico da chi li possiede: come il contadino, che se ha finito l’acqua

del proprio pozzo, l’attinge dal pozzo del vicino.

A rispondere, del resto, a chi parla di “blocco” e di incapacità di

alcune lingue a esprimere l’intero universo culturale moderno, sono

due intellettuali e linguisti di prestigio. Scrive Sergio Salvi, gran

conoscitore della Sardegna e delle minoranze etniche e linguistiche:

“La rimozione de “blocco” è pienamente possibile. Farò soltanto

l’esempio, così significativo ed eloquente della lingua vietnamita,

storicamente e politicamente dominata, fino a tempi recenti, prima dalla

cinese e poi dal francese, una lingua che non solo ha brillantemente

rimosso il proprio “blocco” dialettale, ma che pur non possedendo

ancora un completo vocabolario tecnico-scientifico, ha creato “una

grande corrente di pensiero”, eppure settant’anni fa il vietnamita era

soltanto un “dialetto” o meglio un gruppo di dialetti”.

Sullo stesso crinale si muove e risponde l’americano Joshua Aaron

Fishman, il più grande studioso del bilinguismo a base etnica (è il caso

della Sardegna) che scrive: “Qualunque lingua è pienamente adeguata

a esprimere le attività e gli interessi che i suoi parlanti affrontano.

Quando questi cambiano, cambia e cresce anche la lingua. In un

periodo relativamente breve, la lingua precedentemente usata solo

a fini familiari, può essere fornita di ciò che le manca per l’uso nella

tecnologia, nell’Amministrazione Pubblica, nell’Istruzione”.

Il problema se una lingua “arcaica” possa o no esprimere concetti

moderni è dunque un falso problema: in più c’è da rilevare che in ogni

lingua “egemone” o “ufficiale” o “media” (che chiameremo per la

complessità della sua struttura Macro lingua) si formano dei linguaggi

“specifici”, i tecnoletti,che tendono sempre più a internazionalizzarsi,

per mezzo di una terminologia che si esprime per parole “rigide”, per

formule, in termini greco-latini o inglesi. I tecnoletti si caratterizzano per

essere costituti da segni linguistici depurati da qualsiasi connotazione. I

tecnoletti sono monosemici e referenziali, uniti da un legame biunivoco

a un concetto ben determinato. Esso infatti deve significare una cosa

ben precisa e non veicolare significati collaterali di nessun genere,

ad esempio la linguistica moderna ha elaborato una serie di termini

internazionali: struttura, funzione, significante, significato, diacronico,

incronico ecc: oppure li ha presi in prestito. In questi casi si possono

operare dei traslati come è avvenuto dall’inglese all’italiano. Nessun

problema quindi: il sardo può acquisire e prendere a prestito parole

e modi di dire elaborati altrove.

 

Il sardo non lo parla più nessuno

Forse è il luogo comune che ha meno basi nella realtà vera. Che ci

documenta esattamente il contrario. I risultati scaturiti da una indagine

voluta dalla Giunta Regionale e svolta dal Dipartimento universitario

di Ricerche economiche e sociali di Cagliari e da quello di Scienza

dei linguaggi dell’Ateneo di Sassari non lasciano infatti dubbi in

merito alle opinioni dei Sardi su sa Limba: il 68,4% degli abitanti

dell’Isola dichiara di conoscere e parlare una qualche varietà della

lingua sarda; una percentuale ancora più alta, il 78,6%, si dichiara

d’accordo sull’insegnamento del Sardo a scuola; e addirittura l’81,9%

vorrebbe che si insegnasse il Sardo insieme all’Italiano e a una lingua

straniera. La percentuale dei sardi che conoscono e parlano sa Limba

sale ancora – 85,5% – se ci si riferisce agli abitanti dei paesi con meno

di 4.000 abitanti. Questi dati parlano chiaro e sono ancora più

eloquenti e significativi e in qualche modo persino miracolosi se si

pensa che ancora oggi il sardo – nonostante un risveglio e una serie

di leggi (a livello europeo con la “Carta Europea per le lingue

regionali e minoritarie”; a livello regionale con la Legge n.26

del 15 ottobre 1997 sulla “Promozione e valorizzazione della cultura

 e della lingua della Sardegna” e infine a livello nazional-statale italiano

con la Legge n.482 del 15 dicembre 1999

riguardante “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche

storiche” in cui è presente la Lingua sarda); di fatto è ancora una

lingua “alla macchia”. Certo, non più, come nel passato quando era

“proibita”. Pensiamo a quando nel 1955, nei programmi elementari

elaborati dalla Commissione Medici si introduce l’esplicito divieto

per i maestri di rivolgersi agli scolari in dialetto. Proibita

e addirittura “criminalizzata”. Basta ricordare che in tempi

a noi più vicini, con una nota riservata del Ministero – regnante Malfatti

– del 13-2-1976 si sollecitano Presidi e Direttori Didattici a “controllare

eventuali attività didattiche-culturali riguardanti l’introduzione della

Lingua sarda nelle scuole”. E una precedente nota riservata dello

stesso anno del 23-1 della Presidenza del Consiglio dei Ministri aveva

addirittura invitato i capi d’Istituto a “schedare” gli insegnanti.

È una lingua “alla macchia” perchè non è ancora insegnata

organicamente nelle scuole e tanto meno è stato inserita nei curricula,

non viene utilizzato nei media (TV-Radio-Internet-Giornali) tanto

meno nella pubblicità o nella toponomastica. Pensiamo solo a come

sarebbe – parlato e scritto – il sardo se solo godesse dei “diritti” di cui

gode oggi la lingua italiana!

 

Il sardo ha prodotto “poco”

È un altro luogo comune che non risponde a verità: in realtà,

dalle origini del volgare sardo fino ad oggi, non vi è stato periodo

nel quale la lingua sarda non abbia avuto una produzione letteraria.

Certo, qualcuno potrebbe obiettare, che essa, rispetto ad altre lingue

romanze, ha prodotto pochi frutti: può darsi, ma – dato e non concesso

– si poteva pensare che un cavallo per troppo tempo tenuto a freno,

legato e imbrigliato potesse correre?

La Lingua sarda, dopo essere stata lingua curiale e cancelleresca

nei secoli XI e XII, lingua dei Condaghi e della Carta De Logu, con

la perdita dell’indipendenza giudicale, viene infatti ridotta al rango di

dialetto paesano, frammentata ed emarginata, cui si sovrapporranno

prima i linguaggi italiani di Pisa e Genova e poi il catalano e il

castigliano e infine di nuovo l’italiano.

Nonostante questo, tutta la storia sarda è stata contrassegnata

dalla presenza di una letteratura in lingua sarda: da Antonio Cano

e Sigismondo Arquer a Gerolamo Araolla, Antonio Maria da Esterzili

e Gian Matteo Garipa. Per non parlare della poesia in limba nel

‘700-‘800, una poesia fra umorismo, satira e impegno politico: dal

capolavoro anonimo di Sa scomunica de Predi Antiogu arrettori

de Masuddas, apprezzato da Gramsci e da Wagner, a poeti come

il cagliaritano Efisio Pintor Sirigu; da Francesco Ignazio Mannu,

autore del monumentale Su patriotu sardu contra sos feudatarios,

più noto come “Procudad’ ‘e moderare” a Diego Mele o a Peppino

Mereu o a quello che è considerato forse il più grande poeta sardo

del Novecento, Antioco Casula (Montanaru), elogiato dallo stesso

Pier Paolo Pasolini.

E ancora a Pedru Mura, Aquilino Cannas, Benvenuto Lobina, lo

stesso Michelangelo Pira (con Sinnos), Antonio Cossu, Francesco

Masala, tradotto in molte lingue europee, Faustino Onnis, Franco

Carlini. Per arrivare infine ai giorni nostri con romanzieri come

Gianfranco Pintore e Antonimaria Pala o poeti come Giovanni Piga,

Paola Alcioni, Anna Cristina Serra. Ai nostri giorni e agli ultimi 30

anni in cui c’è stata l’esplosione della letteratura sarda, sia in poesia

che in prosa.

Antoni Arca (in Benidores, Literatura, limba e mercadu culturale

in Sardigna, Condaghes, Cagliari 2008) ha censito i libri di narrativa

in lingua sarda pubblicati in meno di 30 anni.

Nei primi dieci anni (1980-1989) le pubblicazioni sono state 22, fra

cui 11 romanzi. Il primo a rompere il ghiaccio della incomunicabilità

fra la lingua sarda e il romanzo (quella con il racconto, soprattutto

orale non c’è mai stata) è Larentu Pusceddu con S’àrvore de sos

tzinesos. Il libro scatenò, quando uscì nel 1982, una lunga querelle

letteraria che ebbe per alcuni il merito e per altri la colpa di portare

alla ribalta la questione della lingua sarda.

Tra i romanzi pubblicati nel decennio 1980-1989, oltre a quelli già

ricordati (di Michelangelo Pira; Antonio Cossu; Benvenuto Lobina;

Frantziscu Masala e Zuanne Frantziscu Pintore ), da menzionare sono

Su traballu est balore (1984) di Francesca Cambosu; Alivertu (1986)

di Mario Puddu e Sas gamas de istelai (1988) di Albino Pau.

Nei secondi dieci anni (1990-1999) le pubblicazioni sono più che

raddoppiate: dalle 22 del primo decennio passano a 57.

Da ricordare – fra gli altri – i seguenti romanzi: Su contu de Piricu

di Mario Sanna (1990); Mastru Taras (1991) di Larentu Pusceddu; Su

Zuighe in cambales ((1992) di Gigi Sanna; i romanzi in gallurese: Di

stenciu a manu mancina (1993) di Giancarlo Tusceri e Lu bastimentu

di li sogni di sciumma (1997) di Giuseppe Tirotto; Sciuliai Umbras

(1999) di Ignazio Lecca.

Fra i “Contos-racconti”, di particolare interesse Nadale (1990) di

Diego Corraine; Sa memoria e i sos contos (1991) di Giulio Albergoni;

Contos de s’antigu casteddu (1994) di Salvatore Patatu; Contos de

bidda mia (1995 di Salvator Angelo Spanu; Contus (1998) di Franca

Marcialis; Is contus de nonna Severina-contus de forredda (1999) di

Maria Assunta Cappai.

Nei terzi dieci anni (2000-2007) le opere narrative in sardo sono

ben 107. “Si casi otanta titulos in binti annos, nos sunt partos cosa

manna – scrive Antoni Arca – prus de chentu in nemmancu in sete

annos, ite sunt? Fatzile: sa proa de l’acabbare de nàrrere chi sa

narrativa in sardu galu no esistit. Una narrativa in sardu b’est, e

como toccat a l’istudiare, sena pensare de àere giai in butzaca su

modellu pro l’ispertare, ca, comente amus cunsideradu dae su 1980

a su 1999, in sardu sunt istados iscritos contos e romanzos chi tocant

onni genere e onni edade, cun resurtados de onni manera, dae òperas

feas a òperas bellas, passende pro unu livellu medianu de bona

legibilidade”(Se quasi 80 titoli in 20 anni ci sono sembrati una gran

cosa – scrive Antonio Arca – più di 100 in meno di sette anni, che

cosa sono? Chiaro: la dimostrazione che occorre smetterla di dire

che una narrativa in Lingua sarda non esiste ancora. Una narrativa

in sardo c’è e ora occorre studiarla, senza pensare di avere in tasca

un modello da interpretare, perchè come abbiamo analizzato per il

periodo 1980-1999, in sardo sono stati scritti racconti e romanzi che

attengono a ogni genere e a ogni età, con risultati diversi: con opere

mediocri ma anche belle, e dunque complessivamente con un livello

medio di buona qualità).

Tra i 107 titoli, a parte ancora quelli già ricordati (di Benvenuto

Lobina, Francesco Masala, Franciscu Carlini, Zuanne Frantziscu

Pintore, Michelangelo Pira, Paola Alcioni e Antonimaria Pala) sono

molti quelli degni di menzione (e solo lo spazio limitato impedisce

di ricordarli tutti) fra gli altri, i romanzi:

Carrela ‘e puttu, Presones de lussu (2000), S’Iscola de Mara

(2002), Pissighende su tempus benidore. S’istoria fantastica de sa

Sardigna in su XXI seculu -2001-2100 (2003) e Chenabraghetta

(2005) di Nino Fadda;

S’Isula de is canis. De s’arreumi a sa democrazia intre sa beccia

e sa noa economia (2000), Contus de fundamentu. De candu sa luxi

fudi scura, a candu su scuriu es luxenti (2003), Arega-pon-pon.

Tempus de pintadera (2007) di Francu Pilloni;

Una frabigga di sogni (2001) di Gian Paolo Bazzoni; Corte

soliana (2001) di Marina Danese; Su belu de sa bonaura (2001) e

Dona Mallena (2007) di Larentu Puxeddu; L’umbra de lu soli (2001)

e Comenti òru di nèuli (2002) di Giuseppe Tirotto; Su deus isculzu

 (2002) di Pitzente Mura; Is cundannaus de su sàrtidu (2003) di Sandro

Chiappori; Su cuadorzu (2003) e Sa gianna tancada (2005) di Nanni

Falconi; S’arte e sos laribiancos. Lìttera a Tziu Frantziscu (2003)

di Bustianu Murgia; Sa sedda de sa passalitorta (2004) di Gonario

Carta Brocca; Nania. Sa pitzinna chi benit dae su nuraghe (2004) di

Maria Lucia Fancello; Meledda (2005) di Mariangela Dui; S’àrvule

de sos sardos (2005) di Micheli Ladu; Antonandria (2006) di Paulu

Pillonca; Sos de Parte “Tzier” (2007) di Costantina Frau.

Fra gli autori di “Contos e faulas – racconti e favole” di rilievo:

S’arrisu de s’Arenada (2000) di Matteo Porru; Deu sciu unu contu

(2000) di Ettore Sanna e Maria Bonaria Lai; A bassi veri (2001)

e Raighinas (2003) di Nino Fois; Contus e contixeddus (2002) di

Ugo Dessy; Contos e cantilenas (2002) di Maria Teresa Pinna Catte,

Maria Lucia Fancello, Silavana Comez; Contos de Foghile (2003) di

Francesco Enna; Contixeddus Cuatesus (2003) e S’anima de Cuattu.

Is arregodus e sa lingua (2006) di Giusi Ghironi e Mariano Staffa;

Contos e faulas (2003) di Mario Puddu, Matteo Porru, Teresa Scintu,

Giovanna Elies, Pinuccio Canu; Sos contos de Torpenet.Cuncursu

de literadura sarda in su web (2004) di AA. VV.; Apedala dimòniu!

(2004) di Amos Cardia; Memorias de Marianu (2004) di Giuseppe

Puxeddu; Contus antigos (2005) di Josto Murgia; Ite timende chi

so (2005) di Antonietta Zoroddu; Sa paristoria de Bakis (2006) di

Francesco Cheratzu; Conti pa Pitzinni (2006) di Fabritziu Dettori.

L’elenco potrebbe continuare: per intanto con le opere narrative

pubblicate dal 2007 fino ad oggi, che sono moltissime. Ricordo A

ballu tango di Antoni Arca, Su calarighe di Stefania Saba, pubblicati

da Condaghes che, insieme a Papiros di Nuoro, Domus de janas

di Cagliari e Alfa Editrice di Quartu, è l’editore specializzato nelle

pubblicazioni in sardo e in gallurese.

L’Alfa editrice – fra l’altro – negli ultimi anni ha pubblicato nella

variante campidanese e logudorese ma anche in Limba sarda comuna

(LSC), due collane, rivolte in modo particolare al mondo della scuola:

S’Iscola (15 volumi di contos e paristorias) e Omines e feminas de

gabbale (15 monografie sui personaggi e sardi illustri:

1. Gratzia Deledda de Frantziscu Casula

2. Emiliu Lussu de Matteu Porru

3. Leonora d’Arborea de Frantziscu Casula

4. Antoni Gramsci de Frantziscu Casula-Matteu Porru

5. Antoni Simon Mossa de Frantziscu Casula

6. Frantziscu Masala de Matteo Porru-Toninu Langiu

7. Zuanne M. Angioy de Frantziscu Casula-Giuanna Cottu

8. Amsicora de Frantziscu Casula-Amos Cardia

9. Marianna Bussalai de Frantziscu Casula-Giuanna Cottu

10. Giuanni B. Tuveri de Gianfranco Contu-Ivo Murgia

11. Sigismondo Arquer de Frantziscu Casula-Marco Sitzia

12. Giuseppe Dessì de Frantziscu Casula-Veronica Atzei

13. Montanaru de Frantziscu Casula-Joyce Mattu

14. Egidio Pilia de Marcello Tuveri-Ivo Murgia

      15. Gratzia Dore de Frantziscu Casula

 

 

 

 

 

 

 

 

Commemorazione di Michele Columbu a Ollolai

COMMEMORAZIONE DI MICHELE COLUMBU A OLLOLAI, il 12 luglio 2012 di Francesco Casula

 

COMMEMORAZIONE DI MICHELE COLUMBU A OLLOLAI, il 12-7-2012

di Francesco Casula

La mia non sarà una commemorazione formale quanto piuttosto una testimonianza, un ricordo del Maestro e dell’Amico.

Michele Columbu è stato un protagonista assoluto degli ultimi 60 anni di storia: anzi, ha fatto la storia degli gli ultimi 60 anni in Sardegna: non solo politico-istituzionale-autonomistica ma anche culturale, letteraria, linguistica.

Con lui scompare l’ultimo patriarca del Sardismo, che ha saputo innovare e rinnovare indirizzandolo verso sentieri nazionalitari e indipendentisti. Scompare il prestigioso leader del PSD’Az, che negli anni ’80 è riuscito a salvare se non dal rischio di estinzione, certo dalla marginalizzazione e marginalità.

Con lui scompare il parlamentare (italiano ed europeo) di valore; l’intellettuale originale, straripante, fuori dalle regole. Scompare lo scrittore colto e raffinato, l’affabulatore brillante. affabulator maximus, lo ha definito Natalino Piras, sulla rivista Ichnusa.

Scompare l’amministratore coraggioso ed eroico: basti pensare al suo ruolo di Sindaco di Ollolai negli anni ’60, alla base della mitica “Marcia”. E’ lui stesso a raccontarci la sua avventura: “Insegnando a Cagliari andavo a Ollolai alla fine della settimana…domenica facevo Consiglio…non c’erano assegni né gettone di presenza…io mi sentivo chiamare da tutte le parti «amministratore». Non potevo riparare un selciato, in dissesto e pericoloso, perché non c’era un centesimo nel comune…”.

E poi ci sono i disoccupati “cinquanta capifamiglia” e i pastori colpiti da una grande nevicata. Manda Espressi e Telegrammi agli Assessori regionali. Neppure gli rispondono. Così concepisce e attua la marcia che passerà alla storia: da Cagliari a Ollolai a Sassari, percorrendo a piedi 500 km lungo tutta la Sardegna per chiedere lavoro e sviluppo delle zone interne e montane, per esprimere la protesta della Sardegna interna contro le condizioni di arretratezza in cui era lasciata non solo dal Governo centrale ma anche da quello regionale. Arriveranno attestati di solidarietà da tutta l’isola, specie dal mondo agropastorale. Si svilupperà una vera e propria protesta di massa contro il fallimento dell’Autonomia.

Ma io oggi non voglio parlarvi di tutto questo: ovvero del “personaggio”, quanto della “persona”: del Michele Columbu più intimo e meno pubblico. E più ollolaese.

Fino alla mia adolescenza Michele Columbu era un mito. Così emergeva dal racconto, dalla narrazione che mi faceva mia madre, sua parente, vicina di casa, solo di qualche anno più giovane. Per tutti gli Ollolaesi e non solo, era “Su Professore”: il professore per antonomasia, per eccellenza. A significare insieme rispetto affetto e ammirazione. Tutta la popolazione lo considerava, da una parte “altro” da sé, per la sua cultura, il suo ruolo politico, il suo carisma; dall’altra, nel contempo, tutto suo, per la capacità del personaggio di essere perfettamente integrato e inserito e dunque per farsi accettare pienamente dall’ambiente paesano: per la sua capacità di stabilire relazioni e rapporti con tutti, di incrociare anziani e giovani, pastori e contadini; per il suo stesso modo di vestire, per l’utilizzo abituale e usuale della Lingua sarda. Con tutti. Che padroneggiava magistralmente, in tutte le sue varianti. Di cui conosceva le parlate di moltissimi paesi del Nuorese.

Ricordo a questo proposito un episodio. Qualche anno fa a Orani ha presentato un mio libro su Marianna Bussalai. A un pubblico numerosissimo che affollava la sala consiliare chiese:”Volete che vi parli in ollolaese, oranese o nuorese?”. Parlò in perfetto ollolaese ma avrebbe, con la stessa perfezione, parlato anche in oranese o nuorese.

Alla fine degli anni ’70 iniziai a frequentare e conoscere personalmente Michele Columbu: grazie anche al fatto che abitavamo molto vicino (lui a Capitana e io a Flumini).

In lui ho sempre ammirato la saggezza, il moderato ottimismo, mai vacuo però e anzi temperato da un alone di scetticismo.

Mi ha sempre colpito il suo occhio sorridente, mai cattivo né arcigno, che spesso si fa ustorio ma che preferisce sempre l’ironia all’indignazione e all’invettiva; lo sberleffo satirico all’aggressione verbale; la canzonatura e il motteggio – quasi sottovoce – allo sbraitare e alzare la voce con urla e ai berci. Egli è evidentemente convinto che la messa in ridicolo frusti e tagli più netto e con più energia del serioso o dello sparare a mitraglia. Ciò anche sulla scia della tradizione sarda.

Negli ultimi 10 anni ho letto e riletto i suoi scritti, anche per motivi contingenti: ho inserito Michele Columbu nella mia “Letteratura e civiltà della Sardegna” (2 volumi, Grafica del Parteolla editore, pubblicati recentemente) cui ho dedicato una decina di pagine.

E ho scoperto-riscoperto uno scrittore raffinato e colto, con un linguaggio carico di deflagrazioni umoristiche e dalle grandi capacità allusive, impregnato di immagini ardite, di metafore, di parabole, di simboli e di proverbi. O, meglio, di Dicios. Quel linguaggio che aveva saputo mutuare – sia pure con grande originalità – dalla cultura tradizionale e dall’oralità.

Sia nei Racconti che nei Saggi. Sia in quelli scritti in italiano che in quelli scritti in sardo: fra questi ultimi penso in modo particolare ai piccoli saggi Istados e nassiones, In chirca de una limba e Sardos malos a creschere.

Ma penso soprattutto ai racconti di L’aurora è lontana (1968) e al romanzo Senza un perché (1992), che entrerà fra i finalisti del Premio nazionale letterario Giuseppe Dessì. Dominato, specie quest’ultimo dall’umorismo e dall’ironia. Mi sembra anzi quest’ultima la cifra predominante nella vita e nella scrittura di Michele. Quell’ironia che trova fondamento nella tradizione umoristica sarda. Perché Michele Columbu avrebbe potuto ripetere e far suo quanto sostenuto da Emilio Lussu: ”Nella letteratura non ho maestri. L’ironia che mi viene attribuita come caratteristica dei miei scritti non è mia ma sarda. E’ sarda atavicamente…”.

A proposito di Lussu e del rapporto di Michele con il cavaliere dei rossomori solo un cenno. Nel 1948 Columbu non segue Lussu nella scissione del Psd’az, nonostante fosse “lussiano” dal punto di vista della politica sociale e anche per la simpatia che sentiva per l’uomo: è infatti in disaccordo per quanto atteneva “alla politica delle alleanze e di collaborazione con i partiti esterni”. Ma la stima reciproca non scemerà.

L’eredità di Michele Columbu è dunque come abbiamo visto, politica, etica e letteraria, ma soprattutto, e con questo mi avvio alle conclusioni, identitaria. E il lascito identitario è metaforicamente e esemplarmente rappresentato oggi dal ritorno delle sue spoglie a “casa”, a Ollolai. Per ricongiungersi con la sua terra. Con i parenti e soprattutto con sua madre, Tzia Anna Mazzone: mi l’amento comente siat oje, cando in Su ‘e papassinu nos brigaiat, a mene e a Zizzu Columbu, su nepode e compare e amigu meu corale, chi est innoghe.

Michele è tornato alle radici. Dopo essersi dotato di robuste ali e a aver volato in Italia e in Europa, a Roma e a Strasburgo. Aperto al respiro del mondo grande e terribile.

Così mi piace ricordare Michele. Anche al di là dei suoi successi politici. Del suo essere stato deputato e parlamentare europeo. Perché al di là del suo cursus honorum Michele Columbu era, è stato soprattutto un’omine de gabbale. Antzis: UN’OMINE. Senza ulteriori aggettivi e specificazioni. In sardu, un’OMINE narat totu.

Adiosu Michè, o mezus, adiosu Su Professò.

E, che la terra ti sia lieve.

Blog | admin 12 luglio 2012

1 Comment to “COMMEMORAZIONE DI MICHELE COLUMBU A OLLOLAI, il 12 luglio 2012 di Francesco Casula”

1.      By Paolo maccioni, 25 luglio 2012 @ 07:26

Commovente ricordo di un uomo che non ho conosciuto e che ho sempre catalogato tra i “politici” lontani da slanci letterari e che, invece, come dimostra la sua testimonianza, ha scritto racconti e romanzi. Credo che, dopo aver letto il suo articolo, cercherò di approfondire la sua conoscenza. Grazie.