SA BATALLA DE SEDDORI

SA BATALLA DI SANLURI DEL 30 GIUGNO 1409

di Francesco Casula

Domani  30 giugno ricorre il 605° anniversario di Sa Batalla  di Sanluri: forse la data più infausta dell’intera storia della Sardegna perché segnò l’inizio della fine della indipendenza e della libertà dei Sardi e della Sardegna. Una fine comunque tutt’altro che tutt’altro che scontata ed ineluttabile. Infatti con l’ultimo Marchese di Oristano, Leonardo d’Alagon,  (dal 1470 al 1478) sarà ancora scossa e attraversata da momenti di dissenso e di ribellioni nei confronti dei catalano-aragonesi, culminati in opposizione armata prima con la battaglia di Uras (1470) e infine con la sfortunata e definitiva sconfitta di Macomer (1478).

Una data infausta insieme al 238 a.C. che segnò l’inizio dell’occupazione e del brutale dominio romano; al 1297, quando il papa Bonifacio VII, con la Bolla Licentia invadendi, infeudò del regno di Sardegna e Corsica, appositamente e arbitrariamente inventato, Giacomo II d’Aragona, invitandolo di fatto a invadere e occupare militarmente le Isole, cosa che puntualmente avverrà, almeno  per la Sardegna; al  1820, quando furono emanati gli Editti delle Chiudende, che posero fine al millenario uso comunitario delle terre da parte di tutto il popolo, usurpate dai nuovi proprietari, in un ciclonico turbinio di inaudite illegalità, sopraffazioni e violenze; al 1847, quando con la Fusione perfetta, la Sardegna fu privata del suo Parlamento.

Il 30 giugno 1409 infatti presso Sanluri, si scontrarono l’esercito siculo-catalano-aragonese, guidato da Martino il giovane, Re di Sicilia e Infante di Aragona, e l’esercito sardo-giudicale, al comando di Guglielmo III visconte di Narbona, ultimo giudice-re del Giudicato d’Arborea, che fu battuto e disfatto in quella atroce battaglia. Finiva così la sovranità e l’indipendenza nazionale della Sardegna che,  dopo cruente battaglie i Sardi-Arborensi, prima con Mariano IV e poi con la figlia Eleonora, erano riusciti ad affermare, prevalendo sui Catalano-Aragonesi e dunque riuscendo di fatto a ottenere il controllo su tutto il territorio sardo e coronando in tal modo il sogno, di unificare l’intera nazione sarda.

Il regno d’Arborea infatti dal 1392 al 1409 comprenderà l’intera Isola, eccezion fatta per Castel di Cagliari e di Alghero: Isola governata e gestita sulla base di quella moderna e avanzata Costituzione che fu la Carta de Logu, che promulgata dalla stessa regina Eleonora, rimase in vigore per ben 435 anni, fino al 1827, quando entrò in vigore il Codice feliciano.

Ma ritorniamo alla battaglia di Sanluri: lo scontro finale cominciò all’alba di Domenica 30 Giugno del 1409, (al alva de Domingo del mes de Junio: così infatti scrive negli Anales della Corona d’Aragona lo storico aragonese Geronimo Zurita); quando l’esercito siculo-catalano-aragonese, lasciato l’accampamento cominciò ad avanzare ordinatamente (con horden) fino a un miglio a sud est di Sanluri (Sent Luri).

Davanti stava Pietro Torrelles (en la avanguardia Pedro de Torrellas), il capitano generale,  con mille militi e quattromila soldati (con mil hombres de armas, y quatro mil soldados),  mentre il re Martino il Giovane, più indietro guidava la cavalleria e il resto formava la retroguardia. A loro si contrapponeva, sbucando improvvisamente da dietro un poggio, appena a Oriente di Sanluri e chiamato ancora oggi Bruncu de sa Batalla,  l’esercito giudicale comandato dal re arborense Guglielmo di Narbona-Bas con i fanti e i cavalieri (con toda la gente de cavallo, y de pie), nascosti dietro una collina. Quanto durò esattamente la battaglia non ci è dato di sapere, Geronimo Zurita parla genericamente di “por buen espacio”.

Certamente fu dura e accanita. E, purtroppo, perdente per i Sardi. La tattica degli Aragonesi infatti, il cui esercito assunse una formazione a cuneo, sfondò il fronte delle forze sardo-arborensi che investite al centro, fu diviso in due tronconi. La parte sinistra si divise a sua volta in due parti: la prima ripiegò a Sanluri dove trovò rifugio nel borgo fortificato e nel castello di Eleonora; le mura però non resistettero all’assalto e le forze aragonesi irruppero massacrando a fil di spada gran parte della popolazione civile, senza distinzione di sesso e di età, mentre 300 donne furono fatte prigioniere. La seconda parte, guidata dal re  Guglielmo III, si rifugiò nel castello di Monreale, a poche miglia di distanza, senza che gli Aragonesi riuscissero a inseguirli. Così: “el Vizconde con los que escaparon huiendo de la batalla, al castillo de Monreal” si salvò.

Morirono invece sul campo ben cinquemila Sardi (y murieron en el campo hasta cinco mil) mentre quattromila furono catturati: sempre secondo i dati di fonte storica aragonese e dunque da prendere prudentemente, cum grano salis. Di contro solo pochissimi nobili iberici persero la vita ((Murieron en esta batalla de la
Parte del Rey muy pocos, y los mas senalados fueron, el vizconde de Orta, don Pedro Galceran de Pinos, y mossen Ivan de Vilacausa).
Le fonti aragonesi non riportano alcun dato sui soldati semplici: evidentemente contano poco o, niente.

La località, una collinetta subito dopo il bivio “Villa Santa” guardando verso Furtei,

dove avvenne una vera e propria strage conserva ancora oggi, in lingua sarda, un nome sinistro e tristo: Su occidroxiu. Ovvero il mattatoio: dove insieme a migliaia di sardi fu “macellata”  non solo la sovranità e l’indipendenza nazionale della Sardegna ma la stessa libertà dei Sardi.

Ci sarebbe, a fronte di tutto ciò, da chiedersi cosa ci sia da “celebrare” in occasione della ricorrenza del 30 Giugno prossimo, segnatamente a Sanluri, come da anni avviene. Da celebrare niente. Molto invece da rievocare per conoscere la nostra storia: nelle sconfitte come nelle vittorie. Per conoscere il nostro passato, per troppo tempo sepolto, nascosto e rimosso: dissotterrandolo. Perché diventi fatto nuovo che interroga l’esperienza del tempo attuale, per affrontare il presente nella sua drammatica attualità, per definire un orizzonte di senso, per situarci e per abitare, aperti al suo respiro, il mondo, lottando contro il tempo della dimenticanza e della smemoratezza.

Proite unu populu chi non connoschet s’istoria sua, su tempus colau, non tenet ne oje nen cras.

 

 

30 GIUGNO 1407:SA BATALLA DI SANLURI E LA FINE DELL’INDIPENDENZA DELLA SARDEGNA

30 GIUGNO 1407: SA BATALLA DI SANLURI E LA FINE DELL’INDIPENDENZA DELLA SARDEGNA.

di Francesco Casula

Domani  30 giugno ricorre il 607° anniversario di Sa Batalla  di Sanluri: forse la data più infausta dell’intera storia della Sardegna perché segnò l’inizio della fine della indipendenza e della libertà dei Sardi e della Sardegna. Una fine comunque tutt’altro che scontata ed ineluttabile. Infatti con l’ultimo Marchese di Oristano, Leonardo d’Alagon, (dal 1470 al 1478) L’Isola sarà ancora scossa e attraversata da momenti di dissenso e di ribellioni nei confronti dei catalano-aragonesi, culminati in opposizione armata prima con la battaglia di Uras (1470) e infine con la sfortunata e definitiva sconfitta di Macomer (1478).

Una data infausta insieme al 238 a.C. che segnò l’inizio dell’occupazione e del brutale dominio romano; al 1297, quando il papa Bonifacio VII, con la Bolla Licentia invadendi, infeudò del regno di Sardegna e Corsica, appositamente e arbitrariamente inventato, Giacomo II d’Aragona, invitandolo di fatto a invadere e occupare militarmente le Isole, cosa che puntualmente avverrà, almeno  per la Sardegna; al  1820, quando furono emanati gli Editti delle Chiudende, che posero fine al millenario uso comunitario delle terre da parte di tutto il popolo, usurpate dai nuovi proprietari, in un ciclonico turbinio di inaudite illegalità, sopraffazioni e violenze; al 1847, quando con la Fusione perfetta, la Sardegna fu privata del suo Parlamento.

Il 30 giugno 1409 dunque presso Sanluri, si scontrarono l’esercito siculo-catalano-aragonese, guidato da Martino il giovane, Re di Sicilia e Infante di Aragona, e l’esercito sardo-giudicale, al comando di Guglielmo III visconte di Narbona, ultimo giudice-re del Giudicato d’Arborea, che fu battuto e disfatto in quella atroce battaglia. Iniziava così la fine della sovranità e dell’indipendenza nazionale della Sardegna che,  dopo cruente battaglie i Sardi-Arborensi, prima con Mariano IV e poi con la figlia Eleonora, erano riusciti ad affermare, prevalendo sui Catalano-Aragonesi e dunque riuscendo di fatto a ottenere il controllo su tutto il territorio sardo e coronando in tal modo il sogno, di unificare l’intera nazione sarda.

Il regno d’Arborea infatti dal 1392 al 1409 comprenderà l’intera Isola, eccezion fatta per Castel di Cagliari e di Alghero: Isola governata e gestita sulla base di quella moderna e avanzata Costituzione che fu la Carta de Logu, che promulgata dalla stessa regina Eleonora, rimase in vigore per ben 435 anni, fino al 1827, quando entrò in vigore il Codice feliciano.

Ma ritorniamo alla battaglia di Sanluri: lo scontro finale cominciò all’alba di Domenica 30 Giugno del 1409, (al alva de Domingo del mes de Junio: così infatti scrive negli Anales della Corona d’Aragona lo storico aragonese Geronimo Zurita); quando l’esercito siculo-catalano-aragonese, lasciato l’accampamento cominciò ad avanzare ordinatamente (con horden) fino a un miglio a sud est di Sanluri (Sent Luri).

Davanti stava Pietro Torrelles (en la avanguardia Pedro de Torrellas), il capitano generale,  con mille militi e quattromila soldati (con mil hombres de armas, y quatro mil soldados),  mentre il re Martino il Giovane, più indietro guidava la cavalleria e il resto formava la retroguardia. A loro si contrapponeva, sbucando improvvisamente da dietro un poggio, appena a Oriente di Sanluri e chiamato ancora oggi Bruncu de sa Batalla,  l’esercito giudicale comandato dal re arborense Guglielmo di Narbona-Bas con i fanti e i cavalieri (con toda la gente de cavallo, y de pie), nascosti dietro una collina. Quanto durò esattamente la battaglia non ci è dato di sapere, Geronimo Zurita parla genericamente di “por buen espacio”.

Certamente fu dura e accanita. E, purtroppo, perdente per i Sardi. La tattica degli Aragonesi infatti, il cui esercito assunse una formazione a cuneo, sfondò il fronte delle forze sardo-arborensi che investite al centro, fu diviso in due tronconi. La parte sinistra si divise a sua volta in due parti: la prima ripiegò a Sanluri dove trovò rifugio nel borgo fortificato e nel castello di Eleonora; le mura però non resistettero all’assalto e le forze aragonesi irruppero massacrando a fil di spada gran parte della popolazione civile, senza distinzione di sesso e di età, mentre 300 donne furono fatte prigioniere. La seconda parte, guidata dal re  Guglielmo III, si rifugiò nel castello di Monreale, a poche miglia di distanza, senza che gli Aragonesi riuscissero a inseguirli. Così: “el Vizconde con los que escaparon huiendo de la batalla, al castillo de Monreal” si salvò.

Morirono invece sul campo ben cinquemila Sardi (y murieron en el campo hasta cinco mil) mentre quattromila furono catturati: sempre secondo i dati di fonte storica aragonese e dunque da prendere prudentemente, cum grano salis. Di contro solo pochissimi nobili iberici persero la vita ((Murieron en esta batalla de la
Parte del Rey muy pocos, y los mas senalados fueron, el vizconde de Orta, don Pedro Galceran de Pinos, y mossen Ivan de Vilacausa).
Le fonti aragonesi non riportano alcun dato sui soldati semplici: evidentemente contano poco o, niente.

La località, una collinetta subito dopo il bivio “Villa Santa” guardando verso Furtei,

dove avvenne una vera e propria strage conserva ancora oggi, in lingua sarda, un nome sinistro e tristo: Su occidroxiu. Ovvero il mattatoio: dove insieme a migliaia di sardi fu “macellata”  non solo la sovranità e l’indipendenza nazionale della Sardegna ma la stessa libertà dei Sardi.

Ci sarebbe, a fronte di tutto ciò, da chiedersi cosa ci sia da “celebrare” in occasione della ricorrenza del 30 Giugno prossimo, segnatamente a Sanluri, come da anni avviene. Da celebrare niente. Molto invece da rievocare per conoscere la nostra storia: nelle sconfitte come nelle vittorie. Per conoscere il nostro passato, per troppo tempo sepolto, nascosto e rimosso: dissotterrandolo. Perché diventi fatto nuovo che interroga l’esperienza del tempo attuale, per affrontare il presente nella sua drammatica attualità, per definire un orizzonte di senso, per situarci e per abitare, aperti al suo respiro, il mondo, lottando contro il tempo della dimenticanza e della smemoratezza.

Proite unu populu chi non connoschet s’istoria sua, su tempus colau, non tenet ne oe nen cras.

 

 

La manomissione delle parole e la truffa semantica

di Francesco Casula

Gianrico Carofiglio,ex magistrato ed ex senatore ed oggi scrittore e
romanziere di successo, nel 2010 ha scritto un saggio-panflet su “La
manomissione delle parole” (Rizzoli editore). In esso analizza e denuncia il
logoramento e la perdita di senso del lessico, viepiù utilizzato in modo
sciatto..
Io direi di più: siamo ormai di fronte a una vera e propria truffa semantica
con cui -soprattutto da parte della “lingua” del potere e della
sopraffazione, segnatamente dei politici, giornalisti e in genere dei
media –  deliberatamente  si mistifica e si falsifica la realtà,
stravolgendo il senso e il significato delle “parole”, sempre meno aderenti
alle “cose”.
Evidentemente chiamare le “cose” con il loro “nome” è – per il Potere –
pericoloso. Ecco perché è urgente – e rivoluzionario – ripensare il
linguaggio.
Faccio solo due esempi con una breve premessa.
Nella politica odierna tende sempre più a dominare un uso più consolidato e
più spregiudicato dei nuovi mezzi di comunicazione di massa, di tecniche più
sofisticate di psicologia di massa, di linguaggio, di controllo dell’informazione,
di sondaggi. In essa attraverso tali tecniche e linguaggi, Partiti, uomini
politici e programmi vengono “venduti”, prescindendo dai contenuti: quello
che conta, che si valorizza – come in tutte le operazioni di marketing – è l’involucro,
la confezione, l’immagine, il look. Per essere più “appetibili” e dunque
conquistare il consenso, con messaggi semplificati e un lessico suadente si
stravolge così il senso delle parole, truffando l’opinione pubblica.
1. E’ il caso del termine “Riforme”, foriere di magnifiche e progressive
sorti e del “Nuovo”, contrapposto al “vecchio” del passato. E dunque da
rottamare.
Così viene presentata la Riforma Fornero sulle pensioni: in realtà un vero e
proprio scempio, con cui si prendono a roncolate i diritti dei lavoratori,
facendoli precipitare in un rovinoso precariato senza fine.
Così viene presentata la nuova Riforma elettorale, che fa strame del diritto
di rappresentanza e stravolge il verdetto popolare assegnando al Partito
“vincitore” un premio spropositato di maggioranza che fa impallidire persino
la “Riforma” fascista di Acerbo del 1923.
E il “Nuovo”? Altra falsità e mistificazione: viene gabbato come tale – ma è
solo un esempio – il sistema elettorale uninominale, in vigore negli anni
scorsi (e oggi ancora preferito dal Pd di Renzi e “scartato” solo perché
sgradito a Berlusconi). Ma quale nuovo? Il sistema uninominale e
maggioritario è in realtà un vecchio arnese dell’Italia prefascista, uno dei
principali strumenti di potere del Partito liberale di allora, dato che i
suoi esponenti, in genere appartenenti alle élites locali, riuscivano a
raccogliere senza troppe difficoltà – grazie anche a rapporti personali, di
amicizia e di clientele – l’appoggio di un esiguo manipolo di elettori.
Con l’introduzione del suffragio universale (maschile) nel 1913 e del
sistema elettorale proporzionale nel 1919, il vecchio sistema politico finì
gambe all’aria e si affermarono proprio quei grandi Partiti democratici e di
massa, quello Socialista e quello Popolare, che si erano battuti contro il
Partito dei notabili,  delle clientele, della corruzione e della malavita e
dunque, contro il sistema uninominale e maggioritario che lo favoriva.
Tutto ciò è stato dimenticato e non si conosce la storia?
2. E’ il caso del termine “Populismo”. Populista è diventato ormai un
termine denigratorio, al limite dell’insulto e della contumelia. Ebbene, si
tratta dello stravolgimento e della falsificazione della storia e della
realtà prima ancora che del significato lessicale. Il Populismo è stato ben
altro. Fu fondato dal grande intellettuale russo Aleksandr Herzen nella metà
dell’800, come movimento politico-culturale mirante alla emancipazione e
liberazione delle masse contadine dal feudalesimo e dall’oppressione
autocratica zarista e alla creazione di una società socialista. Perché –
scriveva Herzen – alla base della vita del popolo russo c’è la comunità
rurale con la ripartizione dei campi, col possesso comunista della terra,
con le amministrazioni elettive, con l’uguaglianza giuridica di ogni
lavoratore.
Mi chiedo cosa c’entri con tutto ciò “il populismo” con cui politici di
bassa o mediocre “taglia” e giornalisti pisciatinteris, (sempre pronti a
salire sul carro (o tir) dei nuovi Cesari), apostrofano chi si oppone o
comunque non vuole rassegnarsi alla miseria del presente e alla
restaurazione neoautoritaria in atto.

LA RIVOLTA DI PALABANDA di Francesco Casula

Palabanda: Congiura o rivolta?

di FRANCESCO CASULA

Di congiure è zeppa la storia. Da sempre. Da Giulio Cesare a John Fitzgerald Kennedy. Particolarmente popolato e affollato di congiure è il periodo rinascimentale italiano, nonostante gli avvertimenti di Machiavelli secondo cui “le coniurazioni fallite rafforzano lo principe e mandano nella ruina li coniurati”. Ed anche il “Risorgimento”. Esemplare la congiura di Ciro Menotti nel gennaio del 1831 ordita attraverso intrighi con Francesco IV d’Austria d’Este, dal quale sarà poi tradito e mandato al patibolo.

Congiurà che però sarà ribattezzata “rivolta”, “Moto rivoluzionario”. Solo una questione lessicale? No:semplicemente ideologica. Quella congiura, perché di questo si tratta, viene “recuperata” e inserita come momento di quel processo rivoluzionario, foriero – secondo la versione italico-patriottarda e unitarista – delle magnifiche e progressive sorti del cosiddetto risorgimento italiano. Così, una “congiura” o complotto che dir si voglia diventa un tassello di un processo rivoluzionario, esclusivamente perché vittorioso. Mentre invece – per venire alla quaestio che ci interessa – la Rivolta di Palabanda viene ridotta e immiserita a “Congiura”. E con essa diventano “Congiure”, ovvero cospirazioni di manipoli di avventurieri che con alleanze e relazioni oblique con pezzi del potere tramano contro il potere stesso. Questa categoria storiografica, che riduce le sommosse e gli atti rivoluzionari che costelleranno più di un ventennio di rivolte: popolari, antifeudali e nazionali a fine Settecento in Sardegna a semplici congiure è utilizzata non solo da storici reazionari, conservatori e filosavoia come il Manno o l’Angius.

Ad iniziare dalla cacciata dei Piemontesi da Cagliari il 28 aprile 1794: considerata “robetta” e comunque alla stregua di una semplice congiura ordita da un manipolo di borghesi giacobini, illuminati e illuministi, per cacciare qualche centinaio di piemontesi. A questa tesi, ha risposto, con dovizia di dati, documenti e argomentazioni, Girolamo Sotgiu. Il prestigioso storico sardo, gran conoscitore e studioso della Sardegna sabauda e non sospettabile di simpatie sardiste e nazionalitarie, polemizza garbatamente ma decisamente proprio con l’interpretazione data da storici filosavoia come Giuseppe Manno o Vittorio Angius (l’autore dell’Inno Cunservet Deus su re) che avevano considerato la cacciata dei Piemontesi, appunto alla stregua di una congiura.

Simile interpretazione offusca – a parere di Sotgiu – le componenti politiche e sociali e, bisogna aggiungere senza temere di usare questa parola «nazionali». Insistere sulla congiura – cito sempre lo storico sardo – potrebbe alimentare l’opinione sbagliata che l’insurrezione sia stato il risultato di un intrigo ordito da un gruppo di ambiziosi, i quali stimolati dagli errori del governo e dalle sollecitazioni che venivano dalla Francia, cercò di trascinare il popolo su un terreno che non era suo naturale, di fedeltà al re e alle istituzioni” 1.

Secondo Sotgiu questo modo di concepire una vicenda complessa e ricca di suggestioni, non consente di cogliere il reale sviluppo dello scontro sociale e politico né di comprendere la carica rivoluzionaria che animava larghi strati della popolazione di Cagliari e dell’Isola nel momento in cui insorge contro coloro che avevano dominato da oltre 70 anni.

Ma veniamo a Palabanda. Si parla di rivalità a corte fra il re Vittorio Emanuele I sostenuto da don Giacomo Pes di Villamarina, comandante generale delle armi del Regno e il principe Carlo Felice sostenuto invece dall’amico e consigliere Stefano Manca di Villahermosa, che aveva un ruolo di rilievo nella vita di corte.

Ebbene è stata avanzata l’ipotesi che a guidare la cospirazione fossero stati uomini di corte molto vicini a Carlo Felice allo scopo di eliminare definitivamente i cortigiani piemontesi e di destituire il re Vittorio Emanuele I affidando al Principe la corona con un passaggio dei poteri militari dal Villamarina ad altro ufficiale, forse il capitano di reggimento sardo Giuseppe Asquer. Chi poteva incoraggiare e proteggere l’azione in tal senso era Stefano Manca di Villahermosa, per l’ascendenza di cui godeva sia presso il popolo che presso Carlo Felice.

E’ questa l’ipotesi di Giovanni Siotto Pintor che scrive: ”La corte poi di Carlo Felice accresceva il fuoco contro quella di Vittorio Emanuele: fra ambedue era grande rivalità, l’una per sistema discreditava l’altra. Villahermosa era avverso a Roburent, e tanto più dispettoso, che gli stava fitta in cuore la spina di essergli stato anteposto Villamarina nella carica di capitano delle guardie del corpo del re. Destava invero maraviglia che i cortigiani e gli aderenti a Carlo Felice osassero rimproverare i loro rivali degli stessi errori, intrighi ed arbitrij degli ultimi tempi viceragli. Pure i loro biasimi trovavano favore nelle illuse moltitudini, che giunsero a desiderare il passaggio della corona di Vittorio Emanuele a Carlo Felice, e la nuova esaltazione dei cortigiani sardi, poco prima abborriti” 2

Pressoché identica è l’ipotesi di un altro storico sardo, Pietro Martini che scrive: ”Poiché era rivalità tra le corti del re e del principe, signoreggiata l’ultima dal marchese di Villahermosa, l’altra dal conte di Roburent il quale aveva fatto nominare capitano della guardia il Villamarina, di tale discordia si giovassero per intronizzare Carlo Felice” 3 .

Si tratta di ipotesi poco plausibili. Ora occorre infatti ricordare in primo luogo che il Villahermosa, era anche legato al re tanto che il 7 novembre 1812, pochi giorni dopo i fatti di Palabanda, gli affidò l’attuazione del piano di riforma militare.

In secondo luogo non possiamo dimenticare che Carlo Felice, ottuso crudele e famelico, sia da principe e vice re che da re, era lungi dall’essere “favorevole ai Sardi” come scrive Natale Sanna che poi però aggiunge era all’oscuro di tutto 4 Ricorda infatti Francesco Cesare Casula56. che Carlo felice sarà il più crudele persecutore dei Sardi, che letteralmente odiava e contro cui si scagliò con tribunali speciali, procedure sommarie e misure di polizia, naturalmente con il pretesto di assicurare all’Isola “l’ordine pubblico” e il rispetto dell’Autorità. E comunque non poteva essere l’uomo scelto dai rivoluzionari persecutore com’era soprattutto dei democratici e dei giacobini.

In terzo luogo che bisogno c’era di una congiura per intronizzare Carlo Felice? In ogni caso a lui la corona sarebbe giunta prima o poi di diritto poiché il re non lasciava eredi maschi ed egli era l’unico fratello vivente. Quando la Quadruplice Alleanza aveva conferito il regno di Sardegna a Vittorio Amedeo II, una clausola prevedeva che il regno sarebbe ritornato alla Spagna nel caso che il re e tutta la Casa Savoia rimanesse senza successione maschile.

Scrive Lorenzo Del Piano a proposito delle ipotesi di legami e rapporti fra “i congiurati” di Palabanda con ambienti di corte e addirittura con l’Inghilterra e con la Francia: “Se dopo un secolo di indagini non è venuto fuori nulla ciò può essere dovuto, oltre che a una insanabile carenza di documentazione, al fatto che non c’era nulla da portare alla luce e che quello della ricerca di legami segreti è un problema inesistente e che comunque perde molto della sua eventuale importanza se invece che a romanzesche manovre di palazzo o a intrighi internazionali si rivolge prevalente attenzione alle forze sociali in gioco e alle persone che le incarnavano e cioè agli esponenti della borghesia cittadina che era riuscita indubbiamente mortificata dalle vicende di fine settecento e che un anno di gravissima crisi economica e sociale quale fu il 1812, può aver cercato di conquistare, sia pure in modo avventuroso e inadeguato il potere politico esercitato nel 1793-96” 6 .

Non di congiura dunque si è trattato ma di ben altro: dell’ultima sfortunata rivolta, che conclude un lungo ciclo di moti e di ribellioni, che assume tratti insieme antifeudali, popolari e nazionali.

Segnatamente la rivolta di Palabanda, per essere compresa, abbisogna di essere situata nella gravissima crisi economica e finanziaria che la Sardegna vive sulla propria pelle: conseguenza di una politica e di un’amministrazione forsennata da parte dei Savoia oltre che delle calamità naturali e delle pestilenze di quegli anni: già nel 1811 forte siccità e un rigido inverno causarono nell‘Isola una sensibile contrazione della produzione di grano, ma è soprattutto nella primavera del 1812 che la carestia e dunque la crisi alimentare si manifestò in tutta la sua drammaticità.

Cosa è stato il dramma de su famini de s’annu doxi, sono storici come Pietro Martini, a descriverlo con dovizia di particolari: ”L’animo mi rifugge ora pensando alla desolazione di quell’anno di paurosa ricordanza, il dodicesimo del secolo in cui mancati al tutto i frumenti, con scarsi o niuni mezzi di comunicazione, l’isola fu a tale condotta che peggio non poteva”.

Ricorda quindi che la “strage di fanciulli pel vaiuolo, scarsità d’acqua da bere (ché niente era piovuto), difficoltà di provvisioni per la guerra marittima aggrandivano il male già di per se stesso miserando 7. 

Mentre Giovanni Siotto Pintor scrive: ”Durarono lungamente le tracce dell’orribile carestia; crebbe il debito pubblico dello stato; ruinarono le amministrazioni frumentarie dei municipj e specialmente di Cagliari; cadde nell’inopia gran novero di agricoltori; in pochi si concentrarono sterminate proprietà; alcuni villaggi meschini soggiacquero alla padronanza d’uno o più notabili; i piccoli proprietari notevolmente scemarono; si assottigliarono i monti granatici; e perciò decadde l’agricoltura. Ed a tacer d’altro, il sistema tributario vieppiù viziossi, trapassati essendo i beni dalla classi inferiori a preti e a nobili esenti da molti pesi pubblici” 8

E ancora il Martini descrive in modo particolareggiato chi si arricchisce e chi si impoverisce in quella particolare temperie di crisi economica, di pestilenze e di calamità naturali: ”Oltreché v’erano i baroni e i doviziosi proprietari i quali s’erano del sangue de’ poveri ingrassati e grande parte della ricchezza territoriale avevano in sé concentrato. I quali anziché venire in aiuto delle classi piccole, rincararono la merce e con pochi ettolitri di frumento quello che rimaneva a’ miseri incalzati dalla fame s’appropriavano. Così venne uno spostamento di sostanze rincrescevole: i negozianti fortunati straricchivano, i mediocri proprietari scesero all’ultimo gradino, gli altri d’inedia e di stenti morivano” 9.

Giovanni Siotto Pintor inoltre per spiegare le cagioni del tentativo di rivolgimento politico che meditavasi a Cagliari, allarga la sua analisi rispetto al Martini e scrive che “La Sardegna sia stata la terra delle disavventure negli anni che vi stanziarono i Reali di Savoia. Non mai la natura le fu avara dei suoi doni come nel tempo corso dal 1799 al 1812. Intrecciatisi gli scarsi ai cattivi o pessimi raccolti,impoverì grandemente il popolo ed il tesoro dello stato. A questi disastri, sommi per un paese agricola, si aggiunsero la lunga guerra marittima che fece ristagnare lo scarso commercio; le invasioni dei Barbareschi, produttrici di ingenti spese per lo riscatto degli schiavi e pel mantenimento del navile; le fazioni e i misfatti del capo settentrionale dell’isola, rovinosi per le troncate vite e le proprietà devastate e per le necessità derivatane di una imponente forza pubblica, e quindi di enormi stipendj straordinari, di nuove gravezze, e quindi dell’impiego a favore della truppa dei denari, consacrati agli stipendi dei pubblici officiali…In questa infelicità di tempi declamavano gli impiegati: i maggiori perché ambivano le poche cariche tenute dagli oltremarini; i minori perché sospesi gli stipendj, difettavano di mezzi d’onesto vivere…i commercianti maledivano il governo e gli inglesi, ai quali più che ai tempi attribuivano il ristagno del traffico…Ondechè, scadutu dall’antica agiatezza antica, schiamazzavano, calunniavano, maledivano…Superfluo è il discorrere della plebe…Questa popolare irritazione pigliava speciale alimento dalla presenza degli oltremarini primeggianti nella corte e negli impieghi, e che apertamente o in segreto reggevano le cose dello stato sotto re Vittorio Emanuele. Doleva il vederli nelle alte cariche, ad onta della carta reale del 1799, che ammetteva in esse l’elemento oltremarino, purché il sardo contemporaneamente s’introducesse negli stati continentali. Doleva che il re, limitato alla signoria dell’isola, non di regnicoli ma di uomini di quegli stati si giovasse precipuamente nel pubblico reggimento, come se quelli infidi fossero versodi lui, e non capaci di bene consigliarlo. Soprattutto inacerbiva gli animi quel loro fare altero e oltrecotato, quel mostrarsi incresciosi e malcontenti del paese ove tenevano ospizio e donde molto protraevano, indettati con certi Sardi che turpemente gli adulavano, quel loro contegno insomma da padroni” 10.

E a tutto questo occorre aggiungere le spese esorbitanti della Corte, anzi di due Corti (quella del re e quella del vice re) ambedue fameliche, che, giunte letteralmente in camicia, portarono il deficit di bilancio alla cifra esorbitante di 3 milioni, quasi tre volte l’importo delle entrate ordinarie. Mentre il Re impingua il suo tesoro personale mediante sottrazione di denaro pubblico che investirà nelle banche londinesi.

Di qui il peso delle nuove imposizioni fiscali, che colpivano non soltanto le masse contadine ma anche gli strati intermedi delle città. A tal punto – scrive Girolamo Sotgiu – che “i villaggi dovevano pagare più del clero e dei feudatari: ben 87.500 lire sarde (75 mila il clero e appena 62 mila i feudatari) mentre sui proprietari delle città, sui creditori di censi, sui titolari d’impieghi civili gravava un onere di ben 125.000 lire sarde e sui commercianti di 37 mila” 11.

Così succedeva che “Spesso gli impiegati rimanevano senza stipendio, i soldati senza il soldo, mentre ai padroni di casa veniva imposto il blocco degli affitti e ai commercianti veniva fatto pagare il diritto di tratta più di una volta12 .

Questi i corposi motivi, economici, sociali, politici, insieme popolari, antifeudali e nazionali alla base della Rivolta di Palabanda. Che in qualche modo univano, in quel momento di generale malessere intellettuali, borghesia e popolo, segnatamente la borghesia più aperta alle idee liberali e giacobine, rappresentate esemplarmente dall’esempio di Giovanni Maria Angioy. Borghesia composta da commercianti e piccoli imprenditori che si lamentavano perché “gli incassi erano pochi, la merce non arrivava regolarmente o stava ferma in porto per mesi. Intanto dovevano pagare le tasse e lo spillatico alla regina” 13

Per non parlare della miseria del popolo: nei quartieri delle città e nei villaggi delle campagne, dove la vita era diventata ancora più dura dopo che la siccità aveva reso i campi secchi, con “contadini e pastori che fuggivano dai loro paesi e si dirigevano verso le città come verso la terra promessa” 14 . E così “cresceva l’odio popolare contro il governo e si riponeva fiducia in coloro che animavano la speranza di un rinnovamento 15 .

Di qui la rivolta: che non a caso vedrà come organizzatori e protagonisti avvocati (in primis Salvatore Cadeddu, il capo della rivolta. Insieme a lui Efisio, un figlio, Francesco Garau e Antonio Massa Murroni); docenti universitari (come Giuseppe Zedda, professore alla Facoltà di Giurisprudenza di Cagliari); sacerdoti (come Gavino Murroni, fratello di Francesco, il parroco di Semestene, coinvolto nei moti angioyani); ma anche artigiani, operai, e piccoli imprenditori (come il fornaciaio Giacomo Floris, il conciatore Raimondo Sorgia, l’orefice Pasquale Fanni, il sarto Giovanni Putzolo, il pescatore Ignazio Fanni).

Insieme a borghesi e popolani alla rivolta è confermata la partecipazione di molti studenti e militari : “Tutto il battaglione detto di «Real Marina», formato di poco di gran numero di soldati esteri…dipartita colli suddetti insurressori per aver dedicato il loro spirito 16.

Bene: ridurre questo variegato movimento a una semplice congiura e a intrighi di corte mi pare una sciocchezza sesquipedale. Una negazione della storia.

Il Fatto

La rivolta avrebbe dovuto portare i rivoltosi  nella notte fra il 30 e 31 ottobre del 1812 a occupare il quartiere di castello dopo che gli uomini di Stampace si erano potuti riunire con quelli della Marina e di Villanova, avendo trovate aperte le porte dei Quartieri, complici secondo Pietro Martini, due sergenti. I rivoltosi avrebbero dovuto arrestare il comandante Villamarina e sostituirlo con Gabriele Asquer.

1.Raimondo Sorgia: Arrestato il 5 novembre è impiccato Il 13 maggio 1813, ome gli altri condannati non fa il nome dei complici “nemmeno ai piedi della forca” (Lorenzo del Piano).

2.Giovanni Putzolu, come Raimondo Sorgia, fu Arrestato il 5 novembre e impiccato Il 13 maggio 1813.

3.Salvatore Cadeddu, che riuscì a fuggire nel Sulcis, nella casa sul Golfo di Palmas, venne catturato condotto a Cagliari  e arrestato il 3 giugno. E’ accusato di essere “uno dei capi e principali autori dell’insurrezione” e per sentenza della regia delegazione  il 13 agosto fu condannato a morte. Fu impiccato il 2 settembre dello stesso anno e il il suo corpo dato alle fiamme e le ceneri sparse nel vento.

Giuseppe Zedda, Francesco Garau, Gaetano Cadeddu, Giuseppe Ignazio Fanni, ritenuti anch’essi autori dell’insurrezione e colpevoli di aver reclutato con il denaro per l’esecuzione dell’impresa,furono condannati a morte in contumacia.

4.Gaetano Cadeddu, riuscirà a fuggire ma sarà condannato a morte in contumacia, in quanto ritenuto autore dell’insurrezione e colpevole di aver reclutato armati con il denaro per l’esecuzione dell’impresa,

5.Giuseppe Zedda, sarò condannato a morte in contumacia, perché ritenuto  autore dell’insurrezione e colpevole di aver reclutato con il denaro per l’esecuzione dell’impresa, come Francesco Garau, Gaetano Cadeddu, Giuseppe Ignazio Fanni,

6.Francesco Garau, sarò condannato a morte in contumacia, perché ritenuto  autore dell’insurrezione e colpevole di aver reclutato con il denaro per l’esecuzione dell’impresa, come, Gaetano Cadeddu, Giuseppe Ignazio Fanni, Giuseppe Zedda.

7.Antonio Massa Murroni, sarà arrestato nella notte del 5 novembre, fra i primi, e condannato il 30 agosto del 1813, al carcere a vita.

8. Giacomo Floris, sarà arrestato il 5 novembre 1812 e  condannato alla galera a vita con  Pasquale Fanni. Morirà in carcere senza fare i nomi dei rivoltosi.

9. Pasquale Fanni. Sarà arrestato il 5 novembre 1812 e  condannato alla galera a vita come  Giacomo Floris  Morirà in carcere senza fare i nomi dei rivoltosi.

10. Stanislao Deplano, arrestato sarà inviato nel maggio del 1813 in esilio a Mandas prima e a Alghero, Sassari e Carloforte poi.

Accusati di complicità nel fatto, Antonio Massa Murroni e Giovanni Battista Cadeddu, furono condannati al carcere a vita nella torre dell’isola della maddalena, dove Giovanni Battista Cadeddu morirà il 26 ottobre 1919. Stanislao Deplano venne recluso nelle carceri di Alghero e, nel 1821 esiliato a Carloforte. Luigi Cadeddu nel 1827 si trovava ancora in carcere.Efisio Cadeddu, il figlio minore di Salvatore, per la sua giovane età non fu inquisito né perseguitato..

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Presentazione di “Letteratura e civiltà della Sardegna” di Francesco Casula (13 giugno 2014-Campidoglio-Roma)Il

IL 13 GIUGNO PROSSIMO AL CAMPIDOGLIO PRESENTAZIONE DI LETTERATURA E CIVILA’ DELLA SARDEGNA”

Venerdì 13 giugno a Roma (Sala Protomoteca del Campidoglio ore 16.30-19.30) verrà presentata l’opera Letteratura e civiltà della Sardegna di Francesco Casula (2 volumi, Edizioni Grafica del Parteolla, Dolianova 2011-2013, 20 euro ciascuno) 

Introdurrà e presiederà l’On. Gemma Azuni, Consigliera di Roma Capitale
Presenterà l’Opera Prof. Tonino Bussu, studioso di lingua, letteratura e  storia sarda.
Interverranno
-La dottoressa Francesca Barracciu, Sottosegretario di Stato al Ministero
dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo.
Pino Aprile, giornalista e scrittore, autore di alcuni libri di successo
sul Meridione.
Maddalena Frau e Giancarla Carboni leggeranno poesie e passi tratti dall’Opera.

Saranno presenti
-L’Autore Professor Francesco Casula che concluderà i lavori
-L’Editore Paolo Cossu 

Nel Campidoglio si svolgevano le cerimonie più importanti dei Romani, ad iniziare dai trionfi che venivano “concessi” dal Senato al console o al generale che avesse ucciso un numero di nemici “giudicato adeguato” (pare 5.000). Ebbene i Romani contro i Sardi ne celebrarono ben otto.

In quello stesso “tempio” dei trionfi romani (ovvero degli eccidi) contro i Sardi, il 13 giugno prossimo, per una sorta di piccola nemesi storica, si celebreranno i Sardi, quelli stessi che i vari Livio e Cicerone, avevano riempito di contumelie e insulti: Sardi venales (Sardi da vendere a basso prezzo); Sardi facile vinci (Sardi facilmente battibili in guerra, ovvero poco eroici e coraggiosi); Sardi mastrucati latrunculi (Sardi ladruncoli, vesti con pelli di montoni); Sardus afer (Sardo africano):siamo al razzismo ante litteram! Si celebreranno i Sardi, la loro civiltà, la loro letteratura e la loro lingua. E la loro “creatività” di cui Nereide Rudas in L’isola dei coralli scrive:”La creatività dei Sardi, così evidente e così insolita… perché? Da cosa ha origine? Sono stata sempre affascinata da questa creatività: una creatività inso¬lita, per certi versi inattesa, quasi misteriosa. Mi sono domandata come mai un gruppo umano così poco numeroso, così isolato e così disperso sul proprio territorio, avesse potuto esprimere tanti talenti creativi nei diversi campi del pensiero e dell’ arte”.


L’opera di Francesco Casula, Letteratura e civiltà della Sardegna, propone  un itinerario storico-letterario che partendo dalla nascita della lingua sarda e dai primi docu­menti in volgare sardo arriva fino ai nostri giorni. E si tratta di una Letteratura sarda che risulta autonoma, distinta e diversa dalle altre letterature. E dunque non una sezione di quella italiana: magari gerarchicamente inferiore . Non “dialettale” dunque ma letteratura nazionale sarda con un suo percorso, un…a sua ragione, suoi caratteri e segni peculiari e specifici.

Nell’opera potremmo vedere che dalle origini del volgare sardo fino ad oggi, non vi è stato periodo nel quale la lingua sarda non abbia avuto una produzione letteraria. Certo, qualcuno potrebbe obiettare, che essa, rispetto ad altre lingue romanze, ha prodotto pochi frutti: può darsi, ma – dato e non concesso – si poteva pensare che un cavallo per troppo tempo tenuto a freno, legato  imbrigliato e impastoiato potesse correre?

Il criterio della selezione e la scelta degli Autori non è stato comunque la lingua utilizzata: per cui ci sono Autori che scrivono anche in Latino, Catalano, Castigliano, Italiano.

Perché – scrive Casula nella prefazione all’Opera –  “Una Letteratura sarda esiste se, come ogni letteratura, ha i tratti universali della qualità estetica e se, in più è  «specifica», non tanto per questioni grammaticali e sintattiche, quanto per una questione di Identità”  E dunque “che gli autori sappiano andare per il mondo con pistoccu in bertula, perché proprio in questo andare per il mondo, mostrano le stimmate dei sardi e, quale che sia lo scenario delle loro opere, vedono la vita alla sarda”.

Il primo volume tratta degli Autori che formano le fondamenta della nostra letteratura: Antonio Cano, Sigismondo Arquer, Girolamo Araolla, Gian Metteo Garipa e Fra Antonio Maria da Esterzili fino a Efisio Pintor Sirigu, Francesco Ignazio Man­nu, Diego Mele, Peppino Mereu, Gianbattista Tuveri, Antonio Gramsci e Emilio Lussu. Tra i romanzieri del 1900-2000 figurano Deledda, Salvatore Satta e Giuseppe Dessì. Per racconta­re il banditismo e la società del males­sere, i codici ‘barbarìcìni e i suoi ana­listì, vengono indicati Pigliaru, Pira e Fio­ri. Sebastiano Satta con Salvatore Cambosu, è l’autore in lingua italiana inserito nel capitolo sulla letteratura identitaria del 1900-2000; mentre tra i poeti in lingua sarda fi­gurano Montanaru e Pedru Mura.

Il secondo volume inizia con gli scrittori bilingui Benvenuto Lobina, Francesco Masala, Antonio Cossu,  Franco Fresi (in Gallurese). Fra gli scrittori in lingua italiana emergono Antonio Puddu, Michele Columbu, Nereide Rudas, Eliseo Spiga, Giulio Angioni, Bachisio Bandinu, Salvatore Niffoi, Sergio Atzeni, Michela Murgia, Flavio Soriga. Fra quelli invece in lingua sarda sarda Aquilino Cannas, Franco Carlini, Gianfranco Pintore.

Tre poetesse in lingua sarda concludono la Letteratura: Maddalena Frau, Paola Alcioni e Anna Cristina Serra.

Prefazione di Francesco Casula alla silloge poetica “Tramas de seda” di maddalena Frau

Ollolai 7-6-2014 (ore 18, Aula Consiliare): presentazione di “Tramas de seda” la terza silloge poetica di Maddalena Frau

La prefazione di Francesco Casula

Maddalena Frau dopo le sillogi poetiche di Lugore de luna (2002) e Sas meravillas de don Bosco (2006) ci delizia con una nuova prova di sardo

e di sardità letteraria, poetica e linguistica: Tramas de seda (Filaterias/Filastrocche- Anninnias/Ninnenanna- Duru-Duru/Canti-Isorvelimbas/Scioglilingua). Si tratta di 91 poesie in lingua sardo- logudorese (66) e sardo-campidanese (25), rivolte soprattutto ai bambini, agli scolari. Sulla scia della tradizione popolare sarda.

Infatti “la società agropastorale dava ai bambini affetti, attenzioni e cure che oggi la società industriale più non dà”, ha scritto il nostro più grande poeta etnico, Cicitu Masala. Pensiamo a tutti gli antichi giocattoli della tradizione popolare sarda (Alberi di cuccagna, buoi di granoturco, lacciuoli di fieno, sa bardufula, sa boccia, sa pippia de zappu, is fosileddus, is cuaddeddus, is carrettonis) o ai giochi (su pimpiriponi, su seddatzeddu, su binghiri-binghiri, su babballotti, su barraliccu, Zacca e poni, Su pistirincu, su pincareddu, su foghilloni, Cruxis e grastus, Cavallieri in porta, Pitzu,cu o atza?).

Oppure pensiamo alla vasta produzione di letteratura infantile in lingua sarda: Anninnias (ninne-nanne); Duru-duru; Contos de foghile o de forredda (fiabe) che ad Alghero, chiamano Cantzonetas de minjonetts; Isorvelimbas o strobeddalinguas (scioglilingua); Berbos chenza cabu né coa (“non sense”); Filaterias o cantones a istroccu (filastrocche); Istivinzos (indovinelli); proverbi; Berbos contro la malattia e contro la malasorte; scongiuri apotropaici da allegare a scapolari e amuleti; Pungas e Mazinas. Tutto un incredibile materiale predisposto per la mimesi e per l’iniziazione alla vita dei grandi.

I componimenti di Tramas de seda sono modellate in strutture giocose, scherzose, musicali, onomatopeiche, iterative e hanno proprio le movenze del tipo della filastrocca, della ninna-nanna, della canzone, dell’indovinello, del nonsense di matrice popolare ma che Maddalena Frau sottopone a un trattamento e a una rielaborazione personale e originale.

Quella costruita dalla poetessa Ollolaese –ma da decenni oramai trapiantata a Sanluri, di qui le due varianti, logudorese e campidanese, utilizzate nelle sue poesie- è però anche una “commedia umana”, un caleidoscopio di personaggi ora patetici ora drammatici, ora ridicoli e comici. Essi talvolta sono certamente surreali ma più spesso sono attinti dalla vita quotidiana e si confrontano con la realtà di oggi. Ed essi sono –come l’Autrice scrive nella Presentazione-:innamorati e infedeli, belli e brutti, maldestri, furbi, sciocchi, allegri e capricciosi”.

Anche in questa silloge Maddalena Frau conferma una grande cifra espressiva e poetica, grazie al suo linguaggio spassoso e carico di deflagrazioni umoristiche e dalle grandi capacità allusive, impregnate di immagini ardite, di metafore, di parabole, di simboli e di proverbi, quella scrittura e quel linguaggio che ha saputo mutuare – sia pure con grande originalità  – dalla cultura tradizionale sarda e dalla oralità: da nonna Maddalena e dai nonni materni di Mamoiada, babbai Mele e mammai Deiana, come precisa nella Presentazione.

Ma c’è di più: l’Autrice –in questa silloge più che nelle altre due che l’hanno preceduta- disegna e rappresenta i suoi personaggi, con un gusto tra l’ironico e il fiabesco, a cui bisogna aggiungere una fortissima componente ludica e spassosa, che si manifesta in parecchi testi: penso a Baby Sitter, un personaggio paradigmatico e sempre più attuale anche nella nostra Sardegna, come la romena Fransiska, che così recita, con il suo linguaggio ibridato ma particolarmente incisivo e divertente, ovvero con quell’italiano contaminato dal vocabolario popolare e dalla lingua sarda; “ci ho dato solamente/la pappa con amore/a pitzinnu minore:/un pentolino a raso/di minestra con caso,/e frutta con nutella/e pane e mortadella/e omogeneizzato/a foco callentato/con latte e biberone,/Pitzinnu…è satzagone!..

Il gusto per il gioco, il senso ludico della scrittura e della poesia: una poesia che si fa rima, canto e canzone e si scioglie nei numeri della musica, preludendo alla danza e al ballo, guidati da “Su sonette e su pipiolu” attraversa moltissimi componimenti.

Penso –ma sono solo degli esempi- a Durulìa : “Duru-duru-duru-lìa/Chie b’at in domo mia?/B’est una cria minore/chi faghet su sonadore/cantande:-Uè! Uè!-/cun sa crapa e sa memèè./Mè! Mè! Mè! Bè-bè-bè! Bèè!”; o a Beni mannoi! Beni Mannai!: “A duru-duru, a duru-dai!/ Beni mannoi! Beni Mannai/Ben’ a cantare a su pitzinneddu/a lughe ‘e sole, a lughe ‘e isteddu./Canta a iscuru e a lugore,/A duru-duru, Ninnu minore./A duru-duru a duru-dai./Beni mannoi, beni mannai.”; o ancora a Ballalloi: “Righe, righe Ballalloi!/Cun sos corros de Bobboi/cun sos corros de Nannai/canta-ti su duru-dai,/Canta e balla in camminu/ma non rigas a caddinu/e nemancu a macconatza/Mamma tua porconatza/sorre tua manna becca./Zoga, zoga a pudda zecca./Zoga, zoga, belleddeddu,/ma ti tzumiat su cherveddu,/e ti tzumiat “Oi! Oi!”/Righe, righe, ballalloi!”

Il piacere per il gioco metrico e formale, per la rima e il vortice  linguistico, non è mai però fine a se stesso, puro “divertissement”. Pur mai urlato e insistito ma sotteso, sommesso e discreto, quasi subliminale, aleggia infatti in quasi tutti i componimenti della silloge, “l’engagement” del grande filosofo francese cristiano, Emmanuel Mounier, ovvero l’impegno sociale, etico, pedagogico, culturale e religioso dell’Autrice.

E non inganni l’apparente elementarità dei toni e della scrittura, la veste ludica del verso, a volte brevissimo, la sonorità delle rime, delle consonanze e delle assonanze, l’ilarità delle situazioni e anche certa irrazionalità e assurdità dell’immaginario: la destata impressione di uno spontaneo inserimento casuale delle parole, in un piacevole intrigante giuoco musicale, sono segni di un’incisiva introspezione nell’universo spirituale dell’uomo e non puro gioco.

Ma il significato recondito del mondo di Tramas de seda, le sue sostanziose midolla occorre coglierle sotto la crosta della finzione poetica, del procedimento allegorico e dell’invenzione verbale: al di là del tono di celia, del sapore di parodia e satira, del gusto del paradosso, della caricatura, della canzonatura e dello sberleffo.

E tale significato e ideale sta in un atteggiamento tollerante, equilibrato e disincantato verso la vita che non esclude però, che anzi richiede con forza, una critica, sotto forma di parodia e di satira  –mai però arcigna né insistita- nei confronti delle manie, dei limiti, dei vizi, degli errori, delle debolezze umane: così –per dirla con Orazio, “ridendo castigat mores”. E’ il caso di Tzia Brusiera, pettegola e maldicente che “Ponet su fogu/in cada logu,/a cada manera/Zirat de palas/est brusiande…/E cosas malas est imbentande/Tzia Brusiera/no at setzidorzu/Zughet sa limba/ che unu puntorzu”; o di Nonna Catzedda, boriosa, saccente e sapientona che “Tott’ischit issa” a tal punto che “In sa cappella de su cumbentu/nde faghet lege de testamentu…Donat a totus amonitzione:/-Prega, cunfessa, comunione,/si no arribbat s’Apocalissa…”; o ancora di Donna Mafalda, così piena di sé e presuntuosa che, volendo come marito “Marchesos e contes/e cun terrinos e mares e montes/Cun dominarios e serbidores/e cun zardinos de milli colores” si ritrova con “Nudda”: “Solu s’amore de Bore Chibudda”!

Ma le roncolate e gli strali –sia pure giocosi- della parodia e della satira di Frau si scagliano soprattutto nei confronti della “modernizzazione” della società sarda, tutta giocata all’insegna del consumismo (in sos bancones de sennor Oscian ormai si può acquistare tutto!), l’urbanesimo, lo squasso e lo sconvolgimento antropologico ed etnico causato dall’acculturazione esterna e da modelli (di alimentazione, di vita, di sviluppo, di civiltà) “altri” ed estranei all’identità dei sardi. Modelli di vita e di sviluppo che alienano e deprimono l’individuo (In tottuve tottus tenent s’istresse!) e la comunità. E persino i “paesi” sardi, che vieppiù rischiano di essere invasi dalla colata lavica omologante delle metropoli, smarrendo così codici,valori e specificità.

Di qui le manie modaiole – spesso di cattivo gusto- nel modo di vestire e di abbigliarsi con calzoni che scoprono il sedere e la pancia, piercing nell’ombelico, cinte torchiate e scarpe a punta lunga: è il caso di Sa netta de comare Leonora che “Zai si la bragat ca tenet dinare,/fintzas su culu cheret ammostrare,/a camisedda curtza e brent’ in fora./Cun sabbatas a punta illonghiada/nde faghet tricchi-tracca in s’istradone/e si sonat sa tzinta bullonada/e s’imbilighe a pendulintzone”.

Ma anche di Sabbata punti longa: “Comare s’est irrutta a costalonga/andande tetteredda in s’imperdau:/ca su taccu a ispillu l’est bortau/pro curpa de sa sabbata puntilonga./Pro neghe de sa moda de ocannu/ca cheret sa femmina piperuda/comare s’est irrutta a culinuda/Tott’a cartzas a susu ite dannu/”.

Altro vezzo modaiolo –e spesso pericoloso- sbeffeggiato e messo alla berlina da Frau in Chicca Nieddu è quello –tipico di molte donne ma, sempre più, anche di uomini- di restaurarsi e ristrutturarsi attraverso il silicone, guance, labbra, seni e persino sedere, caviglie e talloni: “Chicca Nieddu/at silicone:/in su cherveddu/unu buruthone/e in sa fatzada/de sos tutturros/est uffreddada/puru in sos murros/E in sas tittas,/mannu disizzu,/tenet banittas/de batto’ pizu./Nde tenet peri/initzione/in su paneri/de chimmisone/In cambutzeddu/e in carrone/Chicca Nieddu/ at silicone”.

Infine la moda –e, talvolta, la schiavitù- delle nuove diavolerie elettroniche come Su gioghittu cellulari, su telefoninu, preteso anche dai bambini: “Duru-duru duru-dai/su pipiu de gomai/est prangendu notti e dì,/no arrennescit a dromì/ca no dd’ant arregalau/su gioghittu de mercau,/cussa bella scatuledda/chi scuillat e fueddat:/su gioghittu singulari/chi si tzerriat cellulari”, avente magari incorporato Su videogiocu che “Fadendi mistura/in sa tancadura…/sa musica macca/sonendi in busciacca/in su pantaloni/de Peppi Meloni,/Sonendu-sonendu,/sa genti arriendu./Su preide inchiettu…/Macchini cumpletu!”.

Infine l’ultimo ritrovato tecnologico: l’I-Pod, un lettore di musica digitale basato su hard disk e memoria flash, che sta spopolando soprattutto fra i giovani e a cui l’Autrice dedica una fulminante poesia, S’Aipoddu, che ha vinto, meritatamente, il Primo Premio nel Concorso di Poesia satirica “Larentu Ilieschi” di Ploaghe il 26 Giugno scorso. La poesia –il cui sardo dimostra ancora una volta la capacità di esprimere tutta la modernità, anche quella  legata alla tecnologia più spinta- con garbo, quasi amabilmente, con il gusto della caricatura e della parodia, mette  in luce gli aspetti paradossali, ridicoli e comici di Efisineddu, ormai “schiavo” del nuovo dio giovanile oltre che di tutto il ciarpame modaiolo distribuito a piene mani dalla TV e dalla Pubblicità:”Efisineddu andat in sa strada/cun s’origa attaccada a s’Aipoddu/e a cropus de gambas e de coddu/fueddat cun sa musica Repada/In sa busciacca de su cratzoneddu/ci ficchit su lettori musicanti;/de musica moderna delliranti/si ndi prenat su coru e su xrobeddu./A cratzoni calau a mesugonna,/a cufiedda cun su lecca-lecca/ndi bogat su macchini ‘e discoteca/cun Paf Daddi, Beionse, Madonna…/Baddendu Roch En Rollu iscadenau,/e Tecno e Fanchi sbanda-sbanda/si callincunu ddi fait domanda/non bidi e no intendit: stontonau!”

In questo componimento viene usata la lingua sarda nella variante campidanese: ebbene, a me pare che essa, per la poesia comica e giocosa, risulti più congeniale e più adatta delle altre varianti: forse perché lo stesso dizionario di immagini, lo stesso lessico dei modi di dire e di schemi figurativi possiede già al suo interno idee e impressioni atteggiate dall’anima popolare nella forma della satira, del paradosso e della parodia.

Ma nella poesia di Frau non ci sono solo uomini e donne, personaggi, abbiamo visto, ora comici e ora tragici: ci sono anche gli animali, che appartengono a un certo ambiente, ne costituiscono un tratto preciso: ma significano anche altro, essendo figure da apologo come: Su catheddu:“chi solu-solu poverittu/in s’affogu e in su frittu/S’intendet su appeddare/in su monte e in su mare”; Cane e gattu: “Sa Cane macca e sa Gattu morta/ischint a bendere e a comporare/però zogande a su batti-porta/nachi si sunt istumbadas a pare”; Sa gattulina de Tzifarosa: “Sa gattulina de Tzifarosa/s’atera die s’est fatta a isposa/cun su Pisitu de campidanu/in d’unu campu de taffaranu”; Su mulu e su mobenti:” Su mulu e su mobenti/corruxinant in pari/Si murigat sa brenti/bruxiat su vari-vari”; Su pisitu:”Su pisitu pei piattu/mi ndi furat fattu-fattu/petza e pisci de su prattu/Su pisitu pei piattu”.

La silloge è scritta in Lingua sarda e a fianco vi è sempre la traduzione in Italiano. Occorre riconoscere che la versione in limba risulta più efficace ed intensa: il linguaggio infatti, turgidamente espressivo, onomatopeico e musicale, irrompe sempre carico di deflagrazioni umoristiche, con grandi capacità allusive, allegoriche, ironiche ed inventive. Un linguaggio che, nei momenti più felici, risulta un impasto ardito di neologismi, immagini, proverbi, tratti dalla tradizione popolare, producendo un fragoroso gioco pirotecnico e un carnevale lessicale e musicale.

Nella versione italiana si perdono molti ritmi, rime, suoni, assonanze e allitterazioni: a dimostrazione della “intraducibilità” della lingua, pena il dimezzamento delle capacità espressive e comunicative. Per non parlare delle frasi idiomatiche, di cui la lingua sarda è ricchissima, e che sono assolutamente intraducibili. La scelta della Lingua sarda dimostra, anche a chi non ci credesse, le possibilità artistiche e semantiche di una lingua tagliata che molti hanno ricucito e usano sempre più spesso, contrariamente a quanto dicono statistiche improponibili.

Quando il sardo fra non molto –c’è da augurarsi- entrerà nelle scuole, libri come questo consentirebbero ai ragazzi di rivisitare un mondo e di apprezzare una lingua dal fascino innegabile. Dunque Tramas de seda è da leggere e da gustare soprattutto nella versione sarda, in cui l’immaginario popolare, ricchissimo e depositato nel bagaglio musicale di una lingua, il sardo, sia logudorese che campi- danese, si mostra in tutta la sua potenza poetica. Dove per potenza poetica s’intende la capacità della parola di innescare, mettere in moto, il processo poetico. Si percepisce, cioè, in questo libro, il potere autopoietico della lingua sarda, un potere che da una parte deriva dal suo carattere culturale squisitamente popolare (come inconscio collettivo), e dall’altra parte dal fatto che il sardo è una lingua minoritaria, disprezzata (molto spesso dagli stessi sardi) e dimenticata nel vorticoso guazzabuglio linguistico dei media.

Maddalena Frau fa comunque bene a offrirci poesie bilingui. Ciò infatti può servire come strumento perché si avvicini al sardo anche chi nutre pregiudizi e ostilità. E soprattutto la versione bilingue può essere oggi più facilmente circuitata anche all’interno delle scuole, fondamentale se non si vuole confinare la lingua sarda nell’angusto recinto delle feste paesane o del folclore.

La poetessa ollolaese –come già aveva fatto nelle due precedenti sillogi Lugore de luna e Sas meravillas de don Bosco- riscrive all’infinito la poesia che gli proviene da quel mondo innocente della sua infanzia, fatto di immagini della memoria, di colori, di odori, di sapori e soprattutto di suoni. Certo essa scrive e canta per i bambini. Ma perché sa di scrivere e cantare per tutti gli uomini. Occorre infatti evitare di assegnare a Tramas de seda una semplice funzione di divertimento o la generica collocazione in una convenzionale “lettura per l’infanzia”.

Per valorizzare in pieno la poesia di Maddalena Frau bisognerebbe restituirla all’oralità. L’intera tessitura sonora, le rime, le allitterazioni si potrebbero gustare meglio se “recitate” da un autore: o meglio ancora, se cantate.  Questa raccolta, in altri termini, si configura anche come uno spettacolo da proporre in piazza, nelle scuole, alla radio.

Tramas de seda infatti è come un manifesto politico-culturale: insegnate ai vostri bambini insieme alla lingua sarda, l’immaginario linguistico e culturale sardo. Per questo il libro di Frau ha anche un valore didascalico, oltre che estetico e di pretto piacere letterario.

Il testo si propone infatti per la particolare efficacia comunicativa, per la “presa diretta” con i bambini e i preadolescenti. Le diverse poesie infatti coinvolgono nell’ascolto la tensione comunicativa e cognitiva, l’immaginazione e il gusto della scoperta lessicale e semantica e, cosa tutt’altro che secondaria, evocano e attivano una serie di contesti extralinguistici, di caratterizzazione ambientale, psicosociali, etnoantropologica, adeguata a percorsi di ricerca per la formazione storica e lo sviluppo della personalità di base. Sono dunque tante le ragioni per dire che Tramas de seda non è un libro da leggere e conservare, ma un libro per apprendere, ricordare, comunicare.

 

 

 

 

OSPITONE, CHI ERA COSTUI? di Francesco Casula

Itamicontas organizza una Conferenza in cui parlerò di Ospitone, Gregorio Magno e la cristianizzazione della Barbagia. 

Giovedì  5  giugno  2014  ore  17,30

 Biblioteca Comunale di Flumini – Via mar ligure 3

Ecco il testo base della Conferenza  

di Francesco Casula 

Conosciamo Ospitone da un unico documento storico: una lettera del papa Gregorio Magno del maggio 594, a lui indirizzata, in cui è definito ”dux Barbaricinorum”. In essa il Pontefice, a lui unico seguace di Cristo in quel popolo di pagani, chiede di cooperare alla conversione delle popolazioni barbaricine che ancora “vivono come animali insensati, non conoscono il vero Dio, adorano legni e pietre”. Non si hanno notizie di un’eventuale risposta di Ospitone né sappiamo se lo stesso si sia impegnato nell’opera di conversione dei suoi sudditi. Una cosa è però certa: la lettera del grande papa serve a illuminare la precedente storia della Sardegna: la presenza nell’Isola alla fine del 500 di un “dux barbaricinorun” mette in discussione infatti numerose categorie storiografiche della storia ufficiale. Ad iniziare dalla visione di una Sardegna conquistata, vinta e dominata, dai Cartaginesi prima e dai Romani e Bizantini poi. In questo luogo comune inciampa persino il grande storico tedesco Theodor Mommsen che in «Storia di Roma antica» parla di una “Sardegna vinta e dominata per sempre” dopo  la sconfitta di Amsicora nel 215 a. C. da parte del console romano Tito Manlio Torquato. Se così fosse, perché continuano incessanti le rivolte dei Sardi, soprattutto barbaricini, per secoli, con i massicci interventi militari romani? Se fosse stata “vinta e dominata per sempre” che significato avrebbe nel 594 la presenza e coesistenza in Sardegna di un “dux barbaricinorum”, Ospitone appunto e di un dux bizantino, Zabarda, di stanza a Forum Traiani (Fordongianus)? Evidentemente la parte interna della Sardegna, pur vinta, aveva comunque conservato, fin dal dominio romano, una sua indipendenza o comunque una sua autonomia, politica ma anche economica e sociale e persino culturale, nonostante l’imposizione della lingua latina che prenderà il posto della vecchia lingua nuragica.

E non si tratta di una parte interna circoscritta e limitata alle civitates barbariae intorno al Gennargentu: ma ben più vasta e con precise caratteristiche politiche, sociali ed economiche. Ecco in proposito l’autorevole opinione del più grande storico medievista sardo, Francesco Cesare Casula:”…Dalle parole del pontefice si evince che, al di là del limes fra Roméa e Barbària le popolazioni avevano un proprio sovrano o duca e che quindi erano statualmente conformate almeno in ducato autonomo se non addirittura in regno sovrano. Infine si ricava che malgrado fosse trascorso tanto tempo, le genti montane continuavano ad “adorare” le pietre, cioè i betili, permanendo nell’antica religione della civiltà nuragica. Purtroppo non sappiamo da quando esisteva questo stato indigeno e quanti anni ancora durò dopo Ospitone né dove fosse esattamente collocato.

Noi personalmente riteniamo che fosse esteso quanto la Barbària romana, segnalato al centro ovest dall’opposto presidio di Fordongianus e dal castello difensivo bizantino di Medusa, presso Samugheo; a sud dal confine religioso fra la cristianissima Suelli, piena di Chiese e di simboli paleocristiani e la pagana Goni, nel basso Flumendosa, con le schiere di suggestive pietre fitte campestri”. (Dizionario storico sardo, Carlo delfino Editore, Sassari, 2003, pagina 1132)

Un territorio immenso, probabilmente metà Sardegna era dunque sotto il governo di Ospitone.

Nasce dalla consapevolezza del ruolo di Ospitone la Lettera di Gregorio Magno con cui invita ed esorta pressantemente il dux barba ricinorum ad assecondare la missione del Vescovo Felice e dell’abate Ciriaco per la conversione delle popolazioni barbaricine al Cristianesimo. Ruolo, carisma e prestigio, peraltro, riconosciuti  e testimoniati dal fatto che il papa conclude la lettera inviandogli la benedizione di San Pietro che era collegata “a una catena dei Beati Apostoli Pietro e Paolo”. Benedizione che era riservata, di regola, solo agli Ecclesiastici: a dimostrazione della stima che nutriva per Ospitone.

E’ poco credibile però – come scrive il papa – che solo Ospitone si fosse convertito al Cristianesimo, ad Christi servitium: certo è però che la gran parte delle comunità continuasse nella religione primitiva naturalistica, vivendo – per usare le parole di Gregorio Magno – ut insensata animalia, adorando pietre e tronchi d’albero. A testimoniare ciò basterebbe solo pensare al fatto che delle nove sedi vescovili presenti in quel periodo in Sardegna (Cagliari, Turris, Sulci, Tarros, Usellus, Bosa, Forum Traiani e Fausania-Olbia) nessuna è alloccata nelle civitates barbariae e la nascita della sede vescovile di Suelli con l’episcopus Barbariae, proprio in quel periodo, pare essere dovuta proprio per la conversione delle popolazioni barbaricine.

Occorre però sottolineare che nelle stesse popolazioni dell’Altra Sardegna, più vicine alle coste e ai maggiori centri, il Cristianesimo era poco diffuso. Nonostante gli esili e le deportazioni dei cristiani nel basso impero romano (con la loro condanna ad metalla); i primi martiri condannati a morte tra il III e IV ; i vescovadi e i papi sardi, (fra il 315 ed il 371 d.C., due vescovi sardi furono particolarmente attivi nella predicazione del Cristianesimo, Eusebio e Lucifero, mentre nel secolo successivo altri due sardi, Simmaco e Ilario, divennero Papi); la temporanea presenza dei vescovi africani.

A dare un impulso decisivo per la conversione dei Sardi sarà proprio Gregorio Magno, con una instancabile opera di evangelizzazione e con l’istituzione di numerosi monasteri. O con l’arrivo dall’Oriente dei monaci basiliani, che non solo diffusero il vangelo tra i Barbaricini ma introdussero la coltura d’alberi (melo, fico, ulivo) dei cui frutti si cibavano nei periodi d’astinenza e di digiuno. Introdussero pure alcuni vitigni per la produzione di vini dolci per la messa (moscato e malvasia), praticavano i riti della Chiesa orientale, avevano la barba fluente e dedicarono le chiese ai santi del calendario greco.