Lunga vita allo storico Istituto di Cagliari

Il Martini festeggia i suoi 150 anni.

di Francesco Casula

Il primo Istituto tecnico per ragionieri sorto in Sardegna, il “Pietro Martini” di  Cagliari, festeggia i 150 anni di vita. Con Decreto del 30 ottobre 1862 fu istituito infatti il “Regio Istituto Tecnico Governativo”, inaugurato il 9 dicembre 1862, con inizio delle lezioni il 5 gennaio 1863. Il Municipio gli destinò quale sede, inizialmente, l’ex Convento di Santa Teresa d’Avila, in Piazza Dettori, successivamente la sede dell’ospedale di Sant’Antonio e solo agli inizi degli anni trenta l’Amministrazione Provinciale assegnò l’attuale edificio di via Sant’Eusebio, sede degli allievi dei Regi Carabinieri, sottoposto a vincolo da parte del Ministero dei Beni Artistici e Culturali. Con Regio Decreto del 31 agosto 1933 l’Istituto assunse il nome di “Pietro Martini”, storico sardo, anzi uno dei grandi padri della storiografia sarda. Di cui voglio ricordare solo un episodio: intenzionato a introdurre fra gli studenti dell’Isola l’insegnamento della Storia sarda, le autorità governative piemontesi, opposero un netto diniego, rispondendo che “nelle scuole dello Stato debbasi insegnare la storia antica e moderna, non di una provincia ma di tutta la nazione e specialmente d’Italia”. Una posizione insipiente che, purtroppo, perdura ancora. Ma torniamo ai festeggiamenti: avverranno il 1° giugno prossimo. Aprirà le celebrazioni Angela Testone, Dirigente scolastica dell’Istituto cui seguiranno i saluti delle autorità, fra cui il sindaco Zedda e il rettore dell’Università cagliaritana Giovanni Melis, ex allievo del Martini. Con lui ci saranno altri ex allievi “eccellenti”: ricordo per tutti Marco Sini, già sindaco di Monserrato, Rosanna Romano autorevole capo ufficio stampa del Consiglio regionale sardo e Alessandro Castello, magistrato a Cagliari: questi ultimi due brillanti professionisti sono stati miei alunni in quella Scuola in cui ho svolto il mio insegnamento per ben 30 anni!  Una Scuola che nel suo secolo e mezzo di vita ha saputo sempre rinnovarsi e innovare, articolando e arricchendo la sua offerta formativa, senza smarrire il rigore e la serietà del passato. Così negli anni ’70 ha introdotto il Corso per programmatori ed oggi, al termine del Biennio comune offre per il triennio ben tre indirizzi: Amministrazione finanza e marketing, Sistemi informativi aziendali, Turismo. “Per preparare – afferma Angela Testone – professionisti per una società in continuo cambiamento”.

Pubblicato su Sardegna Quotidiano del 31-5-2013

 

 

Sa Die de sa Sardigna dedicata al grande leader sardista

 

A Ollolai nel ricordo di Columbu

di Francesco Casula

Quest’anno Ollolai dedica Sa Die de sa Sardigna a uno dei suoi figli più illustri: Michele Columbu, scomparso il 10 luglio scorso. Il convegno, organizzato dall’Associazione culturale “Divergenze” si terrà nella capitale barbaricina il 1° giugno prossimo e sarà introdotto da due relazioni, rigorosamente in lingua sarda. Il professor Tonino Bussu parlerà di Columbu “sindigu, parlamentare e sardista” mentre il sottoscritto  si intratterrà sul suo ruolo di scrittore “in  s’istoria de sa literadura sarda”. In modo particolare parlerò del suo capolavoro, “Senza un perché”, romanzo di viaggio – sostiene lo scrittore Natalino Piras – “che appartiene per questo a uno dei più classici filoni della narrativa: Gulliver, Robinson Crusoe, Tristram Shandy ma anche Ulysses, La Commedia, Il Morgante ma anche e soprattutto Don Chisciotte, in cui Columbu si rivela abile narratore, anzi affabulator maximus”. Da esso – come dagli altri suoi scritti sia in Italiano che in Sardo –  emerge la sua saggezza, il suo moderato ottimismo, mai vacuo però e anzi temperato da un alone di scetticismo e di dubbio; l’occhio sorridente e arguto, mai cattivo né arcigno, che spesso si fa ustorio ma che preferisce sempre l’ironia all’indignazione e all’invettiva; lo sberleffo satirico all’aggressione verbale; la canzonatura e il motteggio – quasi sottovoce – allo sbraitare e alzare la voce con berci e urla. Egli è evidentemente convinto che la messa in ridicolo frusti e tagli più netto e con più energia del “serioso”o dello sparare a mitraglia. In una favola impastata di inganni e sortilegi,misteri e sogni. In cui si alternano, di volta in volta, la malinconia, l’amarezza e la nostalgia, la speranza e la dolcezza. Ma in cui a prevalere è la saggezza e un altissimo senso della moralità, ben riassunti ed esemplificati da questi due aforismi: ”Tristi e senza speranza vivono gli oppressi che hanno dimenticato persino la leggenda della propria libertà” e “Un uomo, in qualunque luogo passi, ha il dovere di lasciare un segno di solidarietà e di amicizia”. E insieme emerge uno scrittore raffinato e colto, con un linguaggio carico di deflagrazioni umoristiche e dalle grandi capacità allusive, impregnato di immagini ardite, di metafore, di parabole, di simboli e di proverbi, di dicios insomma: soprattutto mutuati dalla cultura e dalla tradizione sarda che ben conosce e che ha vissuto intensamente, rinnovandola.

Pubblicato su Sardegna Quotidnao del 28-5-2013

 

 

Il caso di Luiseddu Caria, dirigente di A Manca pro s’Indipendentzia

La repressione dello Stato ieri e pure oggi.

di Francesco Casula

Storicamente i Sardi, troppo spesso, hanno sperimentato la presenza dello Stato nel suo volto poliziesco. L’alibi della repressione è stato in genere il banditismo: fin dal 1899 quando, lo Stato italiano invia l’esercito per dare la caccia a qualche centinaio di uomini alla macchia: la “caccia grossa”. Come la chiamò Giulio Bechi. autore di un libro omonimo: caccia all’uomo delle selve, al bandito-cinghiale. Appena sbarcati a Nuoro e distribuiti tra i paesi della Sardegna centrale, i soldati – e con loro agenti di polizia e carabinieri – mettono il Nuorese in un vero e proprio stato d’assedio senza preoccuparsi di un’intera società che si vedeva invasa e tenuta in cattività. Con arresti, a migliaia, di donne, vecchi, ragazzi. Con il sequestro di tutte le mandrie, marchiate col fatidico GS, sequestro giudiziario. Un sequestro di persona in grande, per fare scuola. Banditi per il novello codice italiano: il codice de sa Mala Giustissia. Che non a caso verrà identificata dalla cultura e tradizione popolare, con i Carabinieri e la repressione da parte dello Stato. Tanto che in unu diciu famoso, un vero e proprio frastimu, “Anco ti currat sa Giustissia”, è sintetizzato l’augurio più cattivo e funesto che si possa rivolgere al peggior nemico. A un’altra “Caccia grossa” famosa assisteremo negli anni ’60, sempre con il pretesto del banditismo, con la repressione indiscriminata della popolazione, inerme e innocente. E con un giornalista, Ricciardetto (pseudonimo di Augusto Guerriero) che nel  settimanale “Epoca” invocava contro i Sardi persino l’utilizzo dei “gas asfissianti o per lo meno paralizzanti”. Oggi naturalmente l’apparato repressivo dello Stato non è più aduso a “cacce grosse”, anche perché l’alibi del banditismo è venuto meno. Ma la repressione continua. Spesso ingiustificata. Almeno quella che ha colpito recentemente a Nuoro un giovane universitario, Luiseddu Caria, dirigente del Gruppo indipendentista “A Manca”. Mentre stava distribuendo volantini di informazione contro la costruzione della nuova caserma di Pratosardo è stato fermato, condotto in caserma, perquisito e spogliato allo scopo di tentare di trovare sostanze stupefacenti. Ci chiediamo: che c’entra la droga?  Temiamo piuttosto che si tratti di accanimento contro un gruppo politico, anche nel passato recente più volte “perseguitato”. Con le accuse che si sono sempre rivelate del tutto infondate.

Pubblicato su Sardegna Quotidiano del 24-5-2013

 

A Seulo un Convegno sul “Dux Barbaricinorum”

La Barbagia sulle tracce di Ospitone

di Francesco Casula

Ospitone, chi era costui? Per rispondere a questo interrogativo il “Gruppo Ospitone” de Seulo ha organizzato per il 25 maggio prossimo un apposito Convegno nel paese capitale dell’omonima Barbagia. A parlarne saranno – oltre a chi scrive questa nota –  Anna Teresa Dessì, studiosa di storia sarda e il professor Genziano Murgia, seulese, già docente di Storia nelle scuole superiori e da anni impegnato nella riscoperta, nello studio e nella valorizzazione della storia e delle tradizioni popolari del suo paese. Conosciamo Ospitone da un unico documento storico: una lettera del papa Gregorio Magno del maggio 594, a lui indirizzata, in cui è definito ”dux Barbaricinorum”. In essa il Pontefice, a lui unico seguace di Cristo in quel popolo di pagani, chiede di cooperare alla conversione delle popolazioni barbaricine che ancora “vivono come animali insensati, non conoscono il vero Dio, adorano legni e pietre”. Non si hanno notizie di un’eventuale risposta di Ospitone né sappiamo se lo stesso si sia impegnato nell’opera di conversione dei suoi sudditi. Una cosa è però certa: la lettera del grande papa serve a illuminare la precedente storia della Sardegna: la presenza nell’Isola alla fine del 500 di un “dux barbaricinorun” mette in discussione infatti numerose categorie storiografiche della storia ufficiale. Ad iniziare dalla visione di una Sardegna conquistata, vinta e dominata, dai Cartaginesi prima e dai Romani e Bizantini poi. In questo luogo comune inciampa persino il grande storico tedesco Theodor Mommsen che in «Storia di Roma antica» parla di una “Sardegna vinta e dominata per sempre” dopo  la sconfitta di Amsicora nel 215 a. C. da parte del console romano Tito Manlio Torquato. Se così fosse, perché continuano incessanti le rivolte dei Sardi, soprattutto barbaricini, per secoli, con i massicci interventi militari romani?  Se fosse stata “vinta e dominata per sempre” che significato avrebbe nel 594 la presenza e coesistenza in Sardegna di un “dux barbaricinorum”, Ospitone appunto  e di un dux bizantino, Zabarda, di stanza a Forum Traiani (Fordongianus)? Evidentemente la parte interna della Sardegna, pur vinta, aveva comunque conservato, fin dal dominio romano, una sua indipendenza o comunque una sua autonomia, politica ma anche economica e sociale e persino culturale, nonostante l’imposizione della lingua latina che prenderà il posto della vecchia lingua nuragica.

Pubblicato su Sardegna Quotidiano del 20-5-2013

 

Elezioni regionali:Indipendentisti divisi e/o alla diaspora?

L’Indipendenza

ha bisogno anche

di unità

di Francesco Casula 

Gli Indipendentisti da anni oramai svolgono in Sardegna un ruolo  politico importante, con battaglie significative e, spesso, vincenti. Segnatamente da parte dei Gruppi più consistenti e culturalmente più avveduti. Penso in modo particolare alla iniziativa di Sardigna Natzione, coinvolgente e popolare, sul il nucleare, che ha visto i Sardi pronunciarsi, nel Referendum, pressoché all’unanimità contro. Penso alla lotta dell’IRS, da anni oramai, contro le devastazioni ambientali delle industrie “nere”, specie del Sassarese, e nel contempo la richiesta per la bonifica del territorio inquinato. Penso alle iniziative di ProgRes, sul versante culturale e linguistico, specie con “Faghimus s’Iscola sarda”. Penso all’azione di Sardigna libera con la leader Claudia Zuncheddu, impegnata contro la truffa della “Chimica verde” o del Progetto Galsi. Penso infine alla battaglia antimilitarista di A Manca pro s’Indipendentzia , a Nuoro ma non solo. Si tratta di iniziative condivisibili, che incrociano i bisogni e le aspettative dei Sardi. I cui obiettivi prefigurano i tratti essenziali di un progetto di sviluppo eco-sostenibile ed endogeno. Contrapposto a quello neocoloniale, che ha dominato in questi ultimi 30/40 anni, imposto dall’Italia ma mediato dagli ascari locali, tutto giocato sulla petrolizzazione dell’Isola e sull’industria nera e inquinante. Tutto bene allora? No, per niente. Gravissimi limiti ed errori continuano a contrassegnare il mondo indipendentista: la frantumazione e la divisione innanzitutto. E con essa il settarismo, le inutili diatribe pseudoideologiche e persino la rissa. Ben altro aspettano i Sardi da quel Pianeta. Per intanto l’unità. Ad iniziare dalla prossima scadenza elettorale delle regionali. E’ urgente che si dia vita, al più presto, a Incontri per verificare la possibilità di una Lista unitaria del variegato movimento indipendentista. Altrimenti, si perderà un’occasione formidabile per una presenza corposa nell’Istituzione fondamentale dei Sardi. Sarebbe un dramma e una disfatta certa, se ci si presentasse ancora una volta divisi. Magari per agitare, solitari, la propria bandierina di gruppo. O, peggio, se ci si disperdesse in altri Partiti. Magari in partiti italioti. Quelli stessi che hanno portato al collasso la nostra economia. E che continuano a castrare la nostra cultura e la nostra lingua per omologarci e assimilarci, snazionalizzandoci.

Pubblicato su Sardegna Quotidiano del 17-5-2013

A proposito di un Convegno organizzato a Cagliari da Sardigna Libera

UN MONDO TRA DECRESCITA E CATASTROFE

di Francesco Casula

Raramente capita di partecipare a un Convegno così  intrigante sia per le problematiche affrontate che per la cifra dei relatori: si è tenuto a Cagliari nei giorni scorsi, organizzato da Sardigna libera, presieduta dalla consigliera regionale Claudia Zuncheddu. Per parlare di “Antiche tecnologie per una nuova architettura in tempi di decrescita”.  Il tema è stato affrontato specificamente dall’architetto, di fama internazionale, Fabrizio Carola che ha ricordato di aver trascorso metà della propria vita in Africa a costruire cupole di terra ed anche un intero ospedale, in Mauritania, sempre in terra cotta, senza ipertecnologie, con un semplice muratore e tre o quattro manovali. Quindi con costi bassissimi e nel rispetto rigoroso dell’ambiente e delle tradizioni “perché l’utilizzo del legno avrebbe acuito il problema della desertificazione in un territorio già arido, mentre il cemento armato lo si sarebbe dovuto importare e, in ogni caso, era troppo caro”. Il secondo relatore, il presidente Isde (Medici per l’ambiente Sardegna) Vincenzo Migaleddu, ha denunciato la politica energetica in Sardegna in cui “si destinano 1200 km² alla coltura del cardo da bruciare nella centrale a biomassa della Chimica verde voluta dall’Eni a Porto Torres quando, invece, poche decine di km² di fotovoltaico potrebbero produrre una quantità di energia 40 volte superiore rispetto a quella prodotta dal cardo”. Prima delle conclusioni della Zuncheddu, Giulietto Chiesa, giornalista e scrittore di gran vaglia, con un intervento breve ma fulminante ha sostenuto che ormai ci troviamo di fronte a una catastrofe, a un collasso. E a fronte di  una crisi di tale dimensione  “senza un salto evolutivo, l’uomo sapiens non ce la farà. Perduto il contatto con la natura e l’unità del Cosmo, abbiamo costruito una civilizzazione che porta alla morte”. Alla base di tale “civilizzazione” ci sono stati elementi di vera e propria follia: l’illusione di uno sviluppo infinito in un sistema finito di risorse (la nostra terra). Addirittura di una crescita geometrica assolutamente incompatibile con la natura. Sono tesi quelle di Chiesa dentro la prospettiva della Decrescita felice. Di cui i trombettieri delle magnifiche e progressive sorti del neoliberismo e della globalizzazione continuano a farne la caricatura, per poi poterla facilmente combattere. Chi sostiene la decrescita – secondo loro – vorrebbe tornare al passato, alla candela, al carro a buoi, a una vita senza comodità. In realtà chi sostiene la Decrescita parte dal presupposto che la correlazione tra crescita economica e benessere non sia necessariamente positiva, ma che esistano situazioni frequentissime  in cui ad un aumento del Prodotto interno lordo (PIL) si riscontra una diminuzione della qualità della vita. Con la devastazione della natura, con i danni profondi agli ecosistemi (il buco dell’ozono, la fine delle foreste, il problema dell’acqua, dei rifiuti) e alla salute degli uomini (nuove malattie fisiche, estesi malesseri psichici): nell’intero Pianeta. Sardegna compresa. Perché l’intera questione dello “sviluppo” insano e devastante ci riguarda da vicino. Come la Decrescita. Con cui al dominio delle “linee di metropoli” dobbiamo opporre le “linee di villaggio” e del territorio,visto non più come mero supporto di attività economiche ma sistema complesso di identità geografiche, ambientali, storiche, culturali, linguistiche.

Pubblicato su Sardegna Quotidiano del 16-5-2013

 

Terralba 4-5-20013: Convegno sulla figura di Eleonora d’Arborea

 

Convegno su Eleonora d’Arborea organizzato dall’Assessorato alla cultura del Comune di Terralba  4- maggio 2013 (ore 18, Teatro civico)

 

Relazione di Francesco Casula 

 

1. La figura di Eleonora

 

Giuseppe Dessì, il grande scrittore di Villacidro, una volta ebbe a scrivere, fra il serio e il faceto,  che la Sardegna ha avuto solo due grandi uomini: Eleonora d’Arborea e Grazia Deledda. Io credo che ne abbia avuto anche tanti altri: Giovanni Maria Angioy, Gramsci e Lussu, solo per ricordarne alcuni. Certo è che la Deledda ed Eleonora sono di assoluto valore.

 

Devo dire che nei confronti del Premio Nobel nuorese, c’è e c’è stato proprio da parte dei Sardi una sottovalutazione quando non vera e propria denigrazione e ciò a fronte del giudizio lusinghiero dei più grandi critici italiani: penso solo ad Attilio Momigliano secondo cui “Deledda ha una capacità simile a quella di delitto e Castigo e dei Fratelli Karamazof “ o “Nessuno dopo Manzoni ha arricchito e approfondito come lei, in una vera opera d’arte, il nostro senso della vita”.

 

Ma oggi dobbiamo parlare di Eleonora. Ebbene molti storici, per la sua grandezza il suo ruolo storico e la sua opera l’hanno paragonata a Caterina II, imperatrice di tutte le Russie. Non so se il paragone è esagerato, certo è che la sua figura si staglia potente nel ‘300.

 

Figura, occorre dire, poco conosciuta in Sardegna: ad iniziare dalle Scuole. Tanto che capita che uno studente possa uscire dalla Ragioneria e persino dalla Facolta di Giurisprudenza senza aver sentito neppure nominare la Carta De Logu di Eleonora.

 

Poco conosciuta e, di converso mitizzata. La sua figura infatti è stata ridotta a “santino”, innocuo e rassicurante, messo in una nicchia e imbalsamata. Utilizzata persino nelle confezioni di prodotti alimentari: come marketing insomma e come dato pubblicitario.

 

Oltretutto con una immagine falsa:rappresenta Giovanna La Pazza – figlia di Ferdinando II d’Aragona e di Isabella di Castiglia –  e non la regina-giudicessa di Arborea. In questo “falso” ci sono cascato anch’io nel volume che su di lei ho scritto in lingua sarda. Nella versione in italiano invece ho riprodotto l’immagine della “vera” Eleonora. che vedremo. Ma ci è cascato anche uno storico come Camillo Bellieni, autore di un bellissimo libro

 

Ma ecco come descrive e spiega l’origine del “falso” Francesco Cesare Casula, il più grande storico sardo vivente, già docente di Storia Medioevale dell’Università  di Cagliari:”Cinquant’anni dopo la morte di Giovanna la Pazza avvenuta nel 1555, un pittore napoletano di maniera, certo Bartolomeo Castagnola, ricopiò a Cagliari un suo ritratto che fu riscoperto nell’Ottocento da un ignoto cultore di storia sarda il quale, in clima albertino di ricostruzione delle patrie memorie e di esaltazione romantica, vi scrisse in calce:D(OM)INA LEONORA, credendo o volendo far credere che si trattava di un dipinto trecentesco della famosa giudicessa Eleonora d’Arborea. E tale, dal 1859 in poi, è stato sempre accettato e ammirato dai Sardi di ieri e di oggi i quali, ignorantemente, continuano a riprodurlo dappertutto”. (In Dizionario storico sardo di Francesco Cesare Casula, Carlo Delfino editore, Sassari, 2oo1, pag.699).

 

Sarà lo stesso F. C. Casula nel 1984, a individuare invece quella che – almeno pare – sia stata l’ immagine autentica di Eleonora quando la ritrovò effigiata nei peducci pensili della volta a crociera dell’abside della chiesa di San Gavino Martire in San Gavino, insieme al busto del padre Mariano IV, del fratello Ugone III e del marito Brancaleone Doria.

 

Nel volto di Eleonora (parte sinistra) è evidente una vasta cicatrice che, sempre F. C. Casula, in un libro fra il saggio storico e il romanzo, così spiega e rievoca: «[…]E, sul focolare, noi mettiamo una capace padella di rame a friggere l’olio di grosse fette di lardo. La bambina guardava estasiata il liquido ambrato che sfrigolava gioioso, accendendo rapide faville all’intorno quando stille scoppiettanti fuggivano dai ciccioli rosolati oltre l’orlo:”chissà che bello buttarci dentro una cosa”!

 

Prese un pezzo di carne che stava lì, sul tagliere; e, come aveva visto fare tante volte alla cuoca, lo lasciò cadere di botto sull’olio.

 

Uno schizzo ardente partì, non molto più grande di una lagrima, e la colpì in volto. La donne, in cortile, sentirono uno strillo acutissimo. La prima ad accorrere fu Reste, che la trovò accartocciata di dolore con le mani sulla faccia. Gliele scostò ed inorridì. Scappò via urlando:”Adgitoriu, adgitoriu! Sa pipia s’esti bruxiada”! (Aiuto, aiuto! La bambina s’è bruciata)». (In Eleonora, regina del regno di Arborea, di Francesco Cesare Casula, Carlo Delfino Editore, Sassari, 2003, pagg.55-56) 

 

2. Il ruolo politico

 

Il Giudicato-regno di Arborea ha conosciuto 23 generazioni di sovrani: i Lacon-Gunale, i Lacon-Zori, i Lacon-Orrù, i Bas-Serra, i Doria-Bas, i Narbona-Bas.

 

Il regno ha conosciuto però i tempi di maggior prestigio con i Giudici Mariano II (morto nel 1297), Mariano IV (1346-1376) ma soprattutto con  Eleonora (1330-1402), con cui Arborea è riuscita a conquistare l’intera isola fatta eccezione solo per Castel di Cagliari e Castel d’Alghero appartenenti a regno di Sardegna. In altre parole unifica sotto il suo scettro l’intera Sardegna, sconfiggendo a più riprese l’esercito aragonese: in condizioni difficilissime e sotto il ricatto de re Pietro IV d’Aragona che minacciava di non liberare il marito Brancaleone Doria – che aveva arrestato a Barcellona e poi condotto prigioniero a Cagliari – se non avesse posto fine alla guerra e non si fosse arresa.

 

 

3. La Carta de Logu: la sua grandezza

 

Ma ancor più del suo ruolo politico è importante la sua opera giuridica con l’emanazione della Carta de Logu, probabilmente nel 1392. Sicuramente è il Codice legislativo più importante e più noto del medioevo sardo e non solo sardo. Di questa raccolta di leggi, anche se si prevedeva che ciascun curatore fosse obbligato a possederne una copia, come si afferma nel capitolo CXXIX “qui ciaschuno curadore siat tenudo de aviri ad ispesas suas sa carta de logu…”, a noi ne sono rimaste solo nove edizioni a stampa (del 1485, 1560, 1567, 1607, 1617, 1628, 1708, 1725 e 1805) e in più un manoscritto cartaceo del ‘400 che oggi si trova con la segnatura 211 nella Biblioteca Universitaria di Cagliari.

 

Si tratta dell’unica Costituzione che la Sardegna nella sua storia ha avuto che non sia octroyé, ottriata: ovvero concessa dall’alto e da “fuori”. Elaborata localmente dunque e indigena essa è espressione, anche linguistica, di una autorità isolana, a dispetto delle parentele, molto spesso straniere. A parte il Codice feliciano, lo Statuto albertino e la Costituzione, lo stesso Statuto sardo è una concessione, in lingua italiana, dell’Assemblea Costituente fatta alla fine del gennaio del 1948 e successivamente elargita ai Sardi .

 

La notazione non è, si badi bene, di ordine puramente formale né di poco conto. Essa attiene all’Autogoverno che è l’aspirazione fondamentale e più antica della nostra Isola.

 

E’ molto difficile che la Regione costituita e gestita secondo norme statutarie, più o meno correttamente interpretate, possa essere considerata una istituzione di autogoverno della comunità sarda. Non è tale intanto per la sua struttura organizzativa che è una misera e minuscola fotocopia dello Stato con i suoi assessori come ministeri e il suo accentramento politico burocratico nel capoluogo cagliaritano. E non lo è perché la Regione non ha un reale rapporto politico giuridico con i Comuni, rimasti nella sostanziale dipendenza dello Stato; perché la Sardegna continua ad essere presidiata dai Prefetti, che sono il simbolo oltre che lo strumento del centralismo statuale e infine perché deve coabitare con le succursali provinciali dei ministeri romani sempre pronti a pascolare anche abusivamente, nei territori regionali.

 

In fondo si potrebbe dire che la Regione è stata una sorta di Agenzia dello sviluppo, prevalentemente manovrata dall’esterno e che tale resta nonostante i tentativi ultimi di salire verso l’altopiano ad essa ignoto, della lingua e della cultura sarde.

 

La Carta De  Logu invece, descrive istituzioni che dalla nomina del Giudice-re, fortemente condizionata dalla Corona de Logu, dalle Curatorie e dalle stesse Biddas, organi di quasi governo locale, di certo guardavano meno obliquamente verso l’orizzonte dell’Autogoverno: è questa la grandezza della Carta, forse prima ancora dello stesso articolato e delle singole leggi.  

 

4.  La Lingua della carta

 

La lingua che utilizza Eleonora nel suo codice è la Lingua sarda. “Il sardo colto –scrive un grande studioso della Carta,, Marco Tangheroni che va visto nel quadro di una consapevole volontà politica dei Giudici di Arborea di presentarsi come interpreti e guide dell’intera nazione sarda”. E aggiunge: “Il termine «nazione sarda» è usato correntemente nel Trecento, e in misura crescente quanto più la guerra accentuava le differenze e le contrapposizioni con «la nazione catalana». Così ad esempio, da una connotazione neutra essa assume nella propaganda catalana una caratterizzazione dispregiativa: es nacion que tots temps es estrada en servitud”.

 

Un sardo-arborense che é una miscela di logudorese e di campidanese. Scriveva Camillo Bellieni su questo sardo: “E’ un dialetto vivo ancora sulle colline che sovrastanoil Campidano maggiore, fra Abbasanta, Ghilarza, Neoneli e Sorgono, in una zona ristretta. Un tempo essa arrivava fino ad Oristano e più oltre. Il dialetto è fondamentalmente il logudorese nei suoi svolgimenti morfologici, ma è influenzato da accidenti fonetici del campidanese, che di giorno in giorno prende sempre più piede verso il settentrione dell’Isola. È un linguaggio ricco e armonioso che ha tutta la dignità necessaria, per dare forma solenne alla legge”.

 

Bellieni scriveva ciò nel 1929: ma oggi cosa sostengono gli studiosi a proposito del Sardo della Carta de Logu? Più o meno la pensa come Bellieni una studiosa come Antonietta Dettori: “I confini storici dell’area di produzione e fruizione del codice di leggi – il Giudicato d’Arborea – includevano le plaghe agricole del Campidano settentrionale e della Marmilla e penetravano con le curatorie barbaricine nella zona montuosa dell’interno dell’Isola.Una posizione mediana che ponevano il territorio sulla linea di confluenza dell’area campidanese con l’area logudorese e lo apriva inoltre a una componente culturale esterna, mercantile e commerciale, etnicamente differenziata che trovava sbocco nella «finestra» mediterranea costituita dal golfo di Oristano”.

 

È proprio così, basta leggere la Carta per avvedersi che in essa è presente una Lingua “mediana” o “di mesania”. Quella Lingua da cui gli studiosi della Commissione che ha partorito la proposta di “Limba sarda comuna- LSC” sembrano aver preso molti spunti ed elementi. 

 

5. L’articolato

 

La Carta de Logu contiene un Proemio e 198 capitoli: i primi 132 formano il Codice civile e penale gli altri 66 il codice rurale emanato dal padre di Eleonora, Mariano IV.

 

Promulgata da Eleonora, madona Elionor per gli Aragonesi che proprio dopo la promulgazione cominciano a chiamare la Sardegna «nacion sardesca» e la Carta «de sa republica sardisca» che dunque era espressione della Sardegna intera ma soprattutto si presentava come una vera e propria Carta costituzionale nazionale. Scritta – come abbiamo già detto – in lingua sarda-arborense (ma la variante risulta diversa a secodo delle edizioni), nelle intenzioni di Eleonora serve ad ciò qui sos bonos e puros et innocentes pothant viviri et istari inter issos reos ad seguridadi.

 

Comincia con un proemio: “[…] Sa Carta de Logu, sa quali cun grandissimu provvidimentu fudi fatta peri sa bona memoria de juygi Mariani padri nostru, in qua direttu juyghi de Arbarèe, non essendo corretta per ispaciu de seighi annos passados, como per multas variedadis de tempus bisognando de necessidadi corri gerla e emendari, considerando sa variedadi e mutacioni dessos tempos chi sunt istrado seghidos posca, ed issa condicioni dessos hominis, chi est istada dae tando inoghi multu permutada, e plus pro chi ciascunu est plus inchinevoli assu mali fagheri, chi non assu beni de sa republica sardisca, cun delliberadu consigiu, illa mcorrigimus,e faghimus e mutamus dae beni in megius, e cumandamus chi si deppiat osservari integramenti dae sa Santa Die innantis per su modu infrascrittu, ciò est:”.

 

La Carta di Mariano IV dunque da sedici anni non era stata rivista e poiché non rispondeva più ai bisogni delle nuove condizioni sociali, occorreva rivederla e aggiornarla “pro conservari sa Justicia et in bonu, pacificu e tranquillu istadu dessu pobulu dessu rennu nostru predittu et dessas ecclesias, raxonis ecclesiasticas, e dessos lieros,e bonos hominis, et pobulu tottu dessaditta terra nostra e dessu rennu de Arbarèe”.

 

Quando parla di ammodernamento in base alle nuove condizioni del Giudicato, Eleonora pensa in modo particolare: alla necessità di rafforzare le disposizioni per conservare l’ordine pubblico, spesso in pericolo; aumentare la produzione e la ricchezza del regno; garantire lo sviluppo della piccola proprietà privata, proteggere e difendere l’attività di chi lavorava la terra e dei pastori. Ma soprattutto occorreva definire i reati e precisare le responsabilità delle persone stabilendo con precisione l’entità delle pene che saranno aumentate rispetto a quelle stabilite e previste dalla legislazione del padre Mariano e del fratello Ugone, come abbiamo visto nel proemio.

 

Le disposizioni risultano molto precise soprattutto relativamente alla chiusura dei terreni, il lavoro nelle vigne, negli orti e nei terreni seminati. Precise e con pene molto severe nei confronti di chi distrugge le chiusure (capp. XLI-XLIII); contro il padrone degli animali che invadano i campi altrui distruggendo il raccolto (cap. XCV); contro chi bruci le stoppie prima dell’8 settembre (cap.XLV), con il rischio di spargere il fuoco nei terreni coltivati.

 

È estremamente importante la disposizione che concede in proprietà il terreno a chi lo ha avuto e lavorato per cinquanta, quaranta o trent’anni, a secondo che esso sia del fisco, della Chiesa o di un privato, se il proprietario originario nel frattempo non ha rivendicato i suoi diritti (cap. LXVII).

 

Per i reati maggiori si stabilisce la condanna a morte (con l’impiccagione, la decapitazione e sa brusiadura) e non è possibile salvarsi attraverso il pagamento in denaro di una multa (e pro dinari neunu non campit) e dunque con un riscatto, come aveva previsto il fratello Ugone: “in casu qui alcunu homini ochirit homine, pagando liras milli siat campatu e non nde siat mortu”.

 

Per fare qualche esempio: l’omicida è decapitato: “volemus e ordinamus chi si alcuna persona ochiret homini et est indi confessa in su judiciu over convinta segundu chi s’ordini dessa ragioni cumandat siat illi segada sa testa in su logu dessa Justicia per modu ch’indi morgiat. E pro dinari alcunu non campit” [Vogliamo e ordiniamo che se uno uccide una persona, e lo confessa in giudizio, oppure che venga accertato (il suo crimine) secondo ragione, sia decapitato nello stesso luogo dov’è stato condannato, in modo che ne muoia. E che nessuno si salvi col denaro]. (cap.III). Ma ma se si tratta di legittima difesa “no ‘ndi siat mortu e pena alcuna no ‘ndi apat”.Chi incendia le abitazioni è condannato ad essere arso vivo: «Su fogu postu a sas domos est degumadu cun sa bruciatura» (cap. XLVI). La Carta inoltre commina la condanna a morte per le malefatte contro la sicurezza dello Stato: per capire questa pena è necessario tener presente che Eleonora ha ancora davanti a sé la morte del fratello Ugone e i tradimenti a favore degli Aragonesi.

 

Chi è colpevole “di lesa maestà” viene legato alla coda di un cavallo, trascinato nelle strade dell’Oristanese e impiccato (art. II): ““Item ordinamus chi si alicuna persona trattarit over consentirit causa alcuna pro sa quali Nos perderemus honori, terra over castellu de cussos chi hamus hoe o de cussos chi acquistaremus dae como innantis deppiat esser istrasinada a coha de cavallu per tota sa terra nostra de Aristanis e posca infini assa furcha e innie si infurchet ch’indi morgiat…”. [Comandiamo inoltre che se qualcuno trattasse o permettesse qualcosa per la quale Noi (Mariano IV o Eleonora?) perdessimo onore, terre o di quei castelli che oggi abbiamo o di quelli che acquisiremo d’ora in avanti, costui deve essere strascinato a coda di cavallo per tutto il nostro territorio Oristanese e poi fino alla forca, e lì inforcato in modo che ne muoia…].

 

La medesima morte è prevista per chi attenta alla famiglia reale (cap. I.): “ Ordinamus chi si alcuna persona trattarit e consentirit chi Nos over alcunu figiu nostru over donna nostra o figios nostros o donna issoru, esseremus offesidos over fagherit offender over consentirit chi esseremus offesidos deppiat esser posta supra unu carru e attanaggiada per totu sa terra nostra de Aristanis e posca si deppiat dughiri attanaggiandolla infini assa furca e innie s’infurchit ch’indi morgiat…”. [Comandiamo che se alcuno trattasse e permettesse che Noi (Mariano IV) o qualche figlio nostro, o nostra moglie, o i nostri figli e le mogli loro fossimo offesi (colpiti), o che ci facessero offesa, e acconsentisse che venissimo offesi, costui venga posto attanagliato su un carro e mandato in giro per tutto il nostro territorio (della città) di Oristano, e che poi venga condotto attanagliato fino alla forca e lì inforcato in modo che ne muoia…]. Le ferite sono punite con la pena “del taglione“ (cap.IX):”si ‘ndi perdirit membru cussu simigianti membru perdat…” ma potevano essere convertite in pene pecuniarie, ma molto alte.

 

La prigione non è prevista come pena: qualche volta se ne parla ma solo come mezzo di sicurezza per custodire il colpevole prima di prendere altre decisioni (cap. IV) o ulteriori accertamenti (cap. XII).

 

Ciò a significare che c’era la convinzione che lo Stato non poteva mantenere né campare i delinquenti, anzi mirava a colpirli nel loro patrimonio, considerando ciò un intervento molto più proficuo di qualunque pena.In generale le pene servivano per colpire il malfattore nel suo patrimonio o per spaventarlo con la minaccia di multe molto salate. Per chi eventualmente non pagava la multa erano previste pene fisiche molto dure. Qualche esempio: a chi rubava oggetti sacri gli cavavano un occhio (cap. XXVI); a chi incendiava i terreni già lavorati gli tagliavano la mano destra (cap. XLVII); a chi pronunciava false testimonianze e bestemmiava, gli veniva conficcato un amo nella lingua che poi gliela tagliavano (capp. LXXVI e CIXXX). Quando il reo era recidivo le pene comminate erano molto più severe.

 

Certo, si può rimproverare a Eleonora di voler solo punire il colpevole, il delinquente, e di non prevedere alcuna forma di recupero e di riabilitazione. È vero. Ma noi non possiamo valutare e giudicare la Carta con la mentalità odierna. Occorre inoltre aggiungere che in quei tempi, in altri luoghi le pene risultavano perfino più feroci e spesso lasciate all’arbitrio del solo giudice: infatti, in quel periodo la società europea viveva ancora sotto la legislazione del medioevo barbarico e feudale.

 

Nella Carta de Logu invece vi sono parecchie disposizioni che denotano la sapienza giuridica, l’avvedutezza e il buon senso di Eleonora. Pensiamo soprattutto alla distinzione fra colpa e dolo (animu deliberatu, lo chiama la Carta); alla legge che è uguale per tutti; al fatto che quando a qualcuno vengono sequestrati tutti i possedimenti, alla moglie e ai figli, comunque, viene riservata la parte che loro spetta. O pensiamo ancora alla norma secondo cui nessuno può dare alloggio o aiuto ai banditi ma ciò è permesso al loro padre, alla madre, alla moglie e ai figli, ai fratelli e alle sorelle, perché non vogliono distruggere la famiglia né uccidere i vincoli più sacri (cap.VII). O pensiamo soprattutto alla norma che prevede che chi compromette un donna nubile è obbligato a sposarla ma esclusivamente se lei lo gradisce (si placchiat a sa femina), altrimenti deve garantirgli per tutta la vita una dote adeguata alle sue condizioni sociali (cap. XXI).

 

Molti articoli sono dedicati ai furti, segnatamente degli animali e dei cereali. Ma non occorre meravigliarsi. Questi furti ci dicono chiaramente che ci troviamo in una società di contadini e di pastori, che dunque occorre difendere con pene molto severe, pecuniarie o fisiche, contro chi attenta ai loro interessi. La legge fissa un rapporto fra i furti di bestiame e il ritrovamento delle pelli ottenute dai buoi, dai cavalli, dalle cavalle e dalle vacche rubate (capp. XVII e XX). Faceva una distinzione fra i furti di cavalli, cavalle e vacche mansuete – chiamate “domadas” (cap. XXVII) da quelli chiamati “rudi” (cap. XXVIII).

 

La carta prende in considerazione anche, per non dire soprattutto, i furti delle pecore, dei porci e delle capre (cap. XXIX): per questi furti le pene previste erano molto severe. In prima istanza pecuniarie ma nell’ipotesi che i colpevoli non pagassero le multe per i furti compiuti, e/o fossero recidivi, le pene erano molto severe: si arrivava a tagliare loro le orecchie e persino a impiccarli. Con i vari ordinamenti la Carta non trascurava nessuna forma di lavoro e di attività e siccome, nel contempo era un codice di procedura, “fondava” un “corpus” completo di leggi dello Stato che servivano per tutti gli abitanti del Giudicato di Arborea e dei territori conquistati. La giustizia privata che aveva dominato in tutto il medioevo non era più tollerata: lo Stato sopravanza il singolo e ormai vigeva una legge comune e uguale per tutti e dunque sopra gli interessi particolari di ciascuno.

 

Gli Aragonesi, giudicando la Carta saggia e rispondente alle necessità dell’Isola nel 1421 – con il re Alfonso il Magnanimo –  la estendono a tutta la Sardegna (fuorchè alle città di Cagliari, Iglesias, Bosa, Alghero, Sassari e Castelsardo che erano “governate” da Statuti speciali). La Carta inoltre rimarrà in vigore fino all’applicazione del Codice feliciano del 1827.

 

 

6. I giudizi sopra la Carta de Logu

 

Gli studi e i giudizi relativi alla Carta de Logu sono numerosi. Cominciamo da ciò che si scrive in un saggio pubblicato recentemente (nel 2004: La Carta de Logu d’Arborea nella storia del diritto medievale e moderno a cura di Italo Birocchi e Antonello Mattone ): “La Carta de Logu,emanata da Eleonora d’Arborea e redatta in volgare sardo, è riconosciuta nella storiografia come uno dei più importanti statuti italiani del Trecento. Riguarda il diritto e la procedura criminale, i rapporti agrari e vari aspetti della vita civile ed economica,ma soprattutto regola le consuetudini rurali della Sardegna quali la difesa dei campi coltivati dallo sconfinamento del bestiame, gli ordinamentos de fogu, la responsabilità collettiva della comunità per i delitti commessi nel territorio del villaggio, i modi di conduzione della terra e del bestiame”. Nel libro sono contenuti i saggi di una ventina di studiosi di storia e di diritto delle università sarde e di alcune università italiane e spagnole. Si tratta di un’opera importante e preziosa per comprendere la Carta de Logu e dunque la cultura e la civiltà che in essa viene espressa e incorporata. Nel contempo, nel libro troviamo molti altri giudizi di studiosi come questo espresso da Federigo Sclopis: “Sullo scorcio del secolo XIV si vide in una regione dell’Isola di Sardegna promulgarsi una legge che per la sapienza di molti precetti,che vi si racchiudono, ottenne non solamente di essere estesa a tutto il regno, ma ebbe di più il vanto di essere tenuta per segno di un perfezionamento sociale, del quale erano allora ancora lontane le più vaste contrade del continente italiano […]. La Carta de Logu contiene molte e particolari disposizioni, le quali a dire di un dotto giureconsulto sardo che la prese a illustrare, pressoché tutte convengono ai costumi dei Sardi dei nostri tempi”.

 

Federigo Scoplis è un magistrato piemontese autore di “Storia della Legislazione italiana” (la prima edizione è del 1844, la seconda del 1863): l’opera – a parere di Birocchi e di Mattone – è “la prima significativa opera di sintesi sulla storia del diritto in Italia”.

 

Ma anche molti altri grandi studiosi di storia e di diritto apprezzano la Carta. Scrivono ancora Birocchi e Mattone nella prefazione del libro su citato: “L’attenzione della storiografia per l’antico statuto sardo rimarrà costante successivamente. Esso trova uno spazio di rilievo nella grande Storia del diritto italiano (1883-1887) di Antonio Pertile” che scrive “Il codice d’Eleonora […] vuol qualificarsi siccome ottimo e assai progredito, fatta ragione del tempo”. Un altro studioso come Francesco Calasso scrive che il testo di Eleonora, considerato un codice generale di tutta la Sardegna, denotava “una notevole e decisa volontà di svecchiare la coscienza giuridica sarda, staccandola da certe sue primitive pratiche sotto l’influsso dei diritti continentali”.

 

Ennio Cortese (in Il diritto nella storia medievale) pone in evidenza “la matrice colta dello statuto arborense riscontrabile nelle citazioni dei diritti canonico e romano 50 e nei richiami agli statuti continentali e alle consuetudini locali”. Sempre per Cortese, la Carta de Logu non fu un fiore solitario, ma operò in un mondo giuridico isolano che aveva già raggiunto punte abbastanza avanzate”.

 

Per Enrico Besta, – uno dei più grandi studiosi della storia del diritto in Italia, che è stato anche docente nell’Università di Sassari e che insieme a Pier Enea Guarnerio ha pubblicato il testo del manoscritto del ‘400 accompagnandolo con una presentazione dal titolo “La Carta de Logu quale monumento storico-giuridico”– il Codice di Eleonora era una delle espressioni più alte del “diritto volgare”. Besta nei libri sulla Carta privilegia la vitalità del mondo consuetudinario locale che a suo parere aveva influenzato le istituzioni introdotte nei secoli XII e XIII dai Pisani e dai Genovesi. E dunque la Carta de Logu traduce – come ha scritto lo storico Antonello Mattone – in una “legge scritta” la vita e le usanze della società sarda. Sta soprattutto in ciò la grandezza della Carta.

 

Ma finanche nella sua attualità e nella sua modernità. A questo proposito, Antonio Pertile – un grande storico del diritto, che abbiamo ricordato sopra – scrive che anche dopo le disposizioni spagnole e il Codice feliciano (1827) la Carta de Logu “rimase in vigore materialmente più a lungo ancora”. Un esempio può essere dato dalla persistenza degli omines de mesu o boni omines, nei paesi barbaricini. Scrive a questo proposito l’avvocato Gonario Pinna: “Gli arbitri sono chiamati sos homines quasi a significare che essi devono comportarsi da uomini con tutta la dignità e responsabilità di uomini chiamati a dirimere una controversia”. Sempre relativamente a questa questione un sociologo sardo, M. Masia, scrive che “Gli antropologi e i sociologi del diritto a questo proposito hanno sostenuto la diretta derivazione dell’arbitrato consuetudinario dall’antico giudizio di corona. Tipico del diritto statutario sardo del XIV secolo, davanti a un collegio giudicante composto appunto di notabili del villaggio, i boni homines”.

 

Ma la continuità delle leggi spagnole, piemontesi e perfino italiane è soprattutto presente con gli Ordinamenti del fuoco. Scrivono ancora Italo Birocchi e Antonello Mattone nell’introduzione a “La Carta de Logu d’Arborea nella storia del diritto medievale e moderno” di cui abbiamo già parlato: “Il pregone viceregio del 6 Giugno del 1840, per esempio, si riallaccia allo Statuto arborense distinguendo nettamente fra l’incendio doloso e la pratica del debbio utilizzata per la fertilizzazione dei terreni. La Carta prevedeva infatti che il fuoco potesse essere applicato alle stoppie soltanto dopo l’8 Settembre, per evitare effetti distruttivi dovuti al gran caldo. Proprio richiamando la tradizione consuetudinaria, le ordinanze antincendi della Regione Autonoma della Sardegna restringono al periodo compreso fra il 15 Settembre e il 15 Ottobre le possibilità di procedere «all’abbruciamento di stoppie, frasche, cespugli, residui di colture agrarie e di altre lavorazioni, di pascoli nudi, nonché di incolti».

 

E ancora “Nelle raccolte degli usi e delle consuetudini realizzate dalle camere di commercio sarde figurano alcuni costumi rurali già disciplinati dalla Carta de Logu fra cui, in particolare spiccano i contratti di miglioria agraria e il contratto pastorale a cumone o soccida”.Sono esempi della lunga durata della Carta, le cui ragioni risiedono ci pare, per quanto riguarda l’età di Antico regime, nella straordinaria duttilità del sistema giuridico il cui il documento arborense si inseriva: un sistema con una pluralità di fonti normative, tra loro intimamente connesse e filtrate attraverso l’interpretazione dei dotti, dei magistrati e delle curie di giustizia, che con il sapiente uso delle categorie generali del diritto, rendeva viva e aggiornata la disciplina normativa originariamente contenuta nell’antico Statuto di Eleonora; e per quanto riguarda l’età contemporanea risiedono non certo nell’omaggio a una venerata eredità del passato, ma piuttosto nel riconoscimento che quelle consuetudini offrono soluzioni ancora oggi utili per la loro rispondenza a certi contesti ambientali ed economici della Sardegna”.

 

LA FIGURA DI ELEONORA D’ARBOREA IN UN CONVEGNO IN TERRALBA

 

Convegno su Eleonora d’Arborea organizzato dall’Assessorato alla cultura del Comune di Terralba  4- maggio 2013 (ore 18, Teatro civico).

Relazione di Francesco Casula

 

1. La figura di Eleonora

Giuseppe Dessì, il grande scrittore di Villacidro, una volta ebbe a scrivere, fra il serio e il faceto,  che la Sardegna ha avuto solo due grandi uomini: Eleonora d’Arborea e Grazia Deledda. Io credo che ne abbia avuto anche tanti altri: Giovanni Maria Angioy, Gramsci e Lussu, solo per ricordarne alcuni. Certo è che la Deledda ed Eleonora sono di assoluto valore.

Devo dire che nei confronti del Premio Nobel nuorese, c’è stato proprio da parte dei Sardi una sottovalutazione quando non vera e propria denigrazione e ciò a fronte del giudizio lusinghiero dei più grandi critici italiani: penso solo ad Attilio Momigliano secondo cui “Deledda ha una capacità simile a quella di delitto e Castigo e dei Fratelli Karamazof “ o “Nessuno dopo Manzoni ha arricchito e approfondito come lei, in una vera opera d’arte, il nostro senso della vita”.

Ma oggi dobbiamo parlare di Eleonora. Ebbene molti storici, per la sua grandezza il suo ruolo storico e la sua opera l’hanno paragonata a Caterina II, imperatrice di tutte le Russie. Non so se il paragone è esagerato, certo è che la sua figura si staglia potente nel ‘300.

Figura, occorre dire, poco conosciuta in Sardegna: ad iniziare dalle Scuole. Tanto che capita che uno studente possa uscire dalla Ragioneria e persino dalla Facolta di Giurisprudenza senza aver sentito neppure nominare la Carta De Logu di Eleonora.

Poco conosciuta e, di converso mitizzata. La sua figura infatti è stata ridotta a “santino”, innocuo e rassicurante, messo in una nicchia e imbalsamata. Utilizzata persino nelle confezioni di prodotti alimentari: come marketing insomma e come dato pubblicitario.

Oltretutto con una immagine falsa:rappresenta Giovanna La Pazza – figlia di Ferdinando II d’Aragona e di Isabella di Castiglia –  e non la regina-giudicessa di Arborea. In questo “falso” ci sono cascato anch’io nel volume che su di lei ho scritto in lingua sarda. Nella versione in italiano invece ho riprodotto l’immagine della “vera” Eleonora. che vedremo. Ma ci è cascato anche uno storico come Camillo Bellieni, autore di un bellissimo libro.

Ma ecco come descrive e spiega l’origine del “falso” Francesco Cesare Casula, il più grande storico sardo vivente, già docente di Storia Medioevale dell’Università  di Cagliari:”Cinquant’anni dopo la morte di Giovanna la Pazza avvenuta nel 1555, un pittore napoletano di maniera, certo Bartolomeo Castagnola, ricopiò a Cagliari un suo ritratto che fu riscoperto nell’Ottocento da un ignoto cultore di storia sarda il quale, in clima albertino di ricostruzione delle patrie memorie e di esaltazione romantica, vi scrisse in calce:D(OM)INA LEONORA, credendo o volendo far credere che si trattava di un dipinto trecentesco della famosa giudicessa Eleonora d’Arborea. E tale, dal 1859 in poi, è stato sempre accettato e ammirato dai Sardi di ieri e di oggi i quali, ignorantemente, continuano a riprodurlo dappertutto”. (In Dizionario storico sardo di Francesco Cesare Casula, Carlo Delfino editore, Sassari, 2oo1, pag.699).

Sarà lo stesso F. C. Casula nel 1984, a individuare invece quella che – almeno pare – sia stata l’ immagine autentica di Eleonora quando la ritrovò effigiata nei peducci pensili della volta a crociera dell’abside della chiesa di San Gavino Martire in San Gavino, insieme al busto del padre Mariano IV, del fratello Ugone III e del marito Brancaleone Doria.

Nel volto di Eleonora (parte sinistra) è evidente una vasta cicatrice che, sempre F. C. Casula, in un libro fra il saggio storico e il romanzo, così spiega e rievoca: «[…]E, sul focolare, noi mettiamo una capace padella di rame a friggere l’olio di grosse fette di lardo. La bambina guardava estasiata il liquido ambrato che sfrigolava gioioso, accendendo rapide faville all’intorno quando stille scoppiettanti fuggivano dai ciccioli rosolati oltre l’orlo:”chissà che bello buttarci dentro una cosa”!

Prese un pezzo di carne che stava lì, sul tagliere; e, come aveva visto fare tante volte alla cuoca, lo lasciò cadere di botto sull’olio.

Uno schizzo ardente partì, non molto più grande di una lagrima, e la colpì in volto. La donne, in cortile, sentirono uno strillo acutissimo. La prima ad accorrere fu Reste, che la trovò accartocciata di dolore con le mani sulla faccia. Gliele scostò ed inorridì. Scappò via urlando:”Adgitoriu, adgitoriu! Sa pipia s’esti bruxiada”! (Aiuto, aiuto! La bambina s’è bruciata)». (In Eleonora, regina del regno di Arborea, di Francesco Cesare Casula, Carlo Delfino Editore, Sassari, 2003, pagg.55-56).

 

2. Il ruolo politico

Il Giudicato-regno di Arborea ha conosciuto 23 generazioni di sovrani: i Lacon-Gunale, i Lacon-Zori, i Lacon-Orrù, i Bas-Serra, i Doria-Bas, i Narbona-Bas.

Il regno ha conosciuto però i tempi di maggior prestigio con i Giudici Mariano II (morto nel 1297), Mariano IV (1346-1376) ma soprattutto con  Eleonora (1330-1402), con cui Arborea è riuscita a conquistare l’intera isola fatta eccezione solo per Castel di Cagliari e Castel d’Alghero appartenenti a regno di Sardegna. In altre parole unifica sotto il suo scettro l’intera Sardegna, sconfiggendo a più riprese l’esercito aragonese: in condizioni difficilissime e sotto il ricatto de re Pietro IV d’Aragona che minacciava di non liberare il marito Brancaleone Doria – che aveva arrestato a Barcellona e poi condotto prigioniero a Cagliari – se non avesse posto fine alla guerra e non si fosse arresa.  

 

3. La Carta de Logu: la sua grandezza

Ma ancor più del suo ruolo politico è importante la sua opera giuridica con l’emanazione della Carta de Logu, probabilmente nel 1392. Sicuramente è il Codice legislativo più importante e più noto del medioevo sardo e non solo sardo. Di questa raccolta di leggi, anche se si prevedeva che ciascun curatore fosse obbligato a possederne una copia, come si afferma nel capitolo CXXIX “qui ciaschuno curadore siat tenudo de aviri ad ispesas suas sa carta de logu…”, a noi ne sono rimaste solo nove edizioni a stampa (del 1485, 1560, 1567, 1607, 1617, 1628, 1708, 1725 e 1805) e in più un manoscritto cartaceo del ‘400 che oggi si trova con la segnatura 211 nella Biblioteca Universitaria di Cagliari.

Si tratta dell’unica Costituzione che la Sardegna nella sua storia ha avuto che non sia octroyé, ottriata: ovvero concessa dall’alto e da “fuori”. Elaborata localmente dunque e indigena essa è espressione, anche linguistica, di una autorità isolana, a dispetto delle parentele, molto spesso straniere. A parte il Codice feliciano, lo Statuto albertino e la Costituzione, lo stesso Statuto sardo è una concessione, in lingua italiana, dell’Assemblea Costituente fatta alla fine del gennaio del 1948 e successivamente elargita ai Sardi .

La notazione non è, si badi bene, di ordine puramente formale né di poco conto. Essa attiene all’Autogoverno che è l’aspirazione fondamentale e più antica della nostra Isola.

E’ molto difficile che la Regione costituita e gestita secondo norme statutarie, più o meno correttamente interpretate, possa essere considerata una istituzione di autogoverno della comunità sarda. Non è tale intanto per la sua struttura organizzativa che è una misera e minuscola fotocopia dello Stato con i suoi assessori come ministeri e il suo accentramento politico burocratico nel capoluogo cagliaritano. E non lo è perché la Regione non ha un reale rapporto politico giuridico con i Comuni, rimasti nella sostanziale dipendenza dello Stato; perché la Sardegna continua ad essere presidiata dai Prefetti, che sono il simbolo oltre che lo strumento del centralismo statuale e infine perché deve coabitare con le succursali provinciali dei ministeri romani sempre pronti a pascolare anche abusivamente, nei territori regionali.

In fondo si potrebbe dire che la Regione è stata una sorta di Agenzia dello sviluppo, prevalentemente manovrata dall’esterno e che tale resta nonostante i tentativi ultimi di salire verso l’altopiano ad essa ignoto, della lingua e della cultura sarde.

La Carta De  Logu invece, descrive istituzioni che dalla nomina del Giudice-re, fortemente condizionata dalla Corona de Logu, dalle Curatorie e dalle stesse Biddas, organi di quasi governo locale, di certo guardavano meno obliquamente verso l’orizzonte dell’Autogoverno: è questa la grandezza della Carta, forse prima ancora dello stesso articolato e delle singole leggi. 

 

4.  La Lingua della carta

La lingua che utilizza Eleonora nel suo codice è la Lingua sarda. “Il sardo colto –scrive un grande studioso della Carta,, Marco Tangheroni che va visto nel quadro di una consapevole volontà politica dei Giudici di Arborea di presentarsi come interpreti e guide dell’intera nazione sarda”. E aggiunge: “Il termine «nazione sarda» è usato correntemente nel Trecento, e in misura crescente quanto più la guerra accentuava le differenze e le contrapposizioni con «la nazione catalana». Così ad esempio, da una connotazione neutra essa assume nella propaganda catalana una caratterizzazione dispregiativa: es nacion que tots temps es estrada en servitud”.

Un sardo-arborense che é una miscela di logudorese e di campidanese. Scriveva Camillo Bellieni su questo sardo: “E’ un dialetto vivo ancora sulle colline che sovrastanoil Campidano maggiore, fra Abbasanta, Ghilarza, Neoneli e Sorgono, in una zona ristretta. Un tempo essa arrivava fino ad Oristano e più oltre. Il dialetto è fondamentalmente il logudorese nei suoi svolgimenti morfologici, ma è influenzato da accidenti fonetici del campidanese, che di giorno in giorno prende sempre più piede verso il settentrione dell’Isola. È un linguaggio ricco e armonioso che ha tutta la dignità necessaria, per dare forma solenne alla legge”.

Bellieni scriveva ciò nel 1929: ma oggi cosa sostengono gli studiosi a proposito del Sardo della Carta de Logu? Più o meno la pensa come Bellieni una studiosa come Antonietta Dettori: “I confini storici dell’area di produzione e fruizione del codice di leggi – il Giudicato d’Arborea – includevano le plaghe agricole del Campidano settentrionale e della Marmilla e penetravano con le curatorie barbaricine nella zona montuosa dell’interno dell’Isola.Una posizione mediana che ponevano il territorio sulla linea di confluenza dell’area campidanese con l’area logudorese e lo apriva inoltre a una componente culturale esterna, mercantile e commerciale, etnicamente differenziata che trovava sbocco nella «finestra» mediterranea costituita dal golfo di Oristano”.

È proprio così, basta leggere la Carta per avvedersi che in essa è presente una Lingua “mediana” o “di mesania”. Quella Lingua da cui gli studiosi della Commissione che ha partorito la proposta di “Limba sarda comuna- LSC” sembrano aver preso molti spunti ed elementi. 

 

5. L’articolato

La Carta de Logu contiene un Proemio e 198 capitoli: i primi 132 formano il Codice civile e penale gli altri 66 il codice rurale emanato dal padre di Eleonora, Mariano IV.

Promulgata da Eleonora, madona Elionor per gli Aragonesi che proprio dopo la promulgazione cominciano a chiamare la Sardegna «nacion sardesca» e la Carta «de sa republica sardisca» che dunque era espressione della Sardegna intera ma soprattutto si presentava come una vera e propria Carta costituzionale nazionale. Scritta – come abbiamo già detto – in lingua sarda-arborense (ma la variante risulta diversa a secodo delle edizioni), nelle intenzioni di Eleonora serve ad ciò qui sos bonos e puros et innocentes pothant viviri et istari inter issos reos ad seguridadi.

Comincia con un proemio: “[…] Sa Carta de Logu, sa quali cun grandissimu provvidimentu fudi fatta peri sa bona memoria de juygi Mariani padri nostru, in qua direttu juyghi de Arbarèe, non essendo corretta per ispaciu de seighi annos passados, como per multas variedadis de tempus bisognando de necessidadi corri gerla e emendari, considerando sa variedadi e mutacioni dessos tempos chi sunt istrado seghidos posca, ed issa condicioni dessos hominis, chi est istada dae tando inoghi multu permutada, e plus pro chi ciascunu est plus inchinevoli assu mali fagheri, chi non assu beni de sa republica sardisca, cun delliberadu consigiu, illa mcorrigimus,e faghimus e mutamus dae beni in megius, e cumandamus chi si deppiat osservari integramenti dae sa Santa Die innantis per su modu infrascrittu, ciò est:”.

La Carta di Mariano IV dunque da sedici anni non era stata rivista e poiché non rispondeva più ai bisogni delle nuove condizioni sociali, occorreva rivederla e aggiornarla “pro conservari sa Justicia et in bonu, pacificu e tranquillu istadu dessu pobulu dessu rennu nostru predittu et dessas ecclesias, raxonis ecclesiasticas, e dessos lieros,e bonos hominis, et pobulu tottu dessaditta terra nostra e dessu rennu de Arbarèe”.

Quando parla di ammodernamento in base alle nuove condizioni del Giudicato, Eleonora pensa in modo particolare: alla necessità di rafforzare le disposizioni per conservare l’ordine pubblico, spesso in pericolo; aumentare la produzione e la ricchezza del regno; garantire lo sviluppo della piccola proprietà privata, proteggere e difendere l’attività di chi lavorava la terra e dei pastori. Ma soprattutto occorreva definire i reati e precisare le responsabilità delle persone stabilendo con precisione l’entità delle pene che saranno aumentate rispetto a quelle stabilite e previste dalla legislazione del padre Mariano e del fratello Ugone, come abbiamo visto nel proemio.

Le disposizioni risultano molto precise soprattutto relativamente alla chiusura dei terreni, il lavoro nelle vigne, negli orti e nei terreni seminati. Precise e con pene molto severe nei confronti di chi distrugge le chiusure (capp. XLI-XLIII); contro il padrone degli animali che invadano i campi altrui distruggendo il raccolto (cap. XCV); contro chi bruci le stoppie prima dell’8 settembre (cap.XLV), con il rischio di spargere il fuoco nei terreni coltivati.

È estremamente importante la disposizione che concede in proprietà il terreno a chi lo ha avuto e lavorato per cinquanta, quaranta o trent’anni, a secondo che esso sia del fisco, della Chiesa o di un privato, se il proprietario originario nel frattempo non ha rivendicato i suoi diritti (cap. LXVII).

Per i reati maggiori si stabilisce la condanna a morte (con l’impiccagione, la decapitazione e sa brusiadura) e non è possibile salvarsi attraverso il pagamento in denaro di una multa (e pro dinari neunu non campit) e dunque con un riscatto, come aveva previsto il fratello Ugone: “in casu qui alcunu homini ochirit homine, pagando liras milli siat campatu e non nde siat mortu”.

Per fare qualche esempio: l’omicida è decapitato: “volemus e ordinamus chi si alcuna persona ochiret homini et est indi confessa in su judiciu over convinta segundu chi s’ordini dessa ragioni cumandat siat illi segada sa testa in su logu dessa Justicia per modu ch’indi morgiat. E pro dinari alcunu non campit” [Vogliamo e ordiniamo che se uno uccide una persona, e lo confessa in giudizio, oppure che venga accertato (il suo crimine) secondo ragione, sia decapitato nello stesso luogo dov’è stato condannato, in modo che ne muoia. E che nessuno si salvi col denaro]. (cap.III). Ma ma se si tratta di legittima difesa “no ‘ndi siat mortu e pena alcuna no ‘ndi apat”.Chi incendia le abitazioni è condannato ad essere arso vivo: «Su fogu postu a sas domos est degumadu cun sa bruciatura» (cap. XLVI). La Carta inoltre commina la condanna a morte per le malefatte contro la sicurezza dello Stato: per capire questa pena è necessario tener presente che Eleonora ha ancora davanti a sé la morte del fratello Ugone e i tradimenti a favore degli Aragonesi.

Chi è colpevole “di lesa maestà” viene legato alla coda di un cavallo, trascinato nelle strade dell’Oristanese e impiccato (art. II): ““Item ordinamus chi si alicuna persona trattarit over consentirit causa alcuna pro sa quali Nos perderemus honori, terra over castellu de cussos chi hamus hoe o de cussos chi acquistaremus dae como innantis deppiat esser istrasinada a coha de cavallu per tota sa terra nostra de Aristanis e posca infini assa furcha e innie si infurchet ch’indi morgiat…”. [Comandiamo inoltre che se qualcuno trattasse o permettesse qualcosa per la quale Noi (Mariano IV o Eleonora?) perdessimo onore, terre o di quei castelli che oggi abbiamo o di quelli che acquisiremo d’ora in avanti, costui deve essere strascinato a coda di cavallo per tutto il nostro territorio Oristanese e poi fino alla forca, e lì inforcato in modo che ne muoia…].

La medesima morte è prevista per chi attenta alla famiglia reale (cap. I.): “ Ordinamus chi si alcuna persona trattarit e consentirit chi Nos over alcunu figiu nostru over donna nostra o figios nostros o donna issoru, esseremus offesidos over fagherit offender over consentirit chi esseremus offesidos deppiat esser posta supra unu carru e attanaggiada per totu sa terra nostra de Aristanis e posca si deppiat dughiri attanaggiandolla infini assa furca e innie s’infurchit ch’indi morgiat…”. [Comandiamo che se alcuno trattasse e permettesse che Noi (Mariano IV) o qualche figlio nostro, o nostra moglie, o i nostri figli e le mogli loro fossimo offesi (colpiti), o che ci facessero offesa, e acconsentisse che venissimo offesi, costui venga posto attanagliato su un carro e mandato in giro per tutto il nostro territorio (della città) di Oristano, e che poi venga condotto attanagliato fino alla forca e lì inforcato in modo che ne muoia…]. Le ferite sono punite con la pena “del taglione“ (cap.IX):”si ‘ndi perdirit membru cussu simigianti membru perdat…” ma potevano essere convertite in pene pecuniarie, ma molto alte.

La prigione non è prevista come pena: qualche volta se ne parla ma solo come mezzo di sicurezza per custodire il colpevole prima di prendere altre decisioni (cap. IV) o ulteriori accertamenti (cap. XII).

Ciò a significare che c’era la convinzione che lo Stato non poteva mantenere né campare i delinquenti, anzi mirava a colpirli nel loro patrimonio, considerando ciò un intervento molto più proficuo di qualunque pena.In generale le pene servivano per colpire il malfattore nel suo patrimonio o per spaventarlo con la minaccia di multe molto salate. Per chi eventualmente non pagava la multa erano previste pene fisiche molto dure. Qualche esempio: a chi rubava oggetti sacri gli cavavano un occhio (cap. XXVI); a chi incendiava i terreni già lavorati gli tagliavano la mano destra (cap. XLVII); a chi pronunciava false testimonianze e bestemmiava, gli veniva conficcato un amo nella lingua che poi gliela tagliavano (capp. LXXVI e CIXXX). Quando il reo era recidivo le pene comminate erano molto più severe.

Certo, si può rimproverare a Eleonora di voler solo punire il colpevole, il delinquente, e di non prevedere alcuna forma di recupero e di riabilitazione. È vero. Ma noi non possiamo valutare e giudicare la Carta con la mentalità odierna. Occorre inoltre aggiungere che in quei tempi, in altri luoghi le pene risultavano perfino più feroci e spesso lasciate all’arbitrio del solo giudice: infatti, in quel periodo la società europea viveva ancora sotto la legislazione del medioevo barbarico e feudale.

Nella Carta de Logu invece vi sono parecchie disposizioni che denotano la sapienza giuridica, l’avvedutezza e il buon senso di Eleonora. Pensiamo soprattutto alla distinzione fra colpa e dolo (animu deliberatu, lo chiama la Carta); alla legge che è uguale per tutti; al fatto che quando a qualcuno vengono sequestrati tutti i possedimenti, alla moglie e ai figli, comunque, viene riservata la parte che loro spetta. O pensiamo ancora alla norma secondo cui nessuno può dare alloggio o aiuto ai banditi ma ciò è permesso al loro padre, alla madre, alla moglie e ai figli, ai fratelli e alle sorelle, perché non vogliono distruggere la famiglia né uccidere i vincoli più sacri (cap.VII). O pensiamo soprattutto alla norma che prevede che chi compromette un donna nubile è obbligato a sposarla ma esclusivamente se lei lo gradisce (si placchiat a sa femina), altrimenti deve garantirgli per tutta la vita una dote adeguata alle sue condizioni sociali (cap. XXI).

Molti articoli sono dedicati ai furti, segnatamente degli animali e dei cereali. Ma non occorre meravigliarsi. Questi furti ci dicono chiaramente che ci troviamo in una società di contadini e di pastori, che dunque occorre difendere con pene molto severe, pecuniarie o fisiche, contro chi attenta ai loro interessi. La legge fissa un rapporto fra i furti di bestiame e il ritrovamento delle pelli ottenute dai buoi, dai cavalli, dalle cavalle e dalle vacche rubate (capp. XVII e XX). Faceva una distinzione fra i furti di cavalli, cavalle e vacche mansuete – chiamate “domadas” (cap. XXVII) da quelli chiamati “rudi” (cap. XXVIII).

La carta prende in considerazione anche, per non dire soprattutto, i furti delle pecore, dei porci e delle capre (cap. XXIX): per questi furti le pene previste erano molto severe. In prima istanza pecuniarie ma nell’ipotesi che i colpevoli non pagassero le multe per i furti compiuti, e/o fossero recidivi, le pene erano molto severe: si arrivava a tagliare loro le orecchie e persino a impiccarli. Con i vari ordinamenti la Carta non trascurava nessuna forma di lavoro e di attività e siccome, nel contempo era un codice di procedura, “fondava” un “corpus” completo di leggi dello Stato che servivano per tutti gli abitanti del Giudicato di Arborea e dei territori conquistati. La giustizia privata che aveva dominato in tutto il medioevo non era più tollerata: lo Stato sopravanza il singolo e ormai vigeva una legge comune e uguale per tutti e dunque sopra gli interessi particolari di ciascuno.

Gli Aragonesi, giudicando la Carta saggia e rispondente alle necessità dell’Isola nel 1421 – con il re Alfonso il Magnanimo –  la estendono a tutta la Sardegna (fuorchè alle città di Cagliari, Iglesias, Bosa, Alghero, Sassari e Castelsardo che erano “governate” da Statuti speciali). La Carta inoltre rimarrà in vigore fino all’applicazione del Codice feliciano del 1827. 

 

 

6. I giudizi sopra la Carta de Logu

Gli studi e i giudizi relativi alla Carta de Logu sono numerosi. Cominciamo da ciò che si scrive in un saggio pubblicato recentemente (nel 2004: La Carta de Logu d’Arborea nella storia del diritto medievale e moderno a cura di Italo Birocchi e Antonello Mattone ): “La Carta de Logu,emanata da Eleonora d’Arborea e redatta in volgare sardo, è riconosciuta nella storiografia come uno dei più importanti statuti italiani del Trecento. Riguarda il diritto e la procedura criminale, i rapporti agrari e vari aspetti della vita civile ed economica,ma soprattutto regola le consuetudini rurali della Sardegna quali la difesa dei campi coltivati dallo sconfinamento del bestiame, gli ordinamentos de fogu, la responsabilità collettiva della comunità per i delitti commessi nel territorio del villaggio, i modi di conduzione della terra e del bestiame”. Nel libro sono contenuti i saggi di una ventina di studiosi di storia e di diritto delle università sarde e di alcune università italiane e spagnole. Si tratta di un’opera importante e preziosa per comprendere la Carta de Logu e dunque la cultura e la civiltà che in essa viene espressa e incorporata. Nel contempo, nel libro troviamo molti altri giudizi di studiosi come questo espresso da Federigo Sclopis: “Sullo scorcio del secolo XIV si vide in una regione dell’Isola di Sardegna promulgarsi una legge che per la sapienza di molti precetti,che vi si racchiudono, ottenne non solamente di essere estesa a tutto il regno, ma ebbe di più il vanto di essere tenuta per segno di un perfezionamento sociale, del quale erano allora ancora lontane le più vaste contrade del continente italiano […]. La Carta de Logu contiene molte e particolari disposizioni, le quali a dire di un dotto giureconsulto sardo che la prese a illustrare, pressoché tutte convengono ai costumi dei Sardi dei nostri tempi”.

Federigo Scoplis è un magistrato piemontese autore di “Storia della Legislazione italiana” (la prima edizione è del 1844, la seconda del 1863): l’opera – a parere di Birocchi e di Mattone – è “la prima significativa opera di sintesi sulla storia del diritto in Italia”.

Ma anche molti altri grandi studiosi di storia e di diritto apprezzano la Carta. Scrivono ancora Birocchi e Mattone nella prefazione del libro su citato: “L’attenzione della storiografia per l’antico statuto sardo rimarrà costante successivamente. Esso trova uno spazio di rilievo nella grande Storia del diritto italiano (1883-1887) di Antonio Pertile” che scrive “Il codice d’Eleonora […] vuol qualificarsi siccome ottimo e assai progredito, fatta ragione del tempo”. Un altro studioso come Francesco Calasso scrive che il testo di Eleonora, considerato un codice generale di tutta la Sardegna, denotava “una notevole e decisa volontà di svecchiare la coscienza giuridica sarda, staccandola da certe sue primitive pratiche sotto l’influsso dei diritti continentali”.

Ennio Cortese (in Il diritto nella storia medievale) pone in evidenza “la matrice colta dello statuto arborense riscontrabile nelle citazioni dei diritti canonico e romano 50 e nei richiami agli statuti continentali e alle consuetudini locali”. Sempre per Cortese, la Carta de Logu non fu un fiore solitario, ma operò in un mondo giuridico isolano che aveva già raggiunto punte abbastanza avanzate”.

Per Enrico Besta, – uno dei più grandi studiosi della storia del diritto in Italia, che è stato anche docente nell’Università di Sassari e che insieme a Pier Enea Guarnerio ha pubblicato il testo del manoscritto del ‘400 accompagnandolo con una presentazione dal titolo “La Carta de Logu quale monumento storico-giuridico”– il Codice di Eleonora era una delle espressioni più alte del “diritto volgare”. Besta nei libri sulla Carta privilegia la vitalità del mondo consuetudinario locale che a suo parere aveva influenzato le istituzioni introdotte nei secoli XII e XIII dai Pisani e dai Genovesi. E dunque la Carta de Logu traduce – come ha scritto lo storico Antonello Mattone – in una “legge scritta” la vita e le usanze della società sarda. Sta soprattutto in ciò la grandezza della Carta.

Ma finanche nella sua attualità e nella sua modernità. A questo proposito, Antonio Pertile – un grande storico del diritto, che abbiamo ricordato sopra – scrive che anche dopo le disposizioni spagnole e il Codice feliciano (1827) la Carta de Logu “rimase in vigore materialmente più a lungo ancora”. Un esempio può essere dato dalla persistenza degli omines de mesu o boni omines, nei paesi barbaricini. Scrive a questo proposito l’avvocato Gonario Pinna: “Gli arbitri sono chiamati sos homines quasi a significare che essi devono comportarsi da uomini con tutta la dignità e responsabilità di uomini chiamati a dirimere una controversia”. Sempre relativamente a questa questione un sociologo sardo, M. Masia, scrive che “Gli antropologi e i sociologi del diritto a questo proposito hanno sostenuto la diretta derivazione dell’arbitrato consuetudinario dall’antico giudizio di corona. Tipico del diritto statutario sardo del XIV secolo, davanti a un collegio giudicante composto appunto di notabili del villaggio, i boni homines”.

Ma la continuità delle leggi spagnole, piemontesi e perfino italiane è soprattutto presente con gli Ordinamenti del fuoco. Scrivono ancora Italo Birocchi e Antonello Mattone nell’introduzione a “La Carta de Logu d’Arborea nella storia del diritto medievale e moderno” di cui abbiamo già parlato: “Il pregone viceregio del 6 Giugno del 1840, per esempio, si riallaccia allo Statuto arborense distinguendo nettamente fra l’incendio doloso e la pratica del debbio utilizzata per la fertilizzazione dei terreni. La Carta prevedeva infatti che il fuoco potesse essere applicato alle stoppie soltanto dopo l’8 Settembre, per evitare effetti distruttivi dovuti al gran caldo. Proprio richiamando la tradizione consuetudinaria, le ordinanze antincendi della Regione Autonoma della Sardegna restringono al periodo compreso fra il 15 Settembre e il 15 Ottobre le possibilità di procedere «all’abbruciamento di stoppie, frasche, cespugli, residui di colture agrarie e di altre lavorazioni, di pascoli nudi, nonché di incolti».

E ancora “Nelle raccolte degli usi e delle consuetudini realizzate dalle camere di commercio sarde figurano alcuni costumi rurali già disciplinati dalla Carta de Logu fra cui, in particolare spiccano i contratti di miglioria agraria e il contratto pastorale a cumone o soccida”.Sono esempi della lunga durata della Carta, le cui ragioni risiedono ci pare, per quanto riguarda l’età di Antico regime, nella straordinaria duttilità del sistema giuridico il cui il documento arborense si inseriva: un sistema con una pluralità di fonti normative, tra loro intimamente connesse e filtrate attraverso l’interpretazione dei dotti, dei magistrati e delle curie di giustizia, che con il sapiente uso delle categorie generali del diritto, rendeva viva e aggiornata la disciplina normativa originariamente contenuta nell’antico Statuto di Eleonora; e per quanto riguarda l’età contemporanea risiedono non certo nell’omaggio a una venerata eredità del passato, ma piuttosto nel riconoscimento che quelle consuetudini offrono soluzioni ancora oggi utili per la loro rispondenza a certi contesti ambientali ed economici della Sardegna”.

 

L’ultimo libro di Salvatore Patatu: fra buglias e beffas.

Un affresco tra neologismi e tradizione

di Francesco Casula

Ha scritto Lussu :“L’ironia che mi viene attribuita come caratteristica delle mie opere, non è mia ma sarda. E’ sarda atavicamente”. Ed è proprio questa atavica ironia sarda il tratto precipuo dell’ultimo libro di Salvatore Patatu, da qualche settimana nelle librerie: “Boghes e caras antigas – de su Mulinu ‘e su Entu”. Scritto in un sardo-logudorese molto sorvegliato, anche dal punto di vista della grafia, rifacentesi in qualche modo a uno standard, l’Autore, già docente nelle scuole superiori e sindaco del suo paese, Chiaramonti, ha cominciato la sua produzione in Sardo nel lontano 1980 con “Contos de s’Antigu Casteddu”: la prima opera in prosa sarda pubblicata nell’Isola. Ha proseguito con i Racconti “Buglia Bugliende” (1993); “Su trau de Funtana Noa” (1995); “Fabulas imberrittadas” (2000);”Pro no esser comunista mezus sorighe” (2006), E oggi “Boghes e Caras antigas” :una silloge di Contos in cui  Patatu si dimostra smaliziato affabulatore, e delizioso iscritore de fatos beros e no beros. Che, in punta di penna, icasticamente, schizza tratteggia e descrive un caleidoscopio di fatti, vicende e personaggi, ruotanti i più intorno a un vecchio mulino, in cui l’Autore ha lavorato da ragazzo. Ecco allora Tiu Presentinu che non va più a cacciare leperes e coniglios ca current tropu e non resessit a lis ponner fatu. Va invece a caccia di  tartarughe perché “sos tostuines andant a bellu a bellu, chena presse, ca si giughent su bagagliu fatu, non podent currere e cun paga fadiga los tenes e ti los podes coghere in santa paghe. Cun sa ‘uddidedda  ti faghes su brou ue coghes su sucu; e poi los podes arrustire in graiglia. Dae sa coratza bi fato manigas de lepa, de ‘urteddos, medaglieddas e ateros anivegheddos chi piaghent a sas feminas”. O come Tiu Frantziscangelu, “sempre allegru e risulanu, bugliaiat subra a dogni cosa”; o Tia Loturedda, una femina bascitedda, chi aiat sa limba pius longa de sas ancas. O ancora come Tiu Cischeddu chi ‘endiat pische e aiat sa mania de sa poesia. Il Sardo dell’Autore irrompe turgidamente espressivo, carico di deflagrazioni umoristiche, con grandi capacità allusive ironiche e inventive, con immagini, metafore e proverbi, tratti dalla tradizione popolare. Con un impasto ardito di neologismi. O comunque con lessemi preziosi o desueti, alcuni particolarmente pregnanti, significanti e onomatopeici, che Patatu reimette nel circuito letterario.

Pubblicato su Sardegna Quotidiano del 10-5-2013