LUIGI CADONI (Bernardu de Linas)
Convegno a Villacidro 11-12-2008
di Francesco Casula
Introduzione
E’ presente in molti Sardi un luogo comune: che la poesia in limba si esaurisca, o che comunque prevalentemente “canti” una Sardegna folclorica, “bella e galana” con un lessico ridondante, superfluo e retorico che mutua dalla tropicalità vegetale del secentismo – o se vogliamo del dannunzianesimo – la parola esuberante e frondosa.
Una Sardegna da cartolina insomma, che piace tanto ai turisti e ai nostalgici: con le pastorellerie e gli amori leggiadri e leziosi, con i bamboleggiamenti arcadici e melici, con i balli tondi e le serenate, le vendemmie e le tosature, la solitudine dei campi e le feste, i tenores e le launeddas, la fisarmonica e l’organetto.
Sia ben chiaro: nella poesia sarda è presente anche questa Sardegna e – io aggiungo– non tutto, anche su questo versante è da buttare: ma sicuramente non si esaurisce in essa.
In Sardegna è esistita ed esiste anche una poesia satirica, anche con un forte timbro etico e sociale, tanto che si può tranquillamente affermare che il gusto del motteggio e della battuta scherzosa, dello sberleffo, della canzonatura e dell’ironia e, più ancora, della raffigurazione del mondo “sotto un profilo che ne metta in luce gli elementi paradossali e ridicoli, fa parte non solo del costume, ma dello stesso spirito isolano, grazie anche al forte potenziale umoristico della nostra cultura” (Michelangelo Pira in “Il meglio della grande poesia in lingua sarda, Edizioni Della Torre, Cagliari 1979, pag.145).
Una poesia satirica, comica, umoristica e, persino ridanciana, in chiave gnomica, sentenziosa e più ancora di costume che affiora, per esempio, nelle gare poetiche degli improvvisatori ma che ha avuto in particolare tre grandi poeti sardi: il cagliaritano Efisio Pintor Sirigu, che può essere considerato il primo poeta satirico isolano; l’olzaese Diego Mele, il più celebrato dei poeti satirici in Sardegna e il macomerese Melchiorre Murenu, l’Omero dei poveri, noto soprattutto per la famosissima quartina contro la legge delle chiudende: tancas serradas a muru/fattas a s’afferr’afferra/Si sui chelu fit in terra/l’aiant serradu puru, che la tradizione gli ha attribuito e che in realtà fu scritta dal frate ozierese Gavino Achea. (vedi Storia della Sardegna di Brigaglia-Mastino-Ortu, editore Laterza, Bari 2002, pag.73) .
Si tratta per lo più di testi non più in circolazione, spesso inediti o comunque posseduti da poche biblioteche e molti, ahimè, addirittura persi, come probabilmente pare sia successo a S’egua Ghiani, un poemetto poetico di Bernardu de Linas, l’autore che mi accingo a trattare.
I poeti popolareggianti, comici, umoristici e satirici si esprimono secondo moduli che sono loro del tutto naturali, il loro linguaggio è quello nel quale si sono sempre espressi: non viene da fuori né lo hanno appreso. Ciò vale anche e soprattutto per l’autore che affrontiamo oggi: Luigi Cadoni.
1.Luigi Cadoni e il suo ereu di artisti, poeti e scrittori.
Luigi Cadoni, -più noto come Bernardu de Linas ma utilizzava anche altri pseudonimi, fra cui Bernardu Mabìu- appartiene a una famiglia o meglio a un’ereu –diremmo noi barbaricini con Antonio Pigliaru- di poeti e artisti: due che come lui devono la fama alla poesia in sardo campidanese e sono Ignazio Cogotti –fratello della madre Maria- e Gino Mannu, suo cugino. Il terzo è Giuseppe Dessì: il padre di Bernardu, Antonio Cadoni è suo prozio.
Un quarto –che da quell’ereu discende- è Efisio Cadoni, intellettuale e artista a tutto tondo e polivalente: scrittore e poeta di vaglia, scultore e pittore. Oltre che indefesso diffusore e circuitatore della storia e della cultura di Biddaxidru, ad iniziare proprio dall’opera di Bernardu de Linas. Tra i suoi scritti ricordo le raccolte di poesie Eden e oltre (1965), Lenipolis (1985), Poesie da appendere (1997), Abbecedario della cuoca amorosa. Versi da mangiare e da bere (2006); e tra i libri su Villacidro e i suoi poeti e scrittori Storia del paese d’ombre (1988) Un hibou dal volo d’aquila, scritto con Martino Contu (1994). Ha inoltre curato in edizione anastatica la pubblicazione di “Favolas”, la silloge poetica in sardo campidanese di Bernardu de Linas, su cui mi intratterrò a lungo.
Ignazio Cogotti (zio di Bernardu de Linas)
Di questo poeta, i cui componimenti rappresentano “schizzi d’ambiente, di interni e di personaggi popolari, veloci e graffianti, sui quali si distende talora un velo di melanconia” (Leonardo Sole) si conoscono complessivamente una dozzina di composizioni tra edite e inedite. Nasce a Villacidro il 27 Gennaio 1868, si laurea a Cagliari in Giurisprudenza, esercita l’avvocatura al suo paese natale –dove fu anche sindaco- e muore nel 1946.
Il Cogotti rappresenta, con sottile ironia e umorismo, una società di povera gente senza dramma e senza frustrazioni ma anche senza aspirazioni: i suoi personaggi sono ragazze da marito che attendono da un balcone cagliaritano il passo dei fidanzati, come il cacciatore attende il passo della selvaggina. Anche l’operazione seduzione è alla buona: obiettivi la servetta paesana o la domestica casereccia che, poi, non ci stanno per nulla. Le vecchie tradizioni affiorano gustosamente dai suoi versi in:
Is picciocus de crobi che divorano agnolotti;
Su fastiggiu, l’amore dalla finestra –quello che gli spagnoli chiamano pelar la pava– fatto tutto di sguardi, di piccoli cenni e di interminabili attese con la bella ritrosa al balcone e lo spasimante che monta la guardia sul marciapiede davanti alla casa;
Su colombu, dotato delle virtù grifagne dei rapaci, avvocatucolo senza clienti e senza scrupoli, che nella Piazza Yenne aspetta il paesano sempliciotto, sprovveduto e spaventato dal mondo dei tribunali e della carta da bollo;
Po is festas de Sant’Efis in cui un pescatore della laguna di Santa Gilla è rappresentato « cun su zugu prenu ‘e oru/cun is mustazzus fattus a pinzellu »
Gino Manno
Cugino di Luigi Cadoni, nipote di secondo grado di Ignazio Cogotti nasce a Villacidro nel 1892 dove muore nel 1969. Diplomatosi nel 1912 nell’Istituto tecnico “Pietro Martini” di Cagliari – la mia Scuola, dove ho avuto il piacere di insegnare per trent’anni e dove ho concluso la mia docenza- “non esercitò la sua professione, preferendo il lavoro dei campi e trascorrendo gli ultimi anni della sua vita vendendo il vino di sua produzione, nella bettola-cantina-studio” come ci ricorda Efisio Cadoni in “Storia del paese d’Ombre, della Gia editrice” in cui lo definisce poeta-tavernaio.
Probabilmente è stata proprio la sua scelta di lavoro e di vita a risparmiarci un ragioniere e a regalarci un poeta, che si rivela in alcuni componimenti particolarmente originale e immaginoso, scherzoso e persino satirico e beffardo come in “Coggius de Santu Paulu” in cui, indignato e feroce si scaglia contro un alto esponente del sardo-fascismo degli anni ’20, contro la sua arrogante onnipotenza. Prima “sardista fogosu” poi “fascista spramau”; “imboscau cand’is intrepidus sardus gherranta in sa trincea”; durante il Fascismo “tenit poderi de fai bentu e de proi” ma rimane pur sempre “cun d’unu sciorbeddu de conch’e ‘e pudda”.
2. La cifra umoristico-satirica e comica di Bernardu de Linas nella sua produzione poetica e giornalistica.
Come ho già anticipato, il mio sguardo sarà rivolto esclusivamente al Bernardu de Linas poeta sardo-capidanese così come emerge dalle Favolas, il suo capolavoro, in cui dimostra maggiormente la sua cifra di poeta umoristico, satirico e comico. Anche se occorre precisare che tale cifra informa non solo le altre poesie in limba (on contenute in Favolas (1909), come la trilogia di poemetti: Cosas de arriri: Chantecler sardu o siat Sa riconciliazioni de su caboni e de su margiani (1910), Unu brutt’animali,(1911-12), S’egua Ghiani, probabilmente andato perso e Concu Franciscu Elenu (1917), un’inedito poemetto in 82 strofette che ora è contenuto, insieme alla trilogia in Un Hibou dal volo d’aquila, a cura di Efisio Cadoni e Martino Contu, che abbiamo già citato) ma anche -sia pure parzialmente- le sue uniche poesie in Italiano contenute in Fantasmagorie (!904) e persino la sua produzione giornalistica, come collaboratore del settimanale cattolico La voce del popolo.
3. “Favolas in dialetto sardu campidanesu”.
La silloge, scritta a sa manera campidanesa, avendo abbandonato s’italiana rima, dopo la protasi,che funge anche da presentazione e da dedica a un amico, nella prima parte contiene 19 poesie in cui l’autore ha per ghia Esopu e Fedru. Protagonisti delle 19 favole sono su margiani, su molenti, su cerbu, su crobu, su boi, su lioni, is topis, su mulu, su bestiolu, su cani, sa coipira, sa formiga, su lupu, s’angioni, su serpenti, sa grui, is rundileddas, su zerpedderi, sa craba, is ranas. Sono gli animali tipici di Esopo e Fedro cui il poeta si ispira ma che rielabora e reinventa personalmente e che non solo parlano in sardo ma che della Lingua sarda hanno lo spirito e il respiro vitale che nutre valori di riferimento esclusivi e precisi. Ci troviamo dunque di fronte a un lavoro che pur nel rimando a modelli letterari consacrati, mostra ampi spazi di originalità. Tanto che anche quando si tratta di animali estranei al patrimonio zoologico della Sardegna, Bernardu de Linas li riduce a una dimensione geo-antropologica precisa, che li fa sembrare animali nati e vissuti in precisi ambienti de Biddaxidru: come nel suo cortile sulla Fluminera: toponimo che ben conosciamo da Giuseppe Dessì che in Paese d’Ombre lo ricorda più volte.
In secondo luogo a fare la parte del leone è su margiani, protagonista in ben 8 poesie: e questo “presenzialismo” non è casuale. La volpe è l’animale più detestato in Sardegna. Soprattutto dai pastori. Per i danni che fa alle greggi, per i metodi perfidi con cui compie le sue stragi, per il suo continuo nascondersi che l’ha fatta assurgere a simbolo di inaffidabilità. La condanna della volpe da parte del sapere proverbiale dei sardi è senza appello, soprattutto nel mondo agropastorale. Non b’at matzone chi non fetat fine mala, recita un antico diciu sardu. E un altro: donzi matzone benit a perder sa coa. Curiosamente, espressione e paradigma di questo adagio sardo è proprio una poesia di Bernardu de Linas, anzi la prima delle Favolas: Comente margiani iat perdiu sa coa. La sua “volpinità” infatti non serve per salvarlo de unu lazzu potenti che lo rende unu margiani scoau.
I poeti in lingua sarda –soprattutto quelli più radicati nel mondo della campagna- si sono sbizzarriti a cimentarsi –come appunto Bernardu de Linas- sul tema della volpe e della ”volpinità”.
Penso a questo proposito a un poeta di oggi, come Franciscu Carlini, che della volpe parla in ben sei “Faulas in versus e in prosa” contenute nella silloge bilingue, che non a caso titola Marxani Ghiani e Ateras Faulas (edita da Edes, Sassari 2005) e che altrettanto non a caso, dedica proprio a Bernardu de Linas scrivendo: “Pro ammentu de su poeta satiricu Luisu Cadoni, alias Bernardu de Linas”.
Anche Carlini (per cui però gli animali si vestono dei panni di veri e propri personaggi -e dunque hanno dei nomi precisi- più che essere come nelle favole tradizionali figure simboliche dei vizi umani) considera su marxani l’espressione precipua della furberia e del bugiardo che con facilità inganna “Is puddastas biancas”, ovvero i deboli e gli ingenui.
Ma sempre a proposito di altri poeti sardi che dedicano la loro poesia alla volpe voglio riprendere un famoso sonetto di Remundu Piras, il principe dei poeti improvvisatori sardi, dal titolo proprio Su matzone, ricordato da Paolo Pillonca, nella Introduzione a Contos chena tempus, una silloge poetica di favole che si ispirano a Esopo, Fedro, La Fontaine e Trilussa, di Pinuccio Canu, di Buddusò, un giovane e interessante poeta in limba sardo-logudorese, che ha al suo attivo anche un’altra bella silloge, Sa Rujada (L’attraversamento), che ho avuto il piacere di presentare a Rivoli e a Torino, davanti a centinaia di emigrati sardi entusiasti. Questa volta su matzone finisce male: come su margiani scoau di Bernardu De Linas.
Matzone
De sos matzones est destinu sumu
chi totu finin in mala manera.
Primu faghen sas bamas a bisera
ispaconende cun sa coa a pumu.
Poi morin de mossu o de piumu
o isbarrados cun nughe fiera,
tentos a canes o a matzonera
o in sa tana annegados a fumu.
E si calcunu pro sorte o pro trassas
imbetzat, isdentadu e iscunfusu
faghet sa fine trista ‘e sas bagassas.
Da chi non podet furare piusu
tando isconcat invece ‘e puddas rassas
calchi tilingia o calchi carrabusu.
(Il destino irrevocabile delle volpi è questo: tutte fanno una brutta fine. Dapprima compiono stragi di greggi, menando vanto della loro coda a piumino. Poi muoiono avvelenate, o colpite da armi da fuoco, oppure straziate da bombette, o anche soffocate dal fumo all’interno della tana. E se qualcuna, per destino o grazie alla sua astuzia, riesce a invecchare, una volta persi i denti e il brio, fa la misera fine delle prostitute. Quando non può più rapinare, allora si nutre, anziché di galline grasse, di lombrichi e scarafaggi.)
4. “Atteras poesias umoristicas”
Nella seconda parte della silloge sono contenute invece 28 poesias diversas, che trattano argomenti vari e plurimi: infatti fattu prus baldanzosu, Bernardu dice adiosu a Esopu e Fedru per sighiri su viaggiu a solu, tostorrudu che unu bestiolu!!! .
E così la sua poesia, “il suo cantare vernacolo –scrive opportunamente Efisio Cadoni nella prefazione all’edizione di Favolas della Gia del 1987- “si fa più libero e forte, più elegante, più incisivo, più musicale, ricco di novità, di invenzioni, di storie, di personaggi affascinanti, trainanti, simpatici”.
Svincolato infatti da qualsiasi ascendenza o riferimento ad altri poeti, la sua poesia vola più libera e briosa, divertente e saporosa, segnatamente nei migliori sonetti in cui mette in luce gli aspetti paradossali, ridicoli, comici: penso a Su studianti “chi fiat tontu che unu bestiolu” e che “po no fai un’accabu troppu miserabili/s’arruolat sergenti o guardia de presoni” mandando così in frantumi le speranze, le attese e le aspettative della madre che lo sognava e desiderava “cun tanti de laurea o predi o generali”.
Ma eccolo integralmente il sonetto:
Su studianti.
Dogna mamma bramat tenni unu pippiu
in su cursu tecnicu o in su ginnasiali,
po chi cun su tempus ddu biat istruiu
cun tanti de laurea o predi o generali
Però candu in zucca portat pagu sali
su bravu studianti fattu bagadiu,
s’impiegu non benit e su capitali
intanti nci hat perdiu su babbu pentiu
Aici sa famiglia s’atturat in dolu
prangendi su fillu chi crediat abili
mentras chi fiat tontu che unu bestiolu
E su studianteddu senza occupazioni,
po non fai un accabbu troppu miserabili,
s’arruolat sergenti o guardia de presoni.
O penso a Maistru Cicciu: “nasciu in Casteddu, basciteddu che unu fazzoni, sabateri de professioni, sabiu e onestissimu” ma che nonostante lavori “totu sa dì” non riesce mai ad arricchirsi. Si tratta di un sonetto di una musicalità scoppiettante, pirotecnica, travolgente.
Eccolo
Mastru Cicciu
Seu Maistru Cicciu
nasciu in Casteddu
e seu basciteddu
che unu fazzoni
de professionis
seu sabateri
comenti portu
scrittu ‘n paperi
sabiu e onestissimu
e gentilissimu
totus mi stimant
innoi e innì.
Ma traballendi
Totu sa dì
Mai no arenesciu
De arriccaimì
Mancai mi praxiat
sa carraffina
deu sa faina
no lassu mai
Sciu traballai
finzas dormiu
ma traballendi
bessit puliu
bellu bellissimu
i elegantissimu
comenti totus
podinti bì.
Ma, traballendi….
Deu po is messaius
e is messadoris
e po is signoris
e is signorinus
fazzu bottinus
e stivaleddus
biancus, asullus
grogus e nieddus
Aici benissimu
-seu segurissimu-
un atru maistru
non scit così.
Ma traballendi…
De is mesusolas
chi deu sciu ponni
finzas a Fonni
sa fama bandat.
Si raccumandat
dognunu a mei
poita non struppiu
mai unu pei
e divotissimu
pregu s’Altissimu
chi a su rei puru
pozza serbì.
Ma traballendi….
Ma candu is contus
mi andant mali
deu su stivali
pongu a una parti
e cun bell’arti
pensu de andai
a comprai roba
senza dinai
E segurissimu
de fai malissimu
paghendi is depidus
non m’hant a bì.
Ma traballendi…
In su dominigu
nudda no toccu
ca is leis de Coccu
depu osservai
e po onorai
santu Crispinu
buffu dus litrus
o tres de binu
Aici allirghissimu
soddisfattissimu
solu su lunis
torru a così.
Ma traballendi…
La straordinaria e prorompente musicalità del verso e della parola è presente anche in molti altri sonetti: segnalo in modo particolare Su molenti de ziu Nassissu e De mal in peus. A quest’ultimo però probabilmente nuoce un insistito moralismo predicatorio nella denuncia dei “lazzaronis, usuraios e Epulonis” ma soprattutto nell’attacco ai “lupus massonicus e socialistas, scetticus materialistas” campioni dei vizi del secolo (peus- secondo il poeta- de s’ateru): dall’ipocrisia alla superbia e alla boria. Per colpa di massoni e socialisti “su spiritu anticristianu/in mes’ ‘e is populus/regnat sovranu”. Spirito anticristiano e “miscredenzia” che secondo il poeta –in una visione cristiana che oggi potremmo definire fondamentalista e integralista- contribuisce alla crescita “de sa delinquenzia”.
5. La musicalità nella poesia di Dernardu de Linas.
Un tratto precipuo della poesia di Bernardu de Linas è dunque la musicalità: tanto che quasi tutti i suoi componimenti possiamo considerarli dei “Canti”. E per il canto Bernardu de Linas mostra una naturale attitudine. Come per il verso: che carezza e coccola e che tesse abilmente tanto che il suo lavoro –nei momenti migliori- si risolve nella cadenza della strofa, nel giro musicale della frase, nella misura metrica di ritmi sapientemente scanditi grazie a un orecchio musicale che crea sinfonismi e fonie, onomatopee e cromatismi, ritmi, assonanze e consonanze.
Certo occorre anche dire che la musicalità è un tratto tipico della stessa lingua sarda. La Lingua materna, il dantesco “parlar materno” – per noi il Sardo– è infatti la prima lingua della poesia e della musica. Per il bambino, l’infante, che l’apprende direttamente dalla madre, appunto, essa è soprattutto senso, suoni, musica: lingua di vocali. Dunque corporale e fisica e insieme aerea, leggera e impalpabile. E le vocali sono per il poeta l’anima della lingua, sono il nesso fra la lingua e il canto; fra la poesia, i numeri della musica, il ritmo e il ballo. Tanto che, storicamente, i confini fra poesia e musica e danza, sono sempre stati labili e sfumati a tal punto che gli antichi poeti – gli aedi greci per esempio – non scrivevano poesie ma le cantavano, accompagnandosi con la lira: non a caso nasce il termine “lirica” e “aoidòs” in greco significa “cantore”.
Ma “cantano” oltre a Omero (Cantami o diva del pelide Achille…) anche Dante e Petrarca, Ariosto e Tasso e Leopardi. E i “cantadores” sardi, soprattutto gli improvvisatori.
Cantano con quella lingua materna che riassume la fisionomia, il timbro, l’energia inventiva, la cultura, la civiltà peculiare del nostro popolo. Una lingua – il Sardo – che è insieme memoria e universo di saperi e di suoni. Che sottende –talvolta in modo nascosto e subliminale– senso e insieme oltresenso, musica, ritmo e ballo.
6. Il tono della poesia di Favolas
Prevale nella poesia di Favolas, un tono medio, per così dire ariostesco o, se vogliamo, oraziano: un tono arguto, brioso, vivace, quasi scoppiettante e sempre divertito e divertente. E insieme ironico e autoironico: mi riferisco –ma è solo un esempio- alla poesia che conchiude la silloge di Favolas e che ha per titolo “Morali”. In questa, dopo aver amabilmente ironizzato su una serie di personaggi (Maitagattu Sebastianu/est unu umili pittori/chi pofinzas a Tizianu/si creit di essi superiori; Ziu Bissenti Peitrebiu/poita liggit su breviariu/si creit di essiri istruiu/cant’e prus de su vicariu), ironizza anche su se stesso, e non solo per una sorta di par condicio: E deu puru chi mi creu/u’ segundu La Fontane/a sa fini it’est chi seu?/Un hibou fade e vilain!
In tal modo nelle Favolas il poeta villacidrese rivela –cito ancora il suo massimo studioso che è Efisio Cadoni- “la sua multiforme ironia, sdegnosa, scanzonata e canzonatoria, satirica, sottilmente dissimulatoria, paesanamente arguta… capace di saper ridere, per superare le angosce e le amarezze della vita, di tutto, di tutti e di se stesso”.
Cui aggiungerei il sapore della caricatura e della parodia, improntata però alla moderazione: che non sconfina cioè nello scherno furioso, nell’odio o nell’ira. Anche quando è mosso dall’indignazione o da un’esigenza etico-religiosa cristiana, molto forte e sentita e vuole frustare e fustigare i vizi e le miserie umane, gli errori e i tic de is concas de cipudda (vedi in particolare l’ultima poesia delle Favolas, intitolata Morali e già citata) lo fa bonariamente: per così dire, ridendo castigat mores. In cui “sa critica” –come scriverà programmaticamente in Sa torrada a s’Elicona– si coniuga sempre “cun s’ingredienti de sa pietade”.
Solo nei confronti di un assassinu (nella poesia A unu assassinu) perde in qualche modo il consueto equilibrio e tono medio ricorrendo a epiteti forti e particolarmente duri: “vili delinquenti…maledittu…su rimorsu però de su delittu/e su tristu arregordu de is feridas/t’hat atturai ‘n su coru eternamenti!”
7. Il Sardo-campidanese di Bernardu de Linas.
Dopo l’esperienza poetica giovanile di Fantasmagorie, Bernardu de Linas verseggerà esclusivamente in lingua sarda: in cui, fra l’altro, darà il meglio di sé, segnatamente con il suo capolavoro Favolas. Forse non è casuale: gli è infatti che solo la lingua materna gli permetteva di “cantare” –a sa manera campidanesa– liberamente, il suo mondo, ovvero senza lacci né ascendenze letterarie esterne: di Pascoli o Carducci poco importa
Una lingua, che il poeta ben conosce, padroneggia, curva e piega a suo piacimento, plasmandola e curandola con maestria e sicurezza. Una lingua, quella sardo-campidanese, comunque che già di per se stessa risulta particolarmente adatta per esprimere la satira, il comico, l’ironico, il giocoso: più delle altre varianti della lingua sarda. Forse perché lo stesso dizionario di immagini, lo stesso lessico dei modi di dire e di schemi figurativi possiede già al suo interno idee e impressioni atteggiate dall’anima popolare nella forma del paradosso, della battuta, della satira. Questo spiega –fra l’altro- perché in sardo-capidanese sono state prodotti capolavori come Sa scomunica de predi Antiogu.
Il sardo del poeta villacidrese inoltre si rivela –come il poeta stesso si era augurato e promesso- “tersu e luxenti, plenu de musica, de forza e briu”. Ovvero lingua duttile e flessibile, viva, fresca e prorompente, pregnante, espressiva e altamente significante, in grado di tradurre le abbondanti metafore e allegorie, le sentenze e le massime epigrammatiche, i simboli e le allusioni, i paradossi e i giochi di parole. Ma anche le ripetizioni, le contrazioni sintattiche e le brachilogie.
Pur poetando in sardo-campidanese, Bernardo de Linas conosce e padroneggia anche il logudorese: in questa variante compone Risposta de Citerea, contenuta in Favolas. E anche questo non è casuale: molti cantadores e poeti campidanesi utilizzavano anche il logudorese come lingua veicolare dei loro componimenti, evidentemente ritenendolo –a torto o ragione poco importa- la variante più letteraria della Lingua sarda.
8. Gli italianismi delle Favolas.
Certo, come già fece il critico de l’Unione sarda del 7 Dicembre 1909, recensendo le poesie di Favolas nella rubrica della pagina culturale “Fra libri e giornali”, si può rimproverare al suo lessico un eccessivo ricorso a degli italianismi (pugnali, soggezioni, contadinu, grandissima paura, discosceso, maliarda, zucca, maditabundu, ottobri, cretinu, lingua sporca,). Ed effettivamente alcuni di questi lessemi sono improponibili: anche perché il sardo possiede i termini corrispettivi. E ancor più inaccettabili sono i superlativi assoluti, copiosamente presenti, segnatamente nella poesia Mastru Ciccia,(onestissimu,gentilissimu,bellissimu,elegantissimu,benissimu,segurissimu,divotissimu,segurissimu,malissimu,allirghissimu,soddisfattissimu):
la lingua sarda infatti non prevede né ammette il superlativo assoluto con il suffisso –ìssimu. Questo è presente nella lingua italiana e latina. Al massimo nella lingua sarda il superlativo assoluto in –issimu si può utilizzare come nome, ma mai come aggettivo: es. su Santissimu, sa Purissima, s’Altissimu (utilizzato, questa volta a proposito, proprio da Bernardu de Linas nella già citata poesia Mastru Cicciu).
Curiosamente però si tratta della stessa accusa che molti critici rivolsero a Montanaru, il grande poeta desulese, più o meno contemporaneo di Bernardu de Linas. A tale critici ha risposto Michelangelo Pira. Antioco Casula –scrive- “Sentì il sardo come volgare vivo, arricchendolo degli apporti nuovi che gli venivano dalla Lingua italiana, verificandolo nel parlare quotidiano, non ancora logorato o imbalsamato dall’uso scritto. Egli tentò in definitiva l’integrazione possibile con la lingua italiana all’interno della lingua sarda, facendo brillare in ogni vocabolo di questa quel che <nell’esausta parola italiana aveva perduto ogni sapore>”.
La lingua sarda italianizzante –prosegue Pira- fu rimproverata a Montanaru. Ma altri che dopo di lui hanno tentato la strada della lingua sarda si sono smarriti e non hanno fatto più ritorno. Essi non sapevano o non sanno quel che Montanaru aveva capito d’istinto: che nel nostro secolo il sardo venuto a contatto con la lingua italiana è venuto modificandosi nelle sue strutture lessicali, sintattiche, morfologiche, fonetiche e semantiche. Con Montanaru il sardo fu ancora una volta lingua, mentre già nelle poesie nuoresi del Satta aveva un sapore dialettale” (Michelangelo Pira, Sardegna fra due lingue, Quaderni di Radio Cagliari, La Zattera editrice, Cagliari 1968, pag. 122).
Si tratta di una risposta autorevole e importante ma che non mi convince del tutto.
9. Poeta dallo “spirito locale”?
“E’ sicuramente un poeta dallo <spirito locale> – scrive Martino Contu nell’antologia <Un hibou dal volo d’aquila>– nel senso che il suo legame con il paese e più in generale con la provincia spiega quasi tutta la sua poesia. Ma non è un poeta culturalmente isolato”.
Sono d’accordo ma direi di più. Anzi, per spiegare il rapporto della poesia di Bernardu de Linas con Villacidro, la provincia e la Sardegna intera, penso che occorra rispondere –si licet parare magna cun parvis- come fece il suo illustre compaesano, Giuseppe Dessì che proprio a proposito del rapporto dello scrittore e delle sue opere con la Sardegna, nell’introduzione ai Passeri (1955) si domandava e rispondeva: “Perché in Sardegna? mi si chiederà ancora una volta. Perché a parte le ragioni storiche e artistiche che richiederebbero un troppo lungo discorso, come ci insegnano Spinosa, Leibniz, Einstein e Merleau-Ponty, ogni punto dell’universo è anche il centro dell’universo”. In ciò in sintonia con il grande romanziere francese Honoré de Balzac che diceva “Se vuoi essere veramente universale parla del paese dove sei nato” o con il nostro più grande poeta e scrittore etnico, Francesco Masala che ripeteva sempre: “Parla del tuo campanile e parlerai del mondo intero”: a significare che ogni piccolo paese contiene i problemi dell’umanità e laddove vive un solo uomo sono presenti tutti gli aspetti dell’universo umano. O infine con l’antropologo e scrittore Giulio Angioni, che nel suo ultimo e bel romanzo Afa, sostanzialmente sostiene –questo almeno a me pare- che scrivere della Sardegna possa essere il modo più adatto per scrivere del mondo (Afa, Sellerio editore, Palermo, 2008, pag.60).
Mi sta quindi bene la definizione di Bernardu de Linas come poeta dallo “spirito locale”, purchè non si intenda “locale” in senso limitativo e angusto. I suoi personaggi infatti –e poco importa che siant a quattru cambas o a dus peis,– non sono rinchiusi e incatenati a Villacidro o nel Campidano o nella Sardegna, isolati e separati dal mondo: la microstoria dei personaggi di Bernardu de Linas (on le loro manie e ubbie ma soprattutto con i loro vizi -avarizia prima di tutto- o le loro mediocrità -supponenza, vanagloria, superstizione, pettegolezzo, conformismo modaiolo, boria, presunzione-: pensiamo, a proposito di questi due ultimi “vizi”, al signor Semproniu Mustaioni nel sonetto “Affroddieri”- si dilata infatti a rappresentazione della generale condizione umana. E le stesse vicende, storie e luoghi sono momenti di una geografia più vasta, nel suo valore simbolico e universale.
10. Bernardu de Linas dimenticato?
Efisio Cadoni, nella prefazione all’edizione da lui curata nel 1997, lamenta il sostanziale il silenzio –e conseguentemente la scarsa diffusione- dell’opera poetica di Bernardu de Linas, a cento anni dalla sua nascita. Ebbene a me pare che una risposta, a proposito della “dimenticanza” della sua poesia e di quella in sardo-campidanese in genere, l’abbia offerta Francesco Alziator (nell’Introduzione a Testi campidanesi di poesie popolareggianti”, Cagliari Filli Fossataro editori, 1969) quando scrive: “Questa scarsa diffusione lo si deve forse anche al fatto che in realtà la poesia in dialetto campidanese, anche se questo è il più diffuso nell’Isola, non ha mai avuto un grande successo fra i Sardi…ha infatti sempre gravato un doppio anatema: l’antico universale disprezzo per la poesia dialettale e il preconcetto che il logudorese sia l’idioma letterario per eccellenza”.
Sono convinzioni –sostiene Alziator– tanto superate che non varrebbe neppure la pena di parlarne, se non apparisse così duro a morire: si tratta infatti un pregiudizio sommamente inveterato e risalente ai primi studiosi della lingua sarda, a cominciare dal canonico Giovanni Spanu. Che non a caso è nativo logudorese (di Ploaghe).
Già il Parini,-ai tempi della brutale polemica contro l’uso del dialetto scatenata dal suo vecchio maestro, il Padre Onofrio Branda, durata dal 1756 al 1760 e nella quale se s’ha da credere al Manzoni si venne addirittura alle mani- aveva affermato che <in ciascuna delle lingue dire e scrivere si possono belle e ottime cose, perocchè le voci ondesse constano sono per se medesime indifferenti e capaci di qualunque forma loro si doni> (Giuseppe Parini, A padre D. Onofrio Branda, ora in Tutte le opere di G. Parini, Firenze 1925, pag.575.)
Voglio augurarmi che questo Convegno dia un contributo per il disseppellimento della poesia di Bernardu de Linas con la speranza che altri se ne organizzino per ricordare e studiare la sua poesia come quella in sardo-campidanese di tanti altri, ad iniziare da quella di Ignazio Cogotti, Gino Mannu e, perché no? anche quella in italiano di Efisio Cadoni.