28 giugno 1914: inizia la Prima Guerra mondiale

 Una guerra che fu semplicemente una inutile strage, una gigantesca carneficina come la definì il Papa Benedetto XV in una enciclica del 1914 (Ad Beatissimi Apostolorum Principis). L’Italia, con un Parlamento a stragrande maggioranza “neutralista”, inizialmente non entrerà in guerra. La sua partecipazione, il 24 maggio 1915, contro il volere della larga maggioranza dello stesso Parlamento, sarà imposta dal re Vittorio Emanuele III (più noto come Sciaboletta, che firmò l’Atto di ingresso), con la complicità del primo ministro (Salandra) e il responsabile degli Esteri (Sonnino). Voluta dai grandi Gruppi industriali (in primis dalla FIAT e dall’Ansaldo di Genova, guidata dai fratelli Pio e Mario Perrone) che non a caso finanziarono i giornali nazionalisti e guerrafondai, ad iniziare dal Popolo d’Italia, fondato da Benito Mussolini. Essa rappresenterà – è il grande storico Enzo Gentile, a scriverlo – “oltre che il tramonto della Bella Epoque, il naufragio della civiltà moderna. Una guerra nuova, completamente diversa da quelle fino ad allora combattute: per l’enormità delle masse mobilitate, per la potenza bellica e industriale impiegata, per l’esasperazione parossistica dell’odio ideologico” 1. Una guerra – scrive Freud – “che ha rivelato, in modo del tutto inaspettato, che i popoli civili si conoscono e si capiscono tanto poco da riguardarsi l’un l’altro con odio e con orrore” 2. Una vera e propria catastrofe annientatrice d’ogni forma di vita e civiltà, trasformate in cumuli di rovine: riducendo l’Europa a “un’oasi estinta e sterile” scrive il tedesco Ernst Jünger, “dove non c’è segno di vita per quanto lontano possa spingersi lo sguardo e sembra che la morte stessa sia andata a dormire”3. Con centinaia di città sistematicamente distrutte, completamente cancellate dalla faccia della terra. Ma soprattutto con un ingentissimo numero di soldati sacrificati inutilmente: la sola la Italia ebbe 650 mila morti e 2 milioni tra feriti e mutilati. E insieme alla carneficina di vite umane, la devastazione e distruzione della natura. A descriverla in modo suggestivo è il romanziere francese Henri Barbusse, combattente sul fronte occidentale, che parla del Nuovo mondo costruito dalla guerra nel Continente europeo: “un mondo di cadaveri e di rovine ”terrificante, pieno di marciumi, terremotato” 4. Ma c’è di più: nuove e ancor più drammatiche conseguenze si profileranno all’orizzonte con la fine dei combattimenti e il Trattato di Versailles. Con il ridisegno dell’intera geografia europea secondo la volontà dei vincitori, si ponevano infatti le premesse per altre tragedie: la corsa al riarmo e la militarizzazione di massa della società che saranno alla base dei regimi totalitari come il fascismo e il nazismo. I 650 mila morti e i più di 2 milioni di feriti e di mutilati erano costituiti soprattutto da contadini, operai e giovani mandati al macello nelle trincee del Carso, sul Piave, a Caporetto e nelle decimazioni in massa ordinate dagli stessi generali italiani. Carne da macello fornita soprattutto dai meridionali siciliani, calabresi, campani, lucani e sardi, mentre i settentrionali per lo più erano produttivamente impegnati nelle fabbriche di armi e di cannoni. Sardi soprattutto, almeno in proporzione agli abitanti: alla fine del conflitto la Sardegna avrebbe infatti contato ben 13.602 morti (più i dispersi nelle giornate di Caporetto, mai tornati nelle loro case). Una media di 138,6 caduti ogni mille chiamati alle armi, contro una media “nazionale” di 104,9. E a “crepare” saranno migliaia di pastori, contadini, braccianti chiamati alle armi: i figli dei borghesi, proprio quelli che la guerra la propagandavano come “gesto esemplare” alla D’Annunzio o, cinicamente, come “igiene del mondo” alla futurista, alla guerra non ci sono andati. La retorica patriottarda e nazionalista sulla guerra come avventura e atto eroico, va a pezzi. Abbasso la guerra, “Basta con le menzogne” gridavano, ammutinandosi con Lussu, migliaia di soldati della Brigata Sassari il 17 Gennaio 1916 nelle retrovie carsiche, tanto da far scrivere in Un anno sull’altopiano allo stesso Lussu: Il piacere che io sentii in quel momento, lo ricordo come uno dei grandi piaceri della mia vita. In cambio delle migliaia di morti, – per non parlare delle migliaia di mutilati e feriti – ci sarà il retoricume delle medaglie, dei ciondoli, delle patacche. Ma la gloria delle trincee – sosterrà lo storico sardo Carta-Raspi – non sfamava la Sardegna. Sempre Carta Raspi scrive: ”Neppure in seguito fu capito il dramma che in quegli anni aveva vissuto la Sardegna, che aveva dato all’Italia le sue balde generazioni, mentre le popolazioni languivano fra gli stenti e le privazioni. La gloria delle trincee non sfamava la Sardegna, anzi la impoveriva sempre di più, senza valide braccia, senza aiuti, con risorse sempre più ridotte. L’entusiasmo dei suoi fanti non trovava perciò che scarsa eco nell’isola, fiera dei suoi figli ma troppo afflitta per esaltarsi, sempre più conscia per antica esperienza dello sfruttamento e dell’ingratitudine dei governi, quasi presaga dell’inutile sacrificio. Al ritorno della guerra i Sardi non avevano da seminare che le decorazioni: le medaglie d’oro. d’argento e di bronzo e le migliaia di croci di guerra; ma esse non germogliavano, non davano frutto” 5. Uno dei principali responsabili di quella guerra, Vittorio Emanuele III (più noto come Sciaboletta) campeggia ancora nelle nostre Piazze e Vie. Ma è tollerabile? Note bibliografiche 1.Enzo Gentile, L’Apocalisse della modernità, Mondadori, Milano, 2009, pagina 17. 2.S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, trad. it. Cesare Musatti e altri, Torino, 1989, pagine 30. 3.E. Jünger, Boschetto 125, trad. it. Di A. Iaditiccio, Parma 1999, pagina 28. 4.Henri Barbusse, Il Fuoco, trad. italiana di G. Bisi, Milano, 1918, pagina 218. 5.Raimondo Carta-Raspi,Storia della Sardegna, Ed. Mursia, Milano, 1971, pagina 904).

Gramsci e la lingua sarda

Gramsci e la lingua sarda: un curioso e significativo episodio e la lingua sarda
di Francesco Casula
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Domani sabato 6 giugno nella consueta intervista in Telecostasmeralda (ore 20.30, nella trasmissione a cura di Enrico Putzolu) parlerò di Antonio Gramsci. In questo spazio voglio ricordare quanto riferisce in una Lettera Alfonso Leonetti uno dei fondatori del Partito comunista, proprio insieme a Gramsci e altri – a proposito del rapporto fra Sardegna e lingua sarda e l’intellettuale di Ales.
[…] Anche il suo parlare era sardo. I lunghi anni passati lontano dall’Isola. ora a Torino, ora a Mosca e Vienna, ora a Roma, non avevano punto alterato la pronuncia sarda, con le o chiuse e i raddoppiamenti delle consonanti. Tipico e significativo mi pare un «erroruccio ortografico» che si incontra nelle lettera scritta da Gramsci il 27 ottobre 1926, a pochi giorni dal suo arresto, per la redazione dell’Unità a Milano. Lui, sempre così preciso, così ordinato e attento nell’allineare lentamente, meditatamente, riga dopo riga, parola dietro parola, con la sua solita scrittura nitida, scrive «eccittato» proprio con sue t, come se stesse conversando in sardo. Egli amava moltissimo infatti parlare la lingua sarda, appena ne aveva l’occasione, coi suoi fratelli Carlo e Gennaro, coi fratelli Ciuffo, coi compagni Polano, Piga, Frongia. E’ noto l’episodio della Brigata Sassari a Torino nel 1919. Meno noto è quest’altro episodio ugualmente significativo: eravamo nel 1921, un anno nero di spedizioni fasciste. La Questura di Torino, per salvare le apparenze, faceva vigilare l’ingresso dell’Ordine Nuovo, diretto da Gramsci con carabinieri. Una volta ci venne inviata una squadra di carabinieri in maggioranza sardi. Conoscendo l’effetto magico che avrebbe fatto su di essi il dialetto della loro isola, Gramsci stabilì con gli altri compagni sardi, che entrando e uscendo, parlassero forte nella loro lingua, in modo che i carabinieri potessero sentire. L’effetto fu veramente magico, come Gramsci aveva previsto: i carabinieri consideravano il nostro giornale un «covo di sardi» e cominciarono a salutarci e a sorriderci con simpatia. Ma anche essi, come già era avvenuto con la Brigata Sassari furono presto allontanati dal nostro quotidiano e forse da Torino.
Penso da ultimo al Gramsci del carcere, al Gramsci che vicino alla liberazione, si prepara a ritornare nella sua Isola, dove egli meditava di ritemprare le sue forze fisiche e morali. Tutto questo è estremamente significativo. Lui grande militante della rivoluzione mondiale, grande internazionalista e uno dei più importanti capi del comunismo internazionale, arrivati alla fine della prigionia, sceglie la Sardegna come suo porto di salvezza, dove avrebbe potuto ricomporre l’integrità del suo essere per ripartire all’assalto del mondo degli sfruttatori e degli oppressori. Ciò non avvenne,, perché come noi sappiamo, il suo corpo fu distrutto dai carcerieri fascisti, prima che il ritorno nell’Isola fosse possibile. Rimane tuttavia iscritto nella storia che Gramsci, per sua volontà, uscendo dalle prigioni fasciste aveva deciso di ritornare a vivere in Sardegna. Perciò possiamo concludere che il ciclo gramsciano, nato sardo muore sardo, senza nulla perdere del suo carattere internazionale. Questo anzi spiega quello e viceversa.
(Alfonso Leonetti, Roma 16 aprile 1975)

“Racconti sardi. Grazia Deledda” ce li racconta Francesco Casula

“Racconti sardi. Grazia Deledda” ce li racconta Francesco Casula

 

Catartica Edizioni ha pubblicato 6 straordinari Racconti di Grazia Deledda, di cui ho scritto la Prefazione. Ecco alcuni stralci.

Occorre ricordare che Deledda frequenta solo le scuole elementari, dopo è autodidatta e impara a scrivere, più che dai libri, ovvero dalla scuola propria, dalla scuola impropria, (per utilizzare il lessico di Michelangelo Pira), ascoltando i racconti degli anziani, specie dei pastori negli ovili, dove accompagnata da un fratello e dai cugini, spesso si recava. E’ lei stessa a riferirci che ai libri preferiva l’ascolto di storie meravigliose e fantastiche, specie in inverno, davanti al caminetto, nelle notti interminabili. Istorias ispantosas di cui scrive in questi sei Racconti: di amori impossibili (Di Notte); di superstizioni, di incantesimi e di magie (Il Mago e Ancora Magie); di leggende, di streghe e avventure cruente e inverosimili (La Dama bianca); di amori disperati (In Sartu). Istorias maravizosas descritte con una potenza narrativa impareggiabile, con una parola che signoreggia e lievita e incentiva il pensiero e l’immaginazione oltre il dettato asciutto ed essenziale. Ma non si tratta della parola d’annunziana, del “verbo” che è tutto. Ovvero di pura forma, ridotta a orpello o decorazione, a musica o immagine ridondante, semplice prodotto estetico o luccicore sontuoso. Certo il rischio è presente. Come talvolta è presente l’enfasi e il compiacimento idillico, nella descrizione della natura e del paesaggio sardo, dei suoi colori e odori e profumi:”C’era un fresco incantato, là sotto. Dai massi sovrapposti dell’altura piovevano grandi grappoli di rovi verdeggianti e di biancospino fiorito. Le rose canine, diafane, sfumate in colore d’ambra, olezzavano acutamente, e il ruscelletto attraversava gorgogliando il sentiero per poi sparire tra le alte ferule anch’esse fiorite, di cui Manzèla teneva ancora un grosso e lungo gambo fra le mani”. Ma in genere evita tale rischio, perché la descrizione della natura non è fine a se stessa ma fa da sfondo e contesto in cui inserisce e rappresenta gli stati d’animo dei suoi personaggi: “Filando ritta sulla porta, Saveria vedeva il mare in lontananza, nell’estremo orizzonte, confuso col cielo di platino in estate, nebbioso in inverno: cucendo presso la finestra scorgeva una immensità di vallate stendentisi ai piedi delle sue montagne, e sentiva il caldo profumo delle messi d’oro ondeggianti al sole, e il sussulto del torrente che scorreva fra le rocce e i roveti montani. In quella casa piccina e nera, col tetto coperto di musco giallo e rossastro, ombreggiata da un vecchio pergolato, fra tanta festa di cieli azzurri e di immensi orizzonti silenziosi, da due anni, Saveria scorreva la vita più felice che si possa immaginare, accanto al suo giovane sposo dai grandi occhi ardenti e le labbra rosse come i frutti delle eriche fra cui conduceva i suoi armenti, la sola sua ricchezza. Si chiamava Antonio. Anch’esso dacché aveva sposato la piccola signora dei suoi sogni da pastore, viveva felicissimo…” . La felicità di Saveria e Antonio, ben si armonizza con la natura e il paesaggio solcati come sono da lampi di magia che creano nel lettore stati d’incanto, come se avesse attraversato un paese sereno e felice. O quando il sole già alto riflette e simboleggia «l’ardore» di Predu:”Il sole, già alto, dardeggiava la pianura, e Predu sentiva il sangue ondeggiargli ardente, a sbalzi, a meandri, a vampate, infiammandogli il viso e la testa. Manzèla invece, tirato il fazzoletto su gli occhi, proseguiva tranquilla, col viso dorato, composto come quello di una madonnina latina del Quattrocento. La luce intensa dell’aperta campagna dava un riflesso chiarissimo ai suoi grandi occhi, rendendoglieli quasi grigi e trasparenti, e Predu, guardandola intensamente, si sentiva morir dalla voglia di prendersela fra le braccia, come un piccolo agnello bianco e spaurito, e di coprirla di baci”. Sei racconti da leggere, da gustare e da assaporare, da godere: certo per la cifra letteraria, artistica ed estetica. Ma anche dal punto di vista etnico, etnologico e antropologico. E finanche storico.