Ricordando Sebastiano Satta nel Centenario della sua morte di FRANCESCO CASULA

SEBASTIANO SATTA* di Francesco Casula

Il “vate” nuorese, cantore della sardità mitica e drammatica (1867-1914)

Nasce a Nuoro il 21 maggio 1867. II padre, nuorese, Antonio Satta, è un  avvocato assai no­to; la madre, Raimonda Gungui è di Mamoiada, villaggio vicino a Nuoro, in piena Barbagia. Il Satta, rimasto orfano di padre all’età di cinque anni, ben presto conosce il disagio e le umiliazioni della povertà.

Compie gli studi elementari e ginnasiali a Nuoro, quelli liceali e universitari a Sassari, do­ve consegue la laurea in giurisprudenza nel 1894 ed esercita la professione di giornalista. Nella Sassari di allora, che gli ricordava la Bologna carducciana che aveva conosciuto durante il servizio militare, con fermenti repubblicani e progressisti, aderisce agli ideali socialisti.

Nel 1893 pubblica due raccolte di poesie Nella terra dei Nuraghes e Versi ribelli, di modesto valore artistico ma utili per capire l’itinerario spirituale del poeta. Fortemente influenzato da Carducci, tra le incertezze tecniche e i convenzionalismi formali si inizia però a intravedere il Satta più autentico. Nella prima silloge, di otto liriche, due sono in lingua sarda; nella seconda ugualmente di otto liriche, è presente un Satta protestatorio nei confronti del servizio militare, ma più perché è stato allontanato dalla sua Sardegna che per motivi ideologici.

Torna intanto a Nuoro dove è consigliere comunale nel triennio 1900-1903 e dal 1896 al 1908 esercita la professione di avvocato. In tale professione – come riferisce lo storico Raimondo Bonu, probabilmente con eccessiva enfasi- “ebbe fama di valente penalista e di oratore brillante, facondo, irruente, temuto per le sue arringhe, perché sapeva cogliere dalle circostanze più disparate la nota umana, adatta a trasformare il delinquente affidato alla sua difesa in un eroe, in un rivendicatore di diritti, in un maestro di giustizia sociale”.

Nel 1896, in occasione del centenario della rivoluzione angioyana scrive l’ode Primo Maggio, dedicata al protagonista di quella rivoluzione antifeudale, Giovanni Maria Angioy, appunto. E’ pubblicata nel quotidiano di Sassari, “La Nuova Sardegna” , ma il numero fu sequestrato: segno di tempi di censura e di repressione. L’ode carica di retorica e ascendenze carducciane, è impregnata di una intensa <sardità> che caratterizzerà anche la sua poesia più matura. Che arriverà con i Canti barbaricini pubblicati nel 1909. In essi sono ancora indubbiamente presenti gli echi della poesia carducciana, pascoliana, del D’Annunzio di Alcione e persino di Victor Hugo, di Heinrich Heine e di Walt Whitman, ma la sua poesia inizia ad avere una sua precisa e personale fisionomia, dal punto di vista espressivo, metrico e dei contenuti.

Colpito da paralisi 1’8 Marzo 1908, passa gli ultimi anni della sua vita senza poter neppure parlare. Scrive le sue ultime poesie fra il 1909-1914. Esse saranno raccolte –senza ulteriore rielaborazione e revisione- nei Canti del Salto e della Tanca e verranno pubblicate postume nel 1924.

Condannato all’infermità, la sua vita interiore si fa più raccolta e più intensa e la sua poesia è caratterizzata da una <sardità> ancor più esclusiva, persino nei particolari stilistici e lessicali. Della gente sarda non descrive solo gli stati d’animo e i modi di vivere ma anche il modo di parlare e di costruire il periodo.

Muore improvvisamente il 29 novembre 1914 a Nuoro dove viene sepolto senza funerali religiosi perché aveva espresso la volontà di non gradire né preti, né preghiere alla sua morte. Le cronache narrano che folle di contadini, pastori e persino banditi, scesero dalle montagne per accompagnarlo alla sua ultima dimora, memori del suo amore per l’uguaglianza e il progresso sociale e della sua passione per la patria sarda. Satta infatti fu molto popolare e amato dalla sua gente che vedeva in lui un vero e proprio “vate” e cantore di una mitica e drammatica identità sarda.

Presentazione di un testo [tratto da Canti barbaricini ora in Canti, Sebastiano Satta, Ilisso editore, Nuoro 2003, pag.66]

Il sonetto è tratto da Canti Barbaricini, una delle raccolte del Satta più valide, l’altra è Canti del salto e della Tanca. Essa –è il poeta stesso a scriverlo- “canta o, meglio narra il dolore della gente e della terra che si distende da Montespada a Montalbo, dalle rupi di Corrasi fino al mare; e canta dolor di madri, odio di uomini, pianto di fanciulli…Barbaricini ho voluto chiamare questi canti perché sono accordi nati in Barbagia di Sardigna; ed anche quando essi non celebrano spiriti e forme di quella terra rude e antica, barbaricini sono nell’anima e barbaricine hanno le fogge e i modi”.

Certo, nel lessico, nel linguaggio, nello stile e persino nella struttura del testo poetico e a livello fonico-timbrico, ci sono abbondanti influenze della coeva poesia italiana, ma non è un semplice epigono di Carducci, Pascoli e D’Annunzio, come parte della critica ha voluto sostenere. Egli infatti è soprattutto un poeta capace di farsi interprete dell’immaginario collettivo della Nuoro del suo tempo, nella quale si identificavano molti sardi, soprattutto “barbaricini”. In lui infatti le mimesi esterne si interiorizzano, si fanno simbolo, linguaggio, gestualità verbale di una caratteristica cultura, quella sarda. E ai fatti e ai problemi dell’Isola partecipa, vivamente e dolorosamente: per cui si può dire che il mondo sardo, come natura e come eventi, non solo si riflette nella sua poesia, ma passa contemporaneamente attraverso la sua anima, da cui prende colore e calore.

VESPRO DI NATALE 

Incappucciati1, foschi2, a passo lento,

tre banditi ascendevano3la strada

deserta e grigia, tra la selva rada4

dei sughereti5, sotto il ciel d’argento.

 

Non rumore di mandre6 o voci7,

il vento agitava8 per l’algida9 contrada.

Vasto10 silenzio. In fondo, monte Spada11

ridea12 bianco nel vespro sonnolento13.

 

O vespro di Natale14! Dentro il core

ai banditi piangea la nostalgia

di te, pur senza udirne le campane:

 

e mesti eran, pensando al buon odore

del porchetto e del vino15, e all’allegria

del ceppo16, nelle lor case lontane17.

Note

Metrica: sonetto. Rime ABBA, CDE

1.Incappucciati: con il copricapo nero di orbace in testa..

2.Foschi: oscuri appunto perché indossavano un cappotto di orbace nero che li nascondeva agli occhi delle persone e li proteggeva dal freddo. Le orbace infatti sono un tessuto di lana di pecora, molto resistente e impermeabile.

3.Ascendevano: salivano

4.Rada: non folta di sughere.

5.Sughereti: sono boschi di sughere (o soveri)  molto estesi in Gallura –nord est della Sardegna- e nel Mandrolisai –centro sud-, mentre sono assai limitati e poco folti nella Barbagia di Ollolai dove è ambientata la poesia.

6.Rumore di mandre: le pecore portano al collo i campanacci –in sardo sas sonazas- che producono un caratteristico tintinnio e servono per essere localizzate dai pastori..

7.Voci: i pastori sono soliti richiamare le greggi con voci e più spesso con fischi particolari che le bestie intendono come per istinto. Inoltre i pastori si chiamano fra loro, in spazi vasti, per comunicarsi notizie e scambiarsi quattro chiacchiere. Di qui l’abitudine degli stessi a parlare sempre a voce molto alta, quasi urlata.

8.Agitava:portava.

9.Algida: gelida, fredda.

10.Vasto: profondo.

11.Monte Spada: una delle vette più belle e più alte del Gennargentu (m.1595) nel territorio di Fonni, mentre Punta Corrasi –cui Satta accenna nell’introduzione ai Canti Barbaricini- in agro di Oliena è alta m.1463.

12.Ridea: spiccava perché coperto di neve.

13.Vespro sonnolento: la sera che porta il sonno e dunque il riposo.

14.Vespro di Natale: la notte di Natale.

15.Porchetto e vino: ancora oggi ma soprattutto nel passato era consuetudine delle famiglie sarde di ambiente pastorale e barbaricine in specie, consumare a Natale, dopo la messa di mezzanotte abbondanti arrosti (di salsicce, porchetti, agnelli o capretti) innaffiati da un buon vino.

16.Ceppo: i tronchi necessari per alimentare il fuoco.

17.Case lontane: in Sardegna gli insediamenti umani sono concentrati nei villaggi, distanti gli uni dagli altri. Il territorio è spopolato per cui le campagne sono solitarie: in queste, soprattutto in quelle caratterizzate da montagne e luoghi impervii, si rifugiavano –e si rifugiano ancora- i banditi.

Giudizi critici

Goffredo Bellonci scrive che Satta “aveva il senso della terra, il più grande dono che Federico Nietzesche facesse al suo Zaratustra, la più grande virtù che abbia cantato nel libro della giungla immortale Rudyard Kipling…Ogni strofa, ogni verso, ogni parola sigillava del suo stile sardo, inimitabile nel ritmo, nelle immagini, nei trapassi”.

[Goffredo bellonci, sul Giornale d’Italia del 30 Novembre 1914 ora anche in  Sebastiano Satta, I canti e altre poesie, a cura di Francesco Corda, Edizioni 3T, Cagliari 1983]

Mentre per Giovanni Pirodda: “Il Satta fu popolare e amato, fra i lettori sardi contemporanei, per il suo amore per l’uguaglianza e il progresso sociale, e per l’interpretazione, nei toni di un fremente individualismo romantico, dei miti di un immaginario collettivo: la natura, la donna (sposa e madre-matriarca), il tópos del ricorrente ribellismo e dell’attesa di una palingenesi: sono i temi di una mitica e drammatica identità sarda, espressi attraverso la mediazione autorevole delle forme letterarie e metriche della poesia italiana fra ‘800 e ‘900. Ma al di là del mito l’esperienza sattiana raggiunge una capacità poetica spesso misconosciuta, che merita di essere annoverata almeno tra le voci minori di quel periodo”.

[Giovanni Pirodda, Letteratura delle regioni d’Italia, Storia e testi, Sardegna, Editrice la Scuola, Brescia 1992, pag.316].

ANALIZZARE

In questo sonetto, concentrandola in pochi versi, il poeta riesce a cogliere intensamente e a rappresentare una nota paesistica, interiorizzandola però, ovvero traducendola in tema lirico, scevro da ogni indugio illustrativo, ma soprattutto da preoccupazioni edificanti, civili e pedagogiche, ispirate a un socialismo umanitario, che pure abbondano in altre liriche.

La rappresentazione, sospesa fra la realtà e la fantasia, dei banditi incappucciati e tristi che passano per vie desolate, foschi su sfondi di neve e che incedono con tanta cupa andatura che solo questo cadenzato endecasillabo sa mimare, ricorda la misura espressiva dei piccoli quadretti del Pascoli delle Mirycae.

La forma conclusa del sonetto inoltre, dove per di più l’endecasillabo si smorza nei frequenti enjambements, rende il silenzio carico di tristezza, di dolcezza e di vitalità insieme, di una inestinguibile nostalgia dell’intimità familiare, di un rifugio sereno e festoso, che invade l’animo dei banditi, fragili creature umane anch’essi. In altre liriche mitizzati come belli, feroci e prodi.

Il linguaggio è alto, illustre, gli aggettivi ricercati, aulici (foschi, rada, algida) tanto da rischiare di risultare stereotipati e poco creativi.

*Tratto da “Letteratura e civiltà della Sardegna” di Francesco Casula (volume 1°, Ed. Grafica del Parteolla, Dolianova, 2011)

 

 

PIMPIRIAS DE ISTORIA SARDA de FRANTZISCU CASULA

Programma di Videolina ore 22.00 del 28-11-2014

Pimpirias

condotta da Tore Cubeddu

Testo scritto della mia Intervista che ha aperto la trasmissione

Traballu in sas minas e Bochidorju de Bugerru

DE FRANTZISCU CASULA

Una dominiga, su bator de cabudanni de su 1904 in Bugerru s’esertzitu isparat a sos minadores. Tres los ochient (sunt Felice Littera, Salvatore Montixi e Giovanni Pilloni) e medas ateros los ferint: unu de custos, fertu malamente, (Giustino Pittau) at a morrere in s’ospidale carchi die a pustis.
Sa curpa de sos minadores? Protestaiant contra a su direttore de sa mina, Achille Georgiades chi aiat creschidu s’orariu de su traballu. Cando giai sas cunditziones fiant imbeleschidas. Mandigaiant unu biculu de pane tostu e dormiant in barracas frittas in ierru e caentes de morrere in istiu. At a iscriere una Cumissione parlamentare istituida a pustis de su 1906:”Si mangia un tozzo di pane durante il lavoro e per companatico mangeranno polvere di calamina o di minerale”.
E puru, a migias, dae totu sa Sardigna ma mescamente dae sas biddas serentes, pro sa crisi economica manna meda, sos sardos aiant lassadu s’agricultura e su pastoriu cun s’isperu de agatare unu postu de traballu seguru in sas minas. Sa realidade at a essere diferente: isfrutamentu, maladias e repressione.

 

Pimpirias de Istoria sarda de Frantziscu Casula

Pimpirias de Istoria sarda de Frantziscu Casula

(Intervista a Videolina  il 21-11-2014)

Poesia: Su patriota sardu a sos feudatarios

Su patriota sardu a sos feudatarios de Frantzsicu Innatziu Mannu est de seguru s’Innu poeticu prus famadu chi tenimus. S’intelletuale otieresu in 47 otavas, a sa moda de sos gosos, contat s’opressione feudale e cantat sas rebbellias de su populu sardu, ma mescamente de sos massajos. Rebellias chi pertocant unu trintènniu rivolutzionariu e no unu trienniu ebbia, comente galu acuntesset de leghere in unos cantos libros: ca cumintzant in su 1780 e agabbant cun sa rebbellia, eroica e isfortunada de Palabanda in su 1812 in Casteddu.
Est una poesia de importu, ca dae issa podimus cumprendere unu tretu mannu de s’istoria sarda, in ue s’afortint sas raighinas de sa Sardigna moderna. Su pobulu – iscriet Mannu – chi in profundu/Letargu fit sepultadu/Finalmente despertadu/S’abbizzat ch ‘est in cadena,/Ch’istat suffrende sa pena/De s’indolenzia antiga. E duncas, a pustis de seculos e seculos de acunortadura, artziat s’ischina e ca conca e narat “bastat” a s’opressione e a sa tirannia de sos barones, a sa lege inimiga de su feudalesimu. Ca in base a custa lege su sardu est suggettu/A milli cumandamentos,/Tributos e pagamentos/Chi faghet a su segnore,/In bestiamene et laore/In dinari e in natura,/E pagat pro sa pastura,/E pagat pro laorare.

 

Presentazione di “Letteratura e civiltà della Sardegna” a Quartu Sant’Elena

Sabato 22 novembre 2014 ore 9 ex Convento dei Cappuccini, via Brigata Sassari Quartu Sant’Elena (CA)

L’Associazione culturale ITAMICONTAS e l’Associazione culturale “Eliseo Spiga” organizzano la Presentazione della

LETTERATURA E CIVILTA’ DELLA SARDEGNA di FRANCESCO CASULA (2 volumi, Edizioni Grafica del Parteolla-Dolianova)

Coordina i lavori Ivo Murgia, Portalitu de sa Lìngua sarda de sa Provìncia de Casteddu, de Quartu e de Mara

Presenta l’Opera Gianluca Scroccu, storico e studioso di storia contemporanea e della Sardegna, borsista all’Università di Cagliari

Interverranno Guido Sarritzu, Assessore alla Cultura e Lingua sarda al Comune di Quartu

Dott.ssa Claudia Zuncheddu dell’Associazione culturale “Eliseo Spiga” …

Dottor Giulio Solinas, scrittore bilingue

Maddalena Frau, poetessa, che leggerà alcune sue poesie contenute nell’Opera

Leggeranno alcuni passi e poesie tratte dall’Opera Enrica Boy e Francesca Serra.

Musiche Mario Murgia e Antoni Solmo

Conclude Francesco Casula Autore dell’Opera.

LETTERATURA E CIVILTA’ DELLA SARDEGNA di FRANCESCO CASULA (2 volumi, Edizioni Grafica del Parteolla-Dolianova)

L’opera in due volumi, è il frutto di un lavoro di dieci anni ed è rivolta soprattutto ai giovani e agli studenti.

Il primo volume tratta dell’attività letteraria in Sardegna dalla nascita della lingua sarda e dai primi docu­menti per proseguire con gli Autori che formano le fondamenta della nostra letteratura: Antonio Cano, Sigi­smondo Arquer, Girolamo Araolla, Giovanni Matteo Garipa e Fra Antonio Maria da Esterzili durante il dominio catalano-aragonese e spagnolo; Efisio Pintor Sirigu, Francesco Ignazio Man­nu, Diego Mele, Peppino Mereu e l’autore sconosciuto di Sa scomuniga de Predi Antiogu nel Settecento-Ottocen­to; Giambattista Tuveri, Antonio Gramsci e Emilio Lussu per un «nuo­vo stato e un nuovo ordine sociale». Tra i romanzieri del 1900-2000 sonò, stati scelti Grazia Deledda, Salvatore Satta e Giuseppe Dessì. Per racconta­re il banditismo e la società del males­sere, ho indicato Antonio Piglia­ru, Michelangelo Pira e Giuseppe Fio­ri.

Sebastiano Satta è l’autore in lingua italiana inserito nel capitolo sulla letteratura identitaria del 1900-2000 insieme a Salvatore Cambosu. Mentre tra gli autori in lingua sarda fi­gurano il desulese Antioco Casula (Montanaru) e Pedru Mura di Isili.

Il secondo volume si apre con Benvenuto Lobina, Francesco Masala e Antonio Cossu per arrivare fino ai nostri giorni con scrittori e poeti sia in Italiano (da Antonio Cossu e Giulio Angioni a Efisio Cadoni, Sergio Atzeni e Flavio Soriga) che in Lingua sarda: fra questi ultimi ricordo il romanziere Gianfranco Pintore e i poeti Franco Carlini (Domusnovas), Giovanni Piga (nuorese), Maddalena Frau (ollolaese), Paola Alcioni (cagliaritana).

Nel volume è presente anche Nereide Rudas, Michele Columbu,  Raimondo Manelli e Salvatore Niffoi.

Complessivamente, nei due volumi, agli Autori e ai testi in Sardo è dedicato uno spazio che supera il 50/% del totale.

Il criterio con cui sono stati scelti gli Autori è l’Identità sarda  Ovvero una specifica e particolare sensibilità locale, ovvero “una appartenenza totale alla cultura sarda, separata e distinta da quella italiana” diversa dunque e irrimediabilmente altra, come scrive il critico sardo Giuseppe Marci.

In altre parole sono stati scelti gli Autori – per dirla con il gavoese Antonello Satta – che “sappiano andare per il mondo con pistoccu in bertula, perché proprio in questo andare per il mondo, mostrano le stimmate dei sardi e, quale che sia lo scenario delle loro opere, vedono la vita alla sarda”.

29 de donniasantu 1847:Cando ant furadu su Parlamentu a sa Sardigna

29 de donniasantu 1847:Cando ant furadu su Parlamentu a sa Sardigna

di Francesco Casula

Il 29 novembre prossimo ricorre  il 167° Anniversario di una data infausta per la Sardegna: la Fusione perfetta con gli stati sabaudi di terraferma, Con essa l’Isola veniva deprivata del suo Parlamento e finiva così il Regnum Sardiniae.

Se si è scritto che siano stati i Sardi stessi a rinunciarvi. Si tratta di una grossa balla: non è assolutamente vero. A chiedere  la Fusione, che verrà decretata da Carlo Alberto, furono alcuni membri degli Stamenti di Cagliari e di Sassari, senza alcuna delega né rappresentatività né stamentaria né, tanto meno, popolare. Il Parlamento neppure si riunì. Tanto che Sergio Salvi, lo scrittore e storico fiorentino gran conoscitore di cose sarde ha parlato di “rapina giuridica”.

Mi si potrà obiettare : e le manifestazioni pubbliche che si svolsero a Cagliari (dal 19 al 24 novembre) e a Sassari nel 1947 non servono come titolo di rappresentatività popolare? Non sono esse segno e testimonianza che la popolazione sarda voleva e richiedeva la Fusione?

Per intanto occorre chiarire che quelle pubbliche manifestazioni, erano poco rappresentative della popolazione sarde in quanto i partecipanti appartenevano sostanzialmente ai ceti urbani. Ma soprattutto esse rispondevano esclusivamente agli interessi della nobiltà ex feudale, illecitamente arricchitasi, con la cessione dei feudi in cambio di esorbitanti compensi, che riteneva più garantite le proprie rendite dalle finanze piemontesi piuttosto che da quelle sarde. Nella fusione inoltre  vedevano una possibile fonte di arricchimento la borghesia impiegatizia e i ceti mercantili. Dentro la cortina fumogena del riformismo liberale europeo, avanzavano inoltre anche in Sardegna, spinte ideologiche e patriottarde – rappresentate soprattutto dalla borghesia intellettuale (avvocati, letterati, professionisti in cerca di lustrini) e dagli studenti universitari – che vedevano nella Fusione la possibilità che venissero estese anche alla Sardegna riforme liberali quali l’attenuazione della censura sulla stampa, la limitazione degli abusi polizieschi, qualche libertà commerciale e persino un primo passo verso l’unificazione degli Stati italiani.

“Per la ex nobiltà feudale – scrive Girolamo Sotgiu –  la conservazione delle vecchie istituzioni non aveva alcun interesse. La possibilità di conservare un peso politico era ormai data soltanto dalle posizioni da conquistare nelle istituzioni militari e civili del regno sabaudo e dalla conservazione di una forza economica fondata non più tanto sul possesso della terra, quanto delle cartelle del debito pubblico, e « le cedole di Sardegna – come afferma il Baudi di Vesme – colla riunione delle due finanze [avrebbero acquistato]  il dieci e più per cento di valore commerciale, ed il capitale che dava cinque lire di entrata, e [che si vendeva ] a lire  108 sarebbe immediatamente salito alle 120 e più» 1

Comunque se le stesse Manifestazioni contengono una serie di ambiguità, specie rispetto agli obiettivi che si proponevano, in ogni caso ben altre e diverse erano le aspirazioni delle masse popolari, urbane come quelle dei pastori e contadini e difforme l’atteggiamento verso il Piemonte.

Scrive ancora Girolamo Sotgiu:”Che gli orientamenti più largamente diffusi fossero diversi è dimostrato da molti fatti. L’ostilità contro i piemontesi era forte come non mai, e le riforme erano viste anche come strumento per alleggerire il peso di un regime di sopraffazione politica che era tanto più odioso in quanto esercitato dai cittadini di un’altra nazione; per ottenere cioè non una fusione ma quanto più possibile di separazione”. 2

Tanto che lo storico piemontese Carlo Baudi di Vesme scrive che “correvano libelli sediziosi forieri della tempesta e quasi ad alta voce si minacciava un rinnovamento del novantaquattro”.3

Ovvero una nuova cacciata dei piemontesi, considerati i responsabili principali della drammatica situazione economica aggravata dalla crisi delle campagne ( fallimento dei raccolti) e dall’esosità del fisco. Lo stesso Vesme ricorda ancora che “un sarto, per nome Manneddu, sollevò il grido di Morte ai Piemontesi in teatro, nel colmo delle manifestazioni di esultanza per la concessione delle riforme”. 4

E sulla Torre dell’Elefante, a Cagliari, il giorno della partenza per Torino di alcuni membri degli Stamenti, il 24 novembre, per chiedere la sciagurata fusione, apparve un manifesto con la scritta:Viva la lega italiana/e le nuove riforme/Morte ai Gesuiti e ai piemontesi/Concittadini:ecco il momento disiato/della sarda rigenerazione.

Giovanni Siotto Pintor inoltre scrive che nei giorni delle dimostrazioni “Moltissimi contadini di Teulada traevano a Cagliari credendo a una rivolta” per sostenerla e rafforzarla e che “cinquecento armati del vicino paese di Selargius stavano pronti a venire al primo avviso” e che “v’erano uomini di Aritzo, d’Orgosolo, di Fonni mandati per sapere se [c’era] mestieri d’aiuto nel qual caso [sarebbero venuti] otto centinaia di uomini armati”. 5

Con la Fusione Perfetta con gli stati del continente, la Sardegna perderà ogni forma residuale di sovranità e di autonomia statuale per confluire nei confini di uno stato più grande e il cui centro degli interessi risultava naturalmente radicato sul continente. L’Unione Perfetta non apportò alcun vantaggio all’Isola, né dal punto di vista economico, né da quelli politico, sociale e culturale. Tale esito fallimentare, fu ben chiaro sin dai primi anni  con l’aggravamento fiscale e una maggiore repressione che sfociò nello stato d’assedio, – che divenne sistema di governo –  sia con Alberto la Marmora (1849) che con il generale Durando (1852)

Gli stessi sostenitori della Fusione, ad iniziare da Giovanni Siotto-Pintor, parlarono di follia collettiva, riconoscendo l’errore. Errammo tutti, ebbe a scrivere Pintor.

Gianbattista Tuveri sostenne che dopo la Fusione “La Sardegna era diventata una fattoria del Piemonte, misera e affamata di un governo senza cuore e senza cervello”.

 

Note Bibliografiche

1. Girolamo Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda, Edizioni Laterza, Roma.Bari, 1984, pag. 306.

2. Ibidem, pagg. 307-308

3. Carlo Baudi di Vesme, Considerazioni politiche ed economiche sulla Sardegna, Stamperia reale, Torino 1848 pag.181.

4. Ibidem, pag. 189.

5. Giovanni Siotto Pintor, Storia civile dei popoli sardi dal 1798 al 1848, Casanova, Torino, 1877, pag. 518.

 

 

S’EMIGRAZIONE DE SOS SARDOS IN S’ISTORIA de Frantziscu Casula

S’EMIGRAZIONE DE SOS SARDOS IN S’ISTORIA de Frantziscu Casula

Programma di Videolina ore 22.00 del 14-11-2014

Pimpirias

condotta da Tore Cubeddu

Testo scritto della mia Intervista che ha aperto la trasmissione

Su Emigrazione e Immigrazione

Sos Sardos cumintzant a emigrare in s’agabbu de s’Otighentos pro curpa de sa politica de su Guvernu italianu chi in Sardigna (e in totu su Meridione) produit una crisi economica e sotziale manna, manna meda. Acuntesset custu: su capu de su Guvernu Frantziscu Crispi in su 1887 segat sos raportos cumertziales cun sa Franza e custa pro vengantzia e ritorsione non comporat prus sos produtos agriculos e pastorales dae sa Sardigna ( su binu, su casu, sa petza, etc.). S’economia sarda est a culu in terra ca sa Sardigna non tenet prus su mercadu frantzesu. Duncas sos pretzios de sos produtos agriculos mìnimant semper de prus, de su late comente de su binu, chi dae 30-35 e finas 40 liras a etolitru mìnimant a 6-7 liras. Unu disacatu mannu: massajos e pastores non podent tirare sa vida cun cusssos pretzios e duncas cumitzant a emigrare: in prus de chentu migia andant a Europa, finas a Africa ma mescamente a America (Argentina mescamente).

Un’atera unda de emigratzione la tenimus in sos annos chimbanta/sessanta: propiu cando in Italia connoschent su boom economicu in Sardigna, de custu, no intendimus mancu su fragu e sighimus a lassare s’Isula pro su disterru a Germania, Olanda o a sa Fiat in Torinu. Dae su 1954 a su 1970 prus de 400 migia Sardos lassant sa Sardigna. Sa de tres undadas de emigratzione la semus bidende oe etotu: cun sos giovanos laureados chi no agatant traballu inoghe e si nch’andant a foras.

 

S’Emigratzione de sos Sardos in s’Istoria de Frantziscu Casula

S’EMIGRAZIONE DE SOS SARDOS IN S’ISTORIA

Programma di Videolina ore 22.00 del 14-11-2014

Pimpirias

condotta da Tore Cubeddu

Testo scritto della mia Intervista che ha aperto la trasmissione

Su Emigrazione e Immigrazione

Sos Sardos cumintzant a emigrare in s’agabbu de s’Otighentos pro curpa de sa politica de su Guvernu italianu chi in Sardigna (e in totu su Meridione) produit una crisi economica e sotziale manna, manna meda. Acuntesset custu: su capu de su Guvernu Frantziscu Crispi in su 1887 segat sos raportos cumertziales cun sa Franza e custa pro vengantzia e ritorsione non comporat prus sos produtos agriculos e pastorales dae sa Sardigna ( su binu, su casu, sa petza, etc.). S’economia sarda est a culu in terra ca sa Sardigna non tenet prus su mercadu frantzesu. Duncas sos pretzios de sos produtos agriculos mìnimant semper de prus, de su late comente de su binu, chi dae 30-35 e finas 40 liras a etolitru mìnimant a 6-7 liras.
Unu disacatu mannu: massajos e pastores non podent tirare sa vida cun cusssos pretzios e duncas cumitzant a emigrare: in prus de chentu migia andant a Europa, finas a Africa ma mescamente a America (Argentina mescamente).

Un’atera unda de emigratzione la tenimus in sos annos chimbanta/sessanta: propiu cando in Italia connoschent su boom economicu in Sardigna, de custu, no intendimus mancu su fragu e sighimus a lassare s’Isula pro su disterru a Germania, Olanda o a sa Fiat in Torinu. Dae su 1954 a su 1970 prus de 400 migia Sardos lassant sa Sardigna. Sa de tres undadas de emigratzione la semus bidende oe etotu: cun sos giovanos laureados chi no agatant traballu inoghe e si nch’andant a foras.

 

GIUSEPPE DESSI’ E LA SARDEGNA di Francesco Casula

Università della Terza età UTE

Sanluri 11-11-2014 Conferenza su

GIUSEPPE DESSI’ e LA SARDEGNA

di Francesco Casula 

L’intera opera di Giuseppe Dessì (dai Romanzi, alle Opere teatrali, ai Racconti) la possiamo considerare una vera e propria sonda infilata nel passato della Sardegna di cui racconta, rappresenta, almanacca e registra segni etnologici e antropologici; un bastimento carico di, di riti e tradizioni, di cultura materiale e immateriale; un incunabolo dell’identità etno-nazionale e linguistica dei Sardi.Ma. Soprattutto Paese d’Ombre rievoca, criticamente, molte vicende storiche che hanno caratterizzato e segnato drammaticamente i Sardi, segnatamente dalla Legge delle chiudende all’Eccidio di Buggerru, passando per l’Unità d’Italia.

1-Perché la Sardegna?

Nell’introduzione ai Passeri (1955) Dessì domandava e rispondeva: “Perché in Sardegna? mi si chiederà ancora una volta. Perché a parte le ragioni storiche e artistiche che richiederebbero un troppo lungo discorso, come ci insegnano Spinosa, Leibniz, Einstein e Merleau-Ponty, ogni punto dell’universo è anche il centro dell’universo”. In ciò, in sintonia con Balzac che diceva “Se vuoi essere veramente universale parla del paese dove sei nato” e con Leone Tolstoi:”Descrivi il tuo paese e sarai universale”. 

2. –La legge delle chiudende

Prima della Legge delle chiudende“Una legge famigeratache sovvertiva un ordine durato nell’Isola da secoli… il terri­torio era praticamente disponibile per gli abitanti, sia che fosse di priva­ti, sia che appartenesse al feudatario, al Comune o al Re. Tranne una piccola zona intorno al centro abitato, divisa in due porzioni, il vidaz­zone e il paberili, coltivate per quote distribuite fra tutti i capifamiglia del villaggio, e ad anni alterni lasciate a riposo pascolativo”. 

3. –La distruzione dei boschi

-“Nel 1740, il re aveva concesso al nobile svedese Gustavo Mandell, il diritto di sfruttare tutte le miniere di Parte d’Ispi in cambio di una esigua percentuale  sul minerale raffinato, e gli aveva permesso di prelevare nelle circostanti foreste il carbone e la legna per le fonderie, costringendo i comuni a vere e proprie corvè e distruggendo così il patrimonio forestale della regione”.

-“La salvaguardia delle foreste sarde non interessava ai governi piemontesi, la Sardegna continuava ad essere tenuta nel conto di una colonia da sfruttare, specialmente dopo l’unificazione del regno”. 

4. –La Sardegna diventa “italiana” per un baratto di guerra :

La  “La Sardegna era entrata nell’unità nazionale moralmente ed economicamente fiaccata. I Savoia, che ne erano venuti in possesso col Trattato di Londra, avevano continuato e semmai accentuato lo sfruttamento e il fiscalismo, tanto che i sardi per due volte cercarono di liberarsene. La prima fu nel 1794 quando, a furor di popolo, costrinsero i piemontesi a lasciare l’isola, la seconda nel 1796 quando Sassari proclamò la repubblica, soffocata poi nel sangue”. 

5. –L’Unità d’Italia

“Era stato soltanto ingrandito il regno del re sabaudo…la vera faccia dell’Italia non era quella che aveva sognato con tanti altri giovani, ma quella che sentiva urlare nella bettola, divisa come prima e più di prima, giacchè l’unificazione non era stato altro che l’unificazione burocratica della cattiva burocrazia dei vari stati italiani. Questi sardi impoveriti e riottosi non avevano nulla a che fare con Firenze, Venezia, Milano, con Torino, che considerava l’Isola come una colonia d’oltremare, o una terra di confino. In realtà fra gli stessi italiani del Continente, non c’era in comunione se non un’astratta e retorica idea nazionalistica, vagheggiata da mediocri poeti e da pensatori mancati. Persino l’idea della libertà, quale l’aveva espressa la rivoluzione francese, contrastava con l’unità italiana quale era uscita dalle mani di Mazzini e di Garibaldi che, entrambi in modo diverso, avevano finito per tradire la causa per la quale avevano chiesto il sacrificio di tanti giovani vite”.

-“Il governo regio e i fanatici dell’unificazione non avevano tenuto conto delle differenze geografiche e culturali e avevano applicato sbrigativamente a tutta l’Italia un uniforme indirizzo politico e amministrativo”.

6. –La Guerra delle tariffe e le conseguenze sull’Isola

La “Guerra delle tariffe” con la Francia aveva interrotto le esportazioni in questo paese e diversi istituti bancari erano falliti. Clamoroso fu il fallimento del Credito Agricolo Industriale Sardo e della Cassa del Risparmio di Cagliari. 

7. -Il Fiscalismo del dopo Unità d’Italia

La legge del 14 luglio 1864 aveva aumentato le imposte di cinque milioni per tutta la penisola, e di questi oltre la metà furono caricati sulla sola Sardegna, per cui l’isola si vide triplicare di colpo le tasse.

In molti paesi del Centro, quando gli esattori apparivano all’orizzonte, venivano presi a fucilate e se ne tornavano, a mani vuote, ma più spesso l’esattore, spalleggiato dai Carabinieri, metteva all’asta casette e campicelli e tutto questo senza che nessuno tentasse di difendere gli isolani. I politici legati agli interessi del governo, predicavano la rassegnazione. I sardi si convincevano di essere sudditi e non concittadini degli italiani…” 

8. L’Italia dei prefetti e dei generali

“Dopo la fiammata del Risorgimento, era cominciata l’Italia istituzionale dei prefetti e dei generali, l’Italia della tassa sul macinato e di Dogali, che possedeva soltanto di nome indipendenza, unità e libertà e nelle sterili polemiche fra Destra e Sinistra si delineava l’inetta classe dirigente che doveva accompagnarla verso la grande guerra e il fascismo”. 

La strage di Buggerru

-“Bava Beccaris era nell’aria e con esso il suo demente insegnamento”.

-“…qualcuno rimasto sempre sconosciuto, diede un ordine secco ed energico che i soldati eseguirono automaticamente. Come un sol uomo si fermarono, puntarono a terra il calcio dei fucili, inastarono la baionetta, poi con gesto rapido, sicuro, fecero scorrere il carrello di scaricamento, misero la pallottola in canna. Non tutti lasciarono partire il colpo, ma molti lo fecero, e furono soddisfatti del loro gesto. Quella cartuccia li avrebbe salvati. Più tardi durante l’inchiesta risultò che i fucili avevano sparato da soli e che le autorità ignoravano che i soldati avessero le giberne piene di cartucce”.

-“La notizia della strage rimbalzò per tutta l’Italia operaria. A Milano fu comunicata alla folla durante un comizio di protesta e provocò uno sciopero generale in tutta la Penisola.

Solo la Sardegna rimase senza eco, e il silenzio di Buggerru, dopo la strage, in quel triste pomeriggio di settembre era il simbolo del silenzio di tutta l’isola nella compagine nazionale”.