I trombettieri di Renzi. Ovvero i piscia tinteris e la zerbinocrazia

Francesco Casula

Il mal vezzo di salire nel carro dei vincitori e di adulare i potenti è un tratto peculiare della storia italiana. Ad iniziare da molti storici romani, cronachisti medievali, cortigiani rinascimentali, velinari fascisti. Lo storico Santo Mazzarino in tre monumentali volumi sul “Pensiero storico classico” (Ed. Laterza) sostiene alla luce di un enorme cumulo di documenti, di scoperte e di ritrovamenti archeologici che buona parte della storia romana – quella insomma che abbiamo studiato a scuola – è stata inventata spesso di sana pianta, dagli storici latini e dai cronachisti di quel periodo. E il tutto per esaltare i Cesari, e per mitizzare la virtus romana e il popolo eletto dagli dei per regere imperio populos. “Romanità” che, ohimè, ammorba ancora, mistificandola e falsificandola, la storia italiota, quella risorgimentale in specie. Non sono da meno in quanto a mancanza di rigore storico e a svarioni, o addirittura a veri e propri falsi, gli storici “cristiani” medievali: fra l’altro “inventarono” un documento secondo cui l’imperatore Costantino con un decreto avrebbe donato a Papa Silvestro i territori di Roma e del Lazio. Con tale documento apocrifo volevano giustificare e legittimare il potere temporale dei papi e della Chiesa. Ci avrebbe poi pensato Lorenzo Valla, umanista brillante e colto, a demistificare e sbugiardare tale falso, con le armi finissime e scientifiche della filologia, della paleografia e dell’archeologia, con un celebre opuscolo ”De falso credita et ementita Constantini donatione” del 1440. Con il Rinascimento la gran parte degli scrittori e “intellettuali” diventano cantori e giullari dei Principi. Cortigiani. In tempi a noi più vicini, durante il fascismo, – pur con lodevoli ed eroiche eccezioni – specie i giornalisti, diventano semplici velinari. Durante il fascismo, bene in evidenza sotto la testata dell’Unione Sarda in prima pagina campeggiava la scritta:” Dove il Duce vuole”. Nell’Italia “democratica” la piaggeria e il servilismo nei confronti dei nuovi potenti continua da parte dei Media: in primis della Rai-Tv. In cui la censura permane, brutale. A farne le spese sono – ma è solo un esempio – due comici particolarmente urticanti e corrosivi: Dario Fo e Beppe Grillo. Dario Fo (premio Nobel per il teatro nel 1997) insieme a Franca Rame, nel 1962, è conduttore e autore dei testi del varietà Canzonissima. Le sue scenette sulla mafia e sulle fabbriche (in particolare quelle che parlano di incidenti sul lavoro) non piacciono ai vertici della RAI. I due sono costretti ad abbandonare la trasmissione. Beppe Grillo viene allontanato dalla televisione nel 1986. Durante un programma attacca duramente i socialisti (racconta che quando Craxi era andato in Cina accompagnato da decine di compagni di partito, Claudio Martelli, il suo vice, gli ha domandato: “Ma se sono tutti socialisti, a chi rubano?”). Con Berlusconi, attraverso il cosiddetto“decreto bulgaro”, gli strali della censura colpiscono soprattutto, insieme a due giornalisti di gran vaglia come Enzo Biagi e Michele Santoro, l’autore satirico Daniele Luttazzi. Gli è che i potenti hanno paura della satira perché niente è più irriverente ed eversivo del sorriso. Che può frantumare i bastioni della paura, rendendo ridicolo il potente. Il sorriso è infatti capace di scomporre gerarchie sociali e indebolire il sistema. Che viene sezionato e raccontato con le parole acuminate dell’ironia. Ecco perché il potere non tollera la satira e, quando può cerca di cancellarla. La satira per sua natura é beffarda e dissacrante, deve decostruire per poter modificare, é una lente di ingrandimento che può sminuire o enfatizzare o comunque disvelare ogni giustificazione, vanagloria, e presunzione che affligga personaggi come il ragazzotto di Firenze. Non a caso nell’era Renzi la satira è pressoché scomparsa. E non ha nemmeno avuto bisogno di censure e decreti. E’ bastata l’autocensura. Per cui oggi assistiamo al degrado e all’assoggettamento dei Media, ove la parola d’ordine pare sia “accondiscendenza sempre e comunque” e non solo nei riguardi del potere ma del pensiero dominante, in ordine a ogni tipo di vicenda: dalla cronaca al calcio allo spettacolo. All’opera un esercito di giornalisti (e intellettuali?) infeudati, cortigiani e adulatori:la “zerbinocrazia”, li chiama Marco Travaglio, i piscia tinteris e gli imbrutta paperi li chiamava il nostro più grande poeta etnico, Cicitu Masala. In servizio permanente, nel tentativo (in parte riuscito) di cloroformizzare l’opinione pubblica, per assicurare consensi e voti a un sistema politico ed economico inetto e cialtrone o comunque mediocre e spesso ottuso e corrotto. Un sistema che – a leggere i giornali e guardare la TV – ci regalerebbe o comunque ci regalerà benessere e prosperità. Non avvedendosi che ci sta invece inabissando in un malessere viepiù insopportabile: con l’attentato alla Costituzione,. modificandola in senso autoritario, una legge elettorale liberticida, l’ulteriore precarizzazione del lavoro, la devastazione della scuola, la derubricazione della Questione meridionale e di quella sarda in specie, dall’Agenda del Governo. E il giornalista cane da guardia del potere? Almeno in Italia – salvo rarissime eccezioni – è scomparso. E’ diventato “cane da compagnia, o da riporto” per citare ancora Travaglio. E mi pare persino inutile consigliare allo stuolo dei velinari renziani di rileggersi Voltaire che nel suo “Del principe e delle lettere” ci esorta a meditare sul ruolo dell’informazione e dell’intellettuale in genere: “il suo campo – scrive – non può essere che quello della libertà…l’opera dell’intellettuale deve essere mantenuta separata dal potere, qualunque forma esso assuma, altrimenti significherebbe abdicare alla propria funzione di libertà”. Sullo stesso crinale si muove Varlan Shalamov, uno scrittore perseguitato dal regime sovietico che sostiene “ogni scrittura è sempre una scrittura contro il potere”. O Albert Camus, secondo il quale lo scrittore doveva essere la sentinella dei diritti dell’uomo e presidiare la dignità umana, dovunque fosse violata, facendo emergere – come sosteneva Gorky – ciò che è in ombra. – See more at: http://www.manifestosardo.org/i-trombettieri-di-renzi-ovvero-i-piscia-tinteris-e-la-zerbinocrazia/#sthash.AfGg85YS.T6KFxFhK.dpuf

ANTONIO PIGLIARU

Università della Terza Età di Quartu 9° lezione 17-12-2015

IL BANDITISMO E LA SOCIETA’ DEL MALESSERE, I CODICI BARBARICINI E I SUOI “ANALISTI”: PIGLIARU E PIRA.
A cura di Francesco Casula

1. ANTONIO PIGLIARU
Il giurista, lo scrittore e lo studioso della “vendetta barbaricina” (1922-1969)
Antonio Pigliaru nasce a Orune (Nu) il 17 agosto 1922. Nel corso degli anni fu prima docente universitario di Filosofia del diritto e di Diritto agrario e infine Ordinario di Dottrina dello Stato nell’Università di Sassari.
Il suo libro più famoso rimane La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico (1959) che resta, insieme ad altri scritti ripubbli­cati ora nel volume postumo Il banditismo in Sardegna (1970), un testo fondamentale per la conoscenza del più drammatico dei nodi storici della «questione sarda»: il banditismo appunto.

Presentazione del testo [tratto da Il Banditismo in Sardegna- La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, art. 1-2-11 dei Principi generali del codice, pagg.112-113, 119, Giuffrè editore, Varese 1975]

Il codice della vendetta barbaricina è ritenuto un vero capolavoro di antropologia giuridica tutto teso a dare risposte razionali al più angosciante problema della Sardegna dei suoi tempi, il banditismo appunto, -siamo negli anni ’60-’70- anzi di quella Barbagia in cui l’autore era nato. Un’indagine di antropologia giuridica ed etnografica di una comunità. L’argomento centrale è quello della vendetta ma finisce per anticipare un tema oggi centrale nel dibattito delle scienze sociali: la regolazione sociale, ossia l’insieme delle regole non scritte che governano le relazioni fra gli individui all’interno di una società locale che sono cruciali per il suo funzionamento e che Pigliaru chiama ordinamento giuridico. Lo studio è condotto nella zona di Orune (Nuoro) e –come ha messo in luce Luigi Lombardi Satriani- sarà destinato a rimanere per molti anni un caso singolare di indagine sulle regole dell’antagonismo e della conflittualità sociale nelle aree pastorali sarde.
I primi due articoli e l’undicesimo del codice della vendetta -in tutto sono 23- relativo alle azioni ritenute offensive, tendono a illuminare i valori che sottendono le relazioni fra gli individui. Si tratta di valori che stanno in qualche modo a monte degli altri articoli del codice e che rimandano ai meccanismi regolativi di una specifica società locale, quella agropastorale.

 

PRINCIPI GENERALI
 “1. – L’offesa deve essere vendicata.
Non è uomo d’onore chi si sottrae al dovere della vendetta, salvo nel caso che, avendo dato con il complesso della sua vita prova della virilità (a), vi rinunci per un superiore motivo morale (b).
2. – La legge della vendetta obbliga tutti coloro che ad un qualsivoglia titolo vivono ed operano nell’ambito della comunità (c )…
11. – Un’azione determinata è offensiva quando 1’evento da cui dipende l’esistenza di essa offesa è preveduto e voluto allo scopo di ledere l’altrui onorabilità e dignità.”

ANALIZZARE
Tre sono i concetti di tipo sociologico attorno a cui ruotano i tre articoli riportati, di questo ordinamento: quello di onore, quello comunità, e quello di accettazione all’interno delle comunità della violenza-vendetta a fini regolativi.
Colui che non si vendica non è un uomo d’onore al­l’interno della sua comunità. Questo significa concretamente che la perdita sociale dell’onore colpirà colui che non adempie al dovere di vendicare l’offesa: una necessità richiesta dalla comunità.
Que­sta perdita, è la motiva­zione del fatto che la vendetta dell’offesa è considerata una necessità, sempre all’interno della comunità. Il suo sforzo è quello di dimostrare come sia l’ordinamento sia la pratica della vendetta della società barbaricina sono qualcosa di profondamente diverso dall’ordinamento e dalla pratica della vendetta della “società dei ladroni”. Non si esauriscono quindi nel chiuso della società dei fuorilegge -che pure opera nello stesso ambito geografico- ma operano assai più ampiamente, informando di sé l’intero sistema di vita della Barbagia e per estensione, di tutta la Sardegna.
Per Pigliaru infatti, all’interno della società barbaricina il codice della vendetta non ha un valore strumentale, non difende gli interessi individuali ma gli interessi generali della comunità, non è pratica interna a un sottogruppo ma regola interna e condivisa della comunità: un codice non scritto, ma non perciò meno obbligante.
A questo proposito l’autore è chiarissimo: “La pratica del sistema della vendetta non si presenta come pratica individuale, ma sociale, quindi non come pratica di alcuni della comunità, ma di tutta la comunità: cioè come una pratica voluta, per dare alla propria vita, un sistema di certezze volute da tutta la comunità”.
Lo stile si traduce in un ampio periodare, in una prosa rigorosa e poetica insieme, nel mettere in evidenza alcune parole e su di esse ritornare in un crescendo linguistico che non è mai gioco verbale ma è anche crescendo problematico.

 
2. MICHELANGELO PIRA
L’antropologo, lo scrittore, lo studioso delle dinamiche culturali e sociali. (1928-1980)
Nasce a Bitti (Nuoro) nel 1928 da una famiglia di pastori.
Nel 1974 abbandona la carriera di funzionario al Consiglio regionale e assume l’incarico di docente di Antropologia culturale presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Cagliari. Il risultato più importante della sua attività accademica è il saggio La rivolta dell’oggetto. Antropologia della Sardegna, la sua opera principale, considerata come un contributo determinante per comprendere le dinamiche culturali operanti nell’Isola tra gli anni cinquanta-ottanta.
Negli ultimi anni scriverà nella varietà bittese della lingua sarda, Sos sinnos, un romanzo-saggio che sarà pubblicato postumo nel 1983. Sempre postuma verrà pubblicata l’opera Paska Devaddis, Tre radiodrammi per un teatro dei sardi.
Muore improvvisamente a Cagliari il 3 Giugno del 1980.
Presentazione del testo” [tratto da La rivolta dell’oggetto- Antropologia della Sardegna, Editore Giuffrè, Milano 1975, pagg.251-255].
 
La Rivolta dell’oggetto, possiamo definirlo una vera e propria summa di tutto il lavoro svolto dall’antropologo di Bitti, soprattutto durante la sua attività universitaria ma anche negli anni precedenti.
“Questo libro – è lo stesso studioso a scriverlo nella premessa-  è dettato dal bisogno, anche personale, di mette­re ordine con strumenti critici (segnatamente quelli forniti dalla lin­guistica, dalla semiotica o semiologia, dall’antropologia culturale e nel complesso dal materialismo storico) negli effetti contraddittori di un’esperienza incominciata una quarantina d’anni fa nella scuo­la elementare di un paese della Barbagia, quando un bambino si sentì dire che il suo nome e il suo cognome non erano quelli che credeva di sapere fin dalla nascita e con i quali fino a quel momen­to era stato «chiamato» da tutti, riconosciuto e istituito come sog­getto, ma erano altri, nei quali si sentì trattare come un alunno­-oggetto e nei quali faticò non poco a riconoscersi, a re-istituirsi co­me soggetto”.
Quel bambino, – che poi è lo scrittore stesso- che per tutti era sempre stato fino ad allora, Mialinu de Crapinu: per la famiglia come per la comunità ma soprattutto per se stesso, a scuola, nella scuola “ufficiale”, dello Stato, si sente nominare Pira Michelangelo. Di qui la lacerazione e la mutilazione culturale prodotta dalla negazione della sua identità, specie linguistica “Ora che a subire la lacerazione e la mutilazione culturale e ad averne coscienza non sono più soltanto pochi intellettuali, – scrive ancora Pira nella premessa- ma sono grandi masse popolari, di uomini e donne costretti a migrazioni bibliche e a riciclaggi dolorosi e alienanti, quel progetto si sviluppa in programma di rivolta: è già una rivolta”.

 
UN’IDENTITA’ IN DIVENIRE
“Il Vicerè non aveva alcun obbligo di essere bilingue; alla traduzione dei suoi ordini potevano provvedere intellettuali bilingui suoi dipendenti. Il presidente della Regione (per dire le istituzioni e organizzazioni politiche sarde autonomiste) ha 1’obbligo di essere compiutamente bilingue: il suo compito non è quello di trasmettere ordini di una
sovranità esterna bensì quello di farsi estensione di una sovranità interna partecipando alla costruzione di questa.
Egli deve capire quel che si vuol fare della Sardegna da parte dei poteri esterni all’Isola, ma anche e soprattutto deve capire quel che la Sardegna vuol fare di se stessa e dei suoi rapporti con i suoi interlocutori esterni. E la volontà interna si forma e si individua sia parlando in sardo, sia parlando in italiano.
Ma l’obbligo di farsi compiutamente bilingue (cioè in grado di conoscere criticamente e di dominare tutti i codici)…
Con l’istituzione della Regione Autonoma a Statuto Speciale, in Sardegna, sono passati in seconda linea, per qualche decennio, i problemi della ricerca della identità culturale. La pseudoborghesia sarda, ormai «acculturata», anziché volgersi alle problematiche del­l’affermazione della propria autonomia culturale, ha dedicato ogni suo sforzo alla realizzazione del progetto di assimilazione di sé alla borghesia delle altre regioni «più evolute», accettando di fatto una condizione subalterna e privilegiando le problematiche
econo­micistiche. Paradossalmente, con l’autonomia regionale, la tenden­za borghese all’unità italiana come uniformità si è venuta accen­tuando.
Fra gli intellettuali della sinistra, soprattutto in questi ultimi anni, si è venuto sviluppando il sospetto che dietro l’autonomia re­gionale siano passati un più efficace depotenziamento della cultura locale e una più diffusa e più radicale penetrazione nell’Isola del neocolonialismo interno. Forse, giustamente, i baschi (fino alla mor­te di Franco), pensavano che, rispetto alla loro condizione, quella della Sardegna fosse già privilegiata, ma i sardi imparavano anche dai baschi che i problemi dell’identità culturale sono non meno importanti di quelli dello sviluppo economico.
La figura del miga (così chiamata dal modo in cui certi ita­lofoni sardi, carabinieri, poliziotti, guardie di finanza, domestiche, pronunciano la parola italiana mica) è quella di chi ha dovuto (o creduto di poter) abbandonare il dialetto senza inoltrarsi molto nel­la conoscenza critica ed esecutiva della lingua italiana, ma che tor­nerà al dialetto, con esclamazioni cadenti nel territorio dei tabù linguistici, in circostanze drammatiche, nelle quali l’apparte­nenza interiorizzata di un individuo ad una cultura riprende le sue rivincite sulle «scelte» rinneganti che egli credeva di aver operato. In questi casi cade di colpo la cultura d’accatto del miga ed esplode il grido della cultura tradita e rimossa. Ho assistito spes­so al ritorno fulmineo e inatteso al dialetto di persone anche ben più acculturate del miga. Ricordo in particolare un uomo politico che, colpito nel corso di una riunione da un manrovescio di un suo collega di partito, aveva già rinunciato a reagire, ma quando si accorse di perdere sangue dalle labbra si slanciò come una furia sul suo avversario urlando: Su sambene meeeu! Lassademilu chi lu ‘occo! (Il sangue miiio. Lasciatemelo che lo uccido)”.

RECENSIONI DELLA “LETTERATURA E CIVILTA’ DELLA SARDEGNA”

RECENSIONI DELLA “LETTERATURA E CIVILTA’ DELLA SARDEGNA” da parte di un antropologo (Giulio Angioni sulla Nuova Sardegna), un giornalista (Alberto Testa su Il Sardegna), un giornalista scrittore (Pietro Picciau sull’Unione Sarda), uno storico(Gianluca Scroccu sull’Unione sarda). un altro giornalista scrittore (Gianfranco Pintore sul suo blog), una giornalista (Alessandra Mulas sul Quotidiano della CISL, Conquiste del lavoro), un poeta scrittore (Efisio Cadoni sulla Gazzetta del Medio Campidano), Claudia Zuncheddu, (già Consigliere regionale e leader di Sardigna Libera nel suo blog)
1. Giulio Angioni su La Nuova Sardegna del 21 ottobre 2012)
Mille percorsi dell’identità. Una mappa per ritrovarsi
Nel primo volume dell’opera “Letteratura e civiltà della Sardegna” Francesco Casula riflette sul ruolo giocato dall’isola nella storia europea.
Francesco Casula, potrebbe dirsi, si è dedicato alla sua ultima fatica storico-letteraria con lo stesso piglio, aggiornato, del canonico Giovanni Spano rispetto alla mole dei suoi studi, cioè sentendo desiderio e dovere di “illustrare la patria” sarda. Casula ha dato finora, tra l’altro, molte prove di quanto anche un sardismo molto risentito possa essere supporto e spinta verso operazioni che meritano, come questa sua di proseguire una tradizione anche sarda ormai quasi bisecolare di storiografia letteraria, se si può considerare un inizio la “Storia letteraria di Sardegna” che Giovanni Siotto Pintor pubblicava nel 1843-1844.
Da allora non sono mancate le storie anche complessive della scrittura letteraria in Sardegna, come la “Storia della letteratura di Sardegna” di Francesco Alziator, di un secolo dopo, datata ma forse ancora utile per il materiale raccolto e messo a disposizione.
Un tema qui subito trattato e risolto è quello di quale sia l’oggetto dell’opera e che si debba intendere con l’espressione letteratura sarda o di Sardegna. Anche su questo tema, da ultimo anche una storia della letteratura in sardo, di Salvatore Tola, “La letteratura in lingua sarda”. Testi, autori, vicende, del 2006, è anch’essa da considerare propedeutica a questo grosso lavoro di Casula, che dà ampio spazio e risalto alla produzione in sardo e la considera quella più autentica, anzi la più identitaria, auspicandone lo sviluppo: ma, come non può non accadere a chi affronti sensatamente un compito come il suo, le scritture letterarie dei sardi “dobbiamo valutarle non tanto per la lingua che scelgono, quanto per l’uso che ne fanno e per il modo di collocarsi esteticamente e non solo, in Sardegna” (p. 11). Del resto, secondo gli intendimenti del nostro autore, «l’intera letteratura sarda… risulta… autonoma, distinta e diversa dalle altre letterature. E dunque non una sezione di quella italiana: magari gerarchicamente inferiore» (p.10).
“Letteratura e civiltà della Sardegna” si intitola quest’ultima corposa opera di Francesco Casula, di cui è uscito, nelle Edizioni Grafica del Parteolla, il primo dei due volumi previsti. Questo primo volume tratta dell’attività letteraria in Sardegna negli ultimi mille anni, dalla prima carta sarda rimastaci, quella cagliaritana del 1070, fin oltre il nostro quasi contemporaneo Salvatore Cambosu, che moriva nel 1962, arrivando alla nostra contemporaneità con Salvatore Satta, Giuseppe Dessì e Giuseppe Fiori che ci lasciava nel 2003. E ne tratta appunto come cosa a sé, soprattutto perché «è proprio l’Identità sarda il tratto che accomuna gli Autori che abbiamo scelto e trattato in questo volume” (p.11), dove la nozione di identità sarda sembra significare un comune modo di sentire che va con costanza ineguagliata, anche in quanto ereditato da epoche preistoriche lontane come quella nuragica, dagli scrivani delle corti giudicali ai romanzieri in italiano e in sardo del Novecento e del Duemila.
Alla nozione di “civiltà della Sardegna” usata nel titolo Casula tiene fede lungo tutto il suo percorso, dalla ‘libertà’ giudicale ai vari modi di egemonia pisana e genovese, all’invasione iberica, all’acquisto sabaudo, al triennio rivoluzionario settecentesco, al risorgimento italiano, alla prima guerra mondiale, al primo sardismo, al fascismo, alla seconda guerra mondiale, alla rinascita, all’industrializzazione malfatta e fallita nei modi e negli scopi: tutti momenti e temi che situano nella temperie dei loro tempi i vari prodotti letterari e i loro autori. Un fatto importante è che Francesco Casula è stato uomo di scuola per quarant’anni, perché in quest’opera l’intento didattico è strutturante, sebbene non proprio nuovo, se si ricorda almeno il recente manuale per le scuole superiori di Giovanni Pirodda, “Sardegna”, per non dire della fortunata antologia di Giuseppe Dessì e Nicola Tanda, “Narratori di Sardegna”, del 1973. In queste pagine di Casula l’impianto didattico si organizza in un dialogo propositivo costante con i giovani, secondo una formula che offre inquadramenti storici, letture, commenti autorevoli, inviti a proseguire la ricerca. Il tutto dentro un orizzonte, costantemente ridefinito, in cui il giovane studente sardo è invitato all’identificazione di sé sulla scorta della nostra attività letteraria.
Non è raro in Sardegna chi agisce in vari ambiti, compreso quello degli studi storici, mosso e sostenuto dalla convinzione risentita che l’antica diversità dell’isola debba certe sue negatività non solo alla storia millenaria di sudditanze ma anche a una sorta sottovalutazione, di conventio ad excludendum, persino di un complotto o, quando va bene, di costante distrazione del resto del mondo rispetto alla Sardegna, che così risulta al mondo molto meno di quanto convenga anche al resto del mondo. Casula partecipa in questa opera di questo modo di sentire il bene e il male dell’essere sardi. Ciò che più vi si apprezza è che esso sostiene, anche in quanto risentimento, a volte imprese meritorie che forse altrimenti non si darebbero. Bisogna augurarsi che il piglio rivendicativo sardista guadagni a quest’opera più lettori e abili utilizzatori nella scuola di quanti non ne renda perplessi.
(La Nuova Sardegna

  

2 Alberto Testa (Albatros) su Sardegna Quotidiano del 6 marzo 2012
Image

 

3. Pietro Picciau su L’Unione Sarda del 10-3-2012
LETTERATURA CIVILTA’ DELLA SARDEGNA”, di Francesco Casula, Edizioni Grafica del Parteolla, pagine 275, Euro 20.
L’introduzione di “Letteratura e civiltà della Sarde­gna” (Edizioni Grafica del Parteolla) pone un sugge­stivo quesito preliminare:
«È esistita una Letteratura e una Civiltà sarda? ». L’autore Fran­cesco Casula (nato a Ollolai. per circa 40 anni docente nei licei e e negli Istitu­ti superiori, dirigente sindacale. stu­dioso di storia e lingua sarda. scritto­re e giornalista) al ‘termine di un do­cumentato e approfondito ragiona­mento – un viaggio storico e letterario utile per chiunque, a cominciare’ dagli studenti – sostiene di sì. L’importan­te. avverte. è che la «produzione letteraria esprima una specifica e partico­lare sensibilità locale», Quindi una let­teratura sarda esiste se. «come ogni letteratura. ha i tratti universali della qualità estetica e se. in più è specifica, non tanto per questioni grammatica- ” li, quanto per una questione di Iden­tità». E proprio l’Identità sarda l’ele­mento che avvicina gli autori inseriti dall’autore nel primo volume di “Let­teratura e Civiltà della Sardegna”.
Casula propone un itinerario stori­co-letterario che parte dalla nascita della lingua sarda e dai primi docu­menti per proseguire con la trattazio­ne di autori (di ciascuno presenta la biografia, un brano, un giudizio criti­co e una sezione per l’attività didatti­ca) che formano le fondamenta della nostra letteratura: Antonio Cano, Sigi­smondo Arquer, Girolamo Araolla, Giovanni Matteo Garipa e Fra Antonio .Iaria da Esterzili durante il dominio catalano-aragonese e spagnolo; Efisio Pintor Sirigu, Francesco Ignazio Man­nu, Diego Mele, Peppino Mereu e l’autore sconosciuto di Sa scomuniga de Predi Antiogu nel Settecento-Ottocen­to; Giambattista Tuveri, Antonio Gramsci e Emilio Lussu per un «nuo­vo stato e un nuovo ordine sociale». Tra i romanzieri del 1900-2000 sonò, stati scelti Grazia Deledda, Salvatore Satta e Giuseppe Dessì. Per racconta­re il banditismo e la società del males­sere, i codici ‘barbarìcìni e i suoi ana­listì, Casula ha indicato Antonio Piglia­ru, Michelangelo Pira e Giuseppe Fio­ri. Sebastiano Satta è l’autore in lingua italiana inserito nel capitolo sulla letteratura identitaria del 1900-2000; mentre tra gli autori in lingua sarda fi­gurano.Antioco Casula (Montanaru), Pedru Mura e Salvatore Cambosu.
La domanda iniziale sull’esistenza della letteratura e di una civiltà sarda è intrigante sia per la risposta che ne danno gli autori citati, sia per quanto lo stesso Casula sostiene per confuta­re l’affermazione: «C’è cm lo nega». E l’inizio avvincente del viaggio (crìtìco, storico, letterario) in compagnia del­l’autore. Alcuni,avverte Casula, «dubi­tano perfino che la Sardegna abbia avuto una storia tout court. Emilio Lussu ha scritto che noi non abbiamo avuto una storia. La nostra storia è quella di Roma, di Aragona, ecc. Lo , storico francese Le Roy Ladurie ha sostenuto che la Sardegna giace fu un angolo morto della storia. Francesco Masala, il nostro più grande poeta et­nico, parla di storia dei vinti perché i vinti non hanno storìa. Fernand Brau­del, il grande storico francese; diretto­re della rivista Annales che rivoluzio­nerà lastoriografia, alludendo ad al­cuni popoli mediterranei, forse anche all’Isola. ammette che la loro storia sta, nel non averne e non si discosta mol­to da questa linea raccontando che viaggiare nel Mediterraneo significa incontrare il mondo romano ne1 Liba­no e la preistoria in Sardegna».

 

 

 

4. Giancluca Scroccu su L’Unione Sarda del 11 aprile 2014
SAGGISTICA
Letteratura e civiltà della nostra Isola nel doppio volume
di Francesco Casula
Verranno presentati domani, a partire
dalle 9, nella sala settecentesca della
Biblioteca Universitaria di Cagliari in
via Università 32, i due volumi di Francesco
Casula “Letteratura e civiltà della Sardegna”
(Grafiche del Parteolla, pagine 281 e 296,
40 euro). All’incontro, coordinato da Salvatore
Cubeddu della Fondazione Sardinia, saranno
presenti Bachisio Bandinu, Giulio Angioni,
Giacomo Mameli, Piero Marcialis.
Il lavoro di Casula, intellettuale e saggista
fortemente impegnato sul tema della storia,
della lingua e della cultura sarda, già autore
di un numero importante di fortunati volumi
su questi temi, è un lungo viaggio che accompagna
il lettore nella riscoperta dell’espressione
letteraria dei sardi dal periodo
giudicale ai giorni nostri. Sfruttando opportunamente
l’interazione tra il racconto della
storia della letteratura e il richiamo a puntuali
passi antologizzati di un numero vasto
di opere degli scrittori isolani, l’autore si
muove agilmente dai Condaghi ai protagonisti
della scrittura contemporanea. Ci sono
tutti i grandi nomi, da Sigismondo Arquer a
Peppino Mereu, da Gramsci a Lussu, passando
per Grazia Deledda, Salvatore Satta e
Giuseppe Dessi, che si affiancano a quelli
meno noti ma non per questo da dimenticare.
Un lavoro documentato e perfettamente
fruibile anche dai semplici appassionati o da
chi vuole avere a disposizione uno strumento
di consultazione esaustivo.
L’obiettivo di Casula è quello di far interagire
la produzione letteraria sarda con i suoi
tratti specifici identitari in opposizione ad
ogni tentativo omologante. A suo avviso il
patrimonio culturale ed etnico-linguistico,
espressione di una specialità che deve partire
da una condizione di marginalità acuita
ancora di più dal panorama costruito dai
processi di globalizzazione, mantiene però
una sua forte vitalità. Un’opera che dimostra
come i sardi, nonostante una storia di
sudditanza, siano riusciti a prendere il meglio
dagli influssi esterni facendo crescere
una cultura autentica e vivace, testimoniata
da una letteratura di assoluta originalità.

5. Gianfranco Pintore sul suo Blog del 14 maggio 2012):
“È esistita una Letteratura e una Civiltà sarda? È la domanda a cui risponde, positivamente “Letteratura e civiltà della Sardegna”, di Francesco Casula. Insieme libro di testo per le scuole e godibilissima lettura, del lavoro di Casula è uscito recentemente il primo volume che partendo dalle prime espressioni conosciute di letteratura, la Carta del giudice Torchitorio, arriva agli scritti di Salvatore Cambosu. Edito da “Grafica del Parteolla”, in libreria al costo di 20 euro, il libro si presenta come utilissimo sussidio per chi nelle scuole sarde volesse finalmente far conoscer agli studenti la storia della letteratura della nostra Isola. Di seguito la parte finale della introduzione a “Letteratura e civiltà della Sardegna”-

6. Alessandra Mulas su Conquiste del lavoro – Quotidiano della CISL
Sabato 19 luglio/domenica 20 luglio 2014
Viaggio storico- letterario in Sardegna
Un saggio di Francesco Casula sulla peculiarità e autonomia di una cultura
Francesco Casula intellettuale e studioso di storia, lingua e cultura sarda già autore di numerosi volumi riguardanti queste tematiche ha voluto regalare una ricostruzione storica della letteratura sarda. Il secondo volume, il primo pubblicato nel 2011, prosegue il tracciato dando nuova linfa a grandi scrittori e letterati dimenticati che non trovano spazio nei programmi scolastici e di studio. Parliamo di romanzieri come Grazia Deledda, Salvatore Satta e Giuseppe Dessi; ma anche di Sigismondo Arquer, Peppino Mereu, Antonio Gramsci, Emilio Lussu, Nereide Rudas, Salvatore Niffoie di tanti altri nomi meno noti ma la cui produzione è di grande importanza per inoltrarsi in una terra antica che si inserisce in un panorama geopolitico importantissimo per la sua posizione strategica, al centro del Mediterraneo.
Nella sua opera, Letteratura e civiltà della Sardegna, Edizioni Grafiche Parteolla, presentata nella sua interezza anche nella sala Protomoteca del Campidoglio, l’autore propone un viaggio storico-letterario partendo dalla nascita della lingua sarda e dai primi docu­menti in volgare sardo per giungere fino ai nostri giorni. Siamo in presenza di una cultura letteraria autonoma, con caratteri e segni peculiari che non possono essere inseriti in un contesto dialettale, perché il suo è un percorso di letteratura nazionale sarda. Dalle parole dell’autore si comprende che si parla di un popolo che si porta dietro sempre le proprie radici ovunque si trovi “Una Letteratura sarda esiste se, come ogni letteratura, ha i tratti universali della qualità estetica e se, in più è specifica, non tanto per questioni grammaticali e sintattiche, quanto per una questione di Identità” e dunque “che gli autori sappiano andare per il mondo con pistoccu in bertula, perché proprio in questo andare per il mondo, mostrano le stimmate dei sardi e, quale che sia lo scenario delle loro opere, vedono la vita alla sarda”.
I due volumi sono strutturati con una caratteristica prettamente didattica attraverso un modello di analisi, valutazione e comprensione dei testi, dando al lettore la possibilità di inoltrarsi all’interno di una cultura identitaria fortissima che traspare in tutta l’opera perché nella “complessa e difficile tematica dell’autoconsapevolezza e dell’individuazione personale e collettiva l’Identità è andata assumendo grande rilievo …”. Un’identità che pone degli interrogativi alla psichiatra, intellettuale e studiosa Nereide Rudas sui vari significati che questo termine e modello di rappresentazione sociale voglia esprimere. Argomento che ritroviamo in Grazia Deledda, Emilio Lussu, Giuseppe Dessì, Salvatore Satta i quali sottolineano che la Sardegna non è solo “uno scenario, uno sfondo, ma la vera protagonista, non un luogo ma il luogo, non l’oggetto ma il soggetto”.
Presi dalla foga eurocentrica molti studiosi hanno volutamente dimenticato che la civiltà nuragica è stata la più grande della storia di tutto il Mediterraneo centro-occidentale del secondo millennio avanti Cristo. Terra aperta al mondo, che combatte, alleata con i Popoli del marecontro i potenti eserciti dei Faraoni e dei re di Atti che tiranneggiano e opprimono i popoli. La Sardegna, l’Isola sacra in fondo al mare di Esiodo, l’Isola dalle vene d’argento di Platone poi Ichnusa Sandalia ecc. oltre che Isola felice è infatti Isola libera, indipendente e senza stato, organizzata in una confederazione di comunità nuragiche mentre altrove dominano monarchi e faraoni, tiranni e oligarchi. Non a caso le comunità nuragiche costruiscono nuraghi, monumenti alla libertà, all’egualitarismo e all’autonomia.
Finchè i Cartaginesi non invasero la Sardegna, per depredare e dominare l’Isola. Con il dominio romano fu ancora peggio, un etnocidio spaventoso. La comunità etnica fu inghiottita dal baratro, almeno metà della popolazione fu annientata, ammazzata e ridotta in schiavitù. Chi scampò al massacro fuggì e si rinchiuse nelle montagne, diventando dunque “barbara” e barbaricina, perché rifiutava la civiltà romana: ovvero arrendersi e sottomettersi.
La lingua nuragica, la primigenia lingua sarda del ceppo basco-caucasico, fu sostanzialmente cancellata: di essa a noi oggi sono pervenuti qualche migliaio di toponimi: nomi di fiumi e di monti, di paesi, di animali e di piante. Le esuberanti creatività e ingegnosità popolari furono represse, la gestione comunitaria delle risorse, terre foreste e acque, fu disfatta e sostituita dal latifondo, dalle piantagioni di grano lavorate da schiere di schiavi incatenati, dalle acque privatizzate, dai boschi inceneriti. La Sardegna fu reclusa entro la cinta confinaria dell’impero romano e isolata dal mondo. E’ da qui che nascono l’isolamento e la divisione dei sardi, non dall’insularità o da una presunta asocialità. A questo flagello i Sardi opposero seicento anni di guerriglie e insurrezioni, rivolte e bardane.
Un’altra spaventosa ondata di “malasorte” si abbattè sull’Isola, soprattutto nell’800 ma anche nel ‘900, e si snoderà attraverso una serie di eventi devastanti: socio-culturali prima ancora che politico-economici. Fino ad arrivare ai nostri giorni: allo stato centralizzato
La storia dei Sardi, come nel passato, continua infatti ad essere caratterizzata da quella che il già citato Giovanni Lilliu chiama la costante resistenzialeche ha loro permesso diconservare il senso d’appartenenza ovvero “quell’umore esistenziale del proprio essere sardo … costantemente resistenti, antagonisti e ribelli, non nel senso di voler fermare, con l’attaccamento spasmodico alla tradizione, il movimento della vita e della loro storia, ma di sprigionarlo il movimento, attivandolo dinamicamente dalle catene imposte dal dominio esterno”.
I Sardi infatti, nonostante le tormentate vicende storiche costellate di invasioni, dominazioni e spoliazioni, hanno avuto la capacità di metabolizzare gli influssi esterni producendo una cultura viva e articolata che ha poche similitudini nel resto del Mediterraneo.

 

 

 

 

7. EFISIO CADONI sulla Gazzetta del Medio Campidano, 15 Novembre 2014,
Le mie considerazioni sulla raccolta antològica della prosa e della poesía degli scrittori sardi, in lingua sarda e in lingua italiana, che è il piú recente lavoro intellettuale di Francesco Casula, verterà sull’individuazione di alcune línee guida che non solo caratterízzano l’òpera nella sua originalità, ma sono dei veri punti chiave che ne àprono le porte a una piú fàcile comprensione.
Colgo direttamente dalla copertina i concetti “essenziali” che ci offre l’autore come argomenti da sviluppare, temi da svòlgere, quelli che egli propone e che costituíscono il motivo ispiratore, esattamente dalle immàgini e dal títolo. Le immàgini ci condúcono immediatamente agli scrittori, ad autori che sono alcuni dei personaggi di cui scrive e che riconosciamo, Deledda, Gramsci, Lussu, Peppino Mereu ( nel primo volume); Lobina, Màsala, Atzeni, Michele Columbu (nel secondo volume) … Le parole del títolo ci dànno chiara chiara la materia che Francesco Casula diligentemente spècula: Letteratura, Civiltà, Sardegna.
La Sardegna è il luogo geogràfico, ma è anche il locus amoenus ac necessarius, il luogo attraente e gradito agli scrittori, ma per loro fortemente indispensàbile, necessario alla loro esistenza speciale; e quindi rappresenta l’estensione, la dilatazione non solo spaziale, ma temporale e di profondo rapimento interiore in cui si gènerano e si fórmano gli scrittori di cui Casula scrive. È il luogo in cui, dunque, nasce e cresce, nel tempo, la letteratura di pari passo con la civiltà da cui essa s’orígina e di cui si nutre, con cui si rinvigorisce e, come si diceva una volta, si reficia, si ristora ricevèndovi l’umífero terreno ove autore e fruitore tròvano giovamento spirituale. E il luogo rappresenta perciò anche il límite che blocca l’interesse crítico e stòrico di Francesco Casula, il confine invalicàbile davanti a cui si ferma, dove c’è Setta e Sibilia, oltre il quale non ha motivo di spíngere la sua “canoscenza”, perché il suo universo da esplorare ed esplorato, oggi, è qui, dentro la nostra ísola, nella nostra terra.
Oggi e qui Francesco Casula illúmina il píccolo grande mondo degli scrittori Sardi, perché non è cosa da poco scrívere un saggio antològico sulla letteratura di un pòpolo e, in un certo senso, farne la storia, fare la storia della civiltà dei Sardi. Ed è questo l’oggetto della sua ricerca, del suo impegno, del suo studio, della sua esplorazione.
Casula ha tracciato la storia della letteratura della Sardegna, anche se, con molta modestia, non la nòmina neppure “la storia”. Eppure, di storia della letteratura si tratta. Storia della letteratura della Sardegna che è anche storia della lingua dei Sardi, fin dalle sue orígini, perché la lingua è il “legame” che unisce in quell’astrattezza vitale, in quella spiritualità affratellante che i filòsofi chiamàvano “identicità”. Nell’identità, appunto, come in una sola natura specificamente individuale dell’umanità, la lingua sarda unisce una gente, una stirpe e un pòpolo che vien fuori dei sècoli di continue “intromissioni”, per non usare altri tèrmini piú aspri e violenti, e nonostante queste.
Letteratura e Civiltà della Sardegna è quindi “storia” della letteratura dei Sardi: un percórrere il tempo per il tràmite delle parole, attraverso le “espressioni” della lingua della Sardegna, della nostra lingua, fin dai primi documenti, dai contratti, dai làsciti, dai condaghi, per giúngere a noi, alla nostra “scrittura” da una scrittura che sa di civiltà preistòrica, sempre “a un passo” dalle nostre case, come direbbe Giuseppe Dessí, che sa di latino, ma anche di asiano, che sa di spagnolo catalano e aragonese, che sa di italiano e di francese, accanto all’altra, alla scrittura “ufficiale” di Italiani con la lingua di Dante. Storia questa, perciò, della letteratura della Sardegna che è anche storia della lingua dei Sardi, della lingua scritta e della lingua parlata; poiché la lingua scritta è la lingua parlata, quella che usiamo per comunicare, per esprímere passioni, sentimenti, decisioni, ragionamenti, volontà, quella che, in sostanza, è sempre la medésima, uguale a sé stessa, quella che ci dà, ecco, l’identicità, l’identità, il nostro id-ioma nazionale di Sardi, nel cui nome stesso troviamo la radice del nostro esser Sardi, l’id, l’idem, il medésimo, la medésima lingua, la peculiarità, l’idioma appunto, la stessa “identità”, una corrispondenza spirituale irrinunciàbile, l’esser una cosa sola, pur con forme diverse e diverse manifestazioni, identidem, sempre.
Io non credo che la “voluta” dimenticanza, il vuoto della parola “storia” sia determinato da un dubbio che ha tolto l’inchiostro dalla penna a Casula, dallo stesso dubbio che ha colto Salvatore Tola, altro studioso appassionato di sardità e di lingua sarda, il quale si è fatto sedurre, ma non convíncere, dal pensiero dell’algherese Pietro Nurra che, autore di “Canti popolari sardi” e di una raccolta antològica di “Poesía popolare in Sardegna”, sosteneva che non si pòssono definire “letteratura” gli scritti dei tantíssimi autori sardi, perché non non hanno “unità di concetto e lingua comune”. E perciò nessuna letteratura e nessuna storia. E non ho dúbbi sul fatto che, sia l’uno sia l’altro, síano o no d’accordo con lui; anzi sono certo che la pènsano diversamente. In ogni caso, la parola “storia” manca, ma la “letteratura” resta.
E che cos’è la letteratura se non la glorificazione delle passioni, dei sentimenti, dei concetti che prèndono forma e manifèstano sostanza dai segni scritti, dalle léttere, dalle parole? Essa, in Sardegna, è l’insieme delle parole e dei pensieri che “costruíscono” storie d’umanità di tutti i Sardi che han voluto, in tutti i tempi, comunicare razionalmente, esteticamente, poeticamente e sensazioni e intuizioni e pensieri. Essa è espressione della poièsis, attività dello spírito, potere dello spírito, in versi e in prosa. E la civiltà da cui si sviluppa è l’intelligenza dello stare bene insieme, del vívere insieme con un senso profondo del dovere e del rispetto dell’uomo verso l’altro uomo, la coscienza della felicità di stare in pace gli uni con gli altri, scandendo il tempo verso il progresso.
E dunque, tra le cose “essenziali” di questo libro, oltre all’identità come collante che accomuna e come condizione naturale e metafísica insieme, oltre alla lingua come elemento “nazionale” e “vivo” dei Sardi che ci contraddistingue, nostra linfa naturale, oltre alla civiltà che cammina da sècoli con la parola scritta, ci sono i “píccoli spàzi” che Francesco Casula ha predisposto nel suo testo come preziose teche in cui presenta le sue novità, i punti chiave di comprensione.
Novità vuol dire anche originalità. Le novità perciò sono, forse, il maggior “pregio” del libro, nel senso che esse fanno della sua òpera una singolare guida didàttica alla lettura della produzione letteraria in Sardegna.
E vi troviamo la “Presentazione” dei testi, i “Giudízi crítici” arricchiti da quelli di numerosi altri commentatori, il settore ch’egli títola “Analizzare”, in cui affonda la propria capacità interpretativa quasi scomponendo, sezionando ogni composizione scelta e, come ho scritto altrove, quale maestro didatta dei lettori, grande suggeritore e accompagnatore alla conoscenza, quasi interrogando gli autori, in una sorta di escussione risolutiva, perentoria; e vi troviamo, infine, “Flash di storia e civiltà” dove dà il giusto vígore ad ogni autore calàndolo nel proprio ambiente, con la opportuna luce agli scritti, con le informazioni precise sulla sua vita, sulla società in cui vive, sul suo tempo.
Ma la “novità” vera è ancora quella concatenazione di mezzi di conoscenza e comprensione, strumenti pròpri del clàssico “didatta”, cioè di colui che fa coincídere il proprio insegnamento con il conseguente apprendimento da parte di chi ne ha curiosità, di chi vuole assaporare l’arte attraverso la lettura; e perciò ecco gli altri “spàzi”, quelli che ho definito “línee guida” dell’òpera, i settori in cui si fanno precisi suggerimenti :“approfondimenti” intorno ai rapporti esterni, al luogo in cui vive l’autore, alla storia; “confronti”, analogíe differenze con altri autori; “ricerche” tese ad allargare il campo della conoscenza, “spunti vàri”, attraverso un invito a metter a fuoco determinate questioni, precise letture, per una riflessione a voce alta. E qui si appalesa maggiormente la volontà di Francesco Casula d’esser maestro e guida per una “scuola” che riacquista il suo primigenio significato greco di tempo líbero, di “tempo della cultura”, corrispondente all’aurum otium litterarum dei Romani, il riposo, la pace, il tempo dedicato alle léttere.
Òpera per tutti, questa Letteratura e Civiltà di Sardegna, ma particolarmente destinata al mondo della scuola, ai freschi remigini come ai giòvani d’impegno già di salda schiena, un’òpera per tutti degna di un’attenta lettura, grazie alle qualità di scrittura chiara e sémplice di Francesco Casula che, con l’arricchimento culturale, ci dona anche la soddisfazione del godimento spirituale del lèggere, che è grande, talvolta, quanto il piacere dello scrívere.

8. CLAUDIA ZUNCHEDDU (nel suo blog 4 febbraio 2015)
sa sardigna no est italia – sa sardigna est in su mundu
“Letteratura e civiltà della Sardegna” 1° e 2° Volume
di Francesco Casula
Ho avuto l’onore di essere interpellata su quest’opera e ritengo che il Pensiero di Francesco Casula, in modo palese rimette al centro degli obiettivi di noi sardi, la nostra storia e l’esigenza di riappropriarci del nostro ruolo di protagonisti.
E’ curioso che Francesco Casula apra questo grande lavoro con una provocazione e cioè sul dilemma secondo cui i sardi abbiano avuto oppure no una storia propria. Secondo alcuni, noi sardi non abbiamo avuto una storia, secondo altri è la storia di un popolo vinto, per non parlare di alcune interpretazioni snob di certi francesi, che forti di una visione colonialistica delle relazioni tra i popoli, non esitano a sentenziare: “La Sardegna è rimasta ribelle alla legge del progresso, terra di barbarie in seno alla civiltà che non ha assimilato dai suoi dominatori altro che i loro vizi “. Così scriveva nel 1861 in Ile de Sardaigne, Gustavo Jourdan, un uomo d’affari francese, dopo il fallimento di un suo progetto che mirava a coltivare nella nostra Isola gli asfodeli per la produzione di alcool.
Se il Popolo sardo ha una Preistoria straordinaria e unica: la civiltà nuragica, come può non avere una sua Storia? La nostra è semplicemente una storia negata e sepolta dalle dominazioni coloniali. A noi sardi è stata tagliata la lingua e imposta quella del dominatore. E’ stata occultata la nostra storia per sradicare la nostra identità e farci dimenticare chi siamo, impoverirci e indebolirci per renderci più dominabili. Anche a Popoli africani, sotto pressione coloniale, hanno fatto dimenticare chi fossero e da dove arrivassero, cancellando dalla loro memoria persino la storia dei loro potenti Imperi Neri, che nulla avevano da invidiare all’Impero romano e alla cultura del Rinascimento sia militarmente, che come produttori d’arte e di culture raffinate.
Non esistono popoli senza storia. Esistono popoli sotto un dominio coloniale, con una storia da disseppellire e liberare. L’opera di Casula è uno strumento di orientamento all’interno di un processo di liberazione della storia e della identità sarda.
L’Autore inserisce i più illustri testimoni della nostra storia: scrittori, storici, scienziati e poeti, come porte aperte a cui accedere per riscoprire il valore e la bellezza della nostra identità. La Costante Resistenziale a cui fa riferimento Lilliu, il senso di appartenenza e di difesa delle nostre radici, ci ha reso forti e resistenti come alberi nati su terreni difficili. Penso ai ginepri del Supramonte con le radici fossili che sprigionano dalla roccia. Questi siamo noi sardi. La nostra resistenza ha fatto sì che si conservasse il nostro ricco patrimonio identitario, dalla musica con i suoi strumenti, alla poesia, all’arte e all’archeologia, alla gastronomia, alla biodiversità della nostra natura e al nostro bene ambientale, alla cultura orale di inestimabile valore, riconosciuta spesso come patrimonio materiale e immateriale dell’Umanità. Noi non abbiamo mai rinunciato a tutto ciò nonostante i violenti attacchi dall’esterno.
Sull’ironia di Casula, nel raccontare che nel 2005 la Biblioteca del quotidiano La Repubblica stampò un volume di 800 pagine sulla Preistoria italiana escludendo la civiltà nuragica, ritengo che non sia una dimenticanza o un’omissione. Gli autori italiani, che noi sardi ringraziamo per l’onestà culturale, non possono aver dimenticato la preistoria sarda. Essi hanno preso atto che quella cultura così diversa, non poteva appartenere all’Italia, riconoscendo al di là di ogni artefatto politico che sa Sardigna no est Italia. E’ dalla cultura nuragica che trae spunto la critica di Eliseo Spiga alla società della crescita che non rispetta l’ambiente, che consuma le risorse della Terra, senza garantire il benessere ai popoli, al concetto di “città che fagocita i territori”. Di questo Pensatore, Casula riporta un concetto di grande attualità: “E’ la civiltà della sovranità comunitaria, che non costruisce città ma villaggi, perché la città è ostile alla terra, agli alberi, agli animali e inselvatichisce gli uomini, pretende tributi insopportabili per accrescere le sue magnificenze… crea i funzionari del tempio e del sovrano… i servi e gli schiavi”.
Quest’opera è una bussola per i nostri giovani in un mondo globalizzato. E’ uno stimolo per “disseppellire” la nostra storia e a riappropriarsi del patrimonio identitario, per giustizia, per missione e per necessità. Questa è la forza che permette a noi sardi di camminare e di confrontarci nel mondo, senza stampelle, senza la necessità di mediazione da parte di Stati dominatori o di tutori.

 

 

Antonio Simon Mossa

Ricordando Antonio Simon Mossa a 99 anni dalla sua nascita

1 dicembre 2015

B_ZtYrx7mqo-sLkgAvM2SaxLpPDMkjy0_YbvgPBWQBc,UApibgDJPtuNOgNADDfTQGHgzV52vO5cjSfif5C7I9E,iw125RiSWjK6Firnx6dO9X7dROVn7eFBfaHUhMAdREU
Francesco Casula

Il 22 novembre scorso ricorreva il 99° anniversario della nascita di Antonio Simon Mossa, il teorico (e padre) del moderno indipendentismo sardo, del tutto rimosso e dimenticato dalle Istituzioni sarde, dalla cultura (e scuola) ufficiale e dagli stessi Partiti e Movimenti che pur si dichiarano sardisti,indipendentisti e sovranisti..
Algherese, Antonio Simon Mossa è un architetto di talento, arredatore, urbanista e artista di genio, insegnante dell’istituto d’arte e scenografo, intellettuale dagli interessi pressoché enciclopedici e dalla forte sensibilità artistica, viaggiatore colto e curioso del nuovo e del diverso tanto da spaziare con gusto e competenza nell’ambito di una pluralità vastissima di arti: dalla letteratura alla pittura e alle arti popolari.
Ma è anche brillante ideologo indipendentista (una indipendenza non solo di liberazione economica e sociale ma anche di libertà di tutto il popolo sardo dal punto di vista etnico, etico e culturale) e di un nuovo Sardismo, giornalista e polemista ironico e versatile, viaggiatore colto e aperto alle problematiche delle minoranze etniche mondiali, ma soprattutto europee. Conoscendole direttamente, per così dire de visu, si rende conto della drammatica minaccia di estinzione che pesa su di esse: oramai sul bilico della scomparsa. Contro di esse è in atto infatti un pericolosissimo processo di “genocidio”, soprattutto culturale ma anche politico e sociale. Si tratta di minoranze che l’imperiale geometria delle capitali europee vorrebbe ammutolire.
Simon Mossa aveva infatti verificato la tendenza del genocidio culturale e non solo, dei popoli senza stato, delle piccole patrie, incorporate e imprigionate coattivamente nei grandi leviatani europei e mondiali, centralisti e accentrati, entro un sistema artificioso di frontiere statali, sottoposti a controllo permanente, con evidenti fini di spersonalizzazione, ridotti all’impotenza e di continuo minacciati delle più feroci rappresaglie, se mai tentassero di rompere o indebolire la sacra unità della Patria.
All’interno di tali minoranze colloca la Sardegna che considera una unità o comunità etnica ben distinta dalle altre componenti dello Stato Italiano. Per annichilire l’identità etno-nazionale dei Sardi è in atto – secondo Simon Mossa – un processo forzato di integrazione che minaccia l’identità culturale, linguistica ed etnica, anche con la complicità di molti sardi che si lasciano comprare.
Uno degli elementi che per Simon Mossa devasta maggiormente l’Identità di un popolo è l’attacco alla cultura e alla lingua locale: in Sardegna dunque il divieto e la proibizione della cultura e della lingua sarda (ad iniziare dalla scuola di stato) e segnatamente dell’uso pubblico e ufficiale del Sardo.
L’ideologo nazionalitario e indipendentista sa bene che un popolo senza Identità, in specie culturale e linguistica, è destinato a morire: Se saremmo assorbiti e inglobati nell’etnia dominante e non potremmo salvare la nostra lingua, usi costumi e tradizioni e con essi la nostra civiltà, saremmo inesorabilmente assorbiti e integrati nella cultura italiana e non esisteremo più come popolo sardo. Non avremmo più nulla da dare, più niente da ricevere. Né come individui né tanto meno come comunità sentiremo il legame struggente e profondo con la nostra origine ed allora veramente per la nostra terra non vi sarà più salvezza. Senza Sardi non si fa la Sardegna. I fenomeni di lacerazione del tessuto sociale sardo potranno così continuare, senza resistenza da parte dei Sardi, che come tali, più non esisteranno e così si continuerà con l’alienazione etnica, lo spopolamento, l’emarginazione economica. Ma questo discorso è valido nella misura in cui lo fanno proprio tutti i popoli parlanti una propria originale lingua e stanziati in un territorio omogeneo, costituenti insomma una nazione che sia assoggettata e inglobata in uno Stato nel quale l’etnia dominante parli una lingua diversa.
Poliglotta e appassionato studioso di lingua e di linguistica – fra l’altro traduce in Sardo il Vangelo e scrive ottave deliziose – ritiene che Il sardo lungi dall’essere un dialetto ridicolo è già, ma in ogni modo può e deve essere una lingua nella misura in cui sia parlato e scritto da un popolo libero e capace di riaffermare la propria identità. A questo proposito pone questo interrogativo: Hai mai meditato su ciò che significa l’esclusione della nostra lingua madre dalle materie di insegnamento delle scuole pubbliche e il divieto di farne uso negli atti «ufficiali» ? Ci regalano insegnanti di un italiano spesso approssimativo e zeppo di provincialismo e noi non abbiamo il diritto di esprimerci adeguatamente nella nostra lingua! Ci hanno privato del primordiale e più autenticamente «autonomista» strumento di comunicazione fra gli uomini!
Sostiene ciò nel Luglio del 1967, molto prima che in Sardegna la questione del “Bilinguismo perfetto” diventasse oggetto di discussione prima e di iniziativa politica poi: a buona ragione possiamo perciò considerare Simon Mossa, il vero profeta e anticipatore delle proposte prima e della Legge regionale 26 sul Bilinguismo poi. Con acume e perspicacia aveva capito che il problema della lingua sarda non era tanto o soltanto parlarla, magari nell’ambito familiare, ma scriverla e soprattutto insegnarla nelle Scuole di ogni ordine e grado come materia curriculare; usarla nella Pubblica Amministrazione, nei media, (da quelli tradizionali: Giornali e Radio, ai nuovi: Internet ecc.); nella Toponomastica, nella Pubblicità. Il problema era cioè (ed è) la sua ufficializzazione.
Oggi noi nel 2015 sappiamo bene che la lingua sarda, al di fuori di questa prospettiva è destinata a morire o, al massimo, a vivacchiare e languire, marginalizzata, ghettizzata e folclorizzata nei bim-bo-rimbò delle feste e delle sagre paesane, magari ad uso e consumo dei turisti e dei vacanzieri annoiati.
Simon Mossa questo lo aveva capito ben più di 48 anni fa.

Foto a cura di Francesca Corona

– See more at: http://www.manifestosardo.org/ricordando-antonio-simon-mossa-a-99-anni-dalla-sua-nascita/#sthash.8kLVGY0o.IoxTgpz8.dpuf