Il messaggio (in lingua sarda) dello scrittore Bachisio Bandinu al 7° Congresso nazionale della Confederazione sindacale sarda

 

Il messaggio di Bachisio Bandinu al Congresso della CSS.

Bachisio Bandinu ha scritto questo messaggio al 7° Congresso della Confederazione sindacale sarda (CSS) tenutosi domenica 22 marzo a Cagliari. 

De pessone e comente Presidente de sa Fondazione Sardinia, apo su piaghere de fachere augurios mannos a sa CSS in sas fainas de su settimu Cungressu. Auguriu de sichire e de affortire s’impignu de unu sindacatu chi, già in s’istatutu suo, ponet su populu e sa nazione sarda comente mere de su destinu suo. Trint’annos de testimonia a profetu de sa sotzietate sarda, in defensa de su traballu e sa dignitate de sa zente nostra: un’impignu chi mescamente oje devet parare fronte a sos bisonzos dolorosos de sa comunitate sarda. Sa fide chi amus totucantos in sa CSS nos cunfortat in sa gherra contra s’economia de sa dependentzia, contra s’isfrutamentu de su territoriu sardu chi cherent ponnere a cardu e a cannas, contra s’isfrutamentu de sole e de ventu a profetu de sos capitales istranzos, contra sas industrias e sas bases militares chi avvelenant terras e pessones. S’auguriu est de credere galu prus forte in s’identidade sarda comente cussentzia de istoria, de limba e de cultura, in manera de affortire un’identidade economica, ambientale e turistica, Bonas fainas,

Bachis Bandinu. 

Breve nota su Bandinu scrittore

L’antropologo Bachsio Bandinu, Presidente della Fondazione Sardinia, è autore di suggestivi saggi sull’’Identità sarda. Nel 1976 scrive (con Gaspare Barbiellini Amidei) Il re è un feticcio, per l’editore Rizzoli, riedita nel 2003 dalla casa editrice Ilisso di Nuoro con una nota introduttiva di Placido Cherchi. Il saggio analizza il processo di trasformazione del mondo pastorale: gli oggetti nel loro valore d’uso, di scambio e di relazione simbolica, sono gli attori che recitano la scena della trasformazione antropologica della Sardegna negli anni 1950-75. Il campo investigativo è l’ambiente pastorale: Bitti (campu e bidda) che assurge a campione di ricerca dell’indagine empirica. Dall’analisi dei cambiamenti in seno alla composizione dello spazio e del tempo, dell’arredo e del vestiario, della lingua e dei linguaggi, delle abitudini alimentari e dei rapporti interpersonali nasce il romanzo di cose: le cose che un tempo hanno vissuto con gli uomini hanno poi finito con l’assumere lo statuto dell’estraneità e del feticismo. È il diario della prigionia tra gli oggetti non più custodi di memorie, meri feticci che rendono più difficile all’uomo la lettura della propria esistenza. Il re è un feticcio ha ottenuto il Premio Campione (1976).

Lo stesso argomento verrà approfondito ne Il Pastoralismo in Sardegna, Cultura e identità di un popolo, pubblicato dall’editore Zonza di Cagliari nel 2006. Sempre per la Rizzoli nel 1980 scrive Costa Smeralda (aggiornato nel 1994 in Narciso in vacanza per la casa editrice AM&D di Cagliari) che studia e analizza i caratteri del turismo di lusso e più in generale il fenomeno turismo come operatore di trasformazione dell’ambiente, dell’economia e della cultura sarda.

Nel 1997 pubblica Lettera a un giovane sardo, che sarà un vero e proprio best seller con più di otto mila copie vendute. In questa Lettera l’Autore osserva e descrive l’arcipelago giovani nella duplice appartenenza al villaggio locale e alla cultura globale, appartenenza vissuta spesso in forme contradditorie.

Nel 2003 scrive (con Placido Cherchi e Michele Pinna) il saggio Identità, cultura, scuola. pubblicato dalla casa editrice. Domus de Janas di Cagliari. Ma la sua ricerca più importante e più impegnativa, che indaga sugli aspetti più profondi dell’identità e della cultura antropologica sarda viene elaborata nell’opera La maschera, la donna, lo specchio scritta nel 2004 per le Edizioni Spirali di Milano: uno straordinario affresco in cui analizza la maschera, il rito, il mito come esperienza del corpo e della scena, senza più il discorso della morte.

Nel 2007 scrive insieme al sociologo Salvatore Cubeddu Il Quinto Moro. Soru e il sorismo, per la casa editrice Domus de Janas di Cagliari, dove viene descritta la figura di Renato Soru, il presidente della regione sarda nella XIII legislatura (2004-2008). L’intendimento del libro è quello di suscitare un dibattito per tentare di porre al centro una nuova definizione della Sardegna.

Nel 2008 scrive Lingua sarda e liturgia, (con Antonio Pinna e Raimondo Turtas), pubblicato da Domus de Janas.

Nel 2010 scrive Pro s’Indipendentzia un libro-provocazione in cui affronta il tema dell’indipendenza della Sardegna nelle sue implicazioni culturali e politiche e nelle sue possibilità mentre nel 2011 Il Maestrale pubblica il suo romanzo L’amore del figlio meraviglioso.

 

LA CONFEDERAZIONE SINDACALE SARDA (CSS) verso il 7° Congresso nazionale

La CSS verso il 7° Congresso Nazionale

di Francesco Casula

La Confederazione Sindacale Sarda (CSS) si avvia verso il 7° Congresso nazionale che celebrerà il 22 marzo prossimo a Cagliari. Coincide quest’anno con il 30° Anniversario: una bella età, soprattutto se si tiene conto che gli avversari, ad iniziare da CGIL-CISL UIL, impietosamente bollati come “sindacati di stato”, le avevano pronosticato qualche anno di vita.

La CSS è nata infatti il 20 Gennaio 1985: è il terzo Sindacato etnico in Italia dopo quello valdostano (SAVT), fondato nel 1952 e quello Sudtirolese (ASGB) nato nel 1978.

Con questi due sindacati etnici italiani come con i sindacati etnici europei (Corsi, Baschi, Galeni e Catalani) che saranno tutti presenti al Congresso di Marzo, la CSS ha un rapporto di tipo federativo.

Secondo il compianto Eliseo Spiga, l’ideatore nonché primo segretario nazionale, il sindacato sardo – o della Nazione sarda, come ama definirsi – nasce per difendere i sardi sia come lavoratori (salario, occupazione, orario e condizioni di lavoro) sia come sardi e dunque nella loro dimensione culturale e linguistica. Di qui la battaglia campale della CSS a favore del Bilinguismo.

Ma, anche in forte polemica con i Sindacati italiani – CGIL-CISL-UIL in primis – nasce soprattutto contestando duramente il tipo di sviluppo che lo Stato – con la complicità delle classi politiche sarde e degli stessi sindacati – ha imposto alla Sardegna negli ultimi 50 anni,uno sviluppo tutto giocato sulle industrie nere e inquinanti della grande industria in specie quella chimica e petrolchimica ma anche metallurgica (privata ma soprattutto di stato): sviluppo che dai poli si sarebbe diffuso nel territorio, creando occupazione e sviluppo: ma nessuno di questi obiettivi è stato raggiunto. Di contro, tale industrializzazione ha devastato e depauperato il territorio, la risorsa più pregiata che l’Isola possiede; ha degradato e inquinato l’ambiente; ha sconvolto gli equilibri e le vocazioni naturali dell’Isola; ha distrutto il tessuto economico tradizionale e quel minimo di imprenditorialità locale (soprattutto nel settore agro-alimentare); ha attentato alla cultura e alla identità etno-nazionale dei sardi, tentando di eliminare le specificità linguistiche, culturali e storiche, magari con il pretesto dei combattere il banditismo: è il caso soprattutto di Ottana.

Proprio Ottana riassume emblematicamente il fallimento dell’industrializzazione in Sardegna. Per capirla è necessario fare un po’ di storia. Alla fine degli anni ’60 la Commissione parlamentare d’inchiesta sul banditismo, presieduta dal senatore Medici individuò nell’ambiente agropastorale e nelle condizioni economiche e sociali del Nuorese la causa prima del banditismo: di qui la scelta di Ottana e della grande industria che avrebbe dovuto trasformare il pastore in operario, con la tuta e non più con la mastruca. “Nella Rinascita c’è un posto anche per te” si promise a tutti i barbaricini e ai disoccupati in primis. Si è trattato di un mostruoso tentativo di rivoluzione antropologica e culturale prima ancora che economica e sociale. Furono previsti e promessi 8-10 mila posti di lavoro. Oggi sono in liquidazione anche gli ultimi operai rimasti.

Plurimi e di diversa natura i motivi del clamoroso fallimento: si è trattato di grandi industrie filiali e succursali di grandi complessi statali che “esportavano” nell’Isola manager, dirigenti, personale qualificato, tecnologie. I centri quindi economici-finanziari-decisionali stavano fuori non in Sardegna.

Di industrie che lavoravano – soprattutto quelle chimiche – materie prime di cui la Sardegna non disponeva e dunque soggette alle variazioni e alle crisi del mercato: è bastato l’aumento del petrolio e/o la dotazione da parte dei paesi produttori di industrie di trasformazione per mettere in crisi Ottana e company. già negli anni Settanta con la crisi petrolifera.

Si è trattato inoltre di industrie ad alta intensità di capitale (si è arrivati a un miliardo di vecchie lire per posto di lavoro e siamo prima dell’euro!); a poca intensità di mano d’opera; senza stimoli per il mercato interno, senza creazione di indotto proprio perché senza alcun rapporto e collegamento con il territorio e le risorse locali . Che dunque non crea sviluppo endogeno e autocentrato.

Soprattutto si è trattato di una industrializzazione che prevedeva solo le prime lavorazioni o comunque fasi limitate del ciclo produttivo: raffinerie o produzione di etilene (fibre) quando tutti gli economisti sostengono che è nelle seconde e terze lavorazioni ma soprattutto nella chimica fine che si ha molto sviluppo, ovvero: molta occupazione, poca intensità di capitale ma soprattutto molta ricchezza che deriva dal “valore aggiunto”.

Nonostante le chiacchiere e le richieste dei Sindacati italiani – peraltro mai troppo convinte – di avere in Sardegna le seconde e terze lavorazioni e la chimica fine, l’Isola per decenni ha sempre continuato con la petrolchimica di base e dunque ha continuato a operare quel meccanismo infernale neocoloniale, – tipico del colonialismo, compreso quello interno – che gli economisti chiamano “lo sviluppo ineguale”. Secondo il quale la Sardegna – e molte zone del Meridione – produce ed esporta semilavorati mentre importa prodotti finiti ad alto valore aggiunto, in questo scambio ineguale la Sardegna continua a impoverirsi e il Nord Italia dove si fanno le seconde e terze lavorazioni si arricchisce viepiù. Per convincersi guardare i dati ISTAT di ieri e di oggi, per quanto attiene al PIL ma non solo.

Di qui la proposta della CSS perché finalmente si imbocchi una rotta radicalmente diversa per uno sviluppo endogeno, autocentrato ed ecocompatibile, basato sulle risorse locali. La strategia dello sviluppo – scrive Giacomo Meloni l’attuale segretario della CSS – è vincente se ha la capacità di creare coesione,  ascoltare la pluralità delle voci del popolo sardo e far assurgere a valori identitari, insieme alla  lingua, alla  cultura, ai saperi tradizionali anche l’ambiente l’economia e i sapori della nostra terra.

Federalismo e pacifismo: il messaggio di Lussu a 40 anni dalla sua morte di Francesco Casula

Federalismo e pacifismo: il messaggio di Lussu a 40 anni dalla sua morte

Lussu di Foiso Fois di Francesco Casula

Il 5 marzo prossimo ricorre il quarantesimo anniversario della morte di Emilio Lussu. Ebbene in Sardegna, la sua terra, nessuna pubblica istituzione né partito pare che intenda ricordarlo. Gli è che i politici – ma anche le istituzioni culturali, le Università per esempio –  sono impegnati in ben altri riti. Lussu rimane ancora un personaggio “scomodo” e disadatto ad ogni incorporazione storica dei vincitori, anche post mortem. Così, anche quando lo si celebra e lo si ricorda, si cerca di sterilizzare il suo pensiero, la sua eredità morale, politica e persino letteraria. E’ successo così negli ultimi decenni, in cui dopo anni di colpevole silenzio, molti, troppi in Sardegna si sono scoperti e riconosciuti “sua figliolanza” (l’espressione è della moglie Joyce). Magari quelli stessi che in vita hanno combattuto Lussu e le sue idee. Ed hanno cercato, tutti, di tirare Lussu per la giacchetta, cercando di “convertirlo”, di purgare le parti più scomode del suo pensiero, per mitizzarlo e imbalsamarlo. Una volta sterilizzato e ridotto a “santino”, innocuo e rassicurante, si può anche “mettere nella nicchia” (anche quest’espressione è di Joyce) per diventare dio protettore dei sardi e della Sardegna. Si dimenticano costoro chi era Lussu, uomo di parte. Sempre dalla parte del popolo lavoratore sardo, pacifista e federalista, nemico giurato dello Stato burocratico e accentratore, degli ascari e mediatori locali e delle clientele, della politica ridotta a mera gestione del potere. Nel 1945, quando era Ministro del Governo Parri, Vittorio Foa suo compagno di partito, una volta andò a chiedergli di mettere una firma sotto un’autorizzazione per aiutare finanziariamente il suo Partito. Lussu rispose: “puoi chiedermi di montare a cavallo ed andare in via Nazionale a rapinare l’oro della Banca d’Italia e io, per il Partito, lo faccio subito. Ma mettere una firma sotto una cartaccia mai!” Questo era Lussu, sempre e non solo nel 1945. Rientrato nel 1919 dal fronte, viene trattenuto in servizio di punizione alla frontiera iugoslava per aver dimostrato che un generale si era arricchito vendendo cavalli e altri beni dell’esercito. Una bella lezione a molti politici di oggi, immersi nell’affarismo e nella melma della corruzione. Scomodo è anche il suo lascito ideale, culturale e di pensiero: ad iniziare dalla sua teoria federalista che si coniuga in modo inscindibile con i valori forti della libertà e dei diritti, della democrazia diretta e dell’autogoverno, della partecipazione e del controllo popolare. Scrive in un saggio del 1933, pubblicato nel n. 6 di «Giustizia e Libertà»: ”Frequentemente accade di parlare con uno che riteniamo federalista perché si professa autonomista e scopriamo invece, che è unitario con tendenze al decentramento”. E precisa: ”Ora la differenza essenziale fra decentramento e federalismo consiste nel fatto che per il primo la sovranità è unica ed è posta negli organi centrali dello Stato ed è delegata quando è esercitata dalla periferia; per l’altro è invece divisa fra Stato federale e Stati particolari e ognuno la esercita di pieno diritto”. Quando Lussu parla di sovranità “divisa” fra Stato federale e Stati particolari – o meglio federati, aggiungo io – di “frazionamento della sovranità”, pensa quindi alla rottura e alla disarticolazione dello stato unitario “nazionale” che deve dar luogo a una forma nuova di Stato di Stati, in cui “per Stati non si intendono più gli Stati nazionali degradati da Enti sovrani a parti di uno stato più grande, ma parte o territori dello stato grande elevati al rango di stati membri”: l’intera frase virgolettata è tratta da «Federalismo» di Norberto Bobbio, «Introduzione a Silvio Trentin». In questo modo il potere sovrano originario e non derivato spetta a più Enti, a più Stati e perciò scompare la sovranità di un unico centro, dello stato come veniva concepito nell’Ottocento – che Lussu critica in quanto “unica e assorbente” – di un unico potere e soggetto singolare per fare capo a più soggetti e poteri plurali. Con questa impostazione Lussu supera il concetto di unipolarità con cui si indica la dottrina ottocentesca in cui libertà e diritto fondano la loro legittimità solo in quanto riconducibili alla fonte statale. Quella su Federalismo è un’altra lezione a chi oggi, lungi da imboccare la strada della riforma dello Stato in senso federalista, attacca le Autonomie locali e, delirando, pensa all’abolizione delle Regioni, per ritornare a uno Stato centralista e centralizzatore. Infine il suo Pacifismo. Interventista convinto e “chiassoso”, parteciperà alla Prima Guerra con entusiasmo, giustificandola “moralmente e politicamente”.  Al fronte però sperimenta sulla propria pelle, l’assurdità e l’insensatezza della guerra: con la protervia e stupidità dei generali che mandano al macello sicuro i soldati; con i  pidocchi, i miliardi di pidocchi, la polvere e il fumo, i tascapani sventrati, i fucili spezzati, i reticolati rotti, i sacrifici inutili. Ma soprattutto con l’olocausto degli uomini sfracellati e le foreste di crani nei cimiteri militari; con i 13.602 sardi morti su 100 mila pastori, contadini, braccianti chiamati alle armi: i figli dei borghesi, proprio quelli che la guerra la propagandavano come  “gesto esemplare” alla D’Annunzio per intenderci o, cinicamente, come “igiene del mondo” alla futurista, alla guerra non ci sono andati.. Scriverà a questo proposito Camillo Bellieni, compagno d’armi prima e di Partito poi, di Lussu:”Chi accennasse a selvagge passioni brulicanti nel nostro sangue nel tragico istante della mischia non avrebbe altra scusa per il suo errore che l’immensa ignoranza delle nostre cose. Giudizi simili possono essere dati solamente da coloro che non hanno visto l’infinita tristezza dei nostri soldati nell’ora precedente all’azione”. La retorica patriottarda e nazionalista, vieta e bolsa, sulla guerra come avventura e atto eroico, va a pezzi. “Abbasso la guerra”, “Basta con le menzogne” gridavano, ammutinandosi con Lussu, migliaia di soldati della Brigata Sassari il 17 Gennaio 1916 nelle retrovie carsiche, tanto da far scrivere allo stesso Lussu – in «Un anno sull’altopiano»“Il piacere che io sentii in quel momento, lo ricordo come uno dei grandi piaceri della mia vita”. Anche perché, in cambio dei 13.602 sardi morti in guerra, (1386 morti ogni diecimila chiamati alle armi, la percentuale più alta d’Italia, la media nazionale infatti è di 1049 morti) – per non parlare delle migliaia di mutilati e feriti – ci sarà il retoricume delle medaglie, dei ciondoli, delle patacche. Ma la gloria delle trincee – sosterrà lo storico sardo Carta- Raspi – “non sfamava la Sardegna”. Nascerà dalla sua esperienza sul fronte l’opposizione netta, radicale, decisa di Lussu alla guerra:” Di guerre non ne vogliamo più – scriverà – e vogliamo collaborare e allontanare la guerra vita natural durante nostra e dei nostri figli e a renderla impossibile per sempre, disarmandola”. Chi vuole la guerra, secondo Lussu, è chi non la conosce, parafrasando in qualche modo il seguente apoftegma:”Chi ama la guerra non l’ha mai vista in faccia” (Erasmo da Rotterdam, «Adagia, Sei Saggi politici in forma di proverbi», Einaudi, Torino 1980). Una lezione pacifista, quanto mai attuale e opportuna, specie in un momento in cui nuove inquietanti fosche e minacciose avvisaglie di guerra sembrano apparire nell’orizzonte.

I viaggiatori italiani e stranieri in Sardegna di Francesco Casula (Alfa editrice, Quartu, 2015):Prefazione.

I viaggiatori italiani e stranieri in Sardegna di Francesco Casula (Alfa editrice, Quartu, 2015).

Sarà nelle Librerie nei prossimi giorni. Ecco la

Prefazione

Tarquinio Sini, noto soprattutto come pittore e caricaturista dai tratti rapidi ed essenziali (Sassari 1891- Cagliari 1943), in un romanzo dal titolo A quel paese… Romanzo moderno (ad imitazione di molti altri) per uso esterno, Ed. S.E.I. Cagliari 1929, si diverte ironicamente a rivelare ai non sardi l’immagine di quella che gli stranieri e i turisti ritengono sia la vera Sardegna: ovvero quella infestata da terribili banditi pronti a sparare e a uccidere, con indosso il classico costume sardo: con la berretta infilata sulla testa che non ha mai conosciuto le forbici del coiffeur, il sottanino di orbace e le brache bianche…i turisti davanti a questi ceffi, dai barboni arruffatti, passano da una emozione all’altra…chi viene in Sardegna in cerca di emozioni e prova tutto ciò può chiamarsi fortunato.

Ma è sempre stato così? Gli “altri” nella storia, come ci hanno “visto”? Quali sono i giudizi e le valutazioni nei confronti della Sardegna e dei Sardi?

Quelli di Cicerone sono infamanti e insultanti: i Sardi sono dipinti come ladroni con la mastruca (mastrucati latrunculi), inaffidabili e disonesti la cui vanità è così grande da indurli a credere che la libertà si distingua dalla servitù solo per la possibilità di mentire: la loro inaffidabilità – secondo l’oratore romano – viene da lontano, dalle loro stesse radici che sono rappresentate dai Fenici e dai Cartaginesi. Di qui l’accusa più grave, oggi diremmo “razzistica”: dal momento che nulla di puro c’è stato in questa gentenemmeno all’o­rigine, quanto dobbiamo pensare che si sia inacetita per tanti travasi?.

Per Dante – per cui nessun isolano è degno di stare in Paradiso, molti invece vengono collocati nell’Inferno – i Sardi, fra tutti i Latini, sembrano proprio gli unici a non disporre di un proprio volgare imitando la grammatica latina come le scimmie imitano gli uomini!

Con il Seicento e Settecento gli scritti di viaggio ebbero un ruolo importante di fonte documentaria: coloro che visitavano l’Isola erano funzionari del governo spagnolo e sabaudo, incaricati di rilevare le condizioni generali dell’isola. I “forestieri” che hanno visitato la Sardegna, a partire dal primo Seicento con il canonico Martin Carrillo, visitatore Generale di Filippo II, e il mercedario Tirso de Molina, hanno però messo in luce nelle loro opere anche aspetti inediti dell’Isola, a volte contradditori, a volte carichi di fascino.

Le opere che questi produssero erano comunque, almeno nel ‘700, per lo più di carattere amministrativo-economico, mentre era scarsa l’attenzione sociale e culturale. Quelle opere ci fanno conoscere il punto di vista dei piemontesi negli anni in cui la Sardegna era sotto il dominio sabaudo. Mettevano in evidenza la distanza, anche culturale, fra due paesi che si erano trovati sotto uno stesso regno ma in un rapporto non paritario, ma tra dominanti e dominati. A tale proposito, alla fine del 1700 Fuos, pastore luterano tedesco, scrisse che era il governo piemontese a mantenere l’isola debole e povera per poterla più facilmente governare. Nel contempo però, a proposito dei Savoia parla di Premura che i Re di questa casa hanno fin qui messo per favorire il rifiorimento dell’isola, elogiando i loro ordinamenti.

Dagli inizi dell’Ottocento si ebbe un fenomeno nuovo: la riscoperta dell’Isola. È un’apertura nuova perché si trattava di persone che, per motivi vari, erano intenzionati a visitarla, percorrere il suo interno, studiarla. Erano viaggiatori di tipo nuovo, spesso spinti dal desiderio di conoscere le diverse realtà di un’Isola distante per secoli anche culturalmente dal resto dell’Europa. Si era in età romantica, che succedeva ai Lumi e creava una sensibilità nuova, l’interesse per l’ “altro”, per la scoperta di ciò che è diverso. Scriveva Madame de Staël :”Le nazioni devono reciprocamente servirsi da guida […..]. C’è qualcosa di singolarissimo nella differenza fra un popolo e l’altro: il clima, l’aspetto della natura, la lingua, il governo, l’insieme degli avvenimenti storici [….] contribuiscono a questa diversità, e nessun uomo, per quanto superiore egli sia, può indovinare ciò che si sviluppa naturalmente nella mente di chi vive su di un altro suolo e respira un’altra aria. Si avrà dunque un beneficio in ogni paese se si accolgono le idee altrui; giacché, in questo genere di cose, l’ospitalità fa la fortuna di colui che riceve”.

L’Ottocento scopriva la storia, il senso del divenire storico, la nazione come individualità storica. La storia, accanto alla geografia, era considerata un ulteriore elemento di diversità, di specificità nazionale. Con l’Ottocento il concetto di divenire storico nasce ed entra a far parte della cultura occidentale. E l’Ottocento è anche il secolo della “scoperta” della Sardegna, dopo che per secoli era rimasta fuori dagli itinerari dei viaggiatori.

I viaggiatori, italiani e non, “investigavano” la realtà sarda secondo le loro lenti di lettura, creando particolari immagini-identità della Sardegna. Erano colpiti dal fascino dell’arcaicità e della primordialità dell’Isola. Vuillier la definirà Ile oubliée, e l’inglese Tyndale l’Isola mai vinta.

Questi mondi primitivi che essi descrivevano non erano stati ancora violati dalla civiltà europea, ma mantenevano una sorta di “civiltà naturale”. L’isola aveva le caratteristiche di un mondo “fuori dal tempo”. Immagini di questo tipo ispiravano una sorta di distanza storica, avvertita da molti viaggiatori che nel XIX secolo si trovarono a soggiornare in Sardegna. L’arcaicità della realtà sarda per loro rappresentò una sorta di diversità e l’impatto fu piuttosto forte.

D’altra parte, era inevitabile che il tempo quasi immobile della Sardegna, risultato dell’isolamento geografico e dell’arretratezza economica e sociale venisse confrontato con la realtà evoluta e dinamica dell’Europa, rispetto alla quale l’Isola era indietro di secoli. Tuttavia, questo carattere di chiusura e impenetrabilità non derivavano da un’ “assenza di storia”.

Ma non si può parlare di due tempi storici: il tempo rapido dell’Europa e quello statico della Sardegna. I ritardi e gli isolamenti erano il risultato – per intanto – della particolare posizione dell’Isola nella storia del Mediterraneo. Da una parte abbiamo una condizione storica che porta la Sardegna ad avere contatti, ad entrare in una rete di rapporti esteri. D’altro lato, i modi di vita dell’interno, la discontinuità dei rapporti con il mondo esterno, il fatto che la Sardegna non abbia partecipato alle rivoluzioni nei vari campi (culturali, politici, tecnici), hanno fatto sì che l’Isola seguisse un ritmo proprio di aperture e resistenze, chiusure, assimilazioni e persistenze. Da questo punto di vista, in Sardegna si trova una caratteristica falda di storia lenta di cui parla Fernand Braudel. La Sardegna ha conosciuto infatti per secoli un isolamento quasi ininterrotto e nonostante le invasioni e le dominazioni straniere, è rimasta sostanzialmente immune da influenze esterne. Ciò si è manifestato anche riguardo alla flora e alla fauna che mantenevano caratteristiche peculiari ed erano diverse da quelle delle regioni circostanti. A proposito del carattere peculiare dell’ambiente naturale sardo, Francesco Cetti, un naturalista settecentesco, autore fra l’altro di una Storia naturale di Sardegna,  che su richiesta del governo sabaudo si stabilì in Sardegna per insegnare Matematica all’Università di Sassari, scriverà: Non v’è in Italia ciò che v’è in Sardegna, né in Sardegna v’è quel d’Italia.

La flora e la fauna sarde erano piuttosto varie e comprendevano specie da altre parti estinte. Basta citare come esempio il muflone che per certi aspetti diventò quasi il simbolo della Sardegna e che, nel corso del secolo, fu quasi sterminato come il bisonte americano. Un altro esempio è quello delle foche monache descritte da Lamarmora.

Anche sul piano del linguaggio si poteva riscontrare un’atipicità, infatti la lingua sarda è quella che è rimasta più simile al latino arcaico sia nelle parole che nella sintassi, come sosterrà autorevolmente soprattutto il tedesco Max Leopold Wagner.

Le stesse tradizioni isolane avevano un “carattere conservativo”: un antropologo tedesco, Karlinger, ha scritto, forse esagerando,  che la Sardegna era un’eccezione tra le isole mediterranee, perché ferma e chiusa in se stessa; era un tesoro inalterato di folklore, un museo naturale di etnografia.

In qualche modo a conferma di ciò scrive uno storico sardo, Carlino Sole, in Sardegna e Mediterraneo: “La Sardegna, per particolari disparità di sviluppo imposte dalla condizione geografica e dalla stratificazione di dominazioni differenti, era riuscita a mantenere un involucro più conservativo di quello delle altre regioni del Mediterraneo: più tenacemente che altrove, per esempio, prolungava nell’età moderna e contemporanea forme di vita e di tradizioni tipiche del mondo medievale così come nell’antichità aveva conservato caratteri protostorici. Da alcune manifestazioni di «cultura materiale», come l’aratro a chiodo o il carro a ruota piena, dall’artigianato, dalla presenza nella musica popolare di forme arcaiche e rituali (come le launeddas), dalle maschere e dai canti è possibile ancora rintracciare, nonostante le inevitabili sovrapposizioni successive, i resti e gli spezzoni di civiltà scomparse. Come nelle feste barbaricine si celebra ancora il rito pagano d una civiltà di pastori ormai estinti”.

La realtà geografica avrebbe dunque condizionato le vicende storiche della Sardegna e della sua società. I Sardi, non sarebbero mai riusciti ad evadere dalla marginalità dell’Isola e ad espandersi verso altre terre perché dovunque il mare, invece di attirare gli isolani, sembra averli respinti verso l’interno dell’Isola. Il mare avrebbe circondato la Sardegna, isolandola. Questa sorta di cintura marina avrebbe ostacolato e ritardato i fermenti e gli stimoli provenienti dall’esterno. Come direbbe Giovanni Lilliu, la Sardegna diventava il frammento di un vecchio esteso continente alla deriva.

Solo di recente sono stati studiati gli effetti diretti e indiretti dell’insularità. In passato si concentrava l’attenzione sulla centralità della posizione mediterranea della Sardegna. Tuttavia è nel XVIII secolo che l’Isola entra a far parte degli interessi delle grandi potenze marittime dell’Europa di allora, la Francia e l’Inghilterra. Questo interesse rivelava come la Sardegna fosse importante sul piano strategico per ciascuna potenza marittima che era propensa a conquistarla o ad entrarne in possesso. La Sardegna non rappresentava più solo un luogo di rifugio dei naviganti e mercanti scampati alle tempeste o il luogo di prigionia di detenuti stranieri, ma comincia ad essere meta per osservatori militari, studiosi, diplomatici, cartografi francesi, svedesi, inglesi e tedeschi. A fine  Settecento cominciava a maturare una nuova “coscienza nazionale”, ma anche nuove consapevolezze: l’insularità non derivava tanto (o soltanto) dalla posizione geografica, ma dall’essere rimasta esclusa dai traffici, dall’arretratezza delle strutture economiche e dal carattere coloniale della dominazione spagnola prima e piemontese poi.

Sui Savoia e sul dominio coloniale piemontese, Diderot e D’Alembert, così scrivono nell’Encyclopedie: “…il popolo impoverito si è scoraggiato, ogni iniziativa industriale è cessata; i sovrani non ricavano quasi nulla da quest’isola, l’hanno trascurata e gli abitanti sono caduti in un’ignoranza profonda di tutte le arti e di tutti i mestieri. Lo stesso re di Sardegna che, attualmente, possiede quest’isola non ha creduto opportuno rimediare al suo cattivo stato e riformare la costituzione. Anche la corte di Torino considera la Sardegna come nient’altro che un titolo che ha posto il suo principe tra le teste coronate”.

Se si guarda anche all’interno, al rilievo, la Sardegna si potrebbe definire, come ha fatto il grande storico francese Lucien Febvre, come un’Isola massiccia, un’”isola continentale”, una sorta di “continente minore”, ossia un’entità storica a parte. Da ciò non si deve però concludere che il mondo sardo fosse un mondo assolutamente chiuso. Febvre contrappone la Sardegna, esempio di “isola prigione” conservatrice di “antiche razze eliminate di vecchi usi, di vecchie forme sociali bandite dal continente”, alla Sicilia, “île carrefur”, una sorta di “quadrivio” naturale del Mediterraneo “volta a volta fenicia, …..poi greca, poi cartaginese, poi romana, poi vandala e gotica e bizantina, araba, poi normanna e poi angioina, aragonese, imperiale, sabauda, austriaca [….] l’enumerazione completa sarebbe interminabile”.

La Sicilia insomma avrebbe infatti sempre assimilato qualcosa delle ondate successive di civiltà differenti che si sono succedute  nel corso della storia.

La Sardegna, invece, sarebbe rimasta spesso immune dalle influenze esterne, apparendo, anche nei tempi antichi, “un mondo ancestrale e fossile […..] l’immagine didattica della preistoria nella storia”.

In realtà occorre dire che la storia della Sardegna non è fatta solo da chiusure ed arcaismi: le coste certo hanno svolto un ruolo importante di filtro con la realtà esterna, ma non tutto è rimasto invariato nel tempo: ogni età o dominazione ha portato qualcosa e ne ha trasformato qualche altra.

La Sardegna non possedeva all’interno un sistema di vie di comunicazione. Essa non ha mai conosciuto una civiltà cittadina. Infatti Cagliari e Sassari, divise da antichi odi e inimicizie, erano dei semplici grossi borghi se paragonati con le “metropoli” mediterranee come Napoli, Palermo, Venezia, Marsiglia, ecc…. L’unica finestra sul mondo è stata, per certi aspetti, Cagliari. Al suo interno, la Sardegna presentava un paesaggio “particellato” che ha creato nuclei culturali chiusi, isole nell’isola.

Come ha scritto Fernand Braudel, “la montagna è responsabile quanto se non più del mare, dell’isolamento delle popolazioni  sarde.  L’isolamento esterno va di pari passo con l’ isolamento interno”.

Dentro questo paesaggio e orizzonte storico occorre situare i giudizi e le valutazioni dei “viaggiatori” e “visitatori” della Sardegna dal ‘700 in poi di cui tratteremo in questo volume.

Ad iniziare dall’Anonimo Piemontese, secondo cui l’economia sarda è dominata da attivissimi e scaltrissimi genovesi, livornesi e napoletani. Tale situazione è dovuta alla poltronite naturale alla nazione sarda…e al difetto d’industria.

Invece secondo il gesuita Padre  Gemelli che soggiornerà in Sardegna dal 1768 al 1771, l’arretratezza della Sardegna e segnatamente della sua agricoltura è da ricondurre alle terre comunitarie:Nasce tutto il disordine dalla comunanza o quasi comunanza delle terre. E dunque la terapia è molto semplice : Distruggasi quindi questa comunanza o quasi comunanza delle terre in Sardegna, concedendole in perfetta e libera proprietà alle persone particolari; e otterrassi di certo il disiato rifiorimento dell’agricoltura ne’ seminati, ne’ pascoli, nelle piante, e in ogni parte della rustica economia.

Anche il tedesco Fuos, ritorna ossessivamente sul “vizio” già denunciato dall’Anonimo Piemontese ovvero che ai Sardi sarebbero connaturati : L’oziosità e la pigriziae il difetto d’industria.

Mentre l’inglese Henry Smyth, da buon protestante, addebita alla Chiesa di Roma le superstizioni in cui, abbondantemente, i Sardi sarebbero ancora immersi.

Padre Bresciani, che visitò per ben quattro volte l’Isola fra il 1843 e il 1846, riscontra nei costumi de’ Sardi certe medesimezze con quelle dei primi popoli d’Asia, che non potrei dire quanto me ne sentissi riscosso e stupito.

Secondo Lamarmora la Sardegna ha le caratteristiche di un’Isola-continente dove entro limiti ristretti si aveva una varietà di aspetti così grande degni di richiamare l’attenzione dell’osservatore […]:varietà di montagne, di terreni, di miniere, di fossili.

Francesco d’Austria-Este esprime giudizi molto severi sui vicerè: Riguardavano comunemente la Sardegna come un esilio – scrive – in cui stavano tre anni per arricchirsi, o farsi meriti presso la loro corte.

Altrettanto severo Francesco d’Este è nei confronti del clero, specie nei confronti dei preti più ricchi che abitavano in genere nelle città, essi infatti – secondo il duca menano una vita pigra, comoda per la più parte, e molti anche scandalosa pubblicamente con donne.

Valery è entusiasta per l’ospitalità dei Sardi che è allo stesso tempo una tradizione, un gusto e quasi un bisogno per il sardo; di contro un altro francese, Honoré de Balzac, risentito per non essere riuscito nella sua impresa in Sardegna di arricchirsi attraverso lo sfruttamento delle scorie delle miniere d’argento abbandonate nella Nurra, vaneggia di uomini e donne nude come selvaggi, domiciliati in tane e abbruttiti dalle foreste, che addirittura mangiano un pane fatto di farina mista ad argilla. L’Africa comincia qui – scrive – ho intravisto una popolazione in cenci, tutta nuda, abbronzata come gli etiopi..

Secondo il milanese Carlo Cattaneo i Sardi, quasi incatenati da forza arcana di tradizioni non seppero dalla rude vita pastorale e dell’aratore levar la mente alle imprese marittime, alle arti, alli studi.

L’inglese Tyndale analizza la realtà sarda, ai suoi occhi selvaggia e misteriosa, studiandone l’intricato ordito storico, economico, politico, sociale e culturale contestualmente a dati scientifici e curiosità. Seppur affascinato da questa terra esotica e primitiva, non trascura di sottoporne al lettore le problematiche più scottanti, tracciando un quadro a tutto tondo de L’isola di Sardegna; di contro il francese Jourdan, deluso per non essere riuscito dopo un anno di soggiorno in Sardegna, a coltivare gli asfodeli per ottenerne alcool, sfoga il suo malumore lanciandosi in contumelie,insulti e diffamazioni contro la Sardegna e i Sardi. Al contrario, per un altro francese, Domenech, la Sardegna, sempre trascurata dal suo governo, ignorata e poco conosciuta dai turisti,ha per questo conservato fino a oggi le sue caratteristiche originali, eccezionali, e la sua fisionomia orientale e primitiva; tanto che è colpito dall’analogia delle usanze sarde con ciò che aveva letto nella Bibbia e in Omero e dove ritrova popolazioni ardenti, simpatiche,, buone, anime fortemente temperate, virtù patriarcali, difetti moderni, bizzarrie rispettabili, grandezza e poesia.

Dell’inglese Tennant sono estremamente interessanti e in qualche modo ancora attuali alcune proposte che attraversano tutta la sua opera, La Sardegna e le sue risorse: ad iniziare dalla necessità di una serie di intraprese tese a valorizzare la produzione locale per favorire le esportazioni e ridurre le importazioni. Individua a questo proposito i settori portanti dell’economia sarda sui quali intervenire: l’agricoltura, le miniere, le piccole industrie, la lavorazione in loco delle materie prime, una politica fiscale meno vessatoria, il turismo, grazie anche all’ambiente incontaminato e all’amenità dei luoghi, unito ai monumenti antichi unici al mondo.

Il francese Delessert, da letterato e fotografo, nel suo viaggio in Sardegna, è attratto dagli aranceti di Milis, dalle feste in costume e soprattutto dai balli all’aperto, dall’illuminazione della Grotta di Nettuno ad Alghero, dalle serenate e da su fastiggiu (il colloqui d’amore dalla finestra).

L’italiano Mantegazza, sociologo, economista e medico, denuncia invece l’abbandono e l’isolamento in cui è lasciata dai poteri centrali; l’uso di mandare nell’Isola, come una Siberia d’Italia funzionari rozzi, inetti, ignoranti o addirittura colpevoli; l’assalto dell’Isola da parte di avidi speculatori che, per esempio strappano le foreste, lembo a lembo, con feroce vandalismo; l’estrema povertà e insufficienza dell’ordinamento scolastico…gli ergastolani che gli fanno pensare che la società si vendica più di quel che si difenda.

Un altro francese, Boullier, innamorato della Sardegna, in due opere sui canti popolari e sui costumi dei Sardi, raccoglie, commenta ma soprattutto fa conoscere in Francia molta poesia popolare sarda, mentre l’italiano Aventi, conduce in Sardegna un’inchiesta agraria che, nata inizialmente come studio del progetto di colonizzazione della valle del Coghinas, si estende alle altre parti del territorio, considerato dal punto di vista dell’agronomo come vergine, incontaminato, dove cioè il margine di progresso della tecnica è vastissimo, dove tutto è da fare, tutto da innovare, per metterla parallela alle cognizioni e al progresso di parecchie Provincie del Continente.

Il Vuillier, pittore, disegnatore e scrittore francese della fine del XIX secolo, per quanto attiene alla nostra Isola descrive molto spesso donne e uomini con i costumi tradizionali dei vari paesi ma anche rappresentazioni di danze (del duru-duru), panorami, paesaggi e località, edifici, monumenti, chiese, scene agresti e persino oggettistica.

 

Un altro italiano invece, Corbetta, nel suo libro dedicato alla Sardegna, tratta soprattutto della geografia, la storia, gli usi, le istituzioni, le antichità e l’economia corredata da molte statistiche.

L’inglese Edwardes consegna, attraverso pagine ora irreali ora scrupolose, ma quasi sempre appassionate, l’immagine della Sardegna all’Europa. Fra gli inglesi che visitarono la Sardegna nell´Ottocento, Charles Edwardes occupa infatti un posto del tutto particolare. La sua curiosità, si esercita in direzione non solo del paesaggio, ma anche della gente dell´Isola, delle differenze fra i cittadini e le popolazioni dell´interno. Il suo resoconto di viaggio assume così il senso e il significato di un continuo confronto di uomini e mentalità, alla ricerca del volto autentico dei Sardi.

Bechi invece, militare e scrittore, nel libro La caccia grossa, descrive episodi di  “caccia” al bandito, come fosse un cinghiale selvatico, rivelando una mentalità coloniale,poliziesca e inumana.

Roissard de Bellet, nobile francese, pur trattenendosi in Sardegna qualche settimana appena  scrive il suo libro sull’Isola dando molto risalto alla storia e, segnatamente, alla storia dei nuraghi, ai costumi e alle tradizioni dei Sardi ma soprattutto alle miniere, il vero interesse del barone francese, settore peraltro in cui mostra grandi conoscenze. La Sardegna – secondo De Bellet – è ricca di molti minerali fra cui la galena, la blenda, la pirite, le cerusite, l’ematite,il nickel, il cobalto. Ma anche di piombo, zinco argento. Sono inoltre presenti sorgenti minerali di acque alcaline, iodate, sulfuree, acidule.

Bontempelli, nelle sette pagine che dedica alla Sardegna nel suo libro Stato di grazia, racconta  il suo viaggio a cavallo per i paesi dell’interno, della Barbagia di Ollolai. Ma si tratta di una descrizione che niente ha a che vedere con la realtà effettuale dell’Isola, piuttosto rientra nella sua “poetica”, nel suo realismo magico, governato dalla immaginazione e dalla fantasia, così come lo aveva teorizzato in varie opere.

L’inglese Flitch, approda in Sardegna alla fine di un tour  nelle Isole del Mediterraneo. Descrive un’Isola un po’ troppo di maniera ma emerge anche una umanità diversa e inedita; una borghesia vista in un modo scanzonato, gli abitanti dei sottani cagliaritani descritti nella loro primitività, la gente osservata con acutezza, nei suoi pregi e nei suoi difetti.

Il siciliano Savarese, in forma essenziale e  con un taglio giornalistico, racconta aspetti segreti o poco noti della terra sarda : un lembo di terra ancora umido di una freschezza verginale. In tale narrazione Savarese, che intuisce i cambiamenti che stanno per investire l’Isola, evidenzia una forte preoccupazione che, riletta a posteriori, si rivela premonitrice di una situazione ancora oggi molto attuale.

Lawrence nel suo libro Sea and Sardinia (Mare e Sardegna), descrive una   Sardegna in cui è presente l’elemento autobiografico, il culto per la natura intatta e selvaggia e la primigenia istintività, l’esaltazione dei rapporti fisici visti come manifestazione vitalistica di somma importanza, la filosofia del racconto mitico basata sulla sua visione del cosmo e delle pulsioni vitali dell’uomo.

Wagner, dopo aver visitato la Sardegna in lungo e in largo, per studiare la lingua sarda e le tradizioni popolari, ci ha lasciato opere monumentali come il Dizionario etimologico sardo, La Lingua sarda i La vita rustica mentre, di contro, l’archeologo inglese Harden, non solo ci insulta, (parla di Sardegna, regione sempre retrograda) ma ci racconta un mucchio di balle storiche, archeologiche e linguistiche.

Il giornalista Virgilio Lilli, nel suo Viaggio in Sardegna ci consegna intatto il fascino dell’improvvisazione, tipico del reportage giornalistico; in questa circostanza l’esperienza di Lilli pittore e fotografo si somma a quella dello scrittore, che coglie gli aspetti più suggestivi dell’Isola come attraverso una serie di brevi ma intensi flashes; mentre il libro sulla Sardegna di Vittorini, che ha lo stesso titolo, Viaggio in Sardegna appunto, come scrive Geno Pampaloni, lo possiamo considerare un reportage e…un libro composito: un po’ poema in prosa, un po’ recensione di paesaggi e figure, un po’ aneddotica di racconto, un po’ (è il tono dominante) lirica moralità: una forma nuova per Vittorini e a lui subito congeniale.

Un altro grande scrittore italiano invece, Carlo Levi in Tutto il miele è finito descrive una Sardegna di pietre e di pasto­ri, e di uomini moderni e vivi. Corriamo così attraverso imma­gini rapidissime, dove ogni momento è gremito di visioni. Tro­viamo le querce e i prati di asfodeli, i pipistrelli delle domus de janas, le greggi, le sacre capre mannalittas, i nuraghi, le roc­ce e il mare, e il Sopramonte deserto e feroce; gli operai, gli emigranti, gli uomini, e l’incedere divino delle antiche donne­regine:così viene presentato dalla casa editrice Einaudi il suo libro.

Il francese Le Lannou considera la  Sardegna come un grande mosaico di terra, le cui tessere siano state furiosamente scompigliate. E la  montagna sarda è tutta paccata, fessurata, divisa da grandi gote, un tempo pressoché invalicabili. Una montagna difficile, aspra, severa: una montagna vera. Questa durezza della tettonica sarda ha anche avuto due conseguenze storiche, che hanno operato direttamente sulle vicende e il caratteri del sardi: ha isolato i villaggi l’uno dall’altro, alimentando nei secoli la disunione e l’estraneità fra gruppi pure contigui (dunque, impedendo la nascita di una più vasta unità “nazional-regionale”) e, secondo, ha isolato la montagna dal resto dell’isola, rendendone difficili gli accessi e spesso negando alta montagna più frequenti contatti con le pianure “civilizzate”.

Infine, l’ultimo “viaggiatore” e osservatore della Sardegna e delle cose sarde, che presentiamo in questo volume, l’italiano Cagnetta, in Banditi a Orgosolo, denuncia lo sfruttamento, la repressione poliziesca e nel contempo l’espropriazione  etno-culturale, operate dallo Stato italiano, segnatamente nei confronti dell’area barbaricina, di cui Orgosolo è solo l’esempio paradigmatico.

Francesco Casula