La politica fra mazzette, ruberie e ” americanizzazione”.

La politica fra ruberie, mazzette e “americanizzazione”.

Come combatterla? Qualche proposta.

di Francesco Casula

“Quanto sia laudabile in uno principe mantenere la fede e vivere con integrità e non con astuzia ciascuno lo intende: non di manco si vede per esperienza, ne’ nostri tempi, quelli principi avere fatto grandi cose che della fede hanno tenuto poco conto e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e’ cervelli degli uomini e alla fine hanno superato quelli che si sono fondati sulla realtà”

Certo – continua Machiavelli – “se gli uomini fossero tutti buoni” questi precetti non sariano buoni”, ma poiché “sono ingrati, volubili, fuggitori di pericoli, cupidi di guadagno” occorre che il principe impari “a non essere buono” e “a entrare nel male”.

I politici dunque costretti “all’infamia”, a imbrogliare i cittadini, a non tener fede alla parola data, a ricorrere a qualsiasi forma di ruberie e latrocini perché costretti dalla malvagità altrui e dalla condizione umana? E comunque per il superiore interesse politico “del Partito” e dello Stato? Quante volte abbiamo sentito l’apoftegma craxiano – e non solo – che “la politica ha i suoi costi” et duncas occorre pagarla e sostenerla con le tangenti e con quant’altro? Oggi si va oltre: si ruba ancor più di ieri e senza neppure l’alibi del Partito da foraggiare, semplicemente per arricchirsi personalmente.

Sbaglia comunque chi ritiene che, ieri come oggi, il cancro della politica stia essenzialmente – o comunque si esaurisca – nella “immoralità machiavelliana”, tradotta oggi nell’affarismo, nel malaffare et similia.

Certo, quest’aspetto è quello più volgarmente visibile e corposo e giustamente colpisce e impressiona l’opinione pubblica e i cittadini creando un’istintiva reazione di rifiuto e di reiezione della “politica” tout court, vista come “cosa sporca”, “affare per mestieranti”, da cui dunque stare alla larga e da evitare. Salvo continuare da parte di quelli stessi cittadini a sostenere e votare quelli stessi politici che abominano, perché evidentemente sperano comunque di ottenerne un qualche vantaggio.

No, il cancro della politica sta oggi in ben altro: le ruberie, la ricerca esclusiva del proprio “particolare” in qualche modo costituiscono l’aspetto “patologico” dell’azione politica, una sorta di bubbone che potremmo chirurgicamente recidere attraverso l’azione della magistratura o con un controllo più oculato. O anche eliminando le occasioni delle ruberie stesse: ad iniziare dall’abolizione del finanziamento pubblico dei Partiti, surrettiziamente e furbescamente mascherato come “rimborsi elettorali” di milioni e milioni di Euro, sottratti al contribuente e devoluti e concessi, in barba a un Referendum popolare in cui pressoché all’unanimità i cittadini si erano pronunciati con nettezza contro quel finanziamento..

Il cancro più pericoloso, proprio perché ormai oggi “fisiologico”, strutturale, dentro la “politica stessa” e che, sia pure in misura diversa, attiene a tutti i Partiti e all’intera partitocrazia, sta in ben altro. L’opinione pubblica tale aspetto, spesso non riesce a coglierlo, altre volte si abitua considerandolo non un “cancro” ma un aspetto positivo di “modernizzazione” della politica.

Qual è dunque questo cancro, questo cambiamento “genetico” della politica, da più di qualche decennio?

Il sistema politico italiano – le cui articolazioni e succursali sarde non fanno eccezione, seguono anzi supine e subalterne le dinamiche continentali e italiote – da un po’ di tempo tende sempre più a “modernizzarsi”, “americanizzandosi”. Ricorre cioè a un uso più consolidato e più spregiudicato dei nuovi mezzi di comunicazione di massa, di tecniche più sofisticate di psicologia di massa, di linguaggio, di controllo dell’informazione. Attraverso tali tecniche e linguaggi, Partiti uomini politici e programmi vengono “venduti”, prescindendo dai contenuti: quello che conta, che si valorizza – come in tutte le operazioni di marketing – è l’involucro, la confezione, l’immagine, il louk.

Berlusconi e Monti, Bersani,Casini e Fini, vengono scelti e votati in quanto immagini rappresentative e simboliche del moderno autoritarismo e del gioco simulato, dietro tecniche di comunicazione, in larga misura mutuate dalla pubblicità.

La politica si svuota così e di contenuti – restano solo quelli simulati – e diventa pura e asettica gestione del potere: il conflitto tra i Partiti – più apparente che reale – diventa lotta fra gruppi, spesso trasversali, in concorrenza fra loro per assicurarsi questa gestione. La battaglia politica perciò diventa priva di “telos”, di finalità. E poiché i gruppi politici si battono fra loro avendo come unico scopo la conquista e la gestione del potere e l’occupazione di Enti, di qualsivoglia genere – da quelli bancari a quelli culturali – purché rendano in termini di soddisfacimento degli appetiti plurimi dei vassalli e “clienti” più fidati, dei pretoriani, dei parenti e famigli. Così le idee politiche, le ideologie, i programmi e i progetti si riducono a pura simulazione: sono effimeri e interscambiabili. Tanto che qualche anno fa i due “poli” di centro-destra e di centro-sinistra si scambiarono reciproche accuse di plagio dei programmi e nell’ultimo anno abbiamo assistito a un consociativismo, o meglio a un’union sacré indecorosa: tutti insieme PDL-PD-UDC a sostenere la politica di macelleria sociale di Monti.

Così la politica diventa autonoma dunque non solo dall’etica ma dall’intera società e dai suoi bisogni: e si riduce a “gioco” simulato e insieme a “mestiere” – ben remunerato – per “professionisti”: non a caso nasce il termine “i politici”.

La legittimazione per i Partiti e i “Politici” non nasce più dalla libera aggregazione dei cittadini attorno a finalità e programmi e progetti discussi, concordati e condivisi, né dal consenso popolare, né da una delega concessa su obiettivi determinati, né dalla difesa di interessi di classi, categorie o gruppi sociali.

La legittimazione tende ad essere tautologica: si è legittimati a governare, per il fatto stesso di essere al governo. E i Partiti sono legittimati per il fatto stesso di essere all’interno del sistema dei Partiti – o della partitocrazia che dir si voglia – più florida che mai nonostante i supposti propositi e i disegni di colpirla.

Tutto ciò è servito e serve a consolidare l’opinione che i Partiti sono “tutti eguali”, omologhi, senza caratteristiche peculiari e dunque ad alimentare l’assoluta sfiducia delle persone nei partiti. Come documenta il Quotidiano La Repubblica il 21 Maggio scorso, da cui risulta che hanno fiducia nei Partiti il 17% degli italiani e addirittura solo il 9% ritiene che i politici siano capaci di governare nell’interesse del Paese. Dati dopo circa un anno che occorre ulteriormente abbassare!

E non poteva essere diversamente visto che oramai sono ridotti a comitati elettorali, ad apparati autoreferenziali, interessati solo all’autoconservazione di un ceto politico, privi di qualsiasi democrazia interna, che selezionano il gruppo dirigente attraverso la cooptazione, in base al tasso di fedeltà al capo e non alle capacità e meriti.

A tal fine si son dotati del “Porcellum” con cui gli oligarchi dei Partiti, “nominano” direttamente i Parlamentari. Agli elettori è rimasto il potere di stabilire le quote da assegnare ai singoli partiti! Così Casini – a proposito di famigli – può candidare una cognata e il fidanzato di una figlia! Naturalmente “perché son bravi”!

Questa la diagnosi. E la prognosi? Qualche suggerimento e proposta: per combattere la cattiva politica dei Partiti occorre non l’antipolitica ma la buona politica. Che – questa almeno è la mia impressione – occorrerà oggi fare fuori dai Partiti. Perché quando i canali sono ostruiti occorre rimuovere l’ostruzione, ma quando ciò non è possibile, occorre costruire canali nuovi, totalmente nuovi da inventare e reinventare: Movimenti, Aggregazioni di base, Club politico-culturali, Collettivi, Fondazioni (segnalo in modo particolare la Fondazione Sardinia) che autorganizzino i cittadini permettendo loro la reattività politica, il protagonismo  sociale, l’impegno culturale e civile, il volontariato. L’importante è non limitarsi ad agitare al vento discorsi che non riescono a far muovere i mulini per macinare grano o pestare acqua nel mortaio. L’importante è praticare l’obiettivo, fare le cose non limitarsi a denunciarle, sperimentare e non solo predicare. L’importante è incrociare la gente, i lavoratori, i giovani, i precari, costruire trame che organizzino e compattino i soggetti sui bisogni e gli interessi, Una politica fatta dal basso: come tentano di fare tanti Movimenti Indipendentisti (in primo luogo ProgRes, Sardigna Libera di Claudia Zuncheddu, Sardigna Natzione, IRS) ma anche Gruppi politici come  LA BASE di Efisio Arbau di Ollolai ed altri. Affermo ciò non per piaggeria verso qualcuno, ma perché seguo e apprezzo le loro iniziative.

 

 

Una Conferenza sulla “Fusione perfetta” e la fine del Regnum Sardiniae. Il pensiero di Eliseo Spiga su quell’avvenimento.

 

 

ITAMICONTAS

Biblioteca Comunale di Flumini

giovedi 31 gennaio 2013 alle ore 17,30

L’Associazione culturale Ita mi contas riprende anche quest’anno l’organizzazione delle Conferenze sulla storia della Sardegna. La prima si svolgerà giovedì 31 gennaio (ore 17.30, Biblioteca di Flumini) e verterà sulla “Fusione perfetta”. A tenerla sarà il professor Francesco Casula. Introdurrà i lavori lo scrittore Paolo Maccioni, vicepresidente di Ita mi contas.

La Fusione perfetta della Sardegna con gli stati sabaudi di terraferma, del 29 novembre 1847, è senza dubbio l’evento politicamente più significativo dell’Ottocento sardo. Con essa l’Isola rinunciava al suo Parlamento e con essa finiva il Regnum Sardiniae. A chiedere  la “Fusione”, che verrà decretata da Carlo Alberto, membri degli Stamenti di Cagliari e di Sassari, senza alcuna delega né rappresentatività né stamentaria né, tanto meno, popolare. Il Parlamento neppure si riunì. Tanto che Sergio Salvi, lo scrittore e storico fiorentino gran conoscitore di “cose sarde” ha parlato di “rapina giuridica”.

La speranza era quella che all’interno della lega doganale italiana fosse favorita la libertà commerciale, sia nelle esportazioni che  nelle importazioni. Si sperava inoltre in una maggiore libertà di stampa, nella limitazione del potere ecclesiastico e di polizia ecc.

La realtà fu un’altra: aggravamento fiscale e maggiore repressione: lo stato d’assedio, subito dopo in Sardegna, sia con Alberto la Marmora (1849) che il generale Durando (1852) divenne sistema di governo.

Gli stessi sostenitori della “fusione”, ad iniziare da Giovanni Siotto-Pintor, parlarono di “follia collettiva”, riconoscendo l’errore:”Errammo tutti”, ebbe a dire Pintor.

Gianbattista Tuveri scrisse che dopo la fusione “La Sardegna era diventata una fattoria del Piemonte, misera e affamata di un governo senza ciore e senza cervello.

Ad esemplificare l’estraneità della Sardegna  al Piemonte basta un episodio paradigmatico: Giovanni Siotto Pintor, uno di quegli intellettuali sardi che nel novembre del 1847 più si era adoperato perché si raggiungesse l’obiettivo  della fusione  con il Piemonte, all’ingresso di Palazzo Carignano viene fermato dal portiere. Il suo abbigliamento ( si era presentato con il costume caratteristico dei sardi , con sa berritta, orbace e cerchietto d’oro all’orecchio) contrastava con l’eleganza e severità dei suoi colleghi piemontesi o liguri o savoiardi della Camera di nomina regia.  Per questo si dice che entrò nell’aula del Senato solo dopo aver vinto con la forza le resistenze del portiere che evidentemente aveva una qualche difficoltà a riconoscere in lui un Senatore.

Il secondo episodio venne denunciato con una lettera  al Presidente della Camera dal deputato di Sassari Pasquale Tola, che, quando nel maggio del 1848 in occasione di una riunione con i colleghi delle altre province, rimarcò l’assenza dell’emblema della Sardegna nell’aula dove,invece,  erano dipinti e diversamente raffigurati quelli delle altre province del Regno.

Con la fusione si pensava di volare. Le cose andarono diversamente.

 

 Ecco come andarono. La versione di Eliseo Spiga

L’evento politicamente più significativo dell’Ottocento sardo è senza dubbio la perfetta fusione, 29 novembre 1847, della Sardegna con gli Stati sabaudi di Terraferma ela fine del Regnum Sardiniae.

Il pretesto per decretare la fusione fu dato dalle manifestazio­ni pubbliche di Cagliari e Sassari per invocare che venissero estese alla Sardegna riforme liberali quali l’attenuazione della censura sulla stampa, la limitazione degli abusi polizieschi e qualche libertà commerciale. Dentro la cortina fumogena del riformismo liberale europeo, avanzavano, in posizione premi­nente, i nobili ex-feudali che, illecitamente arricchitisi con la ces­sione dei feudi in cambio d’esorbitanti compensi, ritenevano più garantite le loro rendite dalle finanze piemontesi piuttosto che da quelle sarde. In prima fila c’erano anche vescovi e preti, impiegati statali desiderosi di carriera e di migliori stipendi, un po’ d’avvocati e altri professionisti in cerca di lustrini, commer­cianti e affaristi, specialmente continentali, razzolanti sempre più numerosi nelle aie sarde, e, infine, coro vociante e allucinato, folti gruppi di studenti universitari opportunamente masturbati dai gesuiti.

Ad una delegazione di quest’accozzaglia reazionaria, espressa dagli Stamenti, ormai ridotti a stato larvale, e da alcuni consigli comunali, sua Maestà Carlo Alberto espettorò con paterna tenerez­za la sua intenzione di formare con Sardi e Piemontesi, e qualche altro, una sola famiglia.

In effetti, al Re erano state presentate, in seguito ad una perfi­da manipolazione che si abbracciava con la perfida malafede del sovrano, non tanto programmi riformatori quanto la richiesta di perfetta fusione. In altre parole, gli autori della iniziativa scellerata, dichiaravano la rinuncia dei Sardi, commenta Girolamo Sotgiu, a quella indipendenza nazionale che aragonesi e spagnoli avevano secolarmente rispettato e che il regno sabaudo non aveva osato mettere in discussione anche se l’aveva svuotata di contenuto. La Sardegna, che era stata un regno con relativa autonomia all’inter­no del grande Impero di iberica magnificenza, si ritrovò ad essere provincia di uno staterello ottuso e famelico. E finì così, in una bolla regale, il Regnum sortito da una Bolla pontificia.

I Sardi, ovviamente, erano tutt’altro che convinti della rinuncia. Da più parti furono minacciati, ai piemontesi un’altra edizione dello scommiato del 1794, e ai gesuiti espulsione e morte, mentre i contadini scalpitavano all’idea della imminente sollevazione. Da Teulada vennero a Cagliari in moltissimi credendo di dover parte­cipare alla rivolta. A Selargius c’erano cinquecento uomini armati sul piede di guerra e circa ottocento ce n’erano ad Aritzo, Orgoso­lo e Fonni. La Sardegna contadina, osserva ancora Sotgiu, sembrava rivivere l’ansia e la speranza dei giorni esaltanti dell’Angioy, pronta ancora una volta a scendere in armi per la sarda rigenerazione.

Gli avvenimenti, com’è noto, presero tutt’altra piega.

Il tenente generale Alberto La Marmora, proprio quello del Voyage en Sardaigne, giunse, ai primi del 1849, come commissario regio per pacificare l’Isola scossa da continui tumulti esplosi dalle gravissime condizioni economiche e anche da rinnovati senti­menti repubblicani filofrancesi. Conservatore e militaresco, il Generale si dedicò alla pacificazione affrontando il dissenso e la protesta con la repressione più brutale e la violazione sistematica delle meschine libertà statutarie. Per lui lo stato d’assedio divenne sistema di governo inaugurando la pratica della dittatura militare che, poco più di dieci anni dopo, diventerà usuale durante la guer­ra di conquista del Mezzogiorno da parte della monarchia italiana.

Il 24 febbraio del 1852, lo stato d’assedio, con l’invio del gene­rale Durando e di 500 soldati, fu imposto su tutta la provincia di Sassari per domare le agitazioni che vi si erano accese. Ancora nel 1855, lo stato d’assedio fu proclamato ad Oschiri per l’omicidio di un ingegnere.

Nel frattempo, tanto per non dimenticare, venne ribadito il divieto della lingua sarda e, da una Corte reale che parlava france­se, fu confermato l’obbligo dell’italiano già in vigore dal 19 maggio 1726 con l’incarico al gesuita Antonio Falletti di provvedere con un suo piano. Evidentemente, non era l’amore per la lingua italia­na che spingeva la Corte, ma la preoccupazione per la lingua che alimentava una cultura politica popolare di cui conoscevano bene la verve eversiva. Perciò, la Corte soffiava sempre sulla propagan­da razzistica contro i sardi ancora più brutti, sporchi, cattivi e anche pelosi, persino le donne avevano lunghi baffoni ed erano capaci di sparare da cavallo, e già diventati pocos, locos y malunidos.

Ma ormai Annibale è alle porte, come dicevano i sardisti quando temevano o si inventavano un pericolo, e si prepara il tempo in cui le catastrofi dei sardi da grandi si sarebbero trasformate in gran­dissime e, forse, irreparabili.

La Sardegna diventa subito terreno di conquista e di caccia per i nuovi capitali mercantili e industriali che la politica affaristica della Corte sabauda aveva mobilitato nei mercati finanziari d’oltralpe per dare sostegno al progetto cavourriano dell’Unità nazionale. Il sogno dell’indipendenza finisce nella soffitta o nascosto in qualche piega della coscienza. La dipendenza della Sardegna diventa totale, generale. Da dipendenti del Piemonte passiamo alle dipendenze di tutte le regioni del Nord-Italia e dei loro affaristi e speculatori. E, oggi, esiste al mondo qualcosa, qualche potere o volere, da cui non dipendiamo? Ma questo non è lo status di una colonia?

Lo Stato italiano, sin dai suoi primi mugolii, considerò la Sardegna come una sua appendice molto incerta, una colonia insomma e come tale barattabile. La cessione ai francesi fu ipotizzata per molto tempo. Quella a favore degli inglesi con minore convinzione. A quando la cessione piena agli Stati Uniti d’America?

[testo tratto da La Sardità come utopia- note di un cospiratore, di Eliseo Spiga, Ed. CUEC, Cagliari 2006 pagine 151-154].

 

 

 

 

 

 

In ricordo di Francesco Masala scomparso il 23 gennaio del 2007

FRANCESCO MASALA

Il poeta e il romanziere bilingue dei Sardi “vinti ma non convinti” (1916-2007)

Nasce a Nughedu San Nicolò, nel Logudoro, in provincia di Sassari il 17 settembre 1916. Dopo il liceo a Sassari si laurea a Roma con Natalino Sapegno con una tesi sul teatro di  Pirandello.

Nella seconda guerra mondiale combatte prima sul fronte iugoslavo e poi sul fronte russo dove viene ferito e decorato al valore militare. Al termine del conflitto  insegna per 30 anni Italiano e storia prima a Sassari poi a Cagliari. Per oltre 50 anni collabora con giornali e riviste, – fra cui con i quotidiani “L’Unione Sarda” e “La Nuova Sardegna”  con articoli di critica letteraria, artistica e teatrale, lui che chiamava con dispregio pisciatinteris (pisciainchiostro) i giornalisti.

Scrive anche per il periodico bilingue “Nazione Sarda”,nato nel 1977 e a cui collaborarono intellettuali come l’archeologo Giovanni Lilliu, gli scrittori Antonello Satta e Eliseo Spiga, l’economista e federalista europeo Giuseppe Usai, il poeta e drammaturgo Leonardo Sole, la pedagogista Elisa Nivola, lo scultore Pinuccio Sciola.

Il periodico – insieme ad altre riviste – si fa promotore di un Comitadu pro sa limba (Comitato per la lingua sarda) che elaborerà una proposta di legge di iniziativa popolare – la prima nella storia della Sardegna – per introdurre nell’Isola il Bilinguismo perfetto, in base all’articolo 6 della Costituzione. La proposta di legge, sottoscritta con firme autenticate da 13.650 elettori sardi verrà presentata il 17 Giugno del 1978 al presidente del Consiglio regionale da Francesco Masala.

Lo scrittore – che era il presidente del Comitadu pro sa limba – era sempre più impegnato sul fronte della difesa e della valorizzazione della Lingua sarda e dunque della necessità di introdurre nell’Isola il Bilinguismo perfetto, con la parificazione giuridica e pratica del Sardo con l’Italiano, ad iniziare dall’introduzione nelle scuole di ogni ordine e grado della Lingua sarda nell’insegnamento e nei curricula scolastici.

Nel 1951 vince il “Premio Grazia Deledda” e nel 1956 il “Premio Cianciano”. Le sue opere vengono tradotte in numerose lingue. Legato da amicizia e affinità politica con Emilio Lussu, Giuseppe Dessì e Salvatore Cambosu ma anche con Gian Giacomo Feltrinelli, è autore di una sterminata serie di libri. La sua fama si lega in eguale misura ai suoi versi e ai suoi scritti in prosa, ma il primo successo gli venne dalla poesia, non tanto per la prima raccolta del 1954 Lamento e grido per la terra di Sardegna, quanto per la seconda di due anni dopo, Pane nero – che verrà tradotta in russo, iugoslavo e spagnolo – e Il vento, una silloge pubblicata nel 1961. Quindi, nel 1968, il suo primo romanzo Quelli dalle labbra bianche, che verrà tradotto in ungherese e in francese (da Claude Schmitt per la casa editrice Zulma, con il titolo di  Ceux d’Arasolè).

Nei primi anni Settanta ci sarà la trasposizione teatrale firmata da Giacomo Colli e realizzata dalla Cooperativa Teatro di Sardegna, con il titolo Sos laribiancos. Mentre nel 2001 il regista Piero Livi traspone in un film, il romanzo tragedia della guerra, con il biancore mortuario delle nevi russe.

Nello stesso anno esce un’altra raccolta di poesie Lettera della moglie dell’emigrato. Nel 1974 si presenta al pubblico con la raccolta delle poesie Storie dei vinti mentre nel 1976 per il teatro scrive – in collaborazione con Romano Ruiu e con il regista Gian Franco Mazzoni –  il dramma popolare bilingue Su Connotu (Il conosciuto). In sardo-italiano scrive anche due radiodrammi trasmessi dalla Rai nel 1979 e nel 1981, Emilio Lussu, il capo tribù nuragico e Gramsci, l’uomo nel fosso. Sempre nel 1981 pubblica Poesias in duas limbas (Poesie in due lingue) tradotte in francese; nel 1984 Il riso sardonico (saggi); nel 1986 il suo secondo romanzo, Il dio petrolio, tradotto in francese con il titolo Le curè de Sarrok, ambientato proprio a Sarrok (Cagliari), città simbolo dell’industria petrolchimica (de s’ozu de pedra: dell’olio di pietra), che secondo Masala avvelenerà e devasterà alcuni fra gli angoli più suggestivi della Sardegna, sconvolgendo anche a livello antropologico le popolazioni.

Sempre nel 1986 pubblica il saggio Storia dell’acqua mentre nel 1987 la Storia del teatro sardo. Nel 1989 pubblica il suo primo romanzo in lingua sarda: S’Istoria (Condaghe in limba sarda) nel quale Masala riprende e amplia nel tempo la vicenda di un paese simbolo della Sardegna, Biddafraigada (paese costruito) e poi nel 2000 con Sa limba est s’istoria de su mundu (La lingua è la storia del mondo) ancora la storia di un villaggio malefadadu (sfortunato) di contadini e pastori. Muore il 23 gennaio del 2007.

 

 

Presentazione del testo [tratto dal romanzo Quelli dalle labbra bianche, Feltrinelli editore, Milano 1962, pagine 11-15].

 

Quelli dalle labbra bianche sono i poveri: affamati, denutriti e anemici, che non portavano le labbra coralline ma bianche appunto, perché hanno sempre mangiato il prodotto di piante frumentacee e poca carne e pesce, destinati ai piatti dei ricchi.

Il romanzo è la storia di nove sardi caduti nella steppa russa: in guerra. Sardi – dirà Masala –  cattivi banditi in tempo di pace, ma eroi buoni in tempo di guerra: in guerre nelle patrie trincee, in pace nelle patrie galere.

Fra le pareti di una piccola chiesa, durante la celebrazione di una messa funebre in memoria dei nove sardi defunti, rivivono le loro vicende. Raccolto all’ombra del campanile, Arasolè – nome poetico e immaginario del paese nativo dello scrittore – villaggio sardo dimenticato e sperduto, ricorda, per il tempo presente e futuro, gli orrori della guerra, ammonendo tutti a non dimenticare.

 

SERAFINA PESTAMUSO

“Serafina, la vedova del caporale Efisio Pestamuso, sta rigida da­vanti al candelabro del defunto marito. Non ha alcuna voglia di sen­tire quello che grida Prete Fele.

Non le interessano le ferite riportate dal Cristo nero. Quelle di suo marito nessuno le ha contate. Grigia, secca, pelosa, rugosa, Sera­fina guarda il figlio Battista, accanto a sé, già in età di fare il soldato, nero e grosso come il padre, buonanima. Serafina ha un chiodo fisso in testa, da venti anni. Con gli occhi bovini che girano lenti e aridi, Serafina guarda tenacemente il figlio accanto a sé.

Tutti lo sappiamo ad Arasolè, Serafina da venti anni ha un chiodo fisso in testa: la cartolina rossa1.

Fu la prima domenica di giugno di venti anni fa che arrivò la cartolina rossa per il marito Efisio Pestamuso, la cartolina rossa di richiamo del Distretto Militare. La cartolina rossa si portò via il ma­rito. Efisio non è più tornato. Tutto qui per Serafina Pestamuso.

Quella domenica di giugno, appunto, stavo attraversando la piaz­zetta per andare a suonare la campana della seconda Messa, quando il vecchio Pasquale Corru2, il postino, mi fermò e mi consegnò la cartolina rossa di richiamo arrivata per me dal Distretto.

Efisio Pestamuso, dalla porta della sua nera fucina di fabbro ferraio, mi gridò:

“Ehi, Daniè, fregati siamo”.

E mi sventolò la sua cartolina rossa.

Guardai ancora la mia cartolina e gli gridai:

“Va be’, ora, Prete Fele se le suona lui le campane”.

E voltai le spalle al campanile.

In quel momento, Antonio Nèula, noto Mammutone3, brutto ma, in verità, il miglior ciabattino di Arasolè, si alzò dal deschetto4 del suo stambugio5 e si affacciò sulla piazzetta con la sua cartolina rossa in mano. Ci sputò sopra e gridò:

“La malasorte, è la nostra classe, l’ultima volta che è venuta, questa carota ci è costata tre anni di naia6”.

Poi arrivò nella piazzetta Peppe Brinca, noto Automedonte7, fan­tino e domatore di cavalli, nonché caporalmaggiore, dopo l’ultimo richiamo:

“Be’, niente male, evviva la naia, scarpe di governo, vestito gratis, ingrassa povero”.

Subito dopo Gavino Malía, il venditore ambulante, noto Tric-trac8, sbucò nella piazzetta con il suo carrettino carico di angurie.

“Venite, aiò, venite all’anguria, venite, aiò, quando la tagli fa tric-trac, che cosa bella, venite all’anguria, è rossa e non è fuoco9, è acqua e non è fontana, è tonda e non è mondo, aiò10, venite, aiò, venite, tric-trac, tric-trac, tric-trac…”

Ma in quella sopraggiunse la moglie Teodora con la cartolina rossa in mano e gliela mise sotto il naso. E Gavino Malía, noto Tric­trac, divenne pallido come un fazzoletto della domenica, lasciò an­dare le stanghe del carretto e le angurie si misero a rotolare nella piazzetta fino alla fucina di Efisio Pestamuso.

Giunsero, allora, nella piazzetta gli altri richiamati, tutti con la cartolina rossa in mano: Michele Girasole, il muratore, noto Sciarlò, con i capelli neri con la riga in mezzo e il viso pallido, sempre rivolto al cielo come per parlare con gli uccelli; il contadino Salvatore Mè­rula11, noto Animamèa, con la barba cespugliosa sempre lunga e le mani grandi e piene di calli; i fratelli gemelli Matteo e Andrea Cocòi12, caprai, uno masticando tabacco e sputando, l’altro fumando il sigaro col fuoco dentro la bocca per consumarlo di meno13; e, infine, il pro­prietario Don14 Adamo, il principale di Orvenza, che arrivò nella piaz­zetta e gridò:

“Viva la classe di ferro!”

“La classe dei fessi,” sibilò Pestamuso.

Allora, uscì dalla chiesa Prete Fele, adirato perché non aveva sentito ancora suonare la campana della seconda Messa. Vide le car­toline rosse, sollevò le sue lunghe e magre braccia e cominciò:

“Iddio Sabaotto15…”

Ma intervenne zio16 Pasquale Corru, il vecchio postino, che era allo stesso tempo usciere, guardia comunale, fontaniere17 e becchino di Arasolè, interrompendo l’inizio di predica di Prete Fele.

“Guerrieri,” ci disse sorridendo con la bocca furba e sdentata, “guerrieri, se non volete perdere il treno, andate a casa e preparatevi il fazzolettone18. Il treno passa a mezzogiorno in punto”.

E a mezzogiorno in punto la classe di ferro era tutta riunita nella stazioncina ferroviaria, isolata in aperta campagna, a mezzo chi­lometro da Arasolè, fra siepi di fichidindia19.

Ciascuno di noi portava in mano il fazzolettone involto a qual­cosa da mangiare. Quei fazzolettoni a quadrati rossi e blu con cui i braccianti a giornata di Arasolè avvolgono il pane e il formaggio per il pasto di mezzogiorno in campagna: quei fazzolettoni grandi, così grandi che, con una dozzina di essi, puoi coprire un’intera vigna di qualche povero nei salti sassosi di Caràde. Il principale di Orvenza aveva dietro un servo che portava sulle spalle una grande e pesante valigia di cuoio.

C’erano anche le nostre donne: Caterina, mia moglie; Serafina, la moglie di Pestamuso con il piccolo figlio in braccio; Maria Girasole, la lavandaia, madre di Sciarlò; Giovanna la Rossa, moglie di Mammu­tone; Rosa Fae, la fidanzata di Sciarlò; Teodora, moglie di Tric-trac; Mariantonia, moglie di Salvatore Animamèa; Lillía, madre di Peppe Brinca; e la nobile Donna Filiàna di Orvenza, moglie di Don Adamo.

Sul binario aspettava il trenino di fumo che aveva in coda un carro bestiame, “cavalli 8, uomini 4020.”  Tric-trac, il venditore ambu­lante, disse subito:

“ Niente male, cinque uomini per un cavallo”

Sul carro bestiame fummo fatti salire noi, i richiamati. Le donne cominciarono il pianto. Efisio Pestamuso, sporgendosi fuori dal carro, si fece dare dalla moglie il figlioletto per un ultimo bacio. In quel momento il treno si mosse.

Serafina gridò:

“Efisio, Efisio, il bambino, dammi il bambino!”

Ma il fabbro ferraio non poteva fare niente. Efisio, col figlioletto fra le braccia, guardava esterrefatto il treno che aumentava la sua corsa e la moglie che tendeva invano le sue mani.

Non ci fu niente da fare. Il figlio di Serafina rimase, sorridente e divertito, fra le braccia del padre, dentro il carro bestiame del tre­nino di fumo che trasportò i richiamati di Arasolè alla città da dove erano partite le cartoline rosse.

Alla porta del Distretto Militare si presentò un richiamato in più, un soldato di un anno senza cartolina rossa.

L’Ufficiale di picchetto rimase di stucco quando vide il grosso Efisio entrare in caserma con un poppante in braccio. Successe il finimondo. Da tutte le camerate, da tutti i magazzini, da tutte le fure­rie21, soldati, ufficiali, sottufficiali vennero a vedere il richiamato in fasce.

Venne anche il colonnello comandante.

Efisio Pestamuso, sull’attenti, spiegò:

“Signor colonnello, il treno è partito e questo coso mi è rimasto fra le braccia.”

Il coso, fra le braccia del padre, rideva imperturbato in faccia al colonnello.

“Questo non è un asilo infantile, io non sono una balia asciutta22,” urlò il colonnello.

Ma era commosso si vedeva. Aveva perduto la testa anche lui. Non sapeva cosa fare. Per un momento si chiese se era militarmente decoroso fare una carezza al figlio di un soldato raso23. Infine, fu chiamato il cappellano. Il prete si prese il bimbo e lo portò nel suo alloggio.

Il giorno dopo, Serafina prese lo stesso trenino di fumo dalla stazioncina di Arasolè per recarsi alla città del Distretto Militare.

Tutto andò bene lungo il viaggio, ma Serafina non era mai stata in città.

Quando, uscita dalla stazione, si trovò davanti ad un semaforo con la guardia in guanti bianchi che fischiava continuamente, Sera­fina cominciò a dubitare di poter riprendersi suo figlio. Quando voleva passare, l’uomo dai guanti bianchi fischiava e la faceva tornare indie­tro; e quando poteva passare, Serafina stava lí, ferma, a guardare preoccupata il nero semaforo che sembrava un morto con tre occhi.

Dopo molti infelici tentativi, Serafina scoppiò in lacrime24.

Un’altra volta sola, in vita sua, Serafina aveva pianto.

Era successo il giorno dopo le nozze. La domenica mattina, come è consuetudine ad Arasolè, solo la prima domenica dopo le nozze, Efisio Pestamuso accompagnò la moglie in chiesa. Arrivati alla soglia della vecchia chiesa di Prete Fele, mentre Serafina varcava il portone di legno scolpito e tarlato, Efisio si voltò verso gli amici seduti nella piazzetta e, indicando il sedere della sposina, gridò

” Donna meglio vestita di mia moglie ne entrerà, oggi, in chiesa, ma meglio contentata, no.”

Serafina aveva sentito, era diventata rossa come un peperone ed era scoppiata in lacrime.

Ora, per la seconda volta in vita sua, Serafina piangeva davanti al semaforo. Quel mostro con tre occhi: uno rosso come l’occhio25 del cinghiale, l’altro verde come l’occhio della lucertola, il terzo giallo come l’occhio della capra.

Serafina piangeva e guardava ora i tre occhi ed ora la terribile guardia dai guanti bianchi. Poi, il fischietto del vigile si inceppò e Serafina passò.

Colei che aveva superato il diavolo con tre occhi non ebbe più paura di niente.

Girò, domandò, interrogò e trovò il Distretto Militare.

Scovò il figlio nella stanza del cappellano e se lo riprese come una furia.

E, senza nemmeno vedere il marito, se ne tornò ad Arasolè.

Serafina, ora, è qui, grigia, invecchiata, pelosa e rugosa, davanti al candelabro funebre del defunto marito. Il figlio le sta accanto, nero e grosso come il padre, buonanima. È già in età di fare il soldato. Serafina non ha alcuna voglia di ascoltare ciò che dice Prete Fele. Con occhi bovini, lenti e aridi, essa guarda tenacemente suo figlio. Tutti lo sappiamo ad Arasolè, Serafina da venti anni ha un solo pen­siero, una sola paura, un chiodo fisso in testa: la cartolina rossa, un’altra cartolina rossa per il figlio”.

 

Note

1. cartolina rossa: è la cartolina precetto che obbliga alla guerra; cartolina di chiamata alle armi, detta rossa per il colore.

2. Pasquale Corru: non a caso il postino si chiama Corru: in italiano significa corno, e il corno è il fregio, lo stemma delle poste.

3. Mammuthone: una caratteristica dei villaggi sardi è il soprannome, per cui uno è conosciuto quasi esclusivamente col nomignolo; in questo caso Mammuthone, perché brutto, simile alla maschera nera, bisèra, usata a Ma­moiada, simbolo del carnevale, ma legata ai riti del mondo agricolo-pastorale

4. deschetto: tavolino dei calzolai.

5. stambugio: stanzino buio.

6. Questa carota…naia: carota indica il colore rosso della cartolina e naia, in gergo è così chiamata la vita militare.

7. Brinca… Automedonte: anche in questo caso cognome e soprannome derivano dal mestiere, fantino e domatore di cavalli (va detto che la maggior parte dei cognomi sardi sono di origine agricola-pastorale); Brinca, salta, dal logudorese brincàre (campidanese brincai) = saltare, saltellare. Automedonte, era il guidatore del cocchio d’Achille.

8. Tric-trac: voce onoma­topeica, che imita il suono, in questo caso dell’anguria quando viene tagliata.

9. … e non è il mondo: si tratta di un indovinello comune in tutta l’isola, in campidanese suona così: « Est birdi e no’ est erba / Est arrubiu e no’ est fogu / Est acqua e no’ penètrada», verde e non è erba, è rosso e non è fuoco, è acqua e non penetra).

Grazia Deledda, nel 1894, pubblicò l’indovinello nella Rivista delle tra­dizioni popolari italiane, diretta da Angelo De Gubernatis, naturalmente in nuorese: «Est birde e no est erba, / Est ruju e no est f ocu, / Est tundu e no est mundu ». E’ l’anguria, sa sindria in sardo.

10. Aiò (suvvia, andiamo)

11. Mèrula… Animamèa: Mèrula, merlo: in sardo-logudorese, derivante dal latino, significa merlo, in campidanese è meurra; Animamèa = anima mia.

12. Cocòi:in sardo ha diversi significati: coccòi (con una o due c a seconda del luogo) è un tipo di pane; coccòi vuol però anche dire lumacone; in questo caso il co­gnome Cocòi sta proprio per lumacone senza guscio, ignudo.

13. Consumarlo di meno: secondo l’antropologo Carlo Maxia, fumare il sigaro a fogu a intro (col fuoco dentro), è tipicamente sardo. I sardi della Brigata Sassari, durante la prima guerra mondiale, fumavano a fogu a intro per non essere visti dal nemico. Inoltre il sigaro col fuoco in bocca permette al pastore che deve sorvegliare il gregge di non essere individuato da even­tuali ladri di bestiame, godere del piacere del fumo senza che nulla appaia all’esterno e percepire un delizioso tepore in bocca.

14. don Adamo: il don (da dònno = signore) è titolo di origine feudale, riservato ai nobili e ai proprietari, sos prinzipales, (i principali), importato in Sardegna dalla Spagna.

15. Sabaotto: voce ebraica, sàbaot, = degli eserciti o delle virtù, si dice di Dio.

16. zio: così in Sardegna vengono chiamate le persone su con gli anni.

17. fontaniere: addetto all’acquedotto.

18. fazzolettone: la valigia, la borsa dei poveri (e dei vagabondi di tanti films muti e sonori).

19. siepi di fichidindia: molte stazioni ferroviarie distavano chilometri e chilometri dai centri abitati, per cui erano circondate dai fichidindia, tipici frutti della Sardegna.

20. «Cavalli 8, uomini 40»- è il testo del foglio di viaggio compilato dal capostazione per il capotreno.

21 furerie: sono gli uffici amministrativi militari, nei comandi di compagnia, di batteria ecc.

22 balia asciutta (bambinaia)

23 soldato raso: soldato semplice; raso per l’uso di rapare i  soldati semplici, in particolare le reclute.

24 scoppiò in lacrime: l’incontro-scontro con la città immensa, lon­tana dal villaggio, una città popolata da stranieri, da gente che non capisce la civiltà della campagna.

25 … come l’occhio del cinghiale… come l’oc­chio della lucertola… come l’occhio della capra: sono immagini che derivano dalla società e civiltà agro-pastorale sarda.

 

 

 

 

ANALIZZARE

I nove eroi del romanzo, andati a fare la guerra e a “crepare” in Russia, in mezzo al freddo, la fame., i pidocchi, i topi, il tifo e la dissenteria sono i gemelli Matteo e Andrea Cocoi, l’uno che mastica tabacco e sputa e l’altro che fuma il sigaro al contrario, che somigliano a lumache; Beppe il seduttore, Tric-Trac il rivenditore ambulante-fattucchiere; Mammutone, il calzolaio più brutto dei sette peccati capitali; Don Adamo il ricco printzipale; Girasole il muratore; Salvatore il contadino; Pestamuso il fabbro.

Serafina, vedova di quest’ultimo, caduto sotto una betulla nella tragica campagna di Russia della seconda guerra mondiale, nella chiesetta del suo paese, nella ricorrenza del ventesimo anniversario della sua morte, non aveva voglia di ascoltare la predica di prete Fele che “conta le ferite di Cristo sul calvario” perché “nessuno aveva contato quelle di suo marito”. Ha ancora in testa un chiodo fisso: la cartolina precetto con cui il marito era stato chiamato alla guerra.

Nel romanzo si ritrovano ampie analogie e corpose ascendenze da ricondurre sia al neorealismo letterario che a quello cinematografico: un realismo che non teme di mescolarsi con il fantastico più sbrigliato e con un humour nero e paradossale che né Dino Risi né Ettore Scola rinnegherebbero.

Con i protagonisti che ci fanno anche pensare ai personaggi tragici e insieme paradossali, assurdi e grotteschi di Dino Segre (Pitigrilli) come di Pietro Chiara o di Dino Buzzati.

Masala però dosa i suoi effetti: l’assurdità con lui ha qualcosa di delicato. Come nelle Novelle per un anno di Pirandello in cui la derisione la fa da padrone. Come ne La luna e i falò di Pavese in cui si sente un disgusto della frivolezza tragica.

 

 

Letture:

Prima [poesia tratta da Poesias in duas limbas ora in Opere di Francesco Masala, volume II, Alfa editrice, Quartu 1993, pagine 160-163]

 

LITTERA DE SA MUZERE DE SEMIGRADU

Est bènnidu, s’istiu.

Dae ispigas de nèula, in su cunzadu,

est fioridu trigu de chigìna:

has semenadu in mare.

Su ruìnzu e su solòpu han mandigadu pane ‘e fizu tou:

has semenadu in mare.

In malora has postu

sa falche subra santa de sa janna:

has semenadu in mare.

Ohi, iscura s’arzola

chi timet sa frommigia:

has semenadu in mare.

Su entu s’est pesadu ma in sa terra

falat solu paza:

has semenadu in mare.

Prenda mia istimàda,

cando torras, si mai has a torrare,

no mi pèdas ue est s’aneddu ‘e oro:

est diventadu pane a fizu tou.

Prenda mia istimada, coro meu,

t’iscrìo subra sas undas de su mare,

t’iscrìo subra su entu:

ammèntadi de me.

Ohi, cantos fizos

cherìas chi mi naschèren dae su sinu:

ma totu sunu mortos dae cando ses partidu,

in su lettu de paza b’est restadu,

a s’ala tua, unu sulcu chena sèmene.

Prenda mia istimada,

no isco pius proìte ti faèddo,

sos pensamentos mios sunu che s’erva,

ateros che sas nues, ateros che ispinas.

Intro de te haìa fattu nidu,

intro de me haìas fattu nidu.

Isco chi no ses nudda

e deo ancora respìro.

Su coro est grogu

comente binza posca ‘e sa innenna.

 

 

Seconda [poesia tratta da Poesias in duas limbas ora in Opere di Francesco Masala, volume II, Alfa editrice, Quartu 1993, pagine 206-209]

 

 

INNU NOU CONTRA SOS FEUDATARIOS

(A sa manera de F. I. Mannu)

 

Trabagliade, trabagliade,

poveros de sas biddas,

pro mantennere in zitade

tantos caddos de istalla:

issos regollin su ranu,

a bois lassan sa palla.

 

Trabagliade, trabagliade,

petrochimicosoperajos

pro su pane tribulade:

cun su ‘inari ‘e sa Rinaschida

ingrassan sos de Milanu

e a bois lassan su catramu.

 

Trabagliade, trabagliade,

in sa chejas de petroliu

de Sarrok a Portoturre:

sa cadena de trabagliu

cun sa matta mesu piena

est trabagliu de cadena.

 

Trabagliade, trabagliade,

minadores de Carbonia,

in sos puttos de ludràu:

cras bos toccat sa pensione,

unu pagu ‘e silicosi

e unu pagu de cannàu.

 

Trabagliade, trabagliade,

ohi, pastores de Orgosolo,

cun sas ‘amas de arveghes:

no andedas a isbaragliu,

attent’a  s’artiglieria

chi bos lèat a bersagliu.

 

Trabagliade, trabagliade,

emigrados berdularios,

in sas fabricas de gherra

de sos meres de sa terra:

sos dannados de sa terra

cun su famine cuntièrrana.

 

Trabagliade, trabagliade,

cun sa pinna, o literados,

subra foglios impastados,

de catramu e de petroliu:

su salariu est pariparis

a Zuda trinta dinaris.

(Passo tratto da Letteratura e civiltà della Sardegna, di Francesco Casula,(volume II, di prossima pubblicazione, Grafica del Parteolla Editore, Dolianova, pagine 29-41)

Ricordando la lezione di Gramsci sulla Lingua sarda, in occasione del 122° anniversario della sua nascita oggi 22-1-2013.

Oggi 22 gennaio 2013, in occasione del 122° Anniversario della sua nascita, voglio ricordare la lezione di Gramsci sulla Lingua sarda, Gramsci e la Lingua sarda

di Francesco Casula

Le Lettere dal carcere scritte dopo il suo arresto sono dirette per la gran parte ai

familiari: alla moglie e ai figli, alla cognata, alla madre, alle sorelle e al fratello Carlo.

Solo alcune sono indirizzate agli amici.

Per la prima volta furono pubblicate in un volume uscito nel 1947 che ne comprendeva

218. Nel 1965 un nuovo volume ne comprenderà 428, delle quali 119 fino

ad allora inedite. Esse risultano un grandioso e insieme toccante documento autobiografico

testimonianza umana culturale ed etica.

Esse oltre a costituire un documento di insostituibile interesse storico e letterario

rappresentano un’avvincente testimonianza psicoantropologica, una vita ricca di eventi

significativi e persino drammatici. Eccone una11 diretta alla sorella Teresina in cui

affronta la questione della Lingua sarda.

Carissima Teresina,

mi è stata consegnata sola pochi giorni fa la lettera che mi avevi inviato a Ustica e

che conteneva la fotografia di Franco. Ho così potuto vedere finalmente il tuo bimbetto

e te ne faccio tutte le mie congratulazioni; mi manderai, è vero? anche la fotografia

della Mimì e così sarò proprio contento. Mi ha colpito molto che Franco, almeno dalla

fotografia, rassomigli pochissimo alla nostra famiglia: deve rassomigliare a Paoloe

alla sua stirpe campidanese e forse addirittura maurreddina: e Mimì a chi somiglia?

Devi scrivermi a lungo intorno ai tuoi bambini, se hai tempo, o almeno farmi scrivere

da Carlo o da Grazietta. Franco mi pare molto vispo e intelligente: penso che parli già

correttamente. In che lingua parla? Spero che lo lascerete parlare in sardo e non gli

darete dei dispiaceri a questo proposito. È stato un errore, per me, non aver lasciato

che Edmea, da bambinetta, parlasse liberamente il sardo. Ciò ha nociuto alla sua

formazione intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia. Non devi

fare questo errore coi tuoi bambini. Intanto il sardo non è un dialetto, ma una lingua

a sé, quantunque non abbia una grande letteratura, ed è bene che i bambini imparino

piú lingue, se è possibile. Poi, l’italiano, che voi gli insegnerete, sarà una lingua

povera, monca, fatta solo di quelle poche frasi e parole delle vostre conversazioni con

lui, puramente infantile; egli non avrà contatto con l’ambiente generale e finirà con

l’apprendere due gerghie nessuna lingua: un gergo italiano per la conversazione

ufficiale con voi e un gergo sardo, appreso a pezzi e bocconi, per parlare con gli altri

bambini e con la gente che incontra per la strada o in piazza.

Ti raccomando, proprio di cuore, di non commettere un tale errore e di lasciare

che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino spontaneamente

nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà un impaccio per il loro

avvenire, tutt’altro. Delio e Giuliano sono stati male in questi ultimi tempi: hanno

avuto la febbre spagnola; mi scrivono che ora si sono rimessi e stanno bene. Vedi, per

esempio, Delio: ha cominciato col parlare la lingua della madre, come era naturale e

necessario, ma rapidamente è andato apprendendo anche l’italiano e cantava ancora

delle canzoncine in francese, senza perciò confondersi o confondere le parole dell’una

e dell’altra lingua. Io volevo insegnarli anche a cantare: «Lassa sa figu, puzone»,

ma specialmente le zie si sono opposte energicamente[…].

Abbraccio Paolo affettuosamente; tanti baci a te e ai tuoi bambini

Nino

In questa lettera del 26 marzo del 1927, scritta alla sorella Teresina dal carcere,

giustamente notissima e super citata, Gramsci rivela una serie di intuizioni formidabili

sull’importanza, sull’utilità, sul ruolo e la funzione della lingua sarda, specie per quanto

attiene allo sviluppo del bambino e allo stesso apprendimento dell’italiano.

Per intanto ammette che “è stato un errore non aver lasciato che Edmea, da bambinetta,

parlasse liberamente in sardo”. Si tratta di un errore oltremodo diffuso nella

cultura e nell’intera scuola italiana, ancora oggi ma soprattutto nel passato.

Un errore e un pregiudizio che deriva da lontano: basti pensare ai primi Programmi

della Scuola italiana, impostati a partire dall’Unità e dalla Legge Coppino del

1867 secondo una logica statoiatrica e italocentrica, finalizzata a creare una supposta

coscienza “unitaria” un cosiddetto spirito “nazionale”, capace di superare i limiti

– così erroneamente si pensava – di una realtà politico-sociale estremamente divisa,

differenziata e composita sul piano storico, linguistico e culturale.

Così, tutto ciò che anche lontanamente sapeva di locale – segnatamente la storia e

la lingua – fu rigidamente espunto ed espulso dalla scuola, represso e censurato, messo

a tacere e bandito o comunque marginalizzato nella vita sociale.

Questo processo continuerà e anzi si accentuerà enormemente nel periodo fascista,

in cui si tentò addirittura di cancellarla e decapitarla la lingua sarda come pure la storia

e in genere quanto atteneva al locale, allo specifico, al particolare: elementi tutti che

avrebbero – secondo l’ideologia fascista – attentato all’unità nazionale dello Stato,

concepito in modo rigidamente monolingue e monoculturale.

Ebbene Gramsci, proprio in questo periodo storico e in questa temperie culturale

ed ideologica ha il coraggio di andare controcorrente, anche su questo versante:

“non imparare il sardo da parte di Edmea – sostiene – ha nociuto alla sua formazione

intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia… è bene che i bambini

imparino più lingue… ti raccomando di lasciare che i tuoi bambini succhino tutto il

sardismo che vogliono e si sviluppino spontaneamente nell’ambiente naturale in cui

sono nati: ciò non sarà un impaccio per il loro avvenire: tutt’altro”.

Il grande intellettuale sardo esprime in questa lettera una serie di posizioni sulla

lingua materna, che i linguisti e i glottologi perché gli studiosi delle scienze sociali:

psicologi come pedagogisti, antropologi come psicanalisti e persino psichiatri avrebbero

in seguito articolato, argomentato e rigorosamente dimostrato come valide, in

modo inoppugnabile.

Ovvero che il Bilinguismo, praticato fin da bambini, sviluppa l’intelligenza e costituisce

un vantaggio intellettuale non sostituibile con l’insegnamento in età scolare

di una seconda lingua, ad esempio l’inglese.

Nell’apprendimento bilingue entrano in gioco fattori di carattere psico-linguistico

di grande portata formativa, messi in evidenza da appropriati e rigorosi studi

e ricerche.

Tutto ciò, soprattutto con il Bilinguismo a base etnica – proprio il nostro caso

di sardi – che, come sostiene uno dei massimi studiosi e sostenitori, J. A. Fisman

non è da considerarsi un fatto increscioso da correggere e da controllare ma una

condizione che agisce positivamente nelle psicodinamiche dello sviluppo cognitivo

e relazionale, base di potenzialità linguistiche-coscienziali straordinariamente estese,

tanto che l’educazione bilingue ha delle funzioni che vanno al di là dell’insegnamento

della lingua. Ovvero che la lingua materna, la cultura e la storia locale hanno un

ruolo fondamentale e decisivo nello sviluppo degli individui, soprattutto dei giovani,

partendo “dall’ambiente naturale in cui sono nati”:

• per allargare le loro competenze, soprattutto comunicative, di riflessione e di

confronto con altri sistemi;

• per accrescere il possesso di una strumentalità cognitiva che faciliti l’accesso ad

altre lingue;

• per prendere coscienza della propria identità etno – linguistica ed etno – storica,

come giovane e studente prima e come persona adulta e matura poi;

• per personalizzare l’esperienza scolastica, umana e civile, attraverso il recupero

delle proprie radici;

• per combattere l’insicurezza ambientale, ancorando i giovani a un humus di valori

alti della civiltà sarda: la solidarietà e il comunitarismo in primis;

• per superare e liquidare l’idea del “sardo“ e di tutto ciò che è locale come limite,

come colpa, come disvalore, di cui disfarsi e, addirittura, “vergognarsi”;

• per migliorare e favorire, soprattutto a fronte del nuovo “analfabetismo di ritorno”,

vieppiù trionfante, soprattutto a livello comunicativo e lessicale, lo status linguistico.

Che oggi risulta essere, in modo particolare nei giovani e negli stessi studenti, povero,

banale, improprio, “gergale”: esattamente come aveva profeticamente previsto e

denunciato Gramsci.

Lo studio e la conoscenza della lingua sarda, può essere uno strumento formidabile

per l’apprendimento e l’arricchimento della stessa lingua italiana e di altre lingue, lungi

infatti dall’essere “un impaccio”, “una sottrazione”, sarà invece un elemento di “addizione”,

che favorisce e non disturba l’apprendimento dell’intero universo culturale e

lo sviluppo intellettuale e umano complessivo. Ciò grazie anche alla fertilizzazione e

contaminazione reciproca che deriva dal confronto sistemico fra codici comunicativi

delle lingue e delle culture diverse, perché il vero bilinguismo è insieme biculturalità,

e cioè immersione e partecipazione attiva ai contesti culturali di cui sono portatrici,

le due lingue e culture di appartenenza, sarda e italiana per intanto, per poi allargarsi,

sempre più inevitabilmente e necessariamente, in una società globalizzata come la

nostra, ad altre lingue e culture.

Anche da questo punto di vista il pensiero gramsciano è di una straordinaria attualità.

A più riprese infatti nelle sue opere sottolinea l’importanza del Sardo in quanto

concrezione storica complessa e autentica, simbolo di una identità etno-antropologica

e sociale, espressione diretta di una comunità e di un radicamento nella propria tradizione

e nella propria cultura.

Una lingua che non resta però immobile – come del resto l’identità di un popolo

– come fosse un fossile o un bronzetto nuragico, ma si “costruisce” dinamicamente

nel tempo, si confronta e interagisce, entrando nel circuito della innovazione linguistica,

stabilendo rapporti di interscambio con le altre lingue. Per questo concresce

all’agglutinarsi della vita culturale e sociale. In tal modo la lingua, per Gramsci, non

è solo mezzo di comunicazione fra individui, ma è il modo di essere e di vivere di un

popolo, il modo in cui tramanda la cultura, la storia, le tradizioni.

Dal punto di vista formale in questa “Lettera” – ma anche nelle altre – Gramsci

rivela una scrittura semplice e insieme intensa, talvolta persino scherzosa e ironica,

mai “letteraria”, di una naturale altezza e forza morale. La sua capacità di interessarsi

profondamente e amabilmente delle vicende dei suoi familiari, dell’educazione dei

bambini, cui racconterà favole e storielle, rivelano un uomo dall’alta statura umana

ed etica, affettuosamente e profondamente legato alla sua terra, alla sua lingua, alle

sue tradizioni. Pur infatti nel carcere – e nelle privazioni riesce sempre a mantenere

un eccezionale equilibrio tra raziocinio e fantasia e un dominio tranquillo sulla realtà,

tanto che raramente il carcere nelle «Lettere» «si sente». Eppure, come scriverà in

«Passato e Presente»: “la prigione è una lima così sottile, che distrugge completamente

il pensiero, oppure fa come quel mastro artigiano, al quale era stato consegnato un

bel tronco di legno d’olivo stagionato per fare una statua di San Pietro, e taglia di

qua, taglia di là, correggi, abbozza, finì col ricavarne un manico di lesina”.

(Passo tratto da Uomini e donne di Sardegna di Francesco Casula, Alfa Editrice, Quartu, 2010, pagine 145-149),

 

Gramsci e la Lingua sarda

Ricorre oggi 22 gennaio 2013 il 122° anniversario della nascita di Gramsci

Lo voglio ricordare per la sua lezione (ancora attualissima) sulla Lingua sarda

Gramsci e la Lingua sarda

Le Lettere dal carcere scritte dopo il suo arresto sono dirette per la gran parte ai

familiari: alla moglie e ai figli, alla cognata, alla madre, alle sorelle e al fratello Carlo.

Solo alcune sono indirizzate agli amici.

Per la prima volta furono pubblicate in un volume uscito nel 1947 che ne comprendeva

218. Nel 1965 un nuovo volume ne comprenderà 428, delle quali 119 fino

ad allora inedite. Esse risultano un grandioso e insieme toccante documento autobiografico

testimonianza umana culturale ed etica.

Esse oltre a costituire un documento di insostituibile interesse storico e letterario

rappresentano un’avvincente testimonianza psicoantropologica, una vita ricca di eventi

significativi e persino drammatici. Eccone una11 diretta alla sorella Teresina in cui

affronta la questione della Lingua sarda.

Carissima Teresina,

mi è stata consegnata sola pochi giorni fa la lettera che mi avevi inviato a Ustica e

che conteneva la fotografia di Franco. Ho così potuto vedere finalmente il tuo bimbetto

e te ne faccio tutte le mie congratulazioni; mi manderai, è vero? anche la fotografia

della Mimì e così sarò proprio contento. Mi ha colpito molto che Franco, almeno dalla

fotografia, rassomigli pochissimo alla nostra famiglia: deve rassomigliare a Paoloe

alla sua stirpe campidanese e forse addirittura maurreddina3: e Mimì a chi somiglia?

Devi scrivermi a lungo intorno ai tuoi bambini, se hai tempo, o almeno farmi scrivere

da Carlo o da Grazietta. Franco mi pare molto vispo e intelligente: penso che parli già

correttamente. In che lingua parla? Spero che lo lascerete parlare in sardo e non gli

darete dei dispiaceri a questo proposito. È stato un errore, per me, non aver lasciato

che Edmea, da bambinetta, parlasse liberamente il sardo. Ciò ha nociuto alla sua

formazione intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia. Non devi

fare questo errore coi tuoi bambini. Intanto il sardo non è un dialetto, ma una lingua

a sé4, quantunque non abbia una grande letteratura, ed è bene che i bambini imparino

piú lingue, se è possibile. Poi, l’italiano, che voi gli insegnerete, sarà una lingua

povera, monca5, fatta solo di quelle poche frasi e parole delle vostre conversazioni con

lui, puramente infantile; egli non avrà contatto con l’ambiente generale e finirà con

l’apprendere due gerghi6 e nessuna lingua: un gergo italiano per la conversazione

ufficiale con voi e un gergo sardo, appreso a pezzi e bocconi, per parlare con gli altri

bambini e con la gente che incontra per la strada o in piazza.

Ti raccomando, proprio di cuore, di non commettere un tale errore e di lasciare

che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino spontaneamente

nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà un impaccio per il loro

avvenire, tutt’altro. Delio e Giuliano sono stati male in questi ultimi tempi: hanno

avuto la febbre spagnola7; mi scrivono che ora si sono rimessi e stanno bene. Vedi, per

esempio, Delio: ha cominciato col parlare la lingua della madre8, come era naturale e

necessario, ma rapidamente è andato apprendendo anche l’italiano e cantava ancora

delle canzoncine in francese, senza perciò confondersi o confondere le parole dell’una

e dell’altra lingua. Io volevo insegnarli anche a cantare: «Lassa sa figu, puzone»9,

ma specialmente le zie si sono opposte energicamente[…].

Abbraccio Paolo affettuosamente; tanti baci a te e ai tuoi bambini

Nino

3. Maureddu si chiama chi abita il Campidano, cioè la pianura tra i golfi di Oristano e di Cagliari e, in

generale, le regioni meridionali della Sardegna.

4. Effettivamente l’idioma sardo viene considerato dagli studiosi come una lingua a sé stante, con vicende

storiche sue proprie che ne fanno un caso singolare e autonomo nell’ambito delle lingue romanze

5. Cioè limitata nel lessico («povera») e perciò incompleta («monca»).

6. Si dice «gergo» un linguaggio convenzionale, quale può formarsi all’interno di gruppi sociali isolati.

7. Forma influenzale a carattere epidemico, comparsa per la prima volta in Europa nel 1918.

8. Cioè il russo.

9. «Lascia il fico, o uccello» (in sardo).

147

In questa lettera del 26 marzo del 1927, scritta alla sorella Teresina dal carcere,

giustamente notissima e super citata, Gramsci rivela una serie di intuizioni formidabili

sull’importanza, sull’utilità, sul ruolo e la funzione della lingua sarda, specie per quanto

attiene allo sviluppo del bambino e allo stesso apprendimento dell’italiano.

Per intanto ammette che “è stato un errore non aver lasciato che Edmea, da bambinetta,

parlasse liberamente in sardo”. Si tratta di un errore oltremodo diffuso nella

cultura e nell’intera scuola italiana, ancora oggi ma soprattutto nel passato.

Un errore e un pregiudizio che deriva da lontano: basti pensare ai primi Programmi

della Scuola italiana, impostati a partire dall’Unità e dalla Legge Coppino del

1867 secondo una logica statoiatrica e italocentrica, finalizzata a creare una supposta

coscienza “unitaria” un cosiddetto spirito “nazionale”, capace di superare i limiti

– così erroneamente si pensava – di una realtà politico-sociale estremamente divisa,

differenziata e composita sul piano storico, linguistico e culturale.

Così, tutto ciò che anche lontanamente sapeva di locale – segnatamente la storia e

la lingua – fu rigidamente espunto ed espulso dalla scuola, represso e censurato, messo

a tacere e bandito o comunque marginalizzato nella vita sociale.

Questo processo continuerà e anzi si accentuerà enormemente nel periodo fascista,

in cui si tentò addirittura di cancellarla e decapitarla la lingua sarda come pure la storia

e in genere quanto atteneva al locale, allo specifico, al particolare: elementi tutti che

avrebbero – secondo l’ideologia fascista – attentato all’unità nazionale dello Stato,

concepito in modo rigidamente monolingue e monoculturale.

Ebbene Gramsci, proprio in questo periodo storico e in questa temperie culturale

ed ideologica ha il coraggio di andare controcorrente, anche su questo versante:

“non imparare il sardo da parte di Edmea – sostiene – ha nociuto alla sua formazione

intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia… è bene che i bambini

imparino più lingue… ti raccomando di lasciare che i tuoi bambini succhino tutto il

sardismo che vogliono e si sviluppino spontaneamente nell’ambiente naturale in cui

sono nati: ciò non sarà un impaccio per il loro avvenire: tutt’altro”.

Il grande intellettuale sardo esprime in questa lettera una serie di posizioni sulla

lingua materna, che i linguisti e i glottologi perché gli studiosi delle scienze sociali:

psicologi come pedagogisti, antropologi come psicanalisti e persino psichiatri avrebbero

in seguito articolato, argomentato e rigorosamente dimostrato come valide, in

modo inoppugnabile.

Ovvero che il Bilinguismo, praticato fin da bambini, sviluppa l’intelligenza e costituisce

un vantaggio intellettuale non sostituibile con l’insegnamento in età scolare

di una seconda lingua, ad esempio l’inglese.

Nell’apprendimento bilingue entrano in gioco fattori di carattere psico-linguistico

di grande portata formativa, messi in evidenza da appropriati e rigorosi studi

e ricerche.

148 Tutto ciò, soprattutto con il Bilinguismo a base etnica – proprio il nostro caso

di sardi – che, come sostiene uno dei massimi studiosi e sostenitori, J. A. Fisman12

non è da considerarsi un fatto increscioso da correggere e da controllare ma una

condizione che agisce positivamente nelle psicodinamiche dello sviluppo cognitivo

e relazionale, base di potenzialità linguistiche-coscienziali straordinariamente estese,

tanto che l’educazione bilingue ha delle funzioni che vanno al di là dell’insegnamento

della lingua. Ovvero che la lingua materna, la cultura e la storia locale hanno un

ruolo fondamentale e decisivo nello sviluppo degli individui, soprattutto dei giovani,

partendo “dall’ambiente naturale in cui sono nati”:

• per allargare le loro competenze, soprattutto comunicative, di riflessione e di

confronto con altri sistemi;

• per accrescere il possesso di una strumentalità cognitiva che faciliti l’accesso ad

altre lingue;

• per prendere coscienza della propria identità etno – linguistica ed etno – storica,

come giovane e studente prima e come persona adulta e matura poi;

• per personalizzare l’esperienza scolastica, umana e civile, attraverso il recupero

delle proprie radici;

• per combattere l’insicurezza ambientale, ancorando i giovani a un humus di valori

alti della civiltà sarda: la solidarietà e il comunitarismo in primis;

• per superare e liquidare l’idea del “sardo“ e di tutto ciò che è locale come limite,

come colpa, come disvalore, di cui disfarsi e, addirittura, “vergognarsi”;

• per migliorare e favorire, soprattutto a fronte del nuovo “analfabetismo di ritorno”,

vieppiù trionfante, soprattutto a livello comunicativo e lessicale, lo status linguistico.

Che oggi risulta essere, in modo particolare nei giovani e negli stessi studenti, povero,

banale, improprio, “gergale”: esattamente come aveva profeticamente previsto e

denunciato Gramsci.

Lo studio e la conoscenza della lingua sarda, può essere uno strumento formidabile

per l’apprendimento e l’arricchimento della stessa lingua italiana e di altre lingue, lungi

infatti dall’essere “un impaccio”, “una sottrazione”, sarà invece un elemento di “addizione”,

che favorisce e non disturba l’apprendimento dell’intero universo culturale e

lo sviluppo intellettuale e umano complessivo. Ciò grazie anche alla fertilizzazione e

contaminazione reciproca che deriva dal confronto sistemico fra codici comunicativi

delle lingue e delle culture diverse, perché il vero bilinguismo è insieme biculturalità,

e cioè immersione e partecipazione attiva ai contesti culturali di cui sono portatrici,

le due lingue e culture di appartenenza, sarda e italiana per intanto, per poi allargarsi,

sempre più inevitabilmente e necessariamente, in una società globalizzata come la

nostra, ad altre lingue e culture.

Anche da questo punto di vista il pensiero gramsciano è di una straordinaria attualità.

A più riprese infatti nelle sue opere sottolinea l’importanza del Sardo in quanto

149

concrezione storica complessa e autentica, simbolo di una identità etno-antropologica

e sociale, espressione diretta di una comunità e di un radicamento nella propria tradizione

e nella propria cultura.

Una lingua che non resta però immobile – come del resto l’identità di un popolo

– come fosse un fossile o un bronzetto nuragico, ma si “costruisce” dinamicamente

nel tempo, si confronta e interagisce, entrando nel circuito della innovazione linguistica,

stabilendo rapporti di interscambio con le altre lingue. Per questo concresce

all’agglutinarsi della vita culturale e sociale. In tal modo la lingua, per Gramsci, non

è solo mezzo di comunicazione fra individui, ma è il modo di essere e di vivere di un

popolo, il modo in cui tramanda la cultura, la storia, le tradizioni.

Dal punto di vista formale in questa “Lettera” – ma anche nelle altre – Gramsci

rivela una scrittura semplice e insieme intensa, talvolta persino scherzosa e ironica,

mai “letteraria”, di una naturale altezza e forza morale. La sua capacità di interessarsi

profondamente e amabilmente delle vicende dei suoi familiari, dell’educazione dei

bambini, cui racconterà favole e storielle, rivelano un uomo dall’alta statura umana

ed etica, affettuosamente e profondamente legato alla sua terra, alla sua lingua, alle

sue tradizioni. Pur infatti nel carcere – e nelle privazioni riesce sempre a mantenere

un eccezionale equilibrio tra raziocinio e fantasia e un dominio tranquillo sulla realtà,

tanto che raramente il carcere nelle «Lettere» «si sente». Eppure, come scriverà in

«Passato e Presente»: “la prigione è una lima così sottile, che distrugge completamente

il pensiero, oppure fa come quel mastro artigiano, al quale era stato consegnato un

bel tronco di legno d’olivo stagionato per fare una statua di San Pietro, e taglia di

qua, taglia di là, correggi, abbozza, finì col ricavarne un manico di lesina”.

 

Recensione di “Omines e feminas de gabbale” di Vincenzo Mereu

I Grandi del passato, le loro imprese, il loro eroismo e il loro martirio, per la conquista della libertà in difesa della propria terra, costituiscono la vera storia di un popolo e le sue nobili radici: faro luminoso di orientamento e di stimolo alle future generazioni. Ma se nell’animo degli eredi di così grandi valori albergano sentimenti di indifferenza e di ignavia, le immagini dei Grandi si allontanano, le nobili imprese si disabelliscono e perdono di vigore e le radici marciscono sotto la coltre plumbea dell’oblio. È ciò che è accaduto ai Sardi negli ultimi 50 anni, tanto che la nostra terra ha subito danni incalcolabili, che neppure i nostri secolari dominatori erano riusciti a lasciarci: le nostre splendide coste devastate barbaramente dalla cementificazione, la parte più bella della Sardegna in Costa Smeralda data in pasto alla voracità miliardaria dei big di tutto il mondo, e financo le viscere della nostra terra sventrate, per far posto a una miniera, che ha dato tonnellate d’oro agli Australiani in cambio dei veleni al cianuro, lasciato in dono ai Sardi. E tutto questo col beneplacito e l’arbitrio dei nostri politici regionali di quel tempo. Inoltre la cultura e la lingua sarde neglette e abbandonate in un angolo, come cosa di cui vergognarsi. Per fortuna, anche in quest’ultimo cinquantennio, profondo Medioevo per la nostra storia, non sono mancate personalità di alto livello storico e culturale, che hanno ripescato dai fondali del passato tutti quei valori e quelle immagini di eroi, fermento di rinnovamento per una nuova coscienza di sardità. Fermenti di rinnovamento che hanno risvegliato la coscienza politica degli ultimi due anni, con cui la Regione Sarda ha posto in essere un Disegno di Legge che all’art. 6 mette in valore il patrimonio culturale e linguistico della Sardegna, con l’auspicio che a tale Disegno di legge faccia seguito, al più presto, un programma didattico, per l’insegnamento nelle scuole della cultura, della storia e della lingua sarde.
In favore di quei valori e di tale progetto giunge l’iniziativa editoriale della Alfa Editrice di Quartu Sant’Elena, che con la collana “Omines e Feminas de Gabbale” con le opere di Francesco Casula e Matteo Porru, offre un contributo inestimabile per la riscoperta e la divulgazione della storia, della cultura e della lingua della Sardegna. Tale edizione comprende le seguenti opere: Leonora d’Arborea, Grazia Deledda, Antoni Simon Mossa, (di Francesco Casula), Emilio Lussu (di Matteo Porru), Antonio Gramsci (di Francesco Casula e Matteo Porru). Hanno fatto seguito poi Francesco Masala (Matteo Porru e Tonino Langui), Giov. Maria Angioy, Amsicora, Marianna Bussalai (di Francesco Casula tradotte da Giovanna Cottu e Amos Cardia) e Giovanni Battista Tuveri (di Gianfranco Contu e Ivo Murgia). La collana sarà completata con la pubblicazione di altri 5 libri in tempi brevi, che metteranno in luce altre figure storiche e culturali di grande rilevanza della statura di Giuseppe Dessì, Peppino Mereu, Montanaru, Sigismondo Arquer e Sebastiano Satta.
Tutti i testi sono di fattura editoriale di grande pregio e suscitano subito curiosità e interesse, per la qualità della carta patinata, per i caratteri di stampa, per l’impaginatura e la marginatura e la ricchezza di immagini. Le immagini riguardanti i volti dei nostri Grandi e gli ambienti in cui vissero rendono i testi più discorsivi, già di per sé spediti e intuitivi, e ne enunciano i tratti della personalità, con una collocazione ambientale e familiare che ne arricchiscono gli elementi della puntuale conoscenza. Tutto ciò risponde ad una scelta metodologica di grande valore didattico. E fu proprio il grande pedagogista Amos Comenski, padre della pedagogia moderna, a proporre tale metodologica con le sue opere monumentali: “Didattica Magna” e “Orbis Pictus” (mondo dipinto) con cui dà rilevante importanza al corredo dei testi con cose o immagini. Nella narrazione dei fatti storici emergono, in maniera chiara e distinta, le scene e le vicissitudini del popolo sardo attraverso i secoli, e si evidenzia il valore eroico e culturale dei personaggi. Spicca fra le diverse immagini la figura di Leonora d’Arborea, nella saggezza del suo Governo e nelle sue battaglie e nella sua preziosa opera “La Carta de Logu”, con la quale conferisce una sistemazione giuridica, civile, penale, politica, economica e sociale al popolo del suo regno, con 198 capitoli, scritta “A LAUDE DE JESU CHRISTU SALVADORI NOSTRU; ED EXALTAMENTU DESSA IUSTICIA “. Onore alla città di Oristano che le ha reso riconoscenza e prestigio, dedicandole un artistico monumento nella piazza centrale, a differenza di Cagliari che in una piazza centrale accoglie e ostenta ancora un’immagine trionfale dei nostri dominatori e sfruttatori, in un atteggiamento arrogante, che sembra dire “Vae victis!” (Guai ai vinti!).
Di grande pregio la presentazione di Antonio Gramsci colto nei suoi affetti familiari, nelle sue battaglie sociali, nel suo pensiero politico, filosofico, economico, critico e letterario, nelle sue convinzioni federaliste e autonomiste, eroe e insieme martire della libertà. Ben stagliata e descritta la figura inconfondibile di Emilio Lussu, che io non esito a definire “atleta e apostolo della libertà” per la quale subì la persecuzione e il carcere, strenuo combattente e forbito scrittore. Altra immagine ben presentata ai lettori è quella di Antonio Simon Mossa che “Era ed è rimasto bagliore di luce cui immergersi per capire, sentire, entusiasmarsi e razionalizzarsi l’utopia”. Nei tratti della sua personalità spiccano lealtà, simpatia, determinazione e tenacia nelle aree del pensiero e dell’attività, in cui si collocano architettura artistica nel rispetto dell’ambiente e politica per la difesa dell’identità sarda, a cui dedicò tutta la sua vita. Architetto di fama nazionale realizzò opere artistiche di grande importanza e progetti per la Costa Smeralda, rispettando la vocazione ambientale del luogo. Ma quando si accorse che quel gioiello di smeraldo doveva finire nelle fauci dell’affarismo e del colonialismo, per realizzare paradisi terrestri da destinare ai magnati miliardari, con offesa estetica all’ambiente, voltò le spalle all’Aga Khan, quasi in un pianto di fronte alle devastazioni della sua amata Sardegna.
Altra immagine degna di essere proposta all’attenzione di tutti i lettori, per il valore storico e culturale delle sue opere è certamente Grazia Deledda, premio Nobel per la letteratura, sarda non solo per nascita ma per cultura e carattere, certamente moderna rispetto alla mentalità del suo tempo, col grande merito di avere salvato nelle sue opere tutto quel mondo agropastorale tipicamente sardo e barbaricino, in cui visse intensamente, situato alla fine dell’Ottocento. Scrittrice di grande sensibilità poetica, ha scritto belle poesie e decine di libri che raccontano anche una parte della storia e della cultura della Sardegna. Opere tradotte in tante lingue del mondo, con un successo editoriale e divulgativo eccezionale. Il valore delle sue opere è avvallato dai saggi critici in suo favore, da parte dei più grandi letterati critici italiani.

La collana editoriale “Omines e Feminas de Gabbale” della Alfa Editrice di Quartu S.E. con i suoi libri scritti interamente in lingua sarda, giunge in tempo giusto, nel momento in cui la difesa dell’identità sarda trova larghi consensi, considerata anche la volontà della Regione Sarda di introdurre nelle scuole la lingua, la storia e la cultura sarda. I volumi della collana per il loro contenuto storico e letterario, con l’assunto metodologico e didattico che li caratterizza, costituiscono uno strumento validissimo, per l’apprendimento della nostra lingua e per la formazione culturale dei giovani, con l’auspicio che con una nuova coscienza di veri Sardi impediscano altri scempi, ai danni della nostra amata Sardegna, come avvenuto in passato. .

Vincenzo Mereu

La Carta De Logu. Gli elementi fenici, punici, germanici, greco-bizantini nella Lingua sarda.

Università della Terza Età di Quartu. 3° Lezione 23-1-2013

1. La Carta De Logu

La Carta de Logu, promulgata da Eleonora nel 1392 raccoglie leggi consuetudinarie di diritto civile, penale e rurale. Contiene un proemio e 198 capitoli: i primi 132 formano il Codice civile e penale gli altri 66 il Codice rurale, emanato dal padre Mariano IV, il padre di Eleonora. In seguito alla sua promulgazione si inizia a chiamare la Sardegna «nacion sardesca» e la Carta «de sa republica sardisca» a significare che era espressione dell’intera Sardegna ma soprattutto che era una vera e propria Carta costituzionale nazionale. La Carta di Mariano IV da sedici anni non era stata rivista e poiché non rispondeva più ai bisogni delle nuove condizioni sociali, occorreva rivederla e aggiornarla per preservare la giustizia e in buono tranquillo e pacifico stato del popolo del suddetto nostro regno e delle chiese e dei diritti ecclesiastici e dei liberi e dei probiuomini e di tutta la gente della suddetta nostra terra e del regno di Arborea. Queste le finalità della Carta annunciate nel Proemio.              Scritta in sardo-arborense è sicuramente il Codice legislativo più importante di tutto il medioevo sardo e non solo. Il re spagnolo Alfonso il Magnanimo –che ormai domina sulla Sardegna- l’apprezza a tal punto da estenderla nel 1421 a tutta l’Isola, in cui rimarrà in vigore per ben 400 anni, fino al 1827 quando sarà sostituita dal Codice Feliciano.

 

XXI CAPIDULU

De chi levarit per forza mygeri coyada.

Volemus ed ordinamus chi si alcun homini levarit per forza mugeri coyada, over alcun’attera femina, chi esserit jurada, o isponxellarit alcuna virgini per forza, e dessas dittas causas esserit legittimamenti binchidu, siat iuygadu chi paghit pro sa coyada liras chimbicentas; e si non pagat infra dies bindighi, de chi hat a esser juygadu, siat illi segad’uno pee pro moda ch’illu perdat. E pro sa bagadìa siat juygadu chi paghit liras ducentas, e siat ancu tenudu pro leva­rilla pro mugeri, si est senza maridu, e placchiat assa femina; e si nolla levat pro mugeri, siat ancu tentu pro coyarilla secundu sa condicioni dessa femina, ed issa qualidadi dess’homini. E si cussas caussas issu non podit fagheri a dies bindighi de chi hat a esser juygadu, seghintilli unu pee per modu ch’illu perdat. E pro sa virgini paghit sa simili pena; e si non hadi dae hui pagari, seghintilli unu pee, ut supra.

 

Traduzione

XXI
CAPITOLO VENTUNESIMO

Di chi violentasse una donna sposata.

Vogliamo ed ordiniamo che se un uomo violenta una donna maritata, o una qualsiasi sposa promessa, o una vergine, ed è dichiarato legittimamen­te colpevole, sia condannato a pagare per la donna sposata lire cinquecen­to; e se non paga entro quindici giorni dal giudizio gli sia amputato un piede. Per la nubile, sia condannato a pagare duecento lire e sia tenuto a sposarla, se è senza marito (=promesso sposo) e se piace alla donna. Se non la sposa (perché lei non è consenziente), sia tenuto a farla accasare (munendola di dote) secondo la condizione (sociale) della donna e la qua­lità (= il rango) dell’uomo. E se non è in grado di assolvere ai suddetti òneri entro quindici giorni dal giudizio, gli sia amputato un piede. Per la vergine, sia condannato a pagare la stessa cifra sennò gli sia amputato un piede come detto sopra. [tratto da La Carta de Logu del regno d’Arborea, traduzione libera e commento storico di Francesco Cesare Casula, ed. Consiglio Nazionale della Ricerche- Istituto sui rapporti italo-iberici, Cagliari 1994, pag.58-59]

 

CAPITOLO VII

De omini chi esserit isbandidu dae sas Terras nostras pro homicidiu, over alcuna attera occasioni, pro sa quali deberit morri.

Constituimus ed ordinamus chi si alcunu esserit isbandidu dae sas Terras nostras pro homicidiu, over pro alcun’attesa occasioni pro sa quali deberit morti, e vennerit ad alcuna dessas villas nostras senza esser fidadu, e basadu per Nos, siant tenudos sos Jurados ed hominis de cussa villa de tennirillu e battirillu assa Corti nostra; e si nollu tennerint e battirint secundu chi est naradu de sopra, paghit sa villa manna assa Corti nostra pro sa negligencia issoru liras vintichimhi, ed issa villa piccinna liras bindighi, ed issu Mayori de cussa villa de per see liras deghi, e ciascuno Juradu liras chimbi. E ciò s’intendat si sos hominis de cussa tali villa illu ischírint. E si alcunu homini dessa ditta villa illu recivirit, e recettarit cussu tal’isbandidu palesimenti, o c fura, e darit illi consigiu, ajuda, o favori, s’illi est provadu, paghit assi Rennu liras centu. E si non pagat issu, o atter’homini pro see, istit in prexo­ni a voluntadi nostra, salvu si cussu isbandidu bennerit a domu dessa mugeri, over de su padri, o dessa mamma, o dess’aviu, ed avia, o dessu figiu, o figia, o dessu fradi, o dessa sorri carrali, chi cussas personas non siant tenu­das assa machicia dessas predittas liras centu in totu, nen in parti.

 

Traduzione

CAPITOLO VII: Di colui che fosse bandito dalle nostre terre per omicidio o altra causa passibile di pena di morte.

Stabiliamo e ordiniamo che se qualcuno viene bandito dalle nostre terre per omicidio o altra causa passibile di pena di morte, e tornasse in qualche nostro villaggio senza un nostro permesso fiduciario per oscula (salvacondotto concesso con la cerimonia del bacio), i giurati e gli uomini di quel villaggio sono tenuti a catturarlo e a portarlo alla nostra Corte (di giustizia). Se non lo fanno, in villaggio grande (= da duecento nuclei familiari in su) dovrà pagare alla nostra corte (di giustizia) per questa negligenza una multa di venticinque lire, ed un villaggio piccolo (= da duecento nuclei familiari in giù) una multa di quindici lire; inoltre, il maiori de villa (= la massima autorità del villaggio) dovrà pagare di per sé dieci lire, mentre i giurati della villa (= villaggio, paese, in sardo odierno bidda) dovranno dare ciascuno cinque lire, ovviamente se gli abitanti della villa, erano a conoscenza della presenza del reo nel proprio villaggio. E se qualcuno lo avesse accolto e ricettato palesemente o di nascosto, e gli avesse prestato consiglio, aiuto o favori, se è provato paghi all’Erario regio cento lire. E se non paga, o se qualcuno non paga per lui, resti in prigione a nostra volontà. A meno che a dargli ricetta non sia stata la moglie, o il padre, o la madre, o il nonno, o la nonna, o il figlio, o la figlia, o il fratello, o la sorella carnale, perché costoro non sono tenuti a pagare in toto o in parte le cento lire di multa. [testo tratto da La Carta de Logu del regno di Arborea, traduzione libera e commento storico di Francesco Cesare Casula, Ed. Consiglio nazionale delle ricerche-Istituto sui rapporti italo-iberici/Cagliari 1994, pag.40-41]

(Passo tratto da Letteratura e civiltà della Sardegna, di Francesco Casula, volume I, Grafica del Parteolla Editore, Dolianova, 2011, Euro 20).

 

 

2. Influenze nella Lingua sarda.

L’elemento punico: alcuni esempi

I fenici si erano stabiliti sulle coste meridionali della Sardegna tra il IX e il VI sec a C. Successivamente i Cartaginesi occuparono le colonie e imposero il loro dominio che si limitò alle coste della parte occidentale e meridionale, più la zona intorno ad Olbia e la città, colonia greca. Non si spinsero all’interno a causa della resistenza degli abitanti delle montagne che, inoltre, periodicamente, scendevano a valle a fare bardana. Delle lingue prelatine parlate in Sardegna il punico e il più noto, e si mantenne, per un certo periodo anche dopo la conquista romana, come risulta dalle iscrizioni trovate a Pauli Gerrei e Bithia. Inoltre lasciarono tracce della loro lingua in alcuni toponimi nelle zone che furono soggette al loro dominio: per es. sappiamo da Plinio che l’antico nome dell’isola di San Pietro è Enosim, denominazione che però non si è conservata nel tempo. Di solito, comunque, sia Fenici che Cartaginesi erano soliti rispettare i nomi indigeni dei luoghi e comunque non avevano la mentalità dei romani di “parcere subiectis et debellare suberbos” (perdonare chi si sottometteva e distruggere, annientare chi “resisteva”. Romani che, insieme alle persone annientavano anche

la lingua, erano insomma dei glottofagi):

Carales: come dimostra la presenza nell’interno di nomi simili.

Nomi sicuramente di origine punica sono:

Tharros: che deriva da Tiro, capitale della Fenicia, che significa scoglio. Tiro in ebraico si dice Sarra, che in sardo ha avuto l’evoluzione tipica: s=z=ts=th.

Cornus: città fondata dai Punici, è la traduzione latina del nome punico sommità di montagna.

Bithia: nome punico che ritroviamo anche nella Bibbia come nome proprio/ Othoca-Neapolis: significa città vecchia, e se ne trovano corrispondenti in Africa. Si trovava vicino a Neapolis che probabilmente è la traduzione greca del punico città nuova.

Magomadas: nome punico città nuova/ Macomer: anticamente era riportata nei documenti come Macomisa, un incrocio tra macom punico e la forma sarda isa.

Vocaboli punici nel sardo: tsippiri: rosmarino, si usa nel camp. e nella barb. meridionale./mittsa: sorgente d’acqua, vocabolo tipico camp. si ritrova anche nell’ebraico.

 

L’elemento greco-bizantino: alcuni esempi

Le stesse voci di origine greca presenti nel sardo sono condivise anche dagli altri dialetti meridionali, perciò probabilmente erano entrate già nell’uso del latino mer. e da lì diffuse: • iscontriare: sfibrare, disfare, attestato anche nei dialetti greci.

allacanare: appassire/• scafa: dirupo, precipizio

È difficile individuare se qualche parola sia penetrata in sardo direttamente dalla colonia greca di Olbia, ma è sicuramente più facile trovare i nomi greci di origine bizantina, soprattutto in campo ecclesiastico e amministrativo:

arconte/curatore: magistrato giudiziario e amministrativo di un curatoria;

il nome poteva derivare anche da procurator, con lo stesso ruolo nel latifondo africano. È però probabile che entrambe i nomi siano di origine latina, per cui il problema non sussiste.

kondake-condaghe: singoli documenti o insieme di essi. Sicuramente di imitazione bizantina sono le formule iniziali e finali dei documenti, in particolare cagliaritani, e i nomi di battesimo risalenti a santi di origine orientale, importati dalla chiesa. Essi si presentano di solito al vocativo, probabilmente perchè si usano particolarmente in forma invocatoria:

• Basili/ Comida/ Cristofore/ Domitri/ Elene

Sempre alla sfera ecclesiastica appartiene il nome munistere, muristene, muristeni = monastero che però oggi designa le casupole intorno alla chiesa campestre che servivano per il riparo dei pellegrini durante la festa. Da questo nome deriva il toponimo Monastir. Ma molte parole di origine bizantina che si trovavano nel sardo sono oggi scomparse a causa della sparizione di quella istituzione o abitudine.

Gost Antine/ Istefane/ Joanne/ Jorgi/ Paule

 

L’elemento germanico: alcuni esempi

L’unico periodo in cui la Sardegna fu sotto il dominio di una popolazione germanica fu per ottanta anni sotto i Vandali, (456-534) troppo poco perchè nel sardo rimangano delle tracce consistenti. I germanismi presenti nel sardo sono probabilmente stati acquisiti già dal latino che li aveva accettati nell’uso come:

friscu: fresco

brundu: biondo

ispidu: spiedo, dal lat. spitus= got. spius

adattato poi alla fonetica isolana .Altri nomi sono invece presi dall’italiano, catalano e spagnolo:

• burgu: borgo dall’ital. o vicolo dal catalano

• frunzire: raggrinzire, dal catalano.

 

L’elemento arabo: alcuni esempi

La maggior parte dei vocaboli di origine araba nel sardo sono spagnolismi, in quanto la Sardegna, anche se per lungo tempo è stata meta di incursioni saracene mai ne fu a lungo la base. Alcuni sono:

anguli: schiacciata con uova sode in mezzo

facussa: cetriolo allungato

giani: cavallo morello

I primi due nomi di cibi sono tipici del Sulcis e probabilmente furono importati dai Tabarchini di San Pietro e Calasetta, nella cui cucina si ritrovano. L’altro è giunto in Sardegna insieme ai cavalli arabi che avevano questo nome. Altri termini appartengono alla pesca al tonno ma sono comuni anche al siciliano, catalano e spagnolo.

(passo tratto da La Lingua sarda e l’insegnamento a scuola di Francesco Casula, Alfa Editrice, Quartu Sant’Elena, 2010, Euro 14)

La Carta De Logu. Gli elementi fenici, punici, germanici, greco bizantini nella Lingua sarda.

Università della Terza Età di Quartu. 3° Lezione 23-1-2013

1. La Carta De Logu

La Carta de Logu, promulgata da Eleonora nel 1392 raccoglie leggi consuetudinarie di diritto civile, penale e rurale. Contiene un proemio e 198 capitoli: i primi 132 formano il Codice civile e penale gli altri 66 il Codice rurale, emanato dal padre Mariano IV, il padre di Eleonora. In seguito alla sua promulgazione si inizia a chiamare la Sardegna «nacion sardesca» e la Carta «de sa republica sardisca» a significare che era espressione dell’intera Sardegna ma soprattutto che era una vera e propria Carta costituzionale nazionale. La Carta di Mariano IV da sedici anni non era stata rivista e poiché non rispondeva più ai bisogni delle nuove condizioni sociali, occorreva rivederla e aggiornarla per preservare la giustizia e in buono tranquillo e pacifico stato del popolo del suddetto nostro regno e delle chiese e dei diritti ecclesiastici e dei liberi e dei probiuomini e di tutta la gente della suddetta nostra terra e del regno di Arborea. Queste le finalità della Carta annunciate nel Proemio.              Scritta in sardo-arborense è sicuramente il Codice legislativo più importante di tutto il medioevo sardo e non solo. Il re spagnolo Alfonso il Magnanimo –che ormai domina sulla Sardegna- l’apprezza a tal punto da estenderla nel 1421 a tutta l’Isola, in cui rimarrà in vigore per ben 400 anni, fino al 1827 quando sarà sostituita dal Codice Feliciano.

 

XXI CAPIDULU

De chi levarit per forza mygeri coyada.

Volemus ed ordinamus chi si alcun homini levarit per forza mugeri coyada, over alcun’attera femina, chi esserit jurada, o isponxellarit alcuna virgini per forza, e dessas dittas causas esserit legittimamenti binchidu, siat iuygadu chi paghit pro sa coyada liras chimbicentas; e si non pagat infra dies bindighi, de chi hat a esser juygadu, siat illi segad’uno pee pro moda ch’illu perdat. E pro sa bagadìa siat juygadu chi paghit liras ducentas, e siat ancu tenudu pro leva­rilla pro mugeri, si est senza maridu, e placchiat assa femina; e si nolla levat pro mugeri, siat ancu tentu pro coyarilla secundu sa condicioni dessa femina, ed issa qualidadi dess’homini. E si cussas caussas issu non podit fagheri a dies bindighi de chi hat a esser juygadu, seghintilli unu pee per modu ch’illu perdat. E pro sa virgini paghit sa simili pena; e si non hadi dae hui pagari, seghintilli unu pee, ut supra.

 

Traduzione

XXI
CAPITOLO VENTUNESIMO

Di chi violentasse una donna sposata.

Vogliamo ed ordiniamo che se un uomo violenta una donna maritata, o una qualsiasi sposa promessa, o una vergine, ed è dichiarato legittimamen­te colpevole, sia condannato a pagare per la donna sposata lire cinquecen­to; e se non paga entro quindici giorni dal giudizio gli sia amputato un piede. Per la nubile, sia condannato a pagare duecento lire e sia tenuto a sposarla, se è senza marito (=promesso sposo) e se piace alla donna. Se non la sposa (perché lei non è consenziente), sia tenuto a farla accasare (munendola di dote) secondo la condizione (sociale) della donna e la qua­lità (= il rango) dell’uomo. E se non è in grado di assolvere ai suddetti òneri entro quindici giorni dal giudizio, gli sia amputato un piede. Per la vergine, sia condannato a pagare la stessa cifra sennò gli sia amputato un piede come detto sopra. [tratto da La Carta de Logu del regno d’Arborea, traduzione libera e commento storico di Francesco Cesare Casula, ed. Consiglio Nazionale della Ricerche- Istituto sui rapporti italo-iberici, Cagliari 1994, pag.58-59]

 

CAPITOLO VII

De omini chi esserit isbandidu dae sas Terras nostras pro homicidiu, over alcuna attera occasioni, pro sa quali deberit morri.

Constituimus ed ordinamus chi si alcunu esserit isbandidu dae sas Terras nostras pro homicidiu, over pro alcun’attesa occasioni pro sa quali deberit morti, e vennerit ad alcuna dessas villas nostras senza esser fidadu, e basadu per Nos, siant tenudos sos Jurados ed hominis de cussa villa de tennirillu e battirillu assa Corti nostra; e si nollu tennerint e battirint secundu chi est naradu de sopra, paghit sa villa manna assa Corti nostra pro sa negligencia issoru liras vintichimhi, ed issa villa piccinna liras bindighi, ed issu Mayori de cussa villa de per see liras deghi, e ciascuno Juradu liras chimbi. E ciò s’intendat si sos hominis de cussa tali villa illu ischírint. E si alcunu homini dessa ditta villa illu recivirit, e recettarit cussu tal’isbandidu palesimenti, o c fura, e darit illi consigiu, ajuda, o favori, s’illi est provadu, paghit assi Rennu liras centu. E si non pagat issu, o atter’homini pro see, istit in prexo­ni a voluntadi nostra, salvu si cussu isbandidu bennerit a domu dessa mugeri, over de su padri, o dessa mamma, o dess’aviu, ed avia, o dessu figiu, o figia, o dessu fradi, o dessa sorri carrali, chi cussas personas non siant tenu­das assa machicia dessas predittas liras centu in totu, nen in parti.

 

Traduzione

CAPITOLO VII: Di colui che fosse bandito dalle nostre terre per omicidio o altra causa passibile di pena di morte.

Stabiliamo e ordiniamo che se qualcuno viene bandito dalle nostre terre per omicidio o altra causa passibile di pena di morte, e tornasse in qualche nostro villaggio senza un nostro permesso fiduciario per oscula (salvacondotto concesso con la cerimonia del bacio), i giurati e gli uomini di quel villaggio sono tenuti a catturarlo e a portarlo alla nostra Corte (di giustizia). Se non lo fanno, in villaggio grande (= da duecento nuclei familiari in su) dovrà pagare alla nostra corte (di giustizia) per questa negligenza una multa di venticinque lire, ed un villaggio piccolo (= da duecento nuclei familiari in giù) una multa di quindici lire; inoltre, il maiori de villa (= la massima autorità del villaggio) dovrà pagare di per sé dieci lire, mentre i giurati della villa (= villaggio, paese, in sardo odierno bidda) dovranno dare ciascuno cinque lire, ovviamente se gli abitanti della villa, erano a conoscenza della presenza del reo nel proprio villaggio. E se qualcuno lo avesse accolto e ricettato palesemente o di nascosto, e gli avesse prestato consiglio, aiuto o favori, se è provato paghi all’Erario regio cento lire. E se non paga, o se qualcuno non paga per lui, resti in prigione a nostra volontà. A meno che a dargli ricetta non sia stata la moglie, o il padre, o la madre, o il nonno, o la nonna, o il figlio, o la figlia, o il fratello, o la sorella carnale, perché costoro non sono tenuti a pagare in toto o in parte le cento lire di multa. [testo tratto da La Carta de Logu del regno di Arborea, traduzione libera e commento storico di Francesco Cesare Casula, Ed. Consiglio nazionale delle ricerche-Istituto sui rapporti italo-iberici/Cagliari 1994, pag.40-41]

(Passo tratto da Letteratura e civiltà della Sardegna, di Francesco Casula, volume I, Grafica del Parteolla Editore, Dolianova, 2011, Euro 20).

 

 

2. Influenze nella Lingua sarda.

L’elemento punico: alcuni esempi

I fenici si erano stabiliti sulle coste meridionali della Sardegna tra il IX e il VI sec a C. Successivamente i Cartaginesi occuparono le colonie e imposero il loro dominio che si limitò alle coste della parte occidentale e meridionale, più la zona intorno ad Olbia e la città, colonia greca. Non si spinsero all’interno a causa della resistenza degli abitanti delle montagne che, inoltre, periodicamente, scendevano a valle a fare bardana. Delle lingue prelatine parlate in Sardegna il punico e il più noto, e si mantenne, per un certo periodo anche dopo la conquista romana, come risulta dalle iscrizioni trovate a Pauli Gerrei e Bithia. Inoltre lasciarono tracce della loro lingua in alcuni toponimi nelle zone che furono soggette al loro dominio: per es. sappiamo da Plinio che l’antico nome dell’isola di San Pietro è Enosim, denominazione che però non si è conservata nel tempo. Di solito, comunque, sia Fenici che Cartaginesi erano soliti rispettare i nomi indigeni dei luoghi e comunque non avevano la mentalità dei romani di “parcere subiectis et debellare suberbos” (perdonare chi si sottometteva e distruggere, annientare chi “resisteva”. Romani che, insieme alle persone annientavano anche

la lingua, erano insomma dei glottofagi):

Carales: come dimostra la presenza nell’interno di nomi simili.

Nomi sicuramente di origine punica sono:

Tharros: che deriva da Tiro, capitale della Fenicia, che significa scoglio. Tiro in ebraico si dice Sarra, che in sardo ha avuto l’evoluzione tipica: s=z=ts=th.

Cornus: città fondata dai Punici, è la traduzione latina del nome punico sommità di montagna.

Bithia: nome punico che ritroviamo anche nella Bibbia come nome proprio/ Othoca-Neapolis: significa città vecchia, e se ne trovano corrispondenti in Africa. Si trovava vicino a Neapolis che probabilmente è la traduzione greca del punico città nuova.

Magomadas: nome punico città nuova/ Macomer: anticamente era riportata nei documenti come Macomisa, un incrocio tra macom punico e la forma sarda isa.

Vocaboli punici nel sardo: tsippiri: rosmarino, si usa nel camp. e nella barb. meridionale./mittsa: sorgente d’acqua, vocabolo tipico camp. si ritrova anche nell’ebraico.

 

L’elemento greco-bizantino: alcuni esempi

Le stesse voci di origine greca presenti nel sardo sono condivise anche dagli altri dialetti meridionali, perciò probabilmente erano entrate già nell’uso del latino mer. e da lì diffuse: • iscontriare: sfibrare, disfare, attestato anche nei dialetti greci.

allacanare: appassire/• scafa: dirupo, precipizio

È difficile individuare se qualche parola sia penetrata in sardo direttamente dalla colonia greca di Olbia, ma è sicuramente più facile trovare i nomi greci di origine bizantina, soprattutto in campo ecclesiastico e amministrativo:

arconte/curatore: magistrato giudiziario e amministrativo di un curatoria;

il nome poteva derivare anche da procurator, con lo stesso ruolo nel latifondo africano. È però probabile che entrambe i nomi siano di origine latina, per cui il problema non sussiste.

kondake-condaghe: singoli documenti o insieme di essi. Sicuramente di imitazione bizantina sono le formule iniziali e finali dei documenti, in particolare cagliaritani, e i nomi di battesimo risalenti a santi di origine orientale, importati dalla chiesa. Essi si presentano di solito al vocativo, probabilmente perchè si usano particolarmente in forma invocatoria:

• Basili/ Comida/ Cristofore/ Domitri/ Elene

Sempre alla sfera ecclesiastica appartiene il nome munistere, muristene, muristeni = monastero che però oggi designa le casupole intorno alla chiesa campestre che servivano per il riparo dei pellegrini durante la festa. Da questo nome deriva il toponimo Monastir. Ma molte parole di origine bizantina che si trovavano nel sardo sono oggi scomparse a causa della sparizione di quella istituzione o abitudine.

Gost Antine/ Istefane/ Joanne/ Jorgi/ Paule

 

L’elemento germanico: alcuni esempi

L’unico periodo in cui la Sardegna fu sotto il dominio di una popolazione germanica fu per ottanta anni sotto i Vandali, (456-534) troppo poco perchè nel sardo rimangano delle tracce consistenti. I germanismi presenti nel sardo sono probabilmente stati acquisiti già dal latino che li aveva accettati nell’uso come:

friscu: fresco

brundu: biondo

ispidu: spiedo, dal lat. spitus= got. spius

adattato poi alla fonetica isolana .Altri nomi sono invece presi dall’italiano, catalano e spagnolo:

• burgu: borgo dall’ital. o vicolo dal catalano

• frunzire: raggrinzire, dal catalano.

 

L’elemento arabo: alcuni esempi

La maggior parte dei vocaboli di origine araba nel sardo sono spagnolismi, in quanto la Sardegna, anche se per lungo tempo è stata meta di incursioni saracene mai ne fu a lungo la base. Alcuni sono:

anguli: schiacciata con uova sode in mezzo

facussa: cetriolo allungato

giani: cavallo morello

I primi due nomi di cibi sono tipici del Sulcis e probabilmente furono importati dai Tabarchini di San Pietro e Calasetta, nella cui cucina si ritrovano. L’altro è giunto in Sardegna insieme ai cavalli arabi che avevano questo nome. Altri termini appartengono alla pesca al tonno ma sono comuni anche al siciliano, catalano e spagnolo.

(passo tratto da La Lingua sarda e l’insegnamento a scuola di Francesco Casula, Alfa Editrice, Quartu Sant’Elena, 2010, Euro 14)

Ollolai nella storia, l’arrivo dei Frati Francescani (1471-72)

I Padri Francescani arrivano a Ollolai (1471/1472)
A partire dal 1458, il marchese di Oristano Antonio Cubello e l’arcivescovo arborense Giacomo di Albareale, iniziano a interessare il papa Pio II per poter avere nei loro territori i Frati Minori dell’Osservanza (Francescani) e costruire una Chiesa e un Convento a loro favore. La richiesta fu accolta e il Convento venne costruito accanto a una chiesa preesistente dedicata a Santa Maria Maddalena, eretta in stile gotico intorno agli anni 1325-1330, a due chilometri da Oristano, nella vicina località di Silì. Il Convento doveva contenere almeno 10 frati. Non conosciamo il numero del primo drappello di religiosi che arrivarono ma sappiamo che, data l’insalubrità del luogo, circondato da stagni e paludi, il primo gruppo di Frati minori, pare composto da 4 elementi, vi perì di malaria. E nel 1464 lo stesso marchese Antonio Cubello decise di trasferire l’insediamento francescano di Oristano-Silì, con lo stesso titolo di Santa Maria Maddalena, a Ollolai, per non perdere definitivamente la tanto ambita presenza dei Frati Minori nel loro Marchesato. Tre i motivi principali di tale trasferimento, così come emergono dalle cronache degli storici, soprattutto francescani, ad iniziare dal più grande esperto e conoscitore della questione in oggetto, il nuorese Padre Pacifico Guiso Pirella, autore di Chronica Provinciae Sardiniae (scritta nel 1730) ma anche fondatore della Basilica dei Martiri a Fonni, negli anni 1702-1708 e del Convento di Lanusei nel 1726. Negli anni 1726-1729 fu anche Ministro Provinciale .
1. Un motivo ambientale: si tratta di una zona particolarmente benevola dal punto di vista climatico, dall’aere sano, grazie a un contesto boschivo e pieno di acque del suo entroterra, luogo ideale nell’incanto di una natura selvaggia, al primato dello spirito di orazione del carisma francescano.
2. Un motivo culturale e didascalico: di alfabetizzazione, di cultura, di formazione.
3. Un motivo religioso: è una zona bisognosa di assistenza e di cura pastorale. Occorre ricordare che quella comunità come in genere le altre “ville” barbaricine, si erano “convertite” al Cristianesimo molto tardi: dopo il 594. Ricordo infatti che in questa data, il papa Gregorio Magno, in una sua lettera al leggendario dux barbaricinorum, (che lo scrittore di Orotelli Salvatore Cambosu in Miele Amaro vorrebbe che risiedesse proprio a Ollolai2) gli scrive “Poiché nessuno del tuo popolo è cristiano, anche da ciò io argomento quanto tu sia superiore agli altri, trovandoti tra di essi il solo cristiano. Mentre infatti tutti i Barbaricini vivono come animali e non conoscono il vero Dio, ma adorano lapides et ligna ( le pietre e il legno), tu solo adori il vero Dio. Ma ben conviene che quella fede che tu ricevesti dimostri anche con le buone opere e offra a Cristo in cui credi, quanto le tue forze prevalgono, conducendo a lui tutti quelli potrai, facendoli battezzare e indirizzandoli alla vita eterna…”.
Così, il Padre Pirella scrive che l’insediamento a Ollolai avvenne presso “una antigua, y devota hermita, del mismo titolo di Santa Maria Magdalena, junto al qual Templo corre presuroso un cristallino torrente de puras y salubres aguas” cui venne aggiunto un corpo di edificio conventuale:”se edificò – precisa sempre Pirella – una estreca, y pobre vivienda para pocos frailes” 3.
Dove verrà ubicata? Al prossimo articolo.

Note Bibliografiche
Questa ricostruzione dell’arrivo dei Francescani in Sardegna è basata soprattutto sulla monumentale opera dello storico francescano sardo (di Sindia) Padre Leonardo Pisano, in 18 volumi, (su “I FRATI MINORI DI SARDEGNA” dal 1218 al 1925 Edizioni Della Torre-Cagliari). Con il Padre Pisano ho lavorato insieme come membro dell’Osservatorio regionale per la lingua e la cultura sarda per ben 5 anni e ho anche avuto l’onore di presentare – a Sindia e a Cagliari – due volumi della sua opera con i Professori Manlio Brigaglia e Francesco Floris. In quell’occasione è nato il mio interesse e la mia curiosità di approfondire la presenza dei Francescani a Ollolai.

1. L’inizio di una presenza attiva dei Francescani a Ollolai decolla nel 1470/71, la piccola chiesa (pequeña jglesia) viene consacrata il 14 novembre 1472).
2. Miele Amaro, Salvatore Cambosu, Vallecchi editore, Firenze 1989, pagine. 79-80.
3. Chronica Provinciae Sardiniae, Padre Pacifico Guiso Pirella, f. 47r, in AGOFMR

I Condaghi

Università della terza Età di Quartu- 2° Lezione (16-1-2013)

di Francesco Casula

I CONDAGHI

I Condaghi (Condaghes o Condakes) derivano il loro nome dal greco-bizantino Kontakion: a sua volta da Kontos con la quale si indicava il bastoncino a cui si arrotolava la pergamena. Successivamente il termine, per traslato, andò a indicare il contenuto di un atto giuridico o l’atto medesimo e dunque registro o codice in cui diversi atti venivano trascritti e raccolti dai monaci di diversi monasteri e abbazie della Sardegna. In questi registri patrimoniali venivano ordinatamente annotati dagli abati o priori, inventari, donazioni, contratti di acquisto (comporus) e vendita, permute (tramutus), smerci, cessioni di terre e di servi, definizioni di confine (postura de tremens), transazioni (campanias), sentenze giudiziarie relative alla proprietà ecc. ecc.

Così, mentre nell’asciutto succedersi dei dati, il Condaghe riesce a raccontare tempi e strategie dell’espansione economica di un Priorato o di un’Abbazia, in filigrana permette di leggere numerosi e originali momenti di storia e di vita quotidiana. E dunque essi hanno una estrema importanza storica per la ricostruzione della vita economica e sociale dei regni giudicali e del regno di Sardegna in età moderna fino al secolo XVI, perché poi scompaiono; ma nel contempo hanno un’importanza ancor più notevole dal punto di vista culturale: rappresentano infatti i più cospicui monumenti linguistici della Sardegna giudicale e dunque una delle fonti più rilevanti per la conoscenza del Sardo delle origini. Essi infatti sono stati redatti prevalentemente  tra il secolo XI e XIII e in lingua sarda.

Dei quattro Condaghi più importanti, che ci sono pervenuti integralmente, due  risalenti ai secoli XI-XII (Condaghe di San Nicola di Trullas e di San Pietro di Silki) sono scrittti in sardo-logudorese e uno (Condaghe di Santa Maria di Bonarcado), che contiene documenti compilati in tempi diversi tra i primi decenni del secolo XII e la metà del secolo XIII, è scritto in sardo-arborense. Mentre il quarto, il Condaghe di San Michele di Salvennor, originariamente scritto in Sardo, è andato perduto, e di esso possediamo solo una copia tradotta in lingua castigliana mista a sardo, nel secolo XVI.

Il Condaghe di San Nicola di Trullas, è il registro patrimoniale del priorato camaldolese di San Nicola di Trullas, fondato nel cuore del Logudoro (presso Semestene), nel Giudicato di Torres, all’inizio del secolo XII, sotto la protezione della potente famiglia degli Anthen. Il manoscritto pergamaneceo contava originariamente 95 carte. Il testo dell’unico manoscritto si conserva nella Biblioteca Universitaria di Cagliari. La prima edizione, da parte di Enrico Besta è del 1937.

Il Condaghe di San Pietro di Silki è il registro patrimoniale del Monastero benedettino femminile di San Pietro di Silki, alla periferia dell’allora “villa” di Sassari, nel Giudicato di Torres. Il manoscritto pergamaneceo ci è pervenuto mutilo ed è composto da 443 schede, riferibili al periodo che va dalla prima metà del secolo XI alla prima metà del secolo XIII. Esso contiene oltre che gli atti riguardanti l’amministrazione del patrimonio del Monastero di San Pietro di Silki anche quelli riguardanti i Monasteri di San Quirico di Sauren (Condaghe di San Quirico- o San Imbiricu-  di Sauren, posto fra la scheda 289 e la scheda 314) e di Santa Maria di Codrongianus (Condaghe di Santa Maria di Codrongianus, posto fra la scheda 315 e la scheda 346), da esso dipendenti. All’origine, i documenti relativi a questi due monasteri dovevano essere contenuti in due registri autonomi: la fusione fu voluta dalla badessa di Silki Massimilla  Maximilla– nel corso del secolo XII.

Il Condaghe di San Michele di Salvennor o Salvenero contiene 130 schede, non ordinate cronologicamente riguardanti l’amministrazione e gli affari economici dell’antico monastero benedettino vallombrosano di San Michele di Salvennor nel Giudicato di Torres. Conservato nell’archivio di Stato di Cagliari è stato edito per la prima volta nel 1912 da Raffaele Di Tucci Mentre sul quarto Condaghe, quello di  Santa Maria di Bonarcado, ci intratterremo più avanti, dobbiamo ricordare che possediamo altri documenti, impropriamente chiamati « Condaghi » e che in realtà sono soprattutto delle cronache: Condaghe della SS Trinità di Saccargia, Condaghe di Sorres, Condaghe di Sant’Antioco di Bisarcio, Condaghe di Santa Maria di Tergu, Condaghe di San Gavino, Condaghe Cabrevadu.. Da segnalare infine il Condaghe di Santa Maria Chiara, codice cartaceo composto di 84 carte risalente agli anni 1498-1596, scritto in catalano e in sardo, conservato nell’Archivio del Monastero di Santa Chiara a Oristano di cui possediamo una bella edizione curata da Paolo Maninchedda.

 

 

[tratto da Il Condaghe di Santa Maria di Bonarcado, a cura di Maurizio Virdis, Ilisso editore, Nuoro 2003, pag.190 ]

 

Barusone iudex

IN NOMINE DOMINI NOSTRI IHESU CHRISTI,

Amen.

EGO IUDICE Barusone de Serra potestando locu de Arborea fado custa carta pro saltu qui do a sancta Maria de Bonarcatu in sa sacratione dessa clesia nova, pro anima mea et de parentes meos daunde lo cognosco su regnu de Arbore; et pro dedimi Deus et sancta Maria vita et sanitate et filios bonos, ki potestent su regnum post varicatione mea. Dolli su saltu de Anglone, qui levo dave su regnu de Piscopio cun voluntate mea bona et de onnia fratre meum. Dollilu dave in co si segat dave s’ariola de clesia et falat via deretu assa + [cruke] ki est facta in issa petra suta su sueriu pares cun issu quercu de Mariane de Scanu et ergesi assu castru de Serra de Copios ubi est facta sa + [cnike] in issa petra. Et falat assu  flumen a bau de berbeges ube si amesturant appare sos flumenes. Cue si ferint a pare con issu saltu de clesia de Petra Pertusa.. Eco custu datu li faco ego iudice Brusone a Sancta Maria de Bonarcatu. Appantinde prode usque in seculum monagos qui ant servire in iss’  abbadia pro anima mea et de parentes meos: et de pastu et de aqua et de  glande et de aratorium castigandollu co et ateros saltos de regnum. Et non apat ausu non iudice, non curatore, non mandatore , non nullu maiore de regnum depus sa domo de Piscopio a kertarende et ne ad intrareve in icussu saltu a tuturu dessos monagos.

Testes: donnu Comita de Lacon archipiscobu d’Aristanes, donnu Paucapalea piscobu de sancta Iusta, donnu Alibrandinu piscobu de Terra alba, donnu Murrellu piscobu d’Usellos, donna Azu archiepiscopu de Turres, Donnu Mariane Thelle episcopu de Gisarclu in co ‘e furunt a sacrare sa clesia; et issos et populum quanto ibi fuit a sa sacratione sunt testes.

 

Traduzione

Barusone Iudex

In nomine Domini nostri Ihesu Christi.

Amen.

Io giudice Barisone de Serra avendo in potere il regno d’Arborea redigo questa carta relativamente al salto che  dono a Santa Maria di Bonarcado in occasione della consacra­zione della chiesa nuova, per l’anima mia e dei miei genitori, dai quali ho ereditato il regno di Arborea; e perché Dio e Santa Maria mi hanno concesso vita e salute e figli buoni, i quali possano poi avere il potere sul regno dopo la mia mort­e. Dono (a Santa Maria di Bonarcado) il salto di Anglone, stralciandolo dal territorio appartenente al territorio demaniale di Piscopio col consenso mio e di tutti i miei fratelli. Lo dono come si ritaglia seguendo il confine dall’aia della chie­sa e scende lungo la via in direzione della + [croce] che è  posta sulla pietra sotto la sughera accanto alla quercia di Ma­riano de Scanu  e sale al sasso di Serra de Copios dove è po­sta la + [croce] sulla pietra. E cala al fiume verso il guado de berbeghes [pecore] alla confluenza dei fiumi. Che ivi si uniscono col salto della chiesa di Petra Pertusa. Questa donazione faccio dunque io giudice Barisone a Santa Maria di Bonarcado. Ne abbiano vantaggio perenne i monaci che serviranno presso l’abbadia per l’anima mia e dei miei genitori  e riguardo al pascolo e all’acqua e alla produzione ghian­difera e alle terre d’aratura prendendone cura a proprio van­taggio come si fa con ogni salto del demanio. E non osi né giudice né curatore, né procuratore, né alcun ufficiale preminente presso la casa di Piscopio muovere lite al riguardo né entrare in quel salto contro la volontà dei monaci.

Testi­moni: Donno Comita de Lacon arcivescovo di Oristano, don­no Paucapalea  vescovo di Santa Giusta, donno Alibrandino vescovo di Terralba, donno Murrellu vescovo di Usellus, donno Azo arcivescovo di Torres, donno Mariano Thelle vescovo di Bisarcio, presenti alla consacrazione della chiesa; ed essi e il popolo quanto vi era presente alla consacrazione sono testimoni.­

(Passo tratto da Letteratura e civiltà della Sardegna, di Francesco Casula, volume I, Grafica del Parteolla Editore, Dolianova, 2011, Euro 20).

 

 

2. Elementi di Linguistica sarda.

L’elemento indigeno: alcuni esempi

Nel campo della paletnologia si è venuta formando la teoria della pertinenza etnica dei protosardi a una razza stanziata lungo le coste settentrionali dell’Africa e la loro immigrazione dal continente africano nell’isola mediterranea. Sappiamo per esempio che presso i Sardi, i vecchi che avevano passato la settantina erano sacrificati dai loro stessi figli al dio Kronos, spingendoli a colpi di verghe e bastoni verso un precipizio da cui buttavano il vecchio, accompagnando il rito con risa (riso sardonico). Lo stesso uso è attestato da autori classici anche per popolazioni africane. Anche l’uso di fare un tumulo di pietre sopra un cadavere, nel luogo stesso del suo rinvenimento è uso orientale. L’incubazione era praticata dai protosardi, dai Greci e dagli Ebrei come lo era in Africa dai libi. Questi dati hanno anche un riscontro in un fatto linguistico: la Via Lattea in Sardegna è denominata Via della Paglia, nome che non ha nessun riscontro in tutta la Ròmania, ma che invece trova molte forme analoghe in Oriente. Conosciamo poco – ma gli studi in questa direzione sono interessanti e incoraggianti, basti pensare a quelli di Gigi Sanna – delle lingue parlate in Sardegna prima del dominio punico e romano, ma siamo però in possesso di toponimi molto numerosi. Sappiamo che tra i primi abitanti dell’isola ci furono gli iberi e i libi, per cui ci si potrebbe aiutare con queste lingue. In particolare ci si può servire dell’odierna lingua degli iberi e cioè il basco. Numerosi sono i nomi di piante sarde che hanno corrispondenti nell’iberico: • Aurri = al basco, vocabolo usato nelle Barbagie e che trova riscontro anche nel berbero;

golostru = al basco, agrifoglio, dà nelle due zone dei toponimi simili

È indicativo che la maggior parte di questi nomi siano caratteristici della Barbagia e in piccola parte delle regioni confinanti. Vi sono anche altri termini così arcaici e che hanno uguale parentela: • sakkaiu = agnello di un anno, simile al basco capra di un anno che deriva da magro. • ospile = piccolo chiuso fresco e ombroso, simile al basco fresco.

Ma non bisogna credere che il basco sia la chiave per spiegare l’ingente massa dei toponimi sardi. Infatti se qualcosa della lingua dei Balari è entrata in quella degli Ilienses, esse non sono direttamente affini. Quindi nell’impossibilità di interpretare le radici della maggior parte dei toponimi sardi, la scienza si è occupata dei suffissi ed è arrivata a risultati più attendibili:

• GON(N)-= collina: questa radice è molto diffusa e la si ritrova anche nel punico, di provenienza libica, e nel basco.

Mogoro = collina bassa: questa parola si ritrova nel campi danese settentrionale e in alcuni toponimi, con dei riscontri nel basco Vi fu un periodo di bilinguismo con la conquista romana, in cui elementi indigeni si incrociarono con elementi del latino. Si produssero così dei toponimi che proponevano in entrambe le lingue la stessa denominazione come Gonnos-Codina che significano entrambe Roccia.

-th: è questo probabilmente un prefisso di sostrato che poi, in un periodo di bilinguismo tra il latino e l’indigeno, fu aggiunto a parole latine come lacerta tsiligherta = cavalletta oppure iugulum tsugu – collo.

-ai, -ei, -oi, – ui: uscite di toponimi sardi con significato collettivo, che poi sono stati applicati anche a parole latine.

-os(s)a,-as(s)a,-us(s)a: sono uscite di numerosi toponimi, e nella loro alternanza tra consonante singola e geminata sono definite le caratteristiche più arcaiche nel fondo toponomastico dell’Ellade e dell’Asia Minore.

Di solito non conosciamo il significato delle radici paleosarde, e non in rarissimi casi:

orgosa: designa un terreno umido e sta alla base di vari toponimi. Vi sono poi tutta una serie di termini enigmatici che si sottraggono all’analisi etimologica e che designano formazioni geomorfe, piante, animali, e ciò che è legato al suolo:

giaras: pianori basaltici, che formano colline che si ergono in mezzo alla pianura e la loro sommità è un pianoro circondato da rocce frastagliate.

toneris: coni dovuti all’erosione del massiccio calcareo.

uurras: voragini o anche pozzi profondi

bakku. gola di montagna

kea, cea: originariamente significava cavità, oggi fosso in cui i

carbonai fanno il carbone

tseppara: pianura molto sassosa

teti: erba spinosa

zjnniga: giunco spinoso

mufrone: con le sue varianti, deriva da muffro che probabilmente risale

ad una base onomatopeica mu- che ricorda il verso dell’animale.

grodde: nomignolo per indicare la volpe senza usare il suo vero

nome, matzone, per paura che essa appaia.

 

L’elemento latino: alcuni esempi

Parole uscite dall’uso nel sardo moderno, ma attestate dai documenti più antichi: • vecchio: per il concetto di “vecchio” i testi più antichi hanno tre parole: vetere, vetranu, veclu.

Tanto vetere, quanto vetranu si sono estinti nel sardo; rimane veclu che però si è ristretto nel suo significato: ha perso la relazione con l’età umana ed è andato ad indicare quella degli alberi, anche se oggi è poco usato. Per indicare vecchio oggi si usa becciu, sardizzazione dall’italiano vecchio. giovane: per giovane in sardo si è sempre usato il vocabolo per piccolo: pitzinnu o anche novu-nou, però con significato ristretto e concreto applicato p.e. alla vigna o a un vitello. Oggi nella lingua comune si usa giovanu, che è un italianismo. • ricco: probabilmente in sardo antico vi era per ricco la parola dives, che si deduce da vari soprannomi riportati nei documenti antichi,

ma oggi si usa riccu, italianismo.

povero: si usava prima pauperu, oggi è quasi del tutto estinto e soppiantato da poberu, italianismo.

• bianco: l’unica voce per indicare il colore nei testi antichi è albus, usato ancora nell’interno dell’isola; indica anche la chiara d’uovo in molti paesi, ma oggi nell’uso è stato sostituito da biancu, italianismo. Elementi che risalgono alla latinità più antica che si sono mantenuti solo in Sardegna o in poche altre zone arcaiche: • maccu. matto, ricorda il maccus latino delle Atellane; • soddu: soldo, ricorda il sollum osco

yubilare: alzare grida, che mantiene in sardo il significato che aveva nell’antico latino

acina: uva, aveva in latino antico senso collettivo, ma già Catone l’usa parlando dei soli acini; in sardo invece mantiene il suo significato originario

appeddare = appellare, in sardo ha subito un restringimento di

significato e vuol dire abbaiare

biscidu=viscidus, che originariamente in latino significava amaro,

acido, e con questa valenza si è mantenuto nel sardo.

Dopo la romanizzazione dell’interno, ondate seriori di latino hanno raggiunto l’isola. Questo confluire di strati cronologicamente distinti è una delle ragioni della differenziazione tra le varie parlate nell’isola.

fare: l’antico logudorese ha facher che si continua col nuorese

fachere, ma il campidanese ha fairi che deriva dall’innovazione latina

fagere sul modello agere.

forno: la forma più antica è fornus da cui deriva il forru: dei dialetti centrali e meridionali, mentre furru è la forma usuale del logudorese e deriva da furrus, una forma dialettale penetrata nel latino. • porta: il latino più antico janua si è mantenuto nel logudorese antico yanna, e si trova oggi nel log. e nel centro; il latino seriore

jenua da genna o enna nel camp. e barb. Meridionale Vi sono delle differenziazioni non risalenti al latino, scissioni avvenute nella Sardegna stessa, per cui vi è differenza semantica fra log. e camp.:

digitus-pollex: nel camp. si usa didu mentre nel nuorese si dice

poddiche per tutte le dita indistintamente

sue matriche: matrix si usava in latino per indicare tutti gli animali materni, perciò le scrofe erano sues matriches; nella barb camp. Ogliastra si generalizzò l’uso di matrix=madri, mardi, mentre nel centro e log si dice sue porcus-aper-subulone: dal primo deriva la denominazione settentrionale del cinghiale, il secondo in lat. significava cerbiatto con le prime corna e nel logudorese indicava i cinghialetti; successivamente ci fu una generalizzazione e il nome andò ad indicare anche l’animale adulto.

(passo tratto da La Lingua sarda e l’insegnamento a scuola di Francesco Casula, Alfa Editrice, Quartu sant’Elena, 2°1°, Euro 14)