L’ identità per evitare il declino della Sardegna

L’Identità per evitare il declino della Sardegna
di Francesco Casula
Silvano Tagliagambe, brillante filosofo ed epistemologo, molto noto anche in Sardegna – fra l’altro per aver insegnato all’Università di Cagliari – in un recente articolo dal titolo molto significativo “Basta con l’illuminismo applicato, contro il declino dell’isola servono partecipazione e identità locali”, fa piazza pulita di una serie di luoghi comuni sull’Identità. “Essa rappresenta – scrive – un elemento la cui creazione e il cui consolidamento scaturiscono da tutte le funzioni, gli aspetti e i processi che costituiscono un importante fattore di coesione e di stabilità di un territorio … Senso di appartenenza e orgoglio locale sono infatti elementi che rafforzano le propensioni cooperative e sinergetiche, sia sviluppando «reti di protezione» alle singole imprese nei momenti di difficoltà, sia incrementando il potenziale di creatività locale. Il concetto di identità, in questo quadro generale, è dunque espressione diretta della struttura sociale e delle relazioni fra i soggetti che la compongono. A caratterizzarlo è l’intreccio di fattori fisici, culturali, relazionali ed economici che determinano la forma e la qualità dei singoli insediamenti e condizionano la formazione della base economica e produttiva di ogni specifica comunità. L’aspetto importante del riferimento a questi concetti è che da essi scaturisce una chiara indicazione dell’impossibilità di prescindere, nella formulazione delle politiche di crescita e di sviluppo territoriale, dalle comunità locali e dalla partecipazione e dal coinvolgimento dei soggetti che le compongono. Questo è il senso della sfida posta oggi alla classe politica e ai responsabili del governo dei sistemi sociali dall’esigenza, sempre più sentita, di fare della partecipazione ai processi decisionali e della condivisione degli obiettivi di gestione del territorio, innovazione e di crescita la base di una nuova cultura diffusa, di un nuovo «senso comune» e di un nuovo modello organizzativo, più efficaci e rispondenti alle esigenze ormai indifferibili alle quali occorre far fronte se si vuole evitare di cadere in un declino che si profila sempre più incombente e minaccioso”. Dunque – secondo Tagliagambe – per “evitare il declino” economico, prima ancora che sociale e culturale, per la crescita e lo sviluppo territoriale, occorrono identità locali, orgoglio e senso di appartenenza. E’ una rigorosa risposta ai laudatores della globalizzazione e della omologazione che negano l’Identità sarda o comunque la combattono, dopo averne fatto la caricatura. Ridotta infatti a feticcio o a folclore, a dato immutabile e immobile, è evidentemente facile contestarla e negarla. Essa invece è un elemento dinamico, da rielaborare continuamente. E non deve essere concepita come un guscio rassicurante che ci garantisce e ci difende dallo spaesamento indotto dalla globalizzazione e/o dalla diversità: essa deve invece essere accettata e riconosciuta come la condizione base del nostro modo di situarci nel mondo e di dialogare con gli orizzonti più diversi, per affrontare il presente nella sua drammatica attualità e per abitare il mondo, aperti al suo respiro, lottando contro il tempo della dimenticanza. L’identità si vive dunque nel segno della contaminazione e dell’appartenenza. L’identità è quella che diventa progetto – anche economico – e l’appartenenza diventa storia, caricandosi di vita, suscitando conflitti, impegnandosi con le lotte a trasformare il presente e costruire il futuro. Altro che feticcio o folclore!

24 maggio e la guerra italico-sabauda nefasta e criminale

di Francesco Casula
Oggi 24 maggio ricorre il 106esimo anniversario dell’ingresso in guerra dell’Italia. A firmare nel maggio 1915 l’entrata in guerra fu Vittorio Emanuele III (più noto come Sciaboletta) contro il volere della larga maggioranza del Parlamento, d’accordo soltanto con il primo ministro (Salandra) e il responsabile degli Esteri (Sonnino). Si trattò di un vero e proprio colpo di Stato: il primo di una serie, come ricordò il grande Luigi Salvatorelli”1.
Ma vediamo, analiticamente come andarono le cose. Dopo i fatti di Saraievo e la dichiarazione di guerra dell’impero austro-ungarico, l’Italia assume una posizione neutralista, firmando la sua dichiarazione ufficiale il 3 agosto 1914 . “Essa – ricorda Salvatorelli – riscosse consenso pressoché generale nella opinione pubblica e nel mondo politico” 2 . Il Parlamento, per la stragrande maggioranza, era contrario alla guerra. Le elezioni del 1913 avevano sancito infatti la vittoria dei liberali, socialisti e cattolici, tutti neutralisti, con questo risultato: Unione liberale (270 seggi con il 47,62%); Partito Socialista Italiano (52 seggi con il 17,62%); Unione elettorale cattolica italiana (20 seggi con il 4,23%).
Dopo la dichiarazione di neutralità il Governo inizia la trattativa con l’Austria, che è disposta a cedere all’Italia il Trentino. Ma forse anche di più. Giolitti infatti il 1 febbraio 1915 in una pubblica dichiarazione ebbe a sostenere che “nelle attuali condizioni dell’Europa, parecchio possa ottenersi senza una guerra” 3. A questo punto avviene il voltafaccia del Governo italiano che conclude le trattative con la parte avversa – con cui le aveva iniziate prima ancora che fosse esaurito in tentativo di accordo con con l’impero austro-ungarico – firmando il Trattato di Londra il 26 aprile 1915, che riservava all’Italia il Trentino, l’Alto Adige e altre concessioni. “Le trattative con le potenze dell’Intesa, – ricorda lo storico Della Peruta – furono condotte nel massimo segreto, con il consenso del re e all’insaputa del Parlamento” 4.
Tanto segrete che neppure Giolitti le conosceva. Il Parlamento comunque per più di tre quinti dei suoi deputati (i «trecento biglietti da visita») continuava ad essere contrario alla Guerra. Il Presidente del Consiglio Salandra, non potendo avere la maggioranza parlamentare sulla sua linea interventista il 16 maggio presenta le dimissioni. Lo Stato Maggiore dell’esercito – evidentemente con la complicità e il sostegno del re, viepiù interventista – aveva nel frattempo organizzato colossali dimostrazioni di popolo (le «giornate di maggio») che assunsero all’annuncio delle dimissioni, aspetto poco meno che di rivoluzione, contribuendo a ciò in prima linea Mussolini, i sindacalisti interventisti e i nazionalisti, sostenuti in modo particolare dai Quotidiani come il Corriere della Sera e dal Giornale d’Italia.
“Nel progressivo orientamento di Salandra verso l’intervento a fianco dell’Intesa giocavano motivi di ispirazione risorgimentale: l’irredentismo, il compimento dell’unità nazionale con la «quarta guerra di indipendenza» e aspirazioni di potenza, il pieno controllo dell’Adriatico, l’espansione nei Balcani”5. Ma anche un programma impostato sul rinnovato prestigio della monarchia e dell’esercito, sulla difesa della iniziativa privata in campo economico, sul rafforzamento dello stato in senso autoritario, che si incontrava con il progetto politico dei nazionalisti, decisi sostenitori di un programma di espansione imperialistica. Obiettivi tutti condivisi e sollecitati dal re Sciaboletta che dopo aver constatato l’ostilità dei deputati, respinse le dimissioni di Salandra e il Governo presentatosi alla Camera, ottenne quasi senza discussione, pieni poteri (20 maggio).
In realtà, secondo lo Statuto, la Camera era stata chiamata semplicemente a ratificare, anche se a cose ormai fatte, le decisioni del Patto di Londra, frutto della volontà esclusiva del re, di Salandra e di Sonnino. Nonostante l’Italia «reale», rimanesse intimamente contraria o indifferente alla guerra, che non era voluta dalle masse popolari: né dai contadini – tanto quelli organizzati nelle leghe socialiste e cattoliche quanto quelli disorganizzati – né dagli operai dei centri industriali. Ma a fare la guerra saranno chiamati e «coscritti» proprio i contadini che non la volevano: nel maggio del 1917 se ne conteranno nelle trincee ben 2 milioni.
Sottoposti a una ferrea disciplina, con l’applicazione di misure di coercizione e repressione estreme che nel settembre del 1915, l’incapace e inefficiente Generale Cadorna,così specificava: ”Il superiore ha il sacro potere di passare immediatamente per le armi i recalcitranti e i vigliacchi. Chi tenti ignominiosamente di arrendersi e di retrocedere, sarà raggiunto prima che si infami, dalla giustizia sommaria del piombo delle linee retrostanti e da quella dei carabinieri incaricati di vigilare alle spalle delle truppe, sempre quando non sia freddato da quello dell’ufficiale”. Il 23 l’Italia dichiarò una guerra che iniziò il 24, voluta in modo quasi esclusivo dal re, da Salandra e da Sonnino. Di qui la valutazione degli storici: da Salvatorelli a Della Paruta: si trattò di una “larvato colpo di stato”6 .
Ebbe così inizio la gigantesca carneficina. Sarà il sardo Emilio Lussu, in una suggestiva testimonianza storica e letteraria come Un anno sull’altopiano a descrivere gli orrori di quella guerra. Egli infatti al fronte sperimenterà sulla propria pelle la sua assurdità e insensatezza: con la protervia e la stupidità dei generali che mandano al macello sicuro i soldati; con i miliardi di pidocchi, la polvere e il fumo, i tascapani sventrati, i fucili spezzati, i reticolati rotti, i sacrifici inutili. Una guerra che comportò oltre a immani risorse (e sprechi) economici e finanziari, lutti, con decine di migliaia di morti, feriti, mutilati e dispersi. A pagare i costi maggiori fu la Sardegna: “Pro difender sa patria italiana/distrutta s’est sa Sardigna intrea, cantavano i mulattieri salendo i difficili sentieri verso le trincee, ha scritto Camillo Bellieni, ufficiale della Brigata” 7.
Infatti alla fine del conflitto la Sardegna avrebbe contato ben 13.602 morti (più i dispersi nelle giornate di Caporetto, mai tornati nelle loro case). Una media di 138,6 caduti ogni mille chiamati alle armi, contro una media “nazionale” di 104,9. E a “crepare” saranno migliaia di pastori, contadini, braccianti chiamati alle armi: i figli dei borghesi, proprio quelli che la guerra la propagandavano come «gesto esemplare» alla D’Annunzio o, cinicamente, come «igiene del mondo» alla futurista, alla guerra non ci sono andati.

Note bibliografiche
1.Angelo D’Orsi, Il Manifesto del 19-12-2017
2.Guido Salvatorelli, Storia del Novecento, volume III Oscar Mondadori, 1957, pagina 570.
3. Franco Della Paruta, Storia del Novecento, La Mounnier, 1991, pagina 26.
4. Ibidem, pagina 26
5. Ibidem. Pagina 24
6. Ibidem, pagina 28
7. Brigaglia, Mastino, Ortu, Storia della Sardegna, Ed.Laterza, 2002, pagina 9.

200 annos e prus de sa italianizatzione linguistica e culturale de sa natzione sarda

200° annos e prus…de italianizatzione linguistica e culturale de sa natzione sarda. di Francesco Casula
Nel 1720, quando i Savoia prendono possesso della Sardegna, la situazione linguistica isolana è caratterizzata da un bilinguismo imperfetto: la lingua ufficiale – della cultura, del Governo, dell’insegnamento nella scuola religiosa riservata ai ceti privilegiati – è il castigliano, mentre la lingua del popolo, in comunicazione subalterna con quella ufficiale, è il Sardo.
Ai Piemontesi questa situazione appare inaccettabile e da modificare quanto prima, nonostante il Patto di cessione dell’Isola del 1718 imponga il rispetto delle leggi e delle consuetudini del vecchio Regnum Sardiniae. Per i Piemontesi occorre rendere ufficiale la lingua italiana. Come prima cosa pensano alla Scuola per poi passare agli atti pubblici. Ma evidentemente le loro preoccupazioni non sono di tipo glottologico. Attraverso l’imposizione della lingua italiana vogliono sradicare la Spagna dall’Isola, rafforzare il proprio dominio, combattere il “Partito spagnolo” sempre forte nell’aristocrazia ma non solo, Pensano allora di elaborare “Il progetto di introdurre la lingua italiana nella scuola“ affidandone lo studio e la gestione ai Gesuiti. Nella prima fase il progetto coinvolgerà comunque pochi giovani: appartenenti ai ceti privilegiati. Il problema diventa molto più ampio ai primi dell’Ottocento, quando il Governo inizia a interessarsi dell’Istruzione del popolo. I bambini “poverelli” ricevono gratuitamente due libri in lingua italiana: Il Catechismo del Bellarmino e il Catechismo agrario, “giacchè l’agricoltura è precipuo sostegno di ogni stato e in particolare della Sardegna“.
Ciononostante il popolo continuerà a parlare diffusamente, come sotto la dominazione spagnola, la lingua sarda, affermando con essa la sua Identità, la sua cultura, la sua concezione del mondo.
Per quanto attiene all’insegnamento della storia la situazione è analoga: a Pietro Martini – uno dei padri della storiografia sarda, e siamo in pieno ‘800! – intenzionato a introdurre fra gli studenti dell’Isola l’insegnamento della Storia sarda, capitò di sentirsi rispondere seccamente dalle autorità governative piemontesi che “nelle scuole dello Stato debbasi insegnare la storia antica e moderna, non di una provincia ma di tutta la nazione e specialmente d’Italia”.
Tale concezione, da ricondurre a un progetto di omogeneizzazione culturale e linguistica, -che per l’Isola significherà dessardizzazione- la ritroviamo pari pari nelle Leggi sull’istruzione elementare obbligatoria nell’Italia pre e post unitaria: del Ministro Gabrio Casati (1859), Cesare Correnti (1867) e Michele Coppino (1877).
I programmi scolastici, impostati secondo una logica rigidamente nazional- statale o statalista che di si voglia e italocentrica, sono finalizzati a creare una coscienza “unitaria“, uno spirito “nazionale“, capace di superare i limiti – così si pensava – di una realtà politico-sociale estremamente composita sul piano storico, linguistico e culturale.
Questo paradigma fu enfatizzato nel periodo fascista, con l’operazione della “nazionalizzazione-italianizzazione” dell’intera storia italiana.
A onor del vero, proprio nell’incipiente periodo fascista non mancò chi, come Giuseppe Lombardo Radice, estensore dei Programmi della Scuola elementare, sostenne la necessità di valorizzare il locale e il dialetto e di partire proprio dalla lingua viva per facilitare l’apprendimento e lo sviluppo intellettuale degli scolari.(G. L. Radice, Lezioni di didattica)
Sempre nello stesso periodo, fu lo stesso Gentile a voler introdurre la lingua sarda nelle scuole isolane, con altre lingue minori in altre Regioni italiane: subito dopo però estromesse dal regime perché avrebbe messo in pericolo “ l’Italianità” della Sardegna!
L’idiosincrasia nei confronti di tutto ciò che è Sardo, e in modo particolare de sa Limba, continuerà comunque anche nel dopoguerra.
Nel 1955, nei programmi elementari elaborati dalla Commissione Medici si introduce l’esplicito divieto per i maestri di rivolgersi agli scolari in dialetto. E in tempi a noi più vicini, con una nota riservata del Ministero – regnante Malfatti – del 13-2-1976 si sollecitano Presidi e Direttori Didattici a “controllare eventuali attività didattiche-culturali riguardanti l’introduzione della Lingua sarda nelle scuole”. Una precedente nota riservata dello stesso anno del 23-1 della Presidenza del Consiglio dei Ministri aveva addirittura invitato i capi d’Istituto a “schedare“ gli insegnanti.
E non si tratta di “pregiudizi” presenti solo negli apparati statali e ministeriali romani: il segretario provinciale sardo di un Partito politico, allora ferocemente centralistico, sia pure di un “centralismo democratico“ nel 1978 invitava, con una circolare spedita a tutte le sezioni, di non aderire, anzi di boicottare la raccolta di firme per la Proposta di legge di iniziativa popolare sul Bilinguismo perché “separatista“ e attentatrice all’Unità della Nazione!
Qualche anno dopo Giovanni Spadolini, da Presidente del Consiglio nel 1981 giustifico la bocciatura da parte del Governo della Proposta di bilinguismo con la stessa motivazione: ”Attentato all’Unità della Nazione!”
E oggi? Qualcosa inizia a muoversi, specie in seguito alla Legge regionale n.26 e a quella statale la n.482. Ma si tratta solo di sperimentazioni e progetti fatti a livello individuale, da parte di alcuni docenti o di singole scuole.
La lingua sarda –e con essa la storia, la letteratura, la cultura etc- rimane esclusa dai programmi e dai curricula scolastici. E ciò, nonostante i programmi della Scuola elementare – e, sia pure ancora in misura insufficiente della scuola media e superiore raccomandino di portare l’attenzione degli alunni “sull’uomo e la società umana nel tempo e nello spazio, nel passato e nel presente, nella dimensione civile, culturale, economica, sociale, politica e religiosa, per creare interesse intorno all’ambiente di vita del bambino, per accrescere in lui il senso di appartenenza alla comunità e alla propria terra”.
Ciò significa – per quanto attiene per esempio alla lingua materna – partire da essa per pervenire all’uso della lingua italiana e delle altre lingue, senza drammatiche lacerazioni con la coscienza etnica del contesto culturale vissuto, in un continuo e armonico arricchimento della mente e dell’intelletto, per aprire nuovi e più ampi orizzonti alla formazione e all’istruzione.
La pedagogia moderna più attenta e avveduta infatti ritiene infatti che la lingua materna e i valori alti di cui si alimenta siano i succhi vitali, la linfa, che nutrono e fanno crescere i giovani, ancorandoli fortemente alle loro “radici” etno-storiche, etno -culturali ed etno-linguistiche, senza correre il gravissimo pericolo di essere collocati fuori dal tempo e dallo spazio contestuale alla loro vita. Solo essa consente di saldare le valenze e i prodotti propri della sua cultura ai valori di altre culture. Negando la lingua materna, non assecondandola e coltivandola si esercita grave e ingiustificata violenza sui giovani, nuocendo al loro sviluppo e al loro equilibrio psichico. Li si strappa al nucleo familiare di origine e si trasforma in un campo di rovine la loro prima conoscenza del mondo. I bambini infatti – ma il discorso vale anche per i giovani studenti delle medie e delle superiori – se soggetti in ambito scolastico a un processo di sradicamento dalla lingua materna e dalla cultura del proprio ambiente e territorio, diventano e risultano insicuri, impacciati, “poveri” sia culturalmente che linguisticamente.200° annos e prus…de italianizatzione linguistica e culturale de sa natzione sarda. di Francesco Casula
Nel 1720, quando i Savoia prendono possesso della Sardegna, la situazione linguistica isolana è caratterizzata da un bilinguismo imperfetto: la lingua ufficiale – della cultura, del Governo, dell’insegnamento nella scuola religiosa riservata ai ceti privilegiati – è il castigliano, mentre la lingua del popolo, in comunicazione subalterna con quella ufficiale, è il Sardo.
Ai Piemontesi questa situazione appare inaccettabile e da modificare quanto prima, nonostante il Patto di cessione dell’Isola del 1718 imponga il rispetto delle leggi e delle consuetudini del vecchio Regnum Sardiniae. Per i Piemontesi occorre rendere ufficiale la lingua italiana. Come prima cosa pensano alla Scuola per poi passare agli atti pubblici. Ma evidentemente le loro preoccupazioni non sono di tipo glottologico. Attraverso l’imposizione della lingua italiana vogliono sradicare la Spagna dall’Isola, rafforzare il proprio dominio, combattere il “Partito spagnolo” sempre forte nell’aristocrazia ma non solo, Pensano allora di elaborare “Il progetto di introdurre la lingua italiana nella scuola“ affidandone lo studio e la gestione ai Gesuiti. Nella prima fase il progetto coinvolgerà comunque pochi giovani: appartenenti ai ceti privilegiati. Il problema diventa molto più ampio ai primi dell’Ottocento, quando il Governo inizia a interessarsi dell’Istruzione del popolo. I bambini “poverelli” ricevono gratuitamente due libri in lingua italiana: Il Catechismo del Bellarmino e il Catechismo agrario, “giacchè l’agricoltura è precipuo sostegno di ogni stato e in particolare della Sardegna“.
Ciononostante il popolo continuerà a parlare diffusamente, come sotto la dominazione spagnola, la lingua sarda, affermando con essa la sua Identità, la sua cultura, la sua concezione del mondo.
Per quanto attiene all’insegnamento della storia la situazione è analoga: a Pietro Martini – uno dei padri della storiografia sarda, e siamo in pieno ‘800! – intenzionato a introdurre fra gli studenti dell’Isola l’insegnamento della Storia sarda, capitò di sentirsi rispondere seccamente dalle autorità governative piemontesi che “nelle scuole dello Stato debbasi insegnare la storia antica e moderna, non di una provincia ma di tutta la nazione e specialmente d’Italia”.
Tale concezione, da ricondurre a un progetto di omogeneizzazione culturale e linguistica, -che per l’Isola significherà dessardizzazione- la ritroviamo pari pari nelle Leggi sull’istruzione elementare obbligatoria nell’Italia pre e post unitaria: del Ministro Gabrio Casati (1859), Cesare Correnti (1867) e Michele Coppino (1877).
I programmi scolastici, impostati secondo una logica rigidamente nazional- statale o statalista che di si voglia e italocentrica, sono finalizzati a creare una coscienza “unitaria“, uno spirito “nazionale“, capace di superare i limiti – così si pensava – di una realtà politico-sociale estremamente composita sul piano storico, linguistico e culturale.
Questo paradigma fu enfatizzato nel periodo fascista, con l’operazione della “nazionalizzazione-italianizzazione” dell’intera storia italiana.
A onor del vero, proprio nell’incipiente periodo fascista non mancò chi, come Giuseppe Lombardo Radice, estensore dei Programmi della Scuola elementare, sostenne la necessità di valorizzare il locale e il dialetto e di partire proprio dalla lingua viva per facilitare l’apprendimento e lo sviluppo intellettuale degli scolari.(G. L. Radice, Lezioni di didattica)
Sempre nello stesso periodo, fu lo stesso Gentile a voler introdurre la lingua sarda nelle scuole isolane, con altre lingue minori in altre Regioni italiane: subito dopo però estromesse dal regime perché avrebbe messo in pericolo “ l’Italianità” della Sardegna!
L’idiosincrasia nei confronti di tutto ciò che è Sardo, e in modo particolare de sa Limba, continuerà comunque anche nel dopoguerra.
Nel 1955, nei programmi elementari elaborati dalla Commissione Medici si introduce l’esplicito divieto per i maestri di rivolgersi agli scolari in dialetto. E in tempi a noi più vicini, con una nota riservata del Ministero – regnante Malfatti – del 13-2-1976 si sollecitano Presidi e Direttori Didattici a “controllare eventuali attività didattiche-culturali riguardanti l’introduzione della Lingua sarda nelle scuole”. Una precedente nota riservata dello stesso anno del 23-1 della Presidenza del Consiglio dei Ministri aveva addirittura invitato i capi d’Istituto a “schedare“ gli insegnanti.
E non si tratta di “pregiudizi” presenti solo negli apparati statali e ministeriali romani: il segretario provinciale sardo di un Partito politico, allora ferocemente centralistico, sia pure di un “centralismo democratico“ nel 1978 invitava, con una circolare spedita a tutte le sezioni, di non aderire, anzi di boicottare la raccolta di firme per la Proposta di legge di iniziativa popolare sul Bilinguismo perché “separatista“ e attentatrice all’Unità della Nazione!
Qualche anno dopo Giovanni Spadolini, da Presidente del Consiglio nel 1981 giustifico la bocciatura da parte del Governo della Proposta di bilinguismo con la stessa motivazione: ”Attentato all’Unità della Nazione!”
E oggi? Qualcosa inizia a muoversi, specie in seguito alla Legge regionale n.26 e a quella statale la n.482. Ma si tratta solo di sperimentazioni e progetti fatti a livello individuale, da parte di alcuni docenti o di singole scuole.
La lingua sarda –e con essa la storia, la letteratura, la cultura etc- rimane esclusa dai programmi e dai curricula scolastici. E ciò, nonostante i programmi della Scuola elementare – e, sia pure ancora in misura insufficiente della scuola media e superiore raccomandino di portare l’attenzione degli alunni “sull’uomo e la società umana nel tempo e nello spazio, nel passato e nel presente, nella dimensione civile, culturale, economica, sociale, politica e religiosa, per creare interesse intorno all’ambiente di vita del bambino, per accrescere in lui il senso di appartenenza alla comunità e alla propria terra”.
Ciò significa – per quanto attiene per esempio alla lingua materna – partire da essa per pervenire all’uso della lingua italiana e delle altre lingue, senza drammatiche lacerazioni con la coscienza etnica del contesto culturale vissuto, in un continuo e armonico arricchimento della mente e dell’intelletto, per aprire nuovi e più ampi orizzonti alla formazione e all’istruzione.
La pedagogia moderna più attenta e avveduta infatti ritiene infatti che la lingua materna e 2i valori alti di cui si alimenta siano i succhi vitali, la linfa, che nutrono e fanno crescere i giovani, ancorandoli fortemente alle loro “radici” etno-storiche, etno -culturali ed etno-linguistiche, senza correre il gravissimo pericolo di essere collocati fuori dal tempo e dallo spazio contestuale alla loro vita. Solo essa consente di saldare le valenze e i prodotti propri della sua cultura ai valori di altre culture. Negando la lingua materna, non assecondandola e coltivandola si esercita grave e ingiustificata violenza sui giovani, nuocendo al loro sviluppo e al loro equilibrio psichico. Li si strappa al nucleo familiare di origine e si trasforma in un campo di rovine la loro prima conoscenza del mondo. I bambini infatti – ma il discorso vale anche per i giovani studenti delle medie e delle superiori – se soggetti in ambito scolastico a un processo di sradicamento dalla lingua materna e dalla cultura del proprio ambiente e territorio, diventano e risultano insicuri, impacciati, “poveri” sia culturalmente che linguisticamente.

SA CHISTIONE DE SA LIMBA IN MONTANARU E OE

SA CHISTIONE DE SA LIMBA IN MONTANARU E OE
de Frantziscu Casula
Comitadu pro sa limba sarda

Antiogu Casula, prus connotu comente Montanaru (su proerzu suo), forsis su poeta sardu
prus mannu, subra de sa Limba at iscrittu cosas chi galu in die de oe sunt de importu mannu,
non solu in su chi pertocat sa funtzione de su Sardu in sa poesia, s’iscola, sa vida de sa zente,
ma puru pro cumprendere sa chistione de s’unificatzione o, comente si narat cun una paraula
moderna, sa «standardizatzione».
Comintzamus a amentare chi Montanaru at poetadu in sardu ebia, iscriende in
logudoresu, pro ite – narat in un’iscritu – «è l’idioma che mirabilmente si presta ad ogni
genere di componimento, in prosa come in versi, ritenuto per molto tempo la sola lingua
letteraria dei sardi».1
Ma puru ca – arregordat su ghenneru Giovannino Porcu – «gli consentiva di
riannodare le trame dell’espressione col frequente ricorso alla lingua barbaricina come ad
una sua personale esperienza di gioia e di dolore».2
Pro Montanaru difatis:
Come la lingua ingenua e immaginosa dell’umile pastore, che ha nell’animo lo stupore delle
notti stellate o lo sgomento delle albe gelide, riassume le impressioni di una vita trascorsa
nell’alternarsi di speranze e timori, così il mio Logudorese, che ha i suoni e le voci della terra
natale, il sapore del latte materno, il sangue dei fieri barbaricini, riassume la forza e la speranza, i
dolori e le gioie della Sardegna e della sua gente.3
Bidu dae cust’ala su logudoresu de Montanaru – giai gudicadu e cunsacradu dae su
populu prus chi dae sos criticos – cuntribuit sena dudas, comente at a iscriere Francesco
Alziator, «a sciogliere il nodo dell’eterno problema dello scrittore che nega l’autorità e la
coattività del lessico e si fa lui la lingua sconfinando dalla tradizione, ricercando altrove,
respingendo e modificando».4
E semper in s’iscritu mentovadu in antis, Montanaru acrarit:
Io non sono un linguista e tanto meno possiedo le armi del filologo. Sono un adoratore della
lingua sarda nella molteplicità dei suoi dialetti. È una religione questa che io sentii nascere
nell’infanzia ascoltando la dolce e savia loquela dell’avola mia e la sentii maggiormente quando
alle prese con le prime difficoltà scolastiche, nell’impossibilità di compitare, non vedevo l’ora di
trovarmi libero con i miei coetanei per rivelare l’ardore della mia anima con prontezza di spirito e
proprietà di linguaggio E la sento profondamente oggi ascoltando i vari dialetti del mio popolo i
quali, comunicando tra loro, conservano la loro vitalità e costituiscono nel loro insieme la vera
lingua sarda, quella che obbedisce alla libertà creativa del poeta e che del poeta trasmette la
visione e l’immagine del mondo.
Montanaru impreat sa limba de sa mama in cada si siat manera e cun balentia manna.
Est pro more de sa limba sarda chi issu podet arribare a iscriere poesias mannas e galanas.
In sa poesia sua si nuscat frischesa e sincheresa:
Un popolo senza dialetto – scrive – se potesse esistere bisognerebbe immaginarlo vecchio,
compassato, retorico, accademico, freddo e burbero: privo delle tenerezze dell’infanzia, senza le
gioie dell’adolescenza e l’esuberanza della gioventù. E come questi tre stati dell’età umana
vengono a completare l’uomo, così i processi linguistici del dialetto rendono fresca, semplice,
immaginosa una lingua: servono a svariarne lo spirito, agitarne le movenze, a renderla insomma
viva e interessante, semplice e piana.6
E cuncruiat:
Nessun progresso potrà significare la scomparsa del nostro patrimonio dialettale perché ciò
che è intimità della nostra natura rimarrà sardo nel bene e nel male.7
Su poeta de Desulo, però, in sa limba non biet ebia una funtzione literaria e poetica,
ma puru una funtzione tzivile, de educatzione, de imparu pro sa vida. In su Diariu suo iscriet
gosi:
[…]il diffondere l’uso della lingua sarda in tutte le scuole di ogni ordine e grado non è per gli
educatori sardi soltanto una necessità psicologica alla quale nessuno può sottrarsi, ma è il solo
modo di essere Sardi, di essere cioè quello che veramente siamo per conservare e difendere la
personalità del nostro popolo. E se tutti fossimo in questa disposizione di idee e di propositi ci
faremmo rispettare più di quanto non ci rispettino
.8
E galu:
Spetta a noi maestri in primo luogo di richiamare gli scolari alla conoscenza del mondo che li
circonda usando la lingua materna.9
Diat essere – comente podet cumprendere cada unu de nois – chi cada mastru de iscola
imbetzes de cundennare sa limba e sa curtura de su logu de sos dischentes, a issos los depet
zunzullare a connoschere e istudiare e imparare cun su limbazzu issoro, una manera de
essere, de fàghere, de cumprendere, ebia gai si trasmitit a beru sa curtura de su logu, in
iscola. Oe, totus sos istudiosos: linguistas e glotologos, e totus sos scientziaos sotziales:
psicologos e pedagogistas, antropologos e psicanalistas e peri psichiatras, sunt cuncordos a
pessare, narrere e iscriere de s’importu mannu de sa limba sutzada cun su late de sa mama.
Su chi narant est chi pro creschere bene su pizinnu, pro aere elasticidade e impreare comente
tocat s’intelligentzia, a imparare duas limbas li fàghet bene e l’agiudat puru a creschere
mengius. Est in sos primos tres annos de vida chi su pilocheddu cumintzat a aere
s’abecedariu in conca, e puru si a s’incuminzu de s’iscola sas allegas, sa gramatica, sas
maneras de narrere parent amisturadas, sa conca sua est giai traballende pro assentare totu,
una limba (su sardu) e s’atera (s’italianu). Nos ant semper narau chi su sardu limitaiat
s’italianu e imbetzes est a s’imbesse. Una limba cando la sues e la faghes tua dae minore,
t’imparat unu muntone de cosas. T’imparat a biere su mundu in una certa manera, t’imparat a
assentare sos pessamentos, t’imparat a ti guvernare a sa sola dandedi unu sensu mannu de
responsabilidade, ca est una cosa tua, ca l’as intesa e impreada dae minore. Gasi si podet
badiare a in antis e cumprendere totu su chi tenes cara cara, cun curiosidade e gana de
imparare.
S’americanu Joshua Aaron Fishman, istudiosu mannu de sotziu-linguistica lu narat
craramente: su «bilinguismu» no est de curregere, ne una cosa chi ti faghet trambucare, ma
una manera bona de imparare chi t’agiudat in sas intragnas de sa vida e cunfruntande-di cun
sos ateros. Limba e curtura de su logu de una pessone sunt medios e trastes de liberatzione,
de autonomia, pro ti podere guvernare a sa sola, de indipendentzia, serbint a s’isvilupu de
una pessone e mescamente de sos giovanos pro ite sa base abarrat su naturale issoro, partit
«dal mondo che li circonda»: pro la narrere a sa manera de Montanaru. Sa limba imparada in
domo e in ziru dae minore, serbit pro irmanigare sas cumpetentzias de comunicatzione, de
sinziminzos, e de cunfrontu cun s’ateru e li serbit puru pro imparare ateras limbas.
Li serbit a essere cussiente de s’identidade sua, de l’intendere balente, de l’impreare,
de non timere cumpetitziones ma de si cufrontare a barbovia cun atere, sena mancantzias. Li
serbit pro fagher sua s’esperientzia de s’iscola e de sa vida, imparende e boghende a campu
sas raighinas suas. Sa limba, s’istoria, sa curtura de su logu serbit a sos pitzinnos pro aere
sigurantzia in issos matessi, pro apretziare s’ambiente in ue istant, pro connoschere sos
balores de su logu issoro, primu intra totus s’istare paris, s’amistade e sa tratamenta, balores
o maneras de faghere de sa tzivilitade sarda chi sunt balentes meda. Pro los agiudare a
brusiare s’idea malavida de su «sardu» comente pessone limitada, comente curpa o neghe,
pro los agiudare a no si brigungiare prus de essere sardos, ma l’imparare chi est unu balore
mannu, comente essere albanesos, marochinos o palestinesos. Sos pitzinnos oe sunt male
chistionados, non tenent ne manera, ne allegas assentadas pro comunicare, imparant allegas
malas o gergo – comente aiat jai naradu Gramsci, prus de chent’annos faghet, su 26 de
Marztu de su 1926, in una litera indiritzada a Teresina, sa sorre prus pitica:
Poi, l’italiano, che voi gli insegnerete, sarà una lingua povera, monca, fatta solo di quelle
poche frasi e parole delle vostre conversazioni con lui, puramente infantile; egli non avrà contatto
con l’ambiente generale e finirà con l’apprendere due gerghi e nessuna lingua: un gergo italiano
per la conversazione ufficiale con voi e un gergo sardo, appreso a pezzi e bocconi, per parlare con
gli altri bambini e con la gente che incontra per la strada o in piazza. Ti raccomando proprio di
cuore, di non commettere un tale errore, e di lasciare che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo
che vogliono e si sviluppino spontaneamente nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà
un impaccio per il loro avvenire: tutt’altro.10
Gramsci est istadu unu profeta: oe in sa limba italiana de sos pitzinnos e puru de sos
dischentes e istudentes non b’est ne gramatica, ne faeddos comente si tocat, sunt torrande a
essere anarfabetas e custu est ca no ant un’apogiu de limba e de curtura, totu l’arribat dae
artu e custos abarrant a beru in sos astros de s’aghera sena l’ischire a ue si bortare.
S’istudiu e sa connoschentzia de sa limba sarda podet essere unu traste de importu
mannu pro los fagher torrare in su sucru e puru pro imparare mengius sa limba italiana e sas
ateras limbas, agiudande su piloccu a creschere imparende dae domo, dae s’iscola e dae sa
sotziedade sua e istrangia.
Ciò – ho già avuto modo di sostenere e di scrivere – grazie anche alla fertilizzazione e
contaminazione reciproca che deriva dal confronto sistemico fra codici comunicativi delle lingue
e delle culture diverse, perché il vero bilinguismo è insieme biculturalità, e cioè immersione e
partecipazione attiva ai contesti culturali di cui sono portatrici, le due lingue e culture di
appartenenza, sarda e italiana per intanto, per poi allargarsi, sempre più inevitabilmente e
necessariamente, in una società globalizzata come la nostra, ad altre lingue e culture, europee e
mondiali. La Lingua sarda infatti in quanto concrezione storica complessa e autentica, è simbolo
di una identità etno-antropologica e sociale, espressione diretta di una comunità e di un
radicamento nella propria tradizione e nella propria cultura. Una lingua che non resta però
immobile – come del resto l’identità di un popolo – come fosse un fossile o un bronzetto
nuragico, ma si “costruisce” dinamicamente nel tempo, si confronta e interagisce, entrando nel
circuito della innovazione linguistica, stabilendo rapporti di interscambio con le altre lingue. Per
questo concresce all’agglutinarsi della vita culturale e sociale. In tal modo la lingua, non è solo
mezzo di comunicazione fra individui, ma è il modo di essere e di vivere di un popolo, il modo in
cui tramanda la cultura, la storia, le tradizioni.
La Lingua sarda infine, essendo la più forte ed essenziale componente del patrimonio
ricchissimo di tradizioni e di memorie popolari, sta a fondamento – per usare l’espressione di
Giovanni Lilliu – «dell’Identità della Sardegna e del diritto ad esistere dei Sardi, come nazionalità
e come popolo, che affonda le sue radici nel senso profondo della sua storia, atipica e dissonante
rispetto alla coeva storia e cultura mediterranea ed europea».
Assume cioè un valore etico, etnico-nazionale e antropologico e, se si vuole, anche politico,
nel senso di riscatto dell’Isola e del suo diritto-dovere all’Autogoverno e all’Autodeterminazione.
Il che non significa che la nostra Identità debba tradursi in forme di chiusura autocastrante o di
separazione: essa deve invece essere accettata e riconosciuta come la condizione base del nostro
modo di situarci nel mondo e di dialogare con gli orizzonti più diversi, «senza cedere alla
tentazione – come osserva acutamente il filosofo sardo Placido Cherchi – di usare la nostra
differenza come ideologia o di caricarla, a seconda delle fasi, ora di arroganze etnocentriche ora
di significati auto depressivi».11
A pustis de custa depida e longa fughida de su sucru, torramus a Montanaru e sa
chistione cun unu certu Gino Anchisi, giornalista de s’«Unione Sarda». Tocat a amentare chi
semus in prena casione fassista. In su gazetinu prus connotu de s’Isula, Anchisi pro sa
publicada de Sos cantos de sa solitudine de Montanaru ispuntorat in Sardinnia una chistione
pro s’impreu de sa limba sarda. In un articulu inzidiat Montanaru a iscriere in italianu pro ite
unu poeta che a isse «che ha maturato l’ingegno alla severa discipline degli studi e considera
la poesia come una cosa seria», aiat diritu a unu publicu prus mannu. Cuncruiat narende chi
sa poesia dialettale fiat: «anacronistica, roba d’altri tempi» e chi tando si depiat arrimare in
su cuzone, in su furrungone, chi issu mutiat: «nel regno d’oltretomba».
Montanaru li torrat s’imposta in su matessi gazetinu, narende-li craru chi «i rintocchi
funebri» pro sa fine de sos dialetos, dae cada si siat banda esserent arribados, fiant a su
mancu primidios.
Sighit sa torrada de Anchisi chi faeddat de sa bezesa e de sa paga balentia de sa limba
sarda e de sa fine de sos dialetos e de sa Regione etotu: «Morta o moribonda la regione, è
morto o moribondo il dialetto». In sa briga ch’intrat puru Antonio Scano chi a pustis de aere
discutidu cun Anchisi subra de sa vitalidade de sa limba e de sa Regione sarda, gasi
cuncruiat: «La Regione non può morire, come non può morire il dialetto che ne è
l’insegna».12
Subra de totu custu at a torrare a iscriere puru Montanaru; s’articulu suo no at a essere
publicadu ne in s’«Unione» nen in s’«Isola de Tatari», chi peròe si giustificaiat cun una litera
de su 18 de Capidanne de su 1933, iscriende ca:
Non si è potuto dare corso alla pubblicazione del suo articolo in quanto una parte di esso
esalta troppo evidentemente la regione: ciò ci è nel modo più assoluto vietato dalle attuali
disposizioni dell’ufficio stampa del capo del Governo che precisamente dicono: «In nessun modo
e per nessun motivo esiste la regione». Siamo molto dolenti. Però la preghiamo di rifare l’articolo
limitandosi a parlare di poesia dialettale senza toccare il pericoloso argomento.
Bene bennida siat sa veridade!
In sa torrada Montanaru at a fàghere, pro su sardu, unas cantas cunsideratziones
curiosas e in carchi manera bidende prus a in antis de sos ateros: at a amentare difatis chi «la
lingua dei padri» diat a poder arribare a essere «lingua nazionale dei Sardi» pro ite «non si
spegnerà mai nella nostra coscienza il convincimento che ci vuole appartenere a una etnia
auctotona».

Su chi narat Montanaru in custas rigas est de importu mannu: dae un’ala disigiat e biet
pro su tempus benidore una casta de «lingua sarda nazionale unitaria»; dae s’atera, ligat sa
limba a su populu e a sa curtura sarda. Custos diant a essere parreres curturales, linguisticos
e politicos chi balent oe etotu, e chi ant a essere torrados a bogare a campu in sos annos ‘70
dae saligheresu Antonio Simon Mossa13 (ma galu a in antis dae Lussu e dae Gramsci e, a
pustis, mescamente dae Lilliu, Eliseo Spiga e Antonello Satta).
Ma su primu iscritore sardu chi ligat sa limba a su populu sardu, antis a sa «natzione
sarda», est Giovanni Matteo Garipa, chi in su 1627 bortat unu libru (Il Leggendario delle
Sante Vergini e Martiri di Gesù Cristo) dae s’Italianu in Sardu (Su Legendariu de Santas
Virgines et Martires de Jesu Cristu), pro ite iscriet in su «Prologo»:
Totu sas naziones iscrient e imprentant sos libros in sas propias limbas nadias e duncas peri sa
Sardigna – sigomente est una natzione – depet iscriere e imprentare sos libros in limba sarda. Una
limba – sighit Garipa – chi de seguru bisongiat de irrichimentos e de afinicamentos, ma non est de

SA CHISTIONE DE SA LIMBA IN MONTANARU E OE
de Frantziscu Casula
Comitadu pro sa limba sarda

Antiogu Casula, prus connotu comente Montanaru (su proerzu suo), forsis su poeta sardu
prus mannu, subra de sa Limba at iscrittu cosas chi galu in die de oe sunt de importu mannu,
non solu in su chi pertocat sa funtzione de su Sardu in sa poesia, s’iscola, sa vida de sa zente,
ma puru pro cumprendere sa chistione de s’unificatzione o, comente si narat cun una paraula
moderna, sa «standardizatzione».
Comintzamus a amentare chi Montanaru at poetadu in sardu ebia, iscriende in
logudoresu, pro ite – narat in un’iscritu – «è l’idioma che mirabilmente si presta ad ogni
genere di componimento, in prosa come in versi, ritenuto per molto tempo la sola lingua
letteraria dei sardi».1
Ma puru ca – arregordat su ghenneru Giovannino Porcu – «gli consentiva di
riannodare le trame dell’espressione col frequente ricorso alla lingua barbaricina come ad
una sua personale esperienza di gioia e di dolore».2
Pro Montanaru difatis:
Come la lingua ingenua e immaginosa dell’umile pastore, che ha nell’animo lo stupore delle
notti stellate o lo sgomento delle albe gelide, riassume le impressioni di una vita trascorsa
nell’alternarsi di speranze e timori, così il mio Logudorese, che ha i suoni e le voci della terra
natale, il sapore del latte materno, il sangue dei fieri barbaricini, riassume la forza e la speranza, i
dolori e le gioie della Sardegna e della sua gente.3
Bidu dae cust’ala su logudoresu de Montanaru – giai gudicadu e cunsacradu dae su
populu prus chi dae sos criticos – cuntribuit sena dudas, comente at a iscriere Francesco
Alziator, «a sciogliere il nodo dell’eterno problema dello scrittore che nega l’autorità e la
coattività del lessico e si fa lui la lingua sconfinando dalla tradizione, ricercando altrove,
respingendo e modificando».4
E semper in s’iscritu mentovadu in antis, Montanaru acrarit:
Io non sono un linguista e tanto meno possiedo le armi del filologo. Sono un adoratore della
lingua sarda nella molteplicità dei suoi dialetti. È una religione questa che io sentii nascere
nell’infanzia ascoltando la dolce e savia loquela dell’avola mia e la sentii maggiormente quando
alle prese con le prime difficoltà scolastiche, nell’impossibilità di compitare, non vedevo l’ora di
trovarmi libero con i miei coetanei per rivelare l’ardore della mia anima con prontezza di spirito e
proprietà di linguaggio E la sento profondamente oggi ascoltando i vari dialetti del mio popolo i
quali, comunicando tra loro, conservano la loro vitalità e costituiscono nel loro insieme la vera
lingua sarda, quella che obbedisce alla libertà creativa del poeta e che del poeta trasmette la
visione e l’immagine del mondo.
Montanaru impreat sa limba de sa mama in cada si siat manera e cun balentia manna.
Est pro more de sa limba sarda chi issu podet arribare a iscriere poesias mannas e galanas.
In sa poesia sua si nuscat frischesa e sincheresa:
Un popolo senza dialetto – scrive – se potesse esistere bisognerebbe immaginarlo vecchio,
compassato, retorico, accademico, freddo e burbero: privo delle tenerezze dell’infanzia, senza le
gioie dell’adolescenza e l’esuberanza della gioventù. E come questi tre stati dell’età umana
vengono a completare l’uomo, così i processi linguistici del dialetto rendono fresca, semplice,
immaginosa una lingua: servono a svariarne lo spirito, agitarne le movenze, a renderla insomma
viva e interessante, semplice e piana.6
E cuncruiat:
Nessun progresso potrà significare la scomparsa del nostro patrimonio dialettale perché ciò
che è intimità della nostra natura rimarrà sardo nel bene e nel male.7
Su poeta de Desulo, però, in sa limba non biet ebia una funtzione literaria e poetica,
ma puru una funtzione tzivile, de educatzione, de imparu pro sa vida. In su Diariu suo iscriet
gosi:
[…]il diffondere l’uso della lingua sarda in tutte le scuole di ogni ordine e grado non è per gli
educatori sardi soltanto una necessità psicologica alla quale nessuno può sottrarsi, ma è il solo
modo di essere Sardi, di essere cioè quello che veramente siamo per conservare e difendere la
personalità del nostro popolo. E se tutti fossimo in questa disposizione di idee e di propositi ci
faremmo rispettare più di quanto non ci rispettino
.8
E galu:
Spetta a noi maestri in primo luogo di richiamare gli scolari alla conoscenza del mondo che li
circonda usando la lingua materna.9
Diat essere – comente podet cumprendere cada unu de nois – chi cada mastru de iscola
imbetzes de cundennare sa limba e sa curtura de su logu de sos dischentes, a issos los depet
zunzullare a connoschere e istudiare e imparare cun su limbazzu issoro, una manera de
essere, de fàghere, de cumprendere, ebia gai si trasmitit a beru sa curtura de su logu, in
iscola. Oe, totus sos istudiosos: linguistas e glotologos, e totus sos scientziaos sotziales:
psicologos e pedagogistas, antropologos e psicanalistas e peri psichiatras, sunt cuncordos a
pessare, narrere e iscriere de s’importu mannu de sa limba sutzada cun su late de sa mama.
Su chi narant est chi pro creschere bene su pizinnu, pro aere elasticidade e impreare comente
tocat s’intelligentzia, a imparare duas limbas li fàghet bene e l’agiudat puru a creschere
mengius. Est in sos primos tres annos de vida chi su pilocheddu cumintzat a aere
s’abecedariu in conca, e puru si a s’incuminzu de s’iscola sas allegas, sa gramatica, sas
maneras de narrere parent amisturadas, sa conca sua est giai traballende pro assentare totu,
una limba (su sardu) e s’atera (s’italianu). Nos ant semper narau chi su sardu limitaiat
s’italianu e imbetzes est a s’imbesse. Una limba cando la sues e la faghes tua dae minore,
t’imparat unu muntone de cosas. T’imparat a biere su mundu in una certa manera, t’imparat a
assentare sos pessamentos, t’imparat a ti guvernare a sa sola dandedi unu sensu mannu de
responsabilidade, ca est una cosa tua, ca l’as intesa e impreada dae minore. Gasi si podet
badiare a in antis e cumprendere totu su chi tenes cara cara, cun curiosidade e gana de
imparare.
S’americanu Joshua Aaron Fishman, istudiosu mannu de sotziu-linguistica lu narat
craramente: su «bilinguismu» no est de curregere, ne una cosa chi ti faghet trambucare, ma
una manera bona de imparare chi t’agiudat in sas intragnas de sa vida e cunfruntande-di cun
sos ateros. Limba e curtura de su logu de una pessone sunt medios e trastes de liberatzione,
de autonomia, pro ti podere guvernare a sa sola, de indipendentzia, serbint a s’isvilupu de
una pessone e mescamente de sos giovanos pro ite sa base abarrat su naturale issoro, partit
«dal mondo che li circonda»: pro la narrere a sa manera de Montanaru. Sa limba imparada in
domo e in ziru dae minore, serbit pro irmanigare sas cumpetentzias de comunicatzione, de
sinziminzos, e de cunfrontu cun s’ateru e li serbit puru pro imparare ateras limbas.
Li serbit a essere cussiente de s’identidade sua, de l’intendere balente, de l’impreare,
de non timere cumpetitziones ma de si cufrontare a barbovia cun atere, sena mancantzias. Li
serbit pro fagher sua s’esperientzia de s’iscola e de sa vida, imparende e boghende a campu
sas raighinas suas. Sa limba, s’istoria, sa curtura de su logu serbit a sos pitzinnos pro aere
sigurantzia in issos matessi, pro apretziare s’ambiente in ue istant, pro connoschere sos
balores de su logu issoro, primu intra totus s’istare paris, s’amistade e sa tratamenta, balores
o maneras de faghere de sa tzivilitade sarda chi sunt balentes meda. Pro los agiudare a
brusiare s’idea malavida de su «sardu» comente pessone limitada, comente curpa o neghe,
pro los agiudare a no si brigungiare prus de essere sardos, ma l’imparare chi est unu balore
mannu, comente essere albanesos, marochinos o palestinesos. Sos pitzinnos oe sunt male
chistionados, non tenent ne manera, ne allegas assentadas pro comunicare, imparant allegas
malas o gergo – comente aiat jai naradu Gramsci, prus de chent’annos faghet, su 26 de
Marztu de su 1926, in una litera indiritzada a Teresina, sa sorre prus pitica:
Poi, l’italiano, che voi gli insegnerete, sarà una lingua povera, monca, fatta solo di quelle
poche frasi e parole delle vostre conversazioni con lui, puramente infantile; egli non avrà contatto
con l’ambiente generale e finirà con l’apprendere due gerghi e nessuna lingua: un gergo italiano
per la conversazione ufficiale con voi e un gergo sardo, appreso a pezzi e bocconi, per parlare con
gli altri bambini e con la gente che incontra per la strada o in piazza. Ti raccomando proprio di
cuore, di non commettere un tale errore, e di lasciare che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo
che vogliono e si sviluppino spontaneamente nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà
un impaccio per il loro avvenire: tutt’altro.10
Gramsci est istadu unu profeta: oe in sa limba italiana de sos pitzinnos e puru de sos
dischentes e istudentes non b’est ne gramatica, ne faeddos comente si tocat, sunt torrande a
essere anarfabetas e custu est ca no ant un’apogiu de limba e de curtura, totu l’arribat dae
artu e custos abarrant a beru in sos astros de s’aghera sena l’ischire a ue si bortare.
S’istudiu e sa connoschentzia de sa limba sarda podet essere unu traste de importu
mannu pro los fagher torrare in su sucru e puru pro imparare mengius sa limba italiana e sas
ateras limbas, agiudande su piloccu a creschere imparende dae domo, dae s’iscola e dae sa
sotziedade sua e istrangia.
Ciò – ho già avuto modo di sostenere e di scrivere – grazie anche alla fertilizzazione e
contaminazione reciproca che deriva dal confronto sistemico fra codici comunicativi delle lingue
e delle culture diverse, perché il vero bilinguismo è insieme biculturalità, e cioè immersione e
partecipazione attiva ai contesti culturali di cui sono portatrici, le due lingue e culture di
appartenenza, sarda e italiana per intanto, per poi allargarsi, sempre più inevitabilmente e
necessariamente, in una società globalizzata come la nostra, ad altre lingue e culture, europee e
mondiali. La Lingua sarda infatti in quanto concrezione storica complessa e autentica, è simbolo
di una identità etno-antropologica e sociale, espressione diretta di una comunità e di un
radicamento nella propria tradizione e nella propria cultura. Una lingua che non resta però
immobile – come del resto l’identità di un popolo – come fosse un fossile o un bronzetto
nuragico, ma si “costruisce” dinamicamente nel tempo, si confronta e interagisce, entrando nel
circuito della innovazione linguistica, stabilendo rapporti di interscambio con le altre lingue. Per
questo concresce all’agglutinarsi della vita culturale e sociale. In tal modo la lingua, non è solo
mezzo di comunicazione fra individui, ma è il modo di essere e di vivere di un popolo, il modo in
cui tramanda la cultura, la storia, le tradizioni.
La Lingua sarda infine, essendo la più forte ed essenziale componente del patrimonio
ricchissimo di tradizioni e di memorie popolari, sta a fondamento – per usare l’espressione di
Giovanni Lilliu – «dell’Identità della Sardegna e del diritto ad esistere dei Sardi, come nazionalità
e come popolo, che affonda le sue radici nel senso profondo della sua storia, atipica e dissonante
rispetto alla coeva storia e cultura mediterranea ed europea».
Assume cioè un valore etico, etnico-nazionale e antropologico e, se si vuole, anche politico,
nel senso di riscatto dell’Isola e del suo diritto-dovere all’Autogoverno e all’Autodeterminazione.
Il che non significa che la nostra Identità debba tradursi in forme di chiusura autocastrante o di
separazione: essa deve invece essere accettata e riconosciuta come la condizione base del nostro
modo di situarci nel mondo e di dialogare con gli orizzonti più diversi, «senza cedere alla
tentazione – come osserva acutamente il filosofo sardo Placido Cherchi – di usare la nostra
differenza come ideologia o di caricarla, a seconda delle fasi, ora di arroganze etnocentriche ora
di significati auto depressivi».11
A pustis de custa depida e longa fughida de su sucru, torramus a Montanaru e sa
chistione cun unu certu Gino Anchisi, giornalista de s’«Unione Sarda». Tocat a amentare chi
semus in prena casione fassista. In su gazetinu prus connotu de s’Isula, Anchisi pro sa
publicada de Sos cantos de sa solitudine de Montanaru ispuntorat in Sardinnia una chistione
pro s’impreu de sa limba sarda. In un articulu inzidiat Montanaru a iscriere in italianu pro ite
unu poeta che a isse «che ha maturato l’ingegno alla severa discipline degli studi e considera
la poesia come una cosa seria», aiat diritu a unu publicu prus mannu. Cuncruiat narende chi
sa poesia dialettale fiat: «anacronistica, roba d’altri tempi» e chi tando si depiat arrimare in
su cuzone, in su furrungone, chi issu mutiat: «nel regno d’oltretomba».
Montanaru li torrat s’imposta in su matessi gazetinu, narende-li craru chi «i rintocchi
funebri» pro sa fine de sos dialetos, dae cada si siat banda esserent arribados, fiant a su
mancu primidios.
Sighit sa torrada de Anchisi chi faeddat de sa bezesa e de sa paga balentia de sa limba
sarda e de sa fine de sos dialetos e de sa Regione etotu: «Morta o moribonda la regione, è
morto o moribondo il dialetto». In sa briga ch’intrat puru Antonio Scano chi a pustis de aere
discutidu cun Anchisi subra de sa vitalidade de sa limba e de sa Regione sarda, gasi
cuncruiat: «La Regione non può morire, come non può morire il dialetto che ne è
l’insegna».12
Subra de totu custu at a torrare a iscriere puru Montanaru; s’articulu suo no at a essere
publicadu ne in s’«Unione» nen in s’«Isola de Tatari», chi peròe si giustificaiat cun una litera
de su 18 de Capidanne de su 1933, iscriende ca:
Non si è potuto dare corso alla pubblicazione del suo articolo in quanto una parte di esso
esalta troppo evidentemente la regione: ciò ci è nel modo più assoluto vietato dalle attuali
disposizioni dell’ufficio stampa del capo del Governo che precisamente dicono: «In nessun modo
e per nessun motivo esiste la regione». Siamo molto dolenti. Però la preghiamo di rifare l’articolo
limitandosi a parlare di poesia dialettale senza toccare il pericoloso argomento.
Bene bennida siat sa veridade!
In sa torrada Montanaru at a fàghere, pro su sardu, unas cantas cunsideratziones
curiosas e in carchi manera bidende prus a in antis de sos ateros: at a amentare difatis chi «la
lingua dei padri» diat a poder arribare a essere «lingua nazionale dei Sardi» pro ite «non si
spegnerà mai nella nostra coscienza il convincimento che ci vuole appartenere a una etnia
auctotona».

Su chi narat Montanaru in custas rigas est de importu mannu: dae un’ala disigiat e biet
pro su tempus benidore una casta de «lingua sarda nazionale unitaria»; dae s’atera, ligat sa
limba a su populu e a sa curtura sarda. Custos diant a essere parreres curturales, linguisticos
e politicos chi balent oe etotu, e chi ant a essere torrados a bogare a campu in sos annos ‘70
dae saligheresu Antonio Simon Mossa13 (ma galu a in antis dae Lussu e dae Gramsci e, a
pustis, mescamente dae Lilliu, Eliseo Spiga e Antonello Satta).
Ma su primu iscritore sardu chi ligat sa limba a su populu sardu, antis a sa «natzione
sarda», est Giovanni Matteo Garipa, chi in su 1627 bortat unu libru (Il Leggendario delle
Sante Vergini e Martiri di Gesù Cristo) dae s’Italianu in Sardu (Su Legendariu de Santas
Virgines et Martires de Jesu Cristu), pro ite iscriet in su «Prologo»:
Totu sas naziones iscrient e imprentant sos libros in sas propias limbas nadias e duncas peri sa
Sardigna – sigomente est una natzione – depet iscriere e imprentare sos libros in limba sarda. Una
limba – sighit Garipa – chi de seguru bisongiat de irrichimentos e de afinicamentos, ma non est de