SEMUS TOTUS PASTORES

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SEMUS TOTUS PASTORES

Si morit su pastore, morit sa Sardigna intrea

Premessa

Questa mia riflessione sui Pastori e sul Pastoralismo (su pastoriu) muove da un’analisi né neutra né asettica: come se volesse prendere in esame i pastori e la cultura loro connessa, disponendoli come un cadavere da sezionare sopra un freddo tavolo di marmo. Sarà, di contro, sostenuta da un sentimento di forte empatia e simpatia nei loro confronti e tenterò quindi di unire –per utilizzare un apoftegma del filosofo, fisico e matematico francese, Blaise Pascal- “Le ragioni della mente a quelle del cuore. Così da vedere le cose con un solo sguardo”.

Il Movimento dei Pastori Sardi (MPS)

Organizzati con il MPS, da anni i pastori sardi sono al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica e del dibattito politico, costringendo amministratori e regione sarda –in genere in tutt’altre faccende affaccendati- a fare i conti con una mobilitazione e una protesta vasta e ubiquitaria. Ripresa proprio nei giornbi scorsi dopo le grandi mobilitazioni degli anni 2010-2012 con la strategia dei blocchi degli aereoporti (l’espressione è di Felice Floris, il leader del Movimento) tra cui quello di Olbia, Alghero e Portorotondo; l’occupazione di strade e porti ma soprattutto con grandi manifestazioni di piazza a Cagliari con migliaia e migliaia di partecipanti e ben decine e decine di Assemblee con pastori di tutta la Sardegna.

A ben vedere abbiamo assistito a una vera e propria rivoluzione sociologica e persino antropologica: che smentisce i luoghi comuni sui pastori individualisti, restii alla collaborazione, isolati, soli e solitari nelle loro aziende e nei loro ovili. In centinaia, i rappresentanti di Comitati presenti in tutta l’Isola, si riuniscono periodicamente per discutere, concordare e decidere, collettivamente e democraticamente, obiettivi della vertenza, forme di lotta, iniziative. In migliaia scendono in piazza, organizzati ma senza avere dietro le potenti e burocratiche Associazioni storiche del mondo agro-pastorale (Coldiretti, CIA, Confagricoltura, Copagri). Coinvolgendo le proprie famiglie e i sindaci delle loro comunità, per intanto. E poi studenti e lavoratori di altri comparti: tanto che possiamo considerare la lotta dei pastori una vera e propria lotta di popolo e, dunque, non di una sola categoria. Questo, non a caso.

Pastori, civiltà e cultura sarda

Il pastore infatti non è solo una delle una delle tante figure sociali e la pastorizia non è solo un comparto economico: le sue produzioni certo costituiscono ancora il nucleo fondamentale del nostro prodotto interno lordo, ma il mondo pastorale in Sardegna ha prodotto ben altro che latte, formaggi, carne e lana: ha dato luogo al pastoralismo e ai codici e valori che esso sottende e che in buona sostanza costituiscono il nerbo della civiltà e dell’intera cultura sarda.

Per intanto però occorre sottolineare che la pastorizia, come comparto economico, nonostante crisi e difficoltà, nella storia ha sempre retto e i pastori, ancora oggi, non sono una sorta di tribù sopravvissuta alla storia (Ignazio Delogu). Nonostante i reiterati tentativi storici di interrarli, liquidandoli insieme alla loro cultura etnica resistenziale.

Dalla legge delle Chiudende all’industria di Ottana

Uno dei tentativi più brutali fu rappresentato dagli Editti delle Chiudende che –scrive il compianto Eliseo Spiga in La Sardità come utopia-Note di un cospiratore- – irruppero sulle comunità, implacabili come un castigo di dio. In un ciclonico turbinio di inaudite illegalità, sopraffazioni e violenze, di persecuzioni,assassini, carcerazioni e torture…furono chiusi migliaia di ettari dei migliori terreni privati e comunali, pascoli e seminativi, case, ovili e orti familiari, strade e ponti, abbeveratoi e fonti pubbliche.

I più danneggiati furono i pastori, abituati a pascolare le greggi in vasti spazi aperti e comuni ed ora costretti a pagare il fitto –spesso esosissimo- ai nuovi proprietari usurpatori: pastori che furono rovinosamente battuti e vinti. Ma non convinti, aggiungerebbe il nostro più grande poeta etnico, Cicitu Masala.

Un altro momento e snodo storico di attacco violento soprattutto alle condizioni di vita e di lavoro dei pastori fu rappresentato dalla guerra doganale dello Stato italiano con la Francia, culminata con la rottura dei Trattati doganali nel 1887. L’economia sarda fu colpita a morte. Fino a quel momento la spedizione verso i mercati francesi di alcuni fondamentali prodotti dell’economia sarda aveva, se non scongiurato, almeno contribuito ad allontanare la crisi che gli spiriti più consapevoli paventavano. Dopo i fatti del 1887 l’agro-pastorizia dell’Isola, privata d’un colpo dei suoi mercati tradizionali, precipitò al fondo di un baratro senza precedenti, costringendo i pastori a dipendere ancor di più dai proprietari dei pascoli, i printzipales, e dagli industriali caseari continentali ma soprattutto romani . Che Antonio Simon Mossa, il grande teorico dell’indipendentismo e del federalismo sardo chiama feudatari del latte, che si comportano da veri e propri strozzini, imponendo solo loro il prezzo. Tanto che uno degli obiettivi del neonato Partito sardo d’azione nel 1921 sarà proprio la battaglia contro sos meres continentales de su latte e la creazione di cooperative di pastori, per gestire loro, in prima persona, il prodotto del proprio lavoro.

Fallimento dell’industrializzazione

L’ultimo tentativo –che avrebbe dovuto essere anche quello decisivo per assestare il colpo definitivo e mortale all’esistenza stessa dei pastori -risale alla fine degli anni ’60 quando, soprattutto con l’industrializzazione di Ottana, con il pretesto della lotta al banditismo, si portarono le industrie a bocca di bandito (Antonello Satta): con esse si voleva trasformare la Sardegna in tanti Sesto San Giovanni, con il pastore che, liberato finalmente di gambali, mastruche e bertulas, avrebbe vestito la tuta dell’operaio. In realtà “lo scopo del Kolossal mistificatorio –scrive ancora Eliseo Spiga, nel saggio già citato, con la solita e affilata prosa – era di concorrere ad assestare un colpo definitivo alla cultura sarda e a quella barbaricina in particolare. Doveva concorrere a realizzare l’obiettivo finale dell’intervento economico dello Stato che, secondo il Ministro Taviani, in visita a Ottana, era quello di «eliminare quell’assetto tradizionale che si è consolidato con gli attuali rapporti di produzione al fine di distruggere definitivamente il malessere proprio della società e dell’etica pastorali, quel malessere cioè sul quale allignano i ben noti fenomeni criminali delle zone interne della Sardegna»”.

Conosciamo tutti com’è andata a finire. La cosiddetta Rinascita, tutta giocata sulle illusioni programmatorie e sull’industrializzazione –segnatamente quella petrolchimica- tradendo le aspirazioni e le speranze del popolo sardo, non solo si è evaporata, ma si è rovesciata nella realtà del sottosviluppo, della dipendenza e nella involuzione ai limiti della tolleranza. Sotto accusa deve essere messo soprattutto quel modello di sviluppo incentrato essenzialmente nella grande industria di stato e privata, specie –ripeto- quella petrolchimica, che ha devastato e depauperato il territorio: la nostra risorsa più pregiata; ha degradato e inquinato l’ambiente e il mare, con danni incalcolabili per il turismo e per la pesca; ha sconvolto gli equilibri e le vocazioni naturali; ha distrutto il tessuto economico tradizionale e quel minimo di industria e di imprenditorialità locale, attentando all’identità nazionale dei Sardi, con l’eliminazione delle specificità etno-linguistico-culturali. Senza peraltro creare occupazione e benessere. E ciò soprattutto perché si trattava di industrie ad alta intensità di capitale, a poca intensità di mano d’opera, senza stimoli per il mercato interno, senza creazione di indotto, proprio perché senza alcun rapporto e collegamento con il territorio e le risorse locali, Che dunque non crea sviluppo endogeno e autocentrato. Una industria che prevedeva solo le prime lavorazioni o comunque fasi limitate del ciclo produttivo. E dunque pochi profitti: che invece si produrranno e s’involeranno al Nord, dove avverranno le seconde e terze lavorazioni e, in specie, la chimica fine e farmaceutica. Così oggi, Stato e privati, ci lasciano un cimitero di ruderi, cassintegrati e disoccupati.

S’eredidade de Ottana

Ma anche una devastazione ambientale e persino antropologica: il pastore diventato operaio prima e cassintegrato dopo, con il licenziamento è furriadu a remitanu. Di qui il rimpianto per la sua vecchia vita, che lo tormenta e lo uccide, perché non è più nemmeno un’ervegarzu, anzi è costretto a bandidare. Leva quindi una maledizione contro i responsabili di tale sciagura: Siazis pro sa vida malaittos!

A “cantare” magistralmente la tragedia del pastore diventato operaio a Ottana, è Pinuccio Canu, brillante poeta in limba, di Buddusò, che ha al suo attivo due belle sillogi poetiche: Sa Rujada (2001) e Contos chena tempus (2002) editi da Domus de Janas. Ecco le sue quartine:

Bos fattat bonu proe, malaittos/ ca m’azis furriadu a remitanu./No fiant, tzertu, custos sos apittos/ da chi lassei tazos e cabbanu!/

Che istoccada torrat galu in mente/ su tempus ch’in su sartu fia mere./Tenia su rispettu de sa zente/ comente chi zuìghe innoghe essere./

No fiat nudda fatzile sa vida,/a gherra cun fiòcca e tempus malu!/ S’ammentu de proéndas e de sida,/ su tuddu mi nde ponet fintzas galu./

Pariant accabbados sos fastizos/a da chi che notzente nadu m’ana:/- Bogalie cabu a dudas e prammizos!/ Su monte lassa e beninde a Ottana!/

Move e non t’istes cue a bertulariu!/ Imbòlanche bonette cun cambales!/ Accudit cada mese su salariu/e pones fine a rajos e a males./

Lassei su cuìle e sos armentos/a ficcas fattas chena rimpiantu./Nd’aìa bidu a bunda de trummentos/ pro perder cussu “postu” de ispantu.

De esser gai bellu non creìa!/ A bidda recuia cada die./Non prus astràu, lampos o traschìa,/ e mancu isporamentos pro su nie./

Ponìa in su traballu med’afficcu /pro cant’in cussu logu fiagosu./Fattende non mi fia tzertu riccu/ ma siguresa aìa e meda gosu./

Ma pagu tempus sendenche coladu/ su fumuderra torrat a cadone./Su sambene in su corpus s’est gheladu/ ca postu m’ant in “cass’integrascione”./

Degh’annos m’ant lassadu pende pende/ e pustis imboladu a muntonarzu./Su rimpiantu como m’est bocchende/ca non so prus nemmancu un’ervegarzu./

A custu monte cada die pigo/cun coro che tittones in brajeris./ Sos pessamentos meos curro e sigo/ cun ranchidos ammentos de su deris./

Siazis pro sa vida malaittos/ca como so custrintu a bandidare./ Cun su fusile a pala e cannaittos/ mi toccat un’istranzu de tentare.

La “resistenza” del pastore

Pur con crisi e difficoltà immani, la pastorizia è stata storicamente l’unico comparto economico che ha sempre retto: anche a fronte degli Editti delle Chiudende, della la rottura dei Trattati doganali con la Francia con Crispi, della rovinosa e fallimentare industrializzazione, dello strozzinaggio delle banche, della lingua blu. Ha retto perché si tratta dell’unica industria, endogena e autocentrata, che verticalizza la materia prima -il latte soprattutto- e crea un indotto che nessuna altra industria nell’Isola ha mai creato. L’unica “industria” legata al territorio e ai saperi tradizionali, diffusa ubiquitariamente, al contrario dell’industria per “poli”. Che presiede, salvaguardia e difende l’ambiente, che è in forte simbiosi con la storia, la tradizione, la civiltà, la cultura e la lingua sarda.

La crisi odierna

Oggi corre un serio pericolo: se non di scomparsa, certo di drastico ridimensionamento che potrebbe ridurla ad attività marginale, sia dal punto di vista economico che occupazionale. C’è infatti da chiedersi quante delle 18.000 aziende pastorali oggi presenti in Sardegna potranno ancora “resistere” a fronte della gravissima crisi che attanaglia il comparto. Quanti occupati potranno ancora sopravvivere producendo “in perdita”. Una pluralità di motivi convergono infatti ad acuire la crisi: primo fra tutti il prezzo del latte pagato 60 centesimi al litro. Una infamia. Se solo pensiamo che i costi per produrlo assommano almeno a 80 centesimi. Che 20-25 anni fa veniva pagato 1000 lire: come oggi! A fronte dei mangimi che nel frattempo sono quadruplicati, insieme all’energia e al gasolio: di cui i pastori non possono più fare a meno. Il prezzo del latte –pur se fondamentale- è solo uno degli elementi della vertenza: dalla piattaforma del MPS emergono tutta una serie di richieste e di obiettivi finalizzati all’uscita dalla crisi. Di questi voglio sottolinearne uno: il contributo de Minimis di 15.000 euro per ogni azienda. Da parte di molti è stato obiettato che si trattava di puro assistenzialismo. Ecco la risposta del leader del Movimento Felice Floris a un giornalista che lo intervistava:”Mi spiega perché quando si dà una mano ai pastori e agli agricoltori si chiama assistenzialismo, quando invece si tratta dell’industria si chiama aiuto alla produzione?”. Difficile dargli torto: non è forse “assistenzialismo” infatti la rottamazione delle auto e dei motorini? Gli incentivi per elettrodomestici e computer? Il piano casa? La stessa cassa integrazione?

E che dire del miliardo e 6oo milioni di euro per pagare, da parte dello Stato, le multe per le quote latte inflitte ai produttori “padani”?

Rispetto alla Piattaforma del MPS -che voglio riportare integralmente – mi piace sottolineare il punto 2, sulla necessità di trovare mercati italiani ed esteri per il latte, per sfuggire allo strozzinaggio dei cartelli degli industriali e spuntare così prezzi più alti. A questo proposito condivido quanto sostenuto dal Presidente della Provincia di Cagliari, Graziano Milia, che ha scritto: “Occorre istituire un «Centro di raccolta del latte» con l’obiettivo immediato (basterebbe sottrarre all’attuale contrattazione il 10% del prodotto) di un notevole aumento del potere contrattuale dei pastori perché il prezzo sarebbe negoziato e quindi tutelato maggiormente, grazie a una sorta di supervisione pubblica” (L’Unità, 5 Novembre, 2010).

Rispetto alla piattaforma inoltre, se dovessi fare qualche appunto, osserverei che

non sottolinei adeguatamente la necessità di diversificare la produzione dei formaggi, anche per superare la sostanziale monocultura del pecorino romano, in cui l’industria è incastrata.

Verso la pastorizia “industrializzata”?

Ma il limite maggiore della Piattaforma –che pure risulta per molti versi, avveduta e articolata- a me pare essere un altro: non porsi neppure il problema della qualità della pastorizia e della produzione pastorale. A questo proposito, prenderei in seria considerazione alcune osservazioni fatte da Gavino Ledda (Intervista a La Nuova Sardegna, 29-10-2010): “La crisi si può sconfiggere solo con roba sana, senza i concimi e l’industria che hanno rovinato le campagne…Pastorizia e agricoltura sono state adulterate dai veleni… E così hanno lentamente distrutto Omero, i fiori, gli aromi, i sapori, tutto ciò che di buono c’è in natura. Neppure l’acqua è più santa…Le produzioni industriali non hanno senso, la pastorizia deve tornare a essere biologica, affidata con un’economia familiare a membri di uno stesso gruppo che a rotazione si occupino del foraggio, del pascolo, della caseificazione…”

Solo provocazioni o fantasie neoromantiche? No. Ledda ha messo il dito sulla piaga: vanno bene le proteste e le sacrosante rivendicazioni dei pastori, ma il futuro della pastorizia sarda, sarà in ogni caso nella produzione di “formaggi e latte dolci, puri, incontaminati”. Senza la nostra tipicità e tradizione di genuinità, unicità e “naturalità” a vincere sarà comunque la “moneta cattiva”: il latte dei concimi e dei mangimi,(acqua concimata, lo chiama Gavino Ledda) che scaccerà “la moneta buona”: il latte degli aromi e dei profumi della natura sarda.

Piattaforma del MPS

1)Ripristino immediato, per un periodo limitato di pochi anni, del meccanismo delle restituzioni comunitarie destinate al mercato Americano e Canadese, unico strumento possibile per svuotare i magazzini della nostra industria casearia senza creare buchi di bilancio. Se ciò non bastasse lo stato invece di dare i soldi ai paesi poveri (soldi che finiscono sempre nelle tasche dei loro affamatori) distribuisca alle popolazioni povere formaggi.

2)Progettare e costruire nel territorio regionale 5/6 centri di stoccaggio con possibilità di bonifica e refrigerazione del latte come unico strumento di forza per dare ai Pastori la possibilità di offrire all’occorrenza il latte nell’intero mercato Europeo, liberandoli così dal monopolio dei trasformatori locali che da sempre impongono le loro condizioni a prezzi da fame per i Pastori.

3)Abbattere i costi di trasporto applicando la continuità territoriale già riconosciuta dall’Unione Europa.

4)Impedire alla trasformazione privata o cooperativa di vendere il latte anziché trasformarlo.

5)Rimodulazione del P.S.R. (piano di sviluppo rurale) spostando le risorse dall’asse 1 all’asse 2 cioè dagli investimenti produttivi agli interventi delle misure Agro-Ambientali (indennità compensativa), questo per impedire che soldi destinati ai Pastori finiscano nelle tasche di venditori e progettisti.

6)Attuazione della norma “De Minimis” strumento finanziario previsto per erogare importi senza la necessità di notificare il provvedimento presso l’Unione Europea, portandola dagli attuali settemila a quindicimila come per il settore vaccino.

7)Inserimento dei comuni cosiddetti avvantaggiati nell’elenco dei comuni svantaggiati, per dare a questi la possibilità di beneficiare dei provvedimenti su menzionati.

8)Dare la possibilità alle aree irrigue di utilizzare l’acqua a costo zero per la coltivazione di foraggere per uso zootecnico (medicai etc.) condizione indispensabile per ridurre i costi di alimentazione del nostro bestiame.

9)Realizzare piccoli mattatoi comunali e zonali per valorizzare le nostre carni e togliere il monopolio a pochi commercianti che hanno azzerato il valore nelle nostre carni.

10)Utilizzare le energie rinnovabili non per costruire serre ma per dare energia a tutte le aziende Agro-Pastorali. Per fare questo è necessario che la Regione costituisca una società ad hoc con il compito di elettrificare tutte le aziende sarde. Se non si fa questo solo pochi potranno beneficiare di questa moderna tecnologia.

11)Moratoria per almeno due annualità dei contributi previdenziali come chiesto e ottenuto in Francia.

12)Ristrutturazione dei debiti scaduti e in scadenza di Agricoltori e Pastori e delle loro strutture di trasformazione in un lungo periodo 20/30 anni, dando così una possibilità concreta alle aziende in difficoltà di rimettersi alla pari con le altre imprese.

Pastorizia e Pastoralismo

Se muore il pastore e la pastorizia non muore solo una delle tante figure sociali o un comparto economico ma la Sardegna intera: il suo etnos, il suo universo culturale, artistico e rituale. Ad iniziare dall’immaginario simbolico rappresentato –fra l’altro- dalle maschere di carnevale; dall’immaginario musicale rappresentato soprattutto dal Canto a tenore, riconosciuto dall’Unesco, nel 2004, come patrimonio immateriale dell’Umanità: è il secondo riconoscimento alla Sardegna da parte dell’Unesco dopo il Nuraghe di Barumini; dallo stesso immaginario sportivo (con s’Istrumpa) e ludico (con la morra).

Ma c’è altro ancora: sottesi al pastoralismo vi sono codici e valori che storicamente hanno segnato e impregnato la civiltà sarda: il comunitarismo, i codici etici improntati sulla solidarietà e sul dono, i valori dell’individuo incentrati sulla valentia personale come coraggio e fedeltà alla parola e come via alla felicità, l’onore e tutti gli altri componenti della cultura pastorale. ”Un patrimonio secolare –scrive Bachisio Bandinu- che dall’età dei nuraghi, ha prodotto una cultura, un simbolo, una scuola di vita, un modo di essere, praticamente scomparso in Europa, che perdura ancora oggi, in Sardegna, pur nella sua forma attuale di civiltà: produzione economica, organizzazione sociale, coscienza culturale. Non come semplice revival etnologico-folklorico, come museo di tradizioni popolari, operazione di nostalgia o folklorizzazione turistica ma, pur attingendo a lingua e linguaggi, atteggiamenti e comportamenti, interessi e valori, riti e simboli del passato, pone la questione di un rapporto positivo tra locale e globale e si interroga se questa civiltà secolare sia capace di inserirsi nel processo di mondializzazione, elaborando alcuni caratteri distintivi della propria cultura per adattarsi alla nuove esigenze della contemporaneità”.

Sempre Bandinu, prosegue: ” L’oggetto-natura diventa segno-cultura, in esso c’è scritta la storia di greggi, di ovili, un mondo di sacrifici e di poesia. Il pastoralismo in Sardegna passando attraverso gli studi sulle maschere, il canto a tenore e il ballo costituisce un’ossatura dell’economia e un universo rituale. E soprattutto un modo di parlare, di organizzare il discorso nell’uso di tempi e modi verbali, segni molto profondi quando si parla di una cultura”.

Pastoriu e intellettualità sarda

Il pastore è stato storicamente una figura centrale in Sardegna non solo dal punto di vista economico e produttivo ma anche dal punto di vista antropologico, sociale, culturale e linguistico, dando vita, in buona sostanza a gran parte della intellettualità sarda: ad artisti (pittori, scultori): penso min modo particolare a Costantino Nivola di Orani, ai nuoresi Antonio Ballero e Francesco Ciusa, all’olzaese Carmelo Floris; ai grandi avvocati nuoresi come Pietro Mastino, Luigi Oggiano e Gonario Pinna; ad Antonio Pigliaru, il grande studioso del Codice della vendetta barbaricina; a Michelangelo Pira, l’antropologo che con più lucidità in La rivolta dell’oggetto, ha descritto la lacerazione e la mutilazione culturale prodotta dalla negazione della nostra –come Sardi intendo- identità, specie linguistica; a Peppino Fiori che, soprattutto con La società del malessere, e con il romanzo Son’ ‘e taula ha condotto un’analisi serrata del fenomeno del banditismo sardo; a Bachisio Bandinu, lo scrittore che descrive, suggestivamente, l’identità sarda; al gavoese Antonello Satta, che con Cronache dal sottosuolo, la Barbagia, analizza la cultura popolare, piena di “ «fantasie», di passioni appunto, intollerante dei normali codici o capace di adeguarli a una logica tutta sua, interna e creativa, talvolta demoniaca”; all’ollolaese Michele Columbu, l’intellettuale e il politico, grande organizzatore del Movimento dei pastori negli anni ’60, che ama definirsi “un pastore per pura combinazione laureato”.

Pastoriu, poesia e letteratura sarda

Ma è soprattutto l’intera letteratura e poesia sarda ad essere impregnata di “pastoriu”: dalla Carta de Logu (un terzo abbondante delle leggi di Eleonora riguardano il mondo agropastorale) ai poeti Paolo Mossa, Luca Cubeddu e Melchiorre Murenu, il poeta cieco di Macomer cui la tradizione popolare ha attribuito per decenni la famosa quartina (in realtà scritta dal frate di Ozieri Gavino Achea): ”Tancas serradas a muru/fattas a s’afferra afferra/si su chelu fit in terra/l’aiant serradu puru”: tancas costruite contro i pastori e i contadini con la Legge delle Chiudende. Per arrivare a poeti come Montanaru o Peppino Mereu e Diego Mele: basta ricordare del rettore di Olzai la satira, dal preludio fulminante, “In Olzai non campat pius mazzone/ca nde l’hana leadu sa pastura,/sa zente ingolumada a sa dulzura/imbentat sapa dae su lidone”, un’apologo con cui allude all’Editto delle Chiudende, contro cui il poeta si scaglia perché con esso si “regalava” la terra ai potenti di sempre, la terra sarda che fino ad allora era pubblica, comunitaria –e dunque che poteva essere lavorata e utilizzata da tutti, pastori e contadini- e non privata o “perfetta”, come allora si disse, dopo essere stata recintata dai ricchi che potevano permetterselo.

O pensiamo a Grazia Deledda, che dopo aver frequentato le scuole elementari, diventerà autodidatta e impara a scrivere, più che dai libri, dall’oralità. E’ lei stessa ad ammettere che più che quello che era scritto nei libri gli piacevano i racconti e le paristorias meravigliose e incredibili che ascoltava dai pastori nei paesi, nelle feste paesane, nelle novene, negli ovili delle valli nuoresi e vicino a Nuoro. E financo a casa sua, ascoltando i racconti dei servi, in inverno, vicino al focolare, nelle interminabili notti.

O pensiamo ancora ai due Satta nuoresi, Salvatore con Il giorno del giudizio e Sebastiano, il “vate” cantore della sardità mitica e drammatica, incarnata soprattutto dal mondo dei pastori. Quando morì –narrano le cronache- folle di contadini, ma soprattutto di pastori e persino di banditi, scesero dalle montagne per accompagnarlo alla sua ultima dimora, memori del suo amore per l’uguaglianza e il progresso sociale e della sua passione per la patria sarda.

Per non parlare di Lussu e dei “suoi” pastori patrizi di Armungia. Quel Lussu che, parlando del Partito sardo d’azione, ebbe a scrivere: ”Non fu propriamente un movimento di reduci, come quello dei combattenti in tutta Italia. Fin dal primo momento fu un generale movimento popolare, sociale, politico, oltre la cerchia dei combattenti. Fu il movimento dei contadini e dei pastori”.

Qui mi fermo, non senza però almeno un accenno ai poeti improvvisatori, ieri ( Bernardo Zizi, Remundu Piras o Peppe Sotgiu) come oggi (Mario Masala, Bruno Agus, Salvatore Murgia), pastori, se non di mestiere, certo antropologicamente. Ma soprattutto ricordando le cose egregie e profonde che scrive a proposito dei pastori un brillante scrittore siciliano, Nino Savarese.

Uno scrittore siciliano, Nino Savarese, sui pastori sardi

LE GREGGI

“La pastorizia, che in altre regioni è andata adattandosi, e snaturandosi, fino a mendicare un po’ di posto tra la ressa delle colture, qui, in Sardegna, ritrova le condizioni dei suoi tempi eroici: spazio e solitudine.

Soprattutto non presenta quel tanto di le­zioso e decadente di cui ogni grande attività umana si offusca prima di corrompersi e scom­parire. L’aspetto pastorale sardo, per intenderei, non è materia di estetizzanti e di gente incurio­sita: il bello che vi può cogliere uno spirito pro­fondo, deve prescindere dalla pittoricità e rife­rirsi al rapporto primitivo, degli uomini e degli animali, con la terra e con Dio.

Bisogna sentire che il treno che passa in que­ste solitudini disseminate di greggi è un acci­dente senza conseguenze, e quasi senza senso: solca il silenzio, come un ronzìo nel meriggio, ed appena scomparso, alle sue spalle il silenzio si richiude, più intimo e più ermetico.

In certi punti i vasti pascoli sono limitati da alte cortine di rocce frastagliate e chiare, che all’occhio desioso e disperato dei solitari, debbono apparire come profili di città fantastiche.

In certi fasci di rocce a punta, i pastori vedono forse sagome di cattedrali abbandonate, e tutta questa pietra, rotta e mossa appare alle volte come la vuota sede di una civiltà e di una so­cietà morte di disgusto e di stanchezza.

   Unica realtà, ferma ed immutabile, appaiono le capanne dei pastori, le loro figure avvolte di pelli, le greggi che si muovono lentamente lungo i bordi dei ruscelli o tra i sassi erbosi dei poggi. A dare alla pastorizia questo carattere arcaico e grandioso, concorrono, come sempre accade, condizioni pratiche, e locali necessità. Ma nei modi e nell’estensione di questa attività non c’è forse, anche, una speciale inclinazione? E quella nativa simpatia che accompagna le ma­nifestazioni tradizionali e persistenti di un pae­se, e che si risolve, alla fine, nella coscienza di un privilegio?

Le ragioni che può darci il tecnico per spie­gare lo sviluppo della pastorizia in Sardegna, sono certamente valide, ma non bastano, se non si tien conto di una speciale attitudine dello spirito sardo. .

Insomma, altrove la pastorizia può nascere esclusivamente da una necessità pratica, qui, secondo noi, la necessità sveglia ed istiga una naturale disposizione.

È così del resto che si sono formate le speciali competenze delle diverse regioni italiane, la fama di certe attività e di certe maestranze. Ché da noi il lavoro ha ancora (e bisognerebbe far di tutto perché non lo perda) il suo lato di ispi­razione, il segno di una vocazione. Non si lavora solo con le mani, come nei paesi invasati di ra­zionalismo, ma col cervello e col cuore. Perciò il lavoro ha un contenuto che trascende l’eco­nomia, ed un che di sacro e di esteticamente bello.

Non si tratta dunque di contare quante pe­core e quanti uomini coperti di pelli si incon­trano nei Campidani, nella Gallura e nella Nurra, ma di penetrare l’animo, lo spirito che sostiene, qui, la pastorizia.

Gente di campagna che sappia, stare a cavallo con questa gravità guerriera, e cavalli agili, forti, ma rozzi, che facciano quasi tutto un corpo coi loro cavalieri per la sicurezza, la disinvolta non­curanza con la quale ne sono posseduti, non se ne vedono in nessun altra regione italiana.

Né occhi come questi che sembrano aprirsi a fatica sugli aspetti sociali, forse perché potente­mente attratti dalla visione di un’altra società, più libera e più armonica.

Nei volti assennati e sereni di questi pastori sembra placarsi una lontana inquietudine, un lungo bisogno di pace.

Vanno, o sostano, nella solitudine, senza me­moria del tempo. Senza limite alla loro pazienza.

Lo spazio che essi possono percorrere, per sfuggire ai rigori del clima, è grandissimo, i ri­gori di questo clima molti e gravi: l’eccessivo caldo che avvizzisce le praterie e dissecca le sor­genti, il rigido e persistente maestrale che fa crescere gli alberi aggobbati e patiti; gli assalti della malaria nei luoghi paludosi assai estesi.

Nel Campidano vivono isolati del tutto, sen­za nemmeno quei piccoli riferimenti sociali che si trovano nella pastorizia siciliana; in cui la mas­saria è un centro, oltre che economico, anche sentimentale, nella solitudine del latifondo. I familiari, dai paesi lontani, vanno a rifornirli del necessario, ma non restano con loro; nella Gallura e nella Nurra, invece, le famiglie se­guono i pastori e vivono quasi tutto l’anno attorno a una capanna costruita, di volta in volta, con tronchi e ramaglie; il recinto per le pecore e l’altro pei cavalli e i maiali. Una vita che tiene l’uomo continuamente impegnato per le sue facoltà più energiche. Ed energiche e grandiose sono tutte le manifestazioni che l’accompagnano. Si può vedere ad esempio cuocere un vitello, il qua­le porta nel suo interno (svuotato delle interiora) una pecora o un capriolo, in un modo che ri­corda il clibanum biblico e degli antichi: messo cioè in una buca scavata nella terra e con sopra a bruciare una catasta di legna.

Si può osservate, tra i pastori, almeno fino a qualche tempo fa ne era ancor viva e diffusa la pratica, l’usanza della Ponidura, che nei modi e nello spirito ricorda il tempo di Giobbe. Il pa­store diseredato, quello che ha perduto, per le mortalità o per una serie di disgrazie, tutte le sue pecore, va a chiedere agli altri pastori una pecora a ciascuno per rifare il suo gregge. Nessuno gliela nega, anzi, con uno di quei tratti che da soli basterebbero a dare la misura della profonda umanità di un popolo, tutti seguono di buon grado la tradizionale usanza ed accolgono come un dovere l’aiuto a uno della loro stessa famiglia pastorale, col quale hanno in comune il dolore, il pericolo e il peso della vita. «Et dederunt ei unusquisque ovem suam»”.

In alcune di queste contrade, è stata raccolta, e si conserva con più vivezza che altrove, l’im­magine dell’antica pace della terra; dell’antica giustizia dei Re condottieri di greggi e di popoli.

L’attitudine del popolo sardo per la pasto­rizia ha dunque una effettiva portata psicolo­gica; essa si inquadra nell’insieme di una spe­ciale concezione della vita: austera, essenzial­mente sincera e libera”. ((in Cose d’Italia con l’aggiunta di Alcune cose di Francia.(Tumminelli editore, Roma 1943, pagine 56-61).

In questo passo Nino Savarese individua con nettezza e precisione, il ruolo della pastorizia e dei pastori in Sardegna, al di fuori di ogni visione arcadica ed estetizzante :L’aspetto pastorale sardo,per intenderci, non è materia di estetizzanti e di gente incurio­sita: il bello che vi può cogliere uno spirito pro­fondo, deve prescindere dalla pittoricità e rife­rirsi al rapporto primitivo, degli uomini e degli animali, con la terra e con Dio.

Nel contempo al di fuori di ogni prospettiva puramente pratica ed economicistica: Le ragioni che può darci il tecnico per spie­gare lo sviluppo della pastorizia in Sardegna, sono certamente valide, ma non bastano, se non si tien conto di una speciale attitudine dello spirito sardo.

Insomma, altrove la pastorizia può nascere esclusivamente da una necessità pratica, qui, secondo noi, la necessità sveglia ed istiga una naturale disposizione.

E ancora: Non si tratta dunque di contare quante pe­core e quanti uomini coperti di pelli si incon­trano nei Campidani, nella Gallura e nella Nurra, ma di penetrare l’animo, lo spirito che sostiene, qui, la pastorizia.

Gente di campagna che sappia stare a cavallo con questa gravità guerriera, e cavalli agili, forti, ma rozzi, che facciano quasi tutto un corpo coi loro cavalieri per la sicurezza, la disinvolta non­curanza con la quale ne sono posseduti, non se ne vedono in nessun altra regione italiana.

Né occhi come questi che sembrano aprirsi a fatica sugli aspetti sociali, forse perché potente­mente attratti dalla visione di un’altra società, più libera e più armonica”

Savarese conclude con una osservazione avveduta e fine: L’attitudine del popolo sardo per la pasto­rizia ha dunque una effettiva portata psicolo­gica; essa si inquadra nell’insieme di una spe­ciale concezione della vita: austera, essenzial­mente sincera e libera.

In altre parole potremmo dire – traducendo la prosa di Savarese, ma non allontanandoci dal suo pensiero – che Il pastore non è solo una delle una delle tante figure sociali e la pastorizia non è solo un comparto lavorativo ed economico (Il lavoro ha un contenuto che trascende l’economia, e un che di sacro e di esteticamente bello): le sue produzioni certo costituiscono ancora uno dei nuclei fondamentali del nostro prodotto interno lordo, ma il mondo pastorale in Sardegna ha prodotto ben altro che latte, formaggi, carne e lana: ha dato luogo al pastoralismo e ai codici e valori che esso sottende e che in buona sostanza costituiscono il nerbo della civiltà e dell’intera cultura sarda: in primis il valore della solidarietà, che non a caso Savarese ricorda quando parla della Ponidura: ”Il pa­store diseredato, quello che ha perduto, per le mortalità o per una serie di disgrazie, tutte le sue pecore, va a chiedere agli altri pastori una pecora a ciascuno per rifare il suo gregge. Nessuno gliela nega, anzi, con uno di quei tratti che da soli basterebbero a dare la misura della profonda umanità di un popolo, tutti seguono di buon grado la tradizionale usanza ed accolgono come un dovere l’aiuto a uno della loro stessa famiglia pastorale, col quale hanno in comune il dolore, il pericolo e il peso della vita. «Et dederunt ei unusquisque ovem suam»”.

O il valore della difesa dell’ambiente e del territorio, in virtù di quello che Savarese chiama rapporto primitivo con la terra”

Sena pastores e sena pastoriu, si-che morit sa Sardigna

Senza la pastorizia la Sardegna si ridurrebbe a forma di ciambella: con uno smisurato centro abbandonato, spopolato e desertificato: senza più uno stelo d’erba. Con le comunità di paese, spogliate di tutto, in morienza. Di contro, con le coste sovrappopolate e ancor più inquinate e devastate dal cemento e dal traffico. Con i sardi ridotti a lavapiatti e camerieri. Con i giovani senza avvenire e senza progetti. Senza più un orizzonte né un destino comune. Senza sapere dove andare né chi siamo. Girando in un tondo senza un centro: come pecore matte.

Una Sardegna ancor più colonizzata e dipendente. Una Sardegna degli speculatori, dei predoni e degli avventurieri economici e finanziari di mezzo mondo, di ogni risma e zenia. Buona solo per ricchi e annoiati vacanzieri, da dilettare e divertire con qualche ballo sardo e bimborimbò da parte di qualche “riserva indiana”, peraltro in via di sparizione.

Si ridurrebbe a un territorio anonimo: senza storia e senza radici, senza cultura, e senza lingua. Disincarnata e sradicata. Ancor più globalizzata e omologata. Senza identità. Senza popolo. Senza più alcun codice genetico e dunque organismi geneticamente modificati (OGM). Ovvero con individui apolidi. Cloroformizzati e conformisti.

Una Sardegna uniforme. In cui a prevalere sarebbe l’odiosa, omogenea unicità mondiale: come l’aveva chiamata David Herbert Lawrence in Mare e Sardegna.

Si avvererebbe la profezia annunciata da Eliseo Spiga, che nel suo potente e suggestivo romanzo Capezzoli di pietra scrive: “Ormai il mondo era uno. Il mondo degli incubi di Caligola. Un’idea. Una legge. Una lingua. Un’eresia abrasa. Un’umanità indistinta. Una coscienza frollata. Un nuragico bruciato. Un barbaricino atrofizzato. Un’atmosfera lattea. Una natura atterrita. Un paesaggio spianato. Una luce fredda. Villaggi campagne altipiani livellati ai miti e agli umori di cosmopolis”.

Sarebbe un etnocidio: una sciagura e una disfatta etno-culturale e civile,prima ancora che economica e sociale.

Apocalittico e catastrofista? Vorrei sperarlo.

Francesco Casula