Globalizzazione e risveglio identitario


Globalizzazione e risveglio identitario

di Francesco Casula

Solo fino a qualche decennio fa sembrava vittoriosa su tutti i fronti l’ideologia, vacuamente ottimistica e credente nelle magnifiche sorti e progressive, tutta basata su uno sviluppo materiale illimitato, che avrebbe dovuto eliminare le nazionalità marginali, le diversità linguistiche e culturali, bollate sic et simpliciter come primordiali, quando non veri e propri residui e cascami del passato.
Sull’altare di tale progresso, segnato dall’orgia neoliberista e dunque dal furore del denaro e del consumo, scandito dalla semplice accumulazione di beni materiali e fondato sulla onnipotenza della tecnostruttura – di cui parla Jean Braudillard – ovvero sulla tecnologia e gli apparati di dominio politico, si è sconquassato il territorio, devastato l’ambiente, compromettendo forse in modo irreversibile gli equilibri dell’ecosistema e nel contempo sono state sacrificate e distrutte culture, risorse artistiche, codici. Si è trattato e si tratta – perché il perverso e diabolico processo, sia pure oggi messo in discussione continua – di una vera e propria catastrofe antropologica, se solo pensiamo a quanto ci rende noto il Centro studi di Milano “Luigi Negri”, secondo il quale ogni anno scompaiono nel mondo dieci minoranze etniche e con esse altrettante civiltà, modi di vivere originali, specifici e irrepetibili. Con questo ritmo, persino i più ottimisti fra i linguisti – ricordo per tutti Claude Hagè – prevedono che tra appena cento anni la metà delle sei/settemila lingue ancora oggi parlate nel pianeta oggi, scomparirà.
Il pretesto e l’alibi di tale genocidio è stato che occorreva trascendere e travolgere le arretratezze del mondo “barbarico” – per noi Sardi “barbaricino” – le sue superstizioni, le sue “aberranti” credenze, i suoi vecchi e obsoleti modelli socio-economico-culturali, espressione di una civiltà preindustriale e rurale, considerata ormai superata. I motivi veri sono invece da ricondurre alla tendenza del capitalismo e degli Stati – e dunque delle etnie dominanti – a omologare in nome di una falsa “unità”, della globalizzazione dei mercati, della razionalità tecnocratica e modernizzante, dell’universalità cosmopolita e scientista, le etnie marginali e con esse le loro differenze, in quanto portatrici di codici “altri”, scomodi e renitenti, ossia reverdes (ribelli).
Quella “unità”, di cui parla lo scrittore Eliseo Spiga nel suo suggestivo e potente romanzo, Capezzoli di pietra (Zonza Editori): Ormai il mondo era uno. Il mondo degli incubi di Caligola. Un’idea. Una legge. Una lingua. Un’eresia abrasa. Un’umanità indistinta. Una coscienza frollata. Un nuragico bruciato. Un barbaricino atrofizzato. Un’atmosfera lattea. Una natura atterrita. Un paesaggio spianato. Una luce fredda. Città villaggi campagne altipiani nazioni livellati ai miti e agli umori di cosmopolis.
Che vorrebbe un solo mondo (One world), e per di più un mondo uniforme, l’odiosa, omogenea unicità mondiale, l’aveva chiamata David Herbert Lawrence in Mare e Sardegna; anzi una sfera rigida e astratta nell’empireo e non invece tanti mondi, ciascuno col proprio movimento e con un suo essere particolare e inconfondibile.
Quell’unità e quel pensiero “unico” che – ha scritto a questo proposito il poeta Nichi Vendola, già parlamentare europeo – abolisce le stagioni, sospende il tempo, rende insignificante il contrasto fra il caldo e il freddo, ammutolisce la politica, mette al bando l’idea stessa del cambiamento.
Omologando destra, sinistra e centro; annullando progressivamente le specificità; ibernando nella bara della tecnica, del calcolo economico, della mercificazione, della globalizzazione le identità politiche, sociali, etniche.
Oggi, dicevo, fortunatamente, sia pure con difficoltà e lentamente, inizia ad affermarsi la convinzione e la consapevolezza che la standardizzazione e l’omologazione, insomma la reductio ad unum, rappresenta una catastrofe e una disfatta, economica e sociale ancor prima che culturale, per gli individui e per i popoli.
Di qui la necessità della valorizzazione e dell’esaltazione delle diversità, ovvero delle specifiche “Identità”: certo per aprirci e guardare al futuro e non per rifugiarci nostalgicamente in una civiltà che non c’è più; per intraprendere, come Comunità sarda, il recupero della nostra prospettiva esistenziale: la comunità e i suoi codici etici improntati sulla solidarietà e sul dono, i valori dell’individuo/persona incentrati sulla valentia personale come coraggio e fedeltà alla parola e come via alla felicità. E insieme per percorrere una “via locale” alla prosperità e al benessere e partecipare così, nell’interdipendenza, agli scambi e ai rapporti economici e culturali.

Nino Nonnis cl ha lasciato

NINO NONNIS CI HA LASCIATO.

di Francesco Casula

Nino Nonnis ci ha lasciato. Troppo presto. Lasciando un grande vuoto. Dolore e costernazione nei familiari, nei parenti ma anche negli amici e in chi lo conosceva.
Una perdita immane per l’intera cultura sarda.
Sindiese e non solo di nascita. In una Intervista ha infatti detto:”Io mi sento sindiese, perché a Sindia ci sono nato e ho respirato storie e miti che cerco di trasmettere a mio figlio. Conosco bene i nomi e so chi era Ciolino e Potente. Anche se me lo chiedessero a New York direi che sono di Sindia”.
Quando capitava che mi presentasse ai suoi amici diceva:”Questo è Frantziscu, marito di mia cugina Flavia, anche lei di Sindia”. E bastava così!
Ma oltre che di Sindia era e si sentiva di Cagliari, dove ha vissuto quasi tutta la sua vita e conosceva, parole sue “un sacco di gente, balordi e plurilaureati” che lo chiamavano come esperto di cagliaritano! Io direi della cagliarianità. Soprattuttto di quella popolare e popolana.
Nino era un artista poliedrico: attore e autore teatrale e cinematografico, scrittore poeta e romanziere. Ed era, a mio parere, soprattutto grandissimo affabulatore: che creava, nell’ascoltatore uno stato d’incanto e di divertimento. Grazie soprattutto alla sua ironia, al gusto del motteggio e della battuta scherzosa, della canzonatura: che raramente sfociava però nello scherno. La sua era, per così dire una satira oraziana che denotava una grande umanità e mai cattiveria.
“Del sacco di gente, balordi e plurilaureati” specie cagliaritani, che ben conosceva, rappresentava icasticamente gli elementi paradossali e ridicoli, il potenziale umoristico, attraverso una forte e travolgente caratterizzazione: pungente ma sempre bonariamente.
Ma, ripeto è soprattutto l’ironia la caratteristica peculiare che alita in tutti i suoi scritti (persino nei suoi gustosissimi commenti calcistici!), nel suo conversare, nella sua stessa vita: ironia che preferisce anche all’indignazione e all’invettiva; allo sberleffo satirico e all’aggressione verbale.
Ironia che riusciva ad esprimere grazie a un doppio registro linguistico, ricco e colto: il sardo, nella doppia versione, logudorese e campidanese e l’italiano.
Devo dire che nel suo “Raccontare” era più efficace e caustico nella versione campidanese, che ben conosceva e padroneggiava egregiamente: una lingua carica di deflagrazioni umoristiche e dalle grandi capacità allusive, impregnata di immagini ardite, di metafore, di parabole, di simboli e di proverbi, di dicius e di battute, anche salaci, di frastimos e di irrocos.
Una lingua che divertiva ma nel contempo insegnava. E, se mi è concesso fare un riferimento classico, anche Nino, come Orazio: ridendo castigat mores. Ma sempre senza insistenze moralistiche.

Scuola pubblica o scuola di Stato?

Scuola pubblica o scuola di Stato?
di Francesco Casula
Ma la nostra scuola è pubblica – cioè rivolta ai nostri giovani, al nostro “pubblico” – o di Stato? Nei contenuti come nella organizzazione, nella gestione come nei metodi? Deo la penso in custa manera. La scuola italiana in Sardegna è rivolta a un alunno che non c’è: tutt’al più a uno studente metropolitano, nordista e maschio. Non a un sardo. E’ una scuola che con i contesti sociali, ambientali, culturali e linguistici degli studenti non ha niente a che fare. Nella scuola la Sardegna non c’è: è assente nei programmi, nelle discipline, nei libri di testo. Si studia Orazio Coclite, Muzio Scevola e Servio Tullio: fantasie con cui Tito Livio intende esaltare e mitizzare Roma. Non si studia invece – perché lo storico romano non poteva scriverlo – che i Romani fondevano i bronzetti nuragici per modellare pugnali e corazze; per chiodare giunti metallici nelle volte dei templi; per corazzare i rostri delle navi da guerra. Nella scuola si studia qualche decina di Piramidi d’Egitto, vere e proprie tombe di cadaveri di faraoni divinizzati, erette da centinaia di migliaia di schiavi, sotto la frusta delle guardie;ma non si studiano le migliaia di nuraghi, suggestivi monumenti alla libertà, eretti da migliaia comunità nuragiche indipendenti e federate fra loro. Si studia Napoleone, “piccolo e magro, resistentissimo alla fatica!” ma non si spende una sola parola per ricordare che il tiranno corso, venuto in Sardegna, bombardò La Maddalena e sconfitto da Domenico Millelire, con la coda fra le gambe dovette ritirarsi e abbandonare “l’impresa”. Si studia insomma l’Italia “dalle amate sponde” e “dell’elmo di Scipio”, ma la Sardegna, con le sue vicissitudini storiche, le dominazioni, la sua civiltà e i suoi tesori ambientali, culturali e artistici è del tutto assente: un diplomato sardo e spesso persino un laureato, esce dalla scuola senza sapere nulla dell’architettura nuragica, della Carta De Logu, di Salvatore Satta e persino di Grazia Deledda. E’ ancora in vigore un DPR (89/2010) nel quale Mariastella Gelmini, all’epoca Ministro dell’Istruzione, dettava le linee guida per i docenti, e definiva i fondamentali degli insegnamenti ritenuti strategici per le scuole superiori. In questo DPR per quel che concerne la poesia e la narrativa del ‘900 da affrontare nei licei, sono indicati a titolo esemplificativo diciassette autori principali a cui fare riferimento: “…si esordirà con le esperienze decisive di Ungaretti, Saba e Montale, …contemplerà un’adeguata conoscenza di Rebora, Campana, Luzi, Sereni, Caproni, Zanzotto, …comprenderà letture da autori significativi come Gadda, Fenoglio, Calvino, P. Levi e potrà essere integrato da altri autori come Pavese, Pasolini, Morante, Meneghello”. Avete capito? C’è Meneghello (con tutto il rispetto per lo scrittore vicentino) ma non Grazia Deledda, unica Premio Nobel donna per la letteratura. Per non parlare degli autori in lingua sarda. Neppure nominati. Si studiano – in tutti i manuali – poeticoli come Prati e Aleardi e non giganti come Montanaru (elogiato persino da Pasolini) o Peppino Mereu: che non ha niente da invidiare ai poeti maledetti francesi come Baudelaire, Verlaine, Rimbaud e Mallarmé. La lingua sarda dunque. Essa dalle scuole in Sardegna – a parte qualche esperienza portata avanti a titolo personale e sperimentale da qualche docente volenteroso – è rigorosamente esclusa. Bandita. Nonostante la pedagogia moderna più attenta e avveduta infatti ritenga che la lingua materna e i valori alti di cui si alimenta sono i succhi vitali, la linfa, che nutrono e fanno crescere i bambini senza correre il gravissimo pericolo di essere collocati fuori dal tempo e dallo spazio contestuale alla loro vita. Solo essa consente di saldare le valenze e i prodotti propri della sua cultura ai valori di altre culture. Negando la lingua materna, non assecondandola e coltivandola si esercita grave e ingiustificata violenza sui bambini, nuocendo al loro sviluppo e al loro equilibrio psichico. Li si strappa al nucleo familiare di origine e si trasforma in un campo di rovine la loro prima conoscenza del mondo. I bambini infatti – ma il discorso vale anche per i giovani studenti delle medie e delle superiori – se soggetti in ambito scolastico a un processo di sradicamento dalla lingua materna e dalla cultura del proprio ambiente e territorio, diventano e risultano insicuri, impacciati, “poveri” culturalmente e linguisticamente. Dimezzati.
 
 
 
 
 
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Scuola pubblica o scuola di Stato?

Scuola pubblica o scuola di Stato?
di Francesco Casula
Ma la nostra scuola è pubblica – cioè rivolta ai nostri giovani, al nostro “pubblico” – o di Stato? Nei contenuti come nella organizzazione, nella gestione come nei metodi? Deo la penso in custa manera. La scuola italiana in Sardegna è rivolta a un alunno che non c’è: tutt’al più a uno studente metropolitano, nordista e maschio. Non a un sardo. E’ una scuola che con i contesti sociali, ambientali, culturali e linguistici degli studenti non ha niente a che fare. Nella scuola la Sardegna non c’è: è assente nei programmi, nelle discipline, nei libri di testo. Si studia Orazio Coclite, Muzio Scevola e Servio Tullio: fantasie con cui Tito Livio intende esaltare e mitizzare Roma. Non si studia invece – perché lo storico romano non poteva scriverlo – che i Romani fondevano i bronzetti nuragici per modellare pugnali e corazze; per chiodare giunti metallici nelle volte dei templi; per corazzare i rostri delle navi da guerra. Nella scuola si studia qualche decina di Piramidi d’Egitto, vere e proprie tombe di cadaveri di faraoni divinizzati, erette da centinaia di migliaia di schiavi, sotto la frusta delle guardie;ma non si studiano le migliaia di nuraghi, suggestivi monumenti alla libertà, eretti da migliaia comunità nuragiche indipendenti e federate fra loro. Si studia Napoleone, “piccolo e magro, resistentissimo alla fatica!” ma non si spende una sola parola per ricordare che il tiranno corso, venuto in Sardegna, bombardò La Maddalena e sconfitto da Domenico Millelire, con la coda fra le gambe dovette ritirarsi e abbandonare “l’impresa”. Si studia insomma l’Italia “dalle amate sponde” e “dell’elmo di Scipio”, ma la Sardegna, con le sue vicissitudini storiche, le dominazioni, la sua civiltà e i suoi tesori ambientali, culturali e artistici è del tutto assente: un diplomato sardo e spesso persino un laureato, esce dalla scuola senza sapere nulla dell’architettura nuragica, della Carta De Logu, di Salvatore Satta e persino di Grazia Deledda. E’ ancora in vigore un DPR (89/2010) nel quale Mariastella Gelmini, all’epoca Ministro dell’Istruzione, dettava le linee guida per i docenti, e definiva i fondamentali degli insegnamenti ritenuti strategici per le scuole superiori. In questo DPR per quel che concerne la poesia e la narrativa del ‘900 da affrontare nei licei, sono indicati a titolo esemplificativo diciassette autori principali a cui fare riferimento: “…si esordirà con le esperienze decisive di Ungaretti, Saba e Montale, …contemplerà un’adeguata conoscenza di Rebora, Campana, Luzi, Sereni, Caproni, Zanzotto, …comprenderà letture da autori significativi come Gadda, Fenoglio, Calvino, P. Levi e potrà essere integrato da altri autori come Pavese, Pasolini, Morante, Meneghello”. Avete capito? C’è Meneghello (con tutto il rispetto per lo scrittore vicentino) ma non Grazia Deledda, unica Premio Nobel donna per la letteratura. Per non parlare degli autori in lingua sarda. Neppure nominati. Si studiano – in tutti i manuali – poeticoli come Prati e Aleardi e non giganti come Montanaru (elogiato persino da Pasolini) o Peppino Mereu: che non ha niente da invidiare ai poeti maledetti francesi come Baudelaire, Verlaine, Rimbaud e Mallarmé. La lingua sarda dunque. Essa dalle scuole in Sardegna – a parte qualche esperienza portata avanti a titolo personale e sperimentale da qualche docente volenteroso – è rigorosamente esclusa. Bandita. Nonostante la pedagogia moderna più attenta e avveduta infatti ritenga che la lingua materna e i valori alti di cui si alimenta sono i succhi vitali, la linfa, che nutrono e fanno crescere i bambini senza correre il gravissimo pericolo di essere collocati fuori dal tempo e dallo spazio contestuale alla loro vita. Solo essa consente di saldare le valenze e i prodotti propri della sua cultura ai valori di altre culture. Negando la lingua materna, non assecondandola e coltivandola si esercita grave e ingiustificata violenza sui bambini, nuocendo al loro sviluppo e al loro equilibrio psichico. Li si strappa al nucleo familiare di origine e si trasforma in un campo di rovine la loro prima conoscenza del mondo. I bambini infatti – ma il discorso vale anche per i giovani studenti delle medie e delle superiori – se soggetti in ambito scolastico a un processo di sradicamento dalla lingua materna e dalla cultura del proprio ambiente e territorio, diventano e risultano insicuri, impacciati, “poveri” culturalmente e linguisticamente. Dimezzati.
 
 
 
 
 
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Ugone III. Ucciso perché tiranno o perché “nemico” degli Aragonesi?


Ugone III. Ucciso perché tiranno o perché “nemico” degli Aragonesi?

di Francesco Casula

A Mariano IV successe il figlio Ugone III, quasi quarantenne. La sua figura ha valutazioni storiche contrastanti e, per certi versi, opposte.
Le fonti storiche iberiche, in particolare Geronimo Çurita,cronista del reyno de Aragon, lo descrivono come crudele e tiranno, quelle francesi – che sostanzialmente si rifanno allo stesso Çurita – come rozzo e ignorante, “fier e sauvage insulaire” (Gabriel-Henri Gaillard). .
Il cronista aragonese gli attribuisce infatti tirania, crueldad y barbara naturalesa.
Sulla sua figura, la sua azione ma soprattutto sulla sua fine abbiamo comunque poca documentazione. Secondo lo storico medievista Francesco Cesare Casula pare che il suo dispotismo non fosse accettato dal suo popolo, che ritenendo di essere stato tradito nel suo rapporto di bannus consensus, il 3 marzo i383 si sollevò e, secondo l’antica usanza del tirannicidio lo pugnalò insieme alla figlia, gettandolo, ancora vivo in un pozzo, con la lingua tagliata: a documentarlo una cronaca di “Reggio Emilia”, secondo cui “il 3 marzo il popolo di Arborea, con altri dell’Isola rivolsero le armi contro il Giudice e lo uccisero insieme alla figlia e gli portarono via tutti i beni stimati comunem,ente in mille fiorini: e ciò, a causa del suo malgoverno” (1).
Ugone viene ucciso nel 1383 nel suo palazzo a Oristano: secondo però altri storici non a causa della sua “tirannia” ma per una serie di altre ragioni: ragioni esterne da ricondurre alle ostilità degli Aragonesi e dei nemici di Arborea; ragioni interne da ricercare nei “printzipales” e nei mercanti che erano scontenti perché Ugone era troppo autoritario e imponeva tasse troppo alte per poter mantenere i mercenari tedeschi, provenzali e borgognoni.
Certo – scrive Raimondo Carta Raspi – “Fin dai primi provvedimenti di Ugone appare il pugno di ferro”(2). Ma la sua non sarebbe stata una “tirannia” bensì una “signoria” “ in quegli anni necessaria, per imporre ai Sardi, a tutti i Sardi, sacrifici e sangue per sottrarre la Sardegna alla monarchia aragonese” (3).
E la sua morte dunque non sarebbe causata dalla sua “tirannia” bensì dalla sua inimicizia feroce nei confronti degli Aragonesi, che la morte stessa avrebbero organizzato con la connivenza di alcuni ascari sardi, ad iniziare da un certo De Ligia.
A tal proposito rimando a Pimpirias de istoria e istoriografia sarda, n.6, La morte di Ugone, presenti in questo stesso capitolo.
Sempre lo storico Raimondo Carta Raspi, al contrario delle fonti aragonesi, rivaluta la figura di Ugone III per la sua attività legislativa (leggi e ordinanze che in parte confluiranno nella Carta de Logu di Eleonora) ma soprattutto perché sarebbe stato “il più sardo dei Giudici, il valoroso capitano che avrebbe potuto sottrarre la Sardegna per sempre alla dominazione straniera”(4).
Note bibliografiche
1. Francesco Cesare Casula, La storia di Sardegna, op. cit. pagina 359.
2. Raimondo Carta Raspi, op. cit. pagina 593.
3. Ibidem.
4..Ibidem, pagina 625.

Con la manipolazione delle parole si manipola la realtà e la storia. Ecco perché occorre risemantizzare le parole

Con la manipolazione delle parole si manipola la realtà e la storia.
Ecco perché occorre risemantizzare le parole
di Francesco Casula
Se siete in grado di controllare il significato delle parole, sarete in grado di controllare le persone che devono utilizzarle. George Orwell ha esemplarmente chiarito questo punto nel suo romanzo distopico “1984”. Ma un altro modo di controllare le menti delle persone è quello di controllare le loro percezioni. Se riuscite a far loro vedere il mondo nel modo in cui lo vedete voi, allora penseranno come voi. La comprensione fa seguito alla percezione. Per fare un esempio di come le nostre percezioni vengano distorte e controllate basti pensare al fatto che le rivolte popolari e rivoluzionarie vengono definite dalla storiografia ufficiale, congiure. E chi si ribellava alle ingiustizie e alla prepotenza dei Savoia – ma è solo un esempio – veniva definito bandito. Bene. Il lavoro che ho fatto con il mio libro “Carlo Felice e i tiranni sabaudi” è stato, per intanto, quello di risemantizzare le parole per ristabilire la verità storica. Raccontandola dal punto di vista sardo: dunque autorappresentandola. L’immagine che abbiamo di noi stessi è spesso – o sempre? – frutto di una prospettiva esterna. Ma se lasciamo che siano altri a raccontarci, guarderemo a noi stessi con gli occhi dell’altro. Per cui, come Sardi, ci autovalutiamo con una visione deformata, ci descriviamo come disuniti, gelosi, litigiosi, individualisti, invidiosi, diffidenti, quando non addirittura rozzi, analfabeti e incivili. Troppo spesso scegliamo le nostre qualità caratterizzanti tra quelle che sono aberrazioni della nostra cultura; caratteristiche che non sono la normalità ma piuttosto una deviazione dalla norma. Questa descrizione assomiglia molto spesso, guarda caso, sempre per riferirmi al mio libro, a quella che danno di noi sardi Carlo Felice e i tiranni sabaudi; che ci disprezzavano fino a considerarci esseri inferiori per natura. Ecco, a me piacerebbe che i Sardi, quando si descrivono, non si raccontino con gli stessi termini usati da gente che ci odiava e disprezzava, quando non ci torturava brutalmente e ci condannava a morte. L’autodescrizione in questo senso è di un’importanza enorme; e non a caso insisto nel libro sull’importanza delle parole e sulla scelta delle parole: Ribellione (tentata) di Palabanda e non Congiura; Giovanni Maria Angioy protagonista della rivoluzione antifeudale e non bandito; Cillocco e Sanna Corda eroi e patrioti e non criminali; lingua sarda e non dialetto; lingua civile con cui si scrivevano codici di leggi e documenti amministrativi e non lingua incivile da proibire e criminalizzare. Portando, a conferma la scienza glottologica secondo cui la lingua, per definizione, è un codice che organizza un sistema di segni in grado di esprimere ogni esperienza esprimibile.
 
 
 
 
 
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Sardi pocos, locos y mal unidos?

Sardi pocos, locos y mal unidos?

Di Francesco Casula

La definizione dei Sardi pocos, locos y mal unidos, attribuita a Carlo V, non è mai stata verificata in alcun documento o altra fonte storica.
Il linguista Eduardo Blasco Ferrer (con Giorgia Ingrassia, in Storia della lingua sarda CUEC, Cagliari, 2009,pagina 92.) la attribuisce a Martin Carrillo, Visitador del Reyno de Cerdeña.
Questi, tra il giugno e luglio del 1610 ebbe infatti l’incarico di visitatore generale del regno di Sardegna dal re Filippo III, raccogliendo durante i sedici mesi del suo soggiorno nell’Isola una gran quantità di informazioni sullo stato del governo e, stilando – secondo Ferrer – un resoconto per il sovrano spagnolo, parlando della situazione linguistica e culturale della Sardegna (“Il Catalano e lo Spagnolo vengono utilizzati e capiti nelle città, mentre il Sardo è la lingua comunemente utilizzata nei villaggi”) avrebbe definito appunto i Sardi: ”pocos, locos y mal unidos”.
Non sappiamo a quale “resoconto” Blasco Ferrer si riferisca: certo è che dalle Relazioni stilate, per il sovrano spagnolo, da Martin Carrillo (pubblicate a cura di Maria Luisa Plaisant:Martin Carrillo e le sue Relazioni sulle condizioni della Sardegna, Gallizzi, Sassari 1969) tale giudizio non risulta affatto.
Ma tant’è: diventerà un becero e trito luogo comune – inventato da chissà chi – e verrà interiorizzato da molti sardi e ripetuto in modo ossessivo e autoflagellante, con effetti devastanti, specie a livello psicologico e culturale (vergogna di sé, complessi di inferiorità, poca autostima, voglia di autocommiserazione e di lamentazione) ma con riverberi in plurime dimensioni: tra cui quella socio-economica.
Del resto l’imperatore Carlo V, poco doveva conoscere la Sardegna se non dai dispacci “interessati” dei vice re: solo due volte la visitò direttamente e di passaggio. Nel 1535 quando durante la spedizione contro Tunisi e i Barbareschi sbarcò a Cagliari trattenendosi alcune ore e nell’ottobre del 1541; nella seconda spedizione, questa volta contro Algeri, il più attivo nido dei Barbareschi. In questo caso la flotta imperiale sostò in Sardegna: ma non – come ebbe a sostenere Carlo V – per visitare Alghero, dove passò la notte del 7, bensì per esserne abbondantemente approvvigionato, a spese della popolazione della città catalana e dell’intero sassarese.
I Sardi certo sono pocos: e questo di per sé non è necessariamente un fattore negativo. Ma non locos: ovvero stolti, stolidi e men che meno imbecilli.
Mal unidos? Questo, almeno in parte sì: ma più per responsabilità dei Governanti e dei gruppi dirigenti che per colpa del popolo sardo. Ma soprattutto per responsabilità degli ascari locali, un solo esempio: Giovanni Maria Angioy fu sconfitto per una pluralità di motivi, ma uno dei principali è da addebitare e ricondurre certamente a chi lo tradì, ai suoi stessi ex seguaci. E pensiamo agli Efisio Pintor Sirigu e non solo.
Certo le esuberanti creatività e ingegnosità popolari dei Sardi furono represse e strangolate dal genocidio e dal dominio romano. Ma la Sardegna, a dispetto degli otto trionfi celebrati dai consoli romani, fu una delle ultime aree mediterranee a subire la pax romana, afferma lo storico Meloni. E non fu annientata. La resistenza continuò. I Sardi riuscirono a rigenerarsi, oltrepassando le sconfitte e ridiventando indipendenti con i quattro Giudicati: sos rennos sardos (i regni sardi).
Certo con catalani, spagnoli e piemontesi furono di nuovo dominati e repressi: ma dopo secoli di rassegnazione, a fine Settecento furono di nuovo capaci ai alzare la schiena e di ribellarsi dando vita a quella rivoluzione antifeudale, popolare e nazionale che porrà la base della Sardegna moderna.
Certo, si è tentato in ogni modo di scardinare e annientare lo spirito comunitario, la solidarietà popolare, quella pluralità di reti sociali e di relazione che avevano caratterizzato da sempre le Comunità sarde con variegati sistemi e costumi solidaristici e di forte unità: basti pensare a s’ajudu torrau o a sa ponidura: costumanza che colpirà persino un viaggiatore e visitatore come La Marmora che [in Viaggio in Sardegna di Alberto Della Marmora, Gianni Trois editore, Cagliari 1955, Prima Parte, Libro primo, capitolo VII., pagine 207-209] scriverà: ”Fra le usanze dei campagnuoli della Sardegna, alcune sono de¬gne di nota e sembrano risalire all’antichità più remota : citeremo le seguenti.
Ponidura o paradura. – Quando un pastore ha subito qualche perdita e vuol rifare il suo gregge, l’usanza gli dà facoltà di fare quel che si dice la ponidura o paradura. Egli compie nel suo villag¬gio, e magari in quelli vicini, una vera questua. Ogni pastore gli dà almeno una bestia giovane, in modo che il danneggiato mette subito insieme un gregge d’un certo valore, senza contrarre alcun obbligo, all’infuori di quello di rendere lo stesso servizio a chi poi lo reclamasse da lui…”
Così le identità etnico-linguistiche, le specialità territoriali e ambientali, le peculiarità tradizionali, pur operanti in condizioni oggettive di marginalità economica sociale e geopolitica permangono. I Sardi infatti, nonostante le tormentate vicende storiche costellate di invasioni, dominazioni e spoliazioni, hanno avuto la capacità di metabolizzare gli influssi esterni producendo una cultura viva e articolata che ha poche similitudini nel resto del mediterraneo. Basti pensare al patrimonio tecnico-artistico, alla cultura materiale e artigianale, alla tradizione etno-musicale connessa alla costruzione degli strumenti, alla complessa e stratificata realtà dei centri storici e delle sagre, agli studi sulla realtà etno-linguistica, alla straordinaria valenza mondiale del patrimonio archeologico e dei beni culturali, all’arte: da quella dei bronzetti a quella dei retabli medievali; dagli affreschi delle chiese ai murales, sparsi in circa duecento paesi; dalla pittura alla scultura moderna.
Ma soprattutto basti pensare alla Lingua, spia dell’Identità e substrato della civiltà sarda. Entrambe non totem immobili (sarebbero state così destinate a una sorte di elementi museali e residuali) ma anzi estremamente dinamiche.
La poesia, la letteratura, l’arte, la musica, pur conservando infatti le loro radici in una tradizione millenaria, non hanno mai cessato di evolversi, aprirsi e contaminarsi, a confronto con le culture altre. Soprattutto questo avviene nei tempi della modernità, a significare che la cultura sarda non è mummificata.
Anche il diritto consuetudinario – padre e figlio di quel monumento della civiltà giuridica che è la Carta de Logu – si è trasformato nel tempo, anche se la sua applicazione concreta (per esempio il cosiddetto “Codice barbaricino”) è da un lato costretta alla clandestinità e dall’altro a una restrizione alla società del “noi pastori”. Solo la crescita e l’affermarsi di studiosi, sardi non tanto per anagrafe quanto per autonomia dall’accademia autoreferente, ha fatto sì che gli elementi fondanti la cultura e la civiltà sarda passassero dall’enfasi identitaria alla fondatezza scientifica.
Alla straordinaria ricchezza culturale sono tuttavia spesso mancati, almeno fin’ora, i mezzi per una crescita e prosperità materiale adeguata. Oggi, dopo il sostanziale fallimento dell’ipotesi di industrializzazione petrolchimica, si punta molto sull’ambiente e sul turismo, settore quest’ultimo sicuramente molto promettente, purché si integri con gli altri settori produttivi, ad iniziare da quelli tradizionali come l’agricoltura, la pastorizia e l’artigianato. La struttura economica sarda infatti è sempre stata fortemente caratterizzata dalla pastorizia, che oggi però con i suoi quattro milioni di pecore, sottoposta com’è a processi di ridimensionamento dalle politiche dell’Unione europea, rischia una drammatica crisi.

L’ Autonomia differenziata? Si combatte con lo stato federale non con il neocentralismo statale.

L’Autonomia differenziata? Si combatte con lo stato federale non con il neocentralismo statale.

Qualche decennio fa la Sinistra, sia pure timidamente, aveva fatto irruzione nei territori del federalismo e dintorni. Salvo ritrarsi subito. Ed oggi si ri-presenta con il suo volto abituale. unitarista e statoiatrico. L’occasione le è stata offerta dalla rivendicazione, da parte di due Regioni del Nord (Lombardia e Veneto), della cosiddetta “Autonomia differenziata”.
Sia ben chiaro la rivendicazione nordista è da combattere: non ha niente a che fare con il federalismo e l’autonomia: semplicemente vuole accaparrarsi ulteriori poteri e risorse finanziarie statali a detrimento del Meridione e della Sardegna. Ma si respinge la pretesa nordista attaccando e non stando in difesa o, peggio evocando un unitarismo e neocentralismo antistorico e suicida.
Occorre infatti capire e conoscere, che al di là dell’ormai vuota e becera retorica sulle “magnifiche sorti e progressive” del cosiddetto Risorgimento, quel processo lungi dal realizzare “l’Unità”, ha creato due Italie: una ricca e una povera, una sviluppata e l’altra sottosviluppata: non a caso un intellettuale meridionalista come il calabrese Nicola Zitara, ha intitolato un suo saggio storico: ”Unità d’Italia: nascita di una colonia”.
Con immani disuguaglianze territoriali e divari, tutt’ora presenti e che anzi, nel tempo continuano ad aumentare, amplificando la forbice e il differenziale, non solo nello sviluppo economico (PIL) me nella cultura, nell’istruzione, nell’innovazione.
Ebbene, a fronte ci ciò e della rivendicazione di “Autonomia differenziata” da parte delle due regioni del Nord occorre rispondere non in difesa dello status quo o, evocando e rifacendosi alla Costituzione della Repubblica “una e indivisibile”. E in Sardegna a un rachitico e impotente “Regionalismo” e “Autonomismo”: merce ormai inservibile e scaduta da decenni.
Occorre andare in attacco, come Sardi intendo, rivendicando un nuovo Statuto speciale: quello attuale, da tempo oramai è fallito.
Nato nel lontano 1948, già depotenziato, debole e limitato – più simile a un gatto che a un leone, secondo la colorita espressione di Lussu – lo Statuto sardo in questi circa 75 anni di storia si è rivelato, sostanzialmente, un fallimento. Molte le cause. Ad iniziare da quella che lo storico Francesco Cesare Casula individua con nettezza scrivendo: “Nello Statuto sardo non c’è nessun preambolo che supporti le ragioni dell’essere, nessuna coscienza storica che giustifichi il perché dovremmo essere trattati diversamente dalle altre 19 regioni italiane. Esso apre con un desolante titolo l: «La Sardegna con le sue isole è costituita in regione autonoma fornita di personalità giuridica entro l’unità politica della Repubblica italiana, una e indivisibile, sulla base dei principi del¬la Costituzione e secondo il presente statuto … » “.
In altre parole, secondo il nostro storico medievista “Lo Statuto sardo, difetta di un preambolo giustificativo nella contrattazione col governo centrale, ben presente nello Statuto catalano, che fonda la sua contrattazione sulla peculiarità nazionale promanante dall’ antico Principato di Catalogna. Ed è quanto purtroppo manca da noi. sebbene abbiamo più ragioni dei Catalani di rifarci alla storia per una rivendicazione autonomistica non solo speciale ma particolare”.
Ma se puranco i legislatori della Costituente e i padri della nostra Autonomia non avessero voluto tener conto di tutto ciò, almeno avrebbero dovuto partire, nella formu-lazione dello Statuto, da un dato difficilmente contestabile: essere la Sardegna una nazione, avendo una sua peculiare e specifica identità etno-storica-culturale-linguistica. In realtà i Costituenti che dotano la Sardegna di uno “Statuto speciale” questo lo sanno e lo riconoscono. Perché altrimenti uno Statuto speciale all’Isola? Per motivi econo¬mici? Ovvero per la povertà, l’arretratezza e il sottosviluppo? E come spiegare allora che non verrà concesso uno Statuto speciale a molte regioni italiane sicuramente allora più povere, arretrate e sottosviluppate? Come la Lucania o l’Abruzzo?
Il motivo economico – peraltro ben documentato dall’ articolo 13, che è la cartina di tornasole della scelta politica: “Lo Stato italiano col concorso della Regione, dispone un piano organico per favorire la Rinascita economica e sociale dell’Isola” è la foglia di fico per nascondere i veri motivi – storici-culturali-linguistici – che se riconosciuti formalmente, avrebbero dato vita a ben altro Statuto, a ben altri poteri della Regione, ad iniziare pro¬prio dal versante culturale-linguistico, che non a caso sono del tutto assenti.
Occorre inoltre aggiungere che in questi 75 anni ha subito un processo di progressi¬vo svuotamento e di compressione sia dall’esterno, cioè da parte dello Stato centrale, sia dall’ interno, ovvero da parte delle forze politiche dirigenti sarde, che non sanno usare e, spesso, non vogliono utilizzare, gli stessi strumenti, possibilità e spazi che l’autonomia regionale offriva.
Basti pensare a questo proposito alla vicenda delle norme di attuazione, che avrebbero dovuto riempire di contenuti le astratte previsioni statutarie, stabilendo quali dovevano essere i poteri reali della Regione nelle materie attribuite alla sua competenza. Queste norme o vengono emanate tardi, o non vengono emanate per niente, o vengono emanate in modo ecce¬zionalmente riduttivo. E comunque non vengono quasi mai poste in essere. Ciò per con¬statare come le forze politiche sarde abbiano svilito la stessa limitata autonomia. statutariamente riconosciuta.
Non solo. Nato come Statuto speciale, oggi risulta dotato di meno poteri delle regioni a Statuto ordinario costituite nel ’70, e di fatto, rappresenta oramai un ostacolo alla realizzazione di una vera Autonomia, o peggio: serve solo come copertura alla gestione centralistica della Regione da parte dello Stato, di cui non ha scalfito per niente il centralismo. Paradossalmente lo ha perfino favorito, consentendo ai Sardi solo il succursalismo e l’amministrazione della propria dipendenza.
La Regione sarda di fatto, in questi 75 anni di storia, ha operato come mera struttura di decentramento e di articolazione burocratica dello Stato e come centro di raccordo e di mediazione fra gli interessi dei gruppi di potere locali e la rapina neocolonialista, soprattutto del Nord: esemplare in questo è la vicenda della industrializzazione petrol¬chimica.
Da tempo perciò possiamo ormai considerare consumato il suo fallimento storico contestuale a quello della cosiddetta Rinascita: ma fino ad oggi sono falliti miseramente anche i tentativi di un suo rilancio, rianimazione e rimpolmamento, prima attraverso la cosiddetta politica contestativa e rivendicazionistica della Regione nei confronti dello Stato degli anni ’70 e, più recentemente, nei decenni scorsi, attraverso una Commissione nominata ad hoc dal Consiglio Regionale.
Oggi è giunto il momento di imboccare decisamente la strada del rifacimento dello Statuto Sardo, una nuova Carta de Logu, come vera e propria Carta Costituzionale di Sovranità per la Sardegna, che ricontratti su basi federaliste il rapporto Sardegna-Stato Italiano, Sardegbna-Europa e che, partendo dal¬l’identità etno-nazionale dei Sardi, ne sancisca il diritto a realizzare l’autogoverno, l’autodecisione, l’autogestione economica e sociale delle proprie risorse e del territorio, il diritto a usare e valorizzare la propria lingua e cultura, a gestire la scuola, i trasporti, il credito, le finanze e l’ordine pubblico. Il potere infine, in settori fondamentali quali la difesa e i rapporti internazionali, di esprimere parere vincolante in merito a tutte le iniziative che tocchino gli interessi vitali della Sardegna.
Se non si fa questo, si abbaia alla luna: e mentre il Nord, con la sua “Autonomia differenziata” correrà, noi continueremo a stare fermi. Anzi:a andare dietro. Beati e beoti con la nostra “Insularità” in Costituzione. Ovvero con il nulla.

L’Italia contro la lingua sarda: dai tiranni sabaudi ad oggi.

L’Italia contro la lingua sarda: dai tiranni sabaudi ad oggi.
di Francesco Casula
Nel 1720, quando i Savoia prendono possesso della Sardegna,la situazione linguistica isolana è caratterizzata da un bilinguismo imperfetto: la lingua ufficiale – della cultura, del Governo, dell’insegnamento nella scuola religiosa riservata ai ceti privilegiati – è il castigliano, mentre la lingua del popolo, in comunicazione subalterna con quella ufficiale è il Sardo. Ai Piemontesi questa situazione appare inaccettabile e da modificare quanto prima, nonostante il Patto di cessione dell’Isola del 1718 imponga il rispetto delle leggi e delle consuetudini del vecchio Regnum Sardiniae. Per i Piemontesi occorre rendere ufficiale la lingua italiana. Come prima cosa pensano alla Scuola per poi passare agli atti pubblici. Ma evidentemente le loro preoccupazioni non sono di tipo glottologico. Attraverso l’imposizione della lingua italiana vogliono sradicare la Spagna dall’Isola, rafforzare il proprio dominio, combattere il “Partito spagnolo” sempre forte nell’aristocrazia ma non solo, Pensano allora di elaborare “Il progetto di introdurre la lingua italiana nella scuola“ affidandone lo studio e la gestione ai Gesuiti. Nella prima fase il progetto coinvolgerà comunque pochi giovani: appartenenti ai ceti privilegiati. Il problema diventa molto più ampio ai primi dell’Ottocento, quando il Governo inizia a interessarsi dell’Istruzione del popolo. I bambini “poverelli” ricevono gratuitamente due libri in lingua italiana: Il Catechismo del Bellarmino e il Catechismo agrario, “giacché l’agricoltura è precipuo sostegno di ogni stato e in particolare della Sardegna”. Ciononostante il popolo continuerà a parlare diffusamente come sotto la dominazione spagnola, la lingua sarda, affermando con essa la sua Identità, la sua cultura, la sua concezione del mondo. Per quanto attiene all’insegnamento della storia la situazione è analoga: a Pietro Martini – uno dei padri della storiografia sarda, e siamo in pieno ‘800! – intenzionato a introdurre fra gli studenti dell’Isola l’insegnamento della Storia sarda, capitò di sentirsi rispondere seccamente dalle autorità governative piemontesi che “nelle scuole dello Stato debbasi insegnare la storia antica e moderna, non di una provincia ma di tutta la nazione e specialmente d’Italia”. Tale concezione, da ricondurre a un progetto di omogeneizzazione culturale, – mche per l’Isola significherà dessardizzazione – la ritroviamo pari pari nelle Leggi sull’istruzione elementare obbligatoria nell’Italia pre e post unitaria: del Ministro Gabrio Casati (1859), Cesare Correnti (1867) e Michele Coppino (1877). I programmi scolastici, impostati secondo una logica rigidamente nazional-statale o statalista che di si voglia e italocentrica, sono finalizzati a creare una coscienza “unitaria“, uno spirito “nazionale“, capace di superare i limiti – così si pensava – di una realtà politico-sociale estremamente composita sul piano storico, linguistico e culturale. Questo paradigma fu enfatizzato nel periodo fascista, con l’operazione della “nazionalizzazione-italianizzazione” dell’intera storia italiana. A onor del vero, proprio nel periodo fascista non mancò chi, come Giuseppe Lombardo Radice, estensore dei Programmi della Scuola elementare, sostenne la necessità di valorizzare il locale e il dialetto e di partire proprio dalla lingua viva per facilitare l’apprendimento e lo sviluppo intellettuale degli scolari.(G. L. Radice, Lezioni di didattica) Sempre nello stesso periodo, fu lo stesso Gentile a voler introdurre la lingua sarda nelle scuole isolane, con altre lingue minori in altre Regioni italiane: subito dopo estromesse dal regime perché avrebbe messo in pericolo “ l’Italianità” della Sardegna! L’idiosincrasia – usiamo volutamente un termine eufemistico – nei confronti di tutto ciò che è Sardo, e in modo particolare della lingua, continuerà comunque anche nel dopoguerra. Nel 1955, nei programmi elementari elaborati dalla Commissione Medici si introduce l’esplicito divieto per i maestri di rivolgersi agli scolari in “dialetto”. E in tempi a noi più vicini, con una nota riservata del Ministero – regnante Malfatti – del 13-2-1976 si sollecitano Presidi e Direttori Didattici a “controllare eventuali attività didattiche-culturali riguardanti l’introduzione della Lingua sarda nelle scuole”. Una precedente nota riservata dello stesso anno del 23-1 della Presidenza del Consiglio dei Ministri aveva addirittura invitato i capi d’Istituto a “schedare“ gli insegnanti. E non si tratta di “pregiudizi” presenti solo negli apparati statali e ministeriali romani: il segretario provinciale sardo di un Partito politico, allora ferocemente centralistico, sia pure di un “centralismo democratico“(!), nel 1978 invitava, con una circolare spedita a tutte le sezioni, di non aderire, anzi di boicottare la raccolta di firme per la Proposta di legge di iniziativa popolare sul Bilinguismo perchè “separatista“ e attentatrice all’Unità della Nazione! Negli ultimi decenni qualcosa si è mosso: in Sardegna con la Legge n.26 del 15 Ottobre 1997 sulla “Promozione e valorizzazione della cultura e della lingua della Sardegna” e la nuova erecente Legge legge regionale del 3 luglio 2018, n.22 concernente la Disciplina della politica linguistica regionale. E a livello nazional- statale italiano con la Legge n.482 del 15 Dicembre 1999 riguardante “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche” in cui è presente la lingua sarda. Nell’Unione Europea, tra gli altri, Il documento più importante cui si può fare riferimento per la tutela della lingua sarda è però la Carta Europea delle lingue regionali e minoritarie approvata a Strasburgo nel 1992. Occorre però ricordare che l’Italia, con la sola eccezione della Francia, è l’unico stato europeo occidentale a non aver ratificato questo importante documento comunitario che ancora aspetta di avere piena attuazione nell’isola e in tutto il territorio peninsulare. Un ritardo di ben 31 anni: una vergogna!
 
 
 
 
 
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L’ Italia contro la lingua sarda: dai tiranni sabaudi ad oggi.

L’Italia contro la lingua sarda: dai tiranni sabaudi ad oggi.

di Francesco Casula

Nel 1720, quando i Savoia prendono possesso della Sardegna,la situazione linguistica isolana è caratterizzata da un bilinguismo imperfetto: la lingua ufficiale – della cultura, del Governo, dell’insegnamento nella scuola religiosa riservata ai ceti privilegiati – è il castigliano, mentre la lingua del popolo, in comunicazione subalterna con quella ufficiale è il Sardo.
Ai Piemontesi questa situazione appare inaccettabile e da modificare quanto prima, nonostante il Patto di cessione dell’Isola del 1718 imponga il rispetto delle leggi e delle consuetudini del vecchio Regnum Sardiniae. Per i Piemontesi occorre rendere ufficiale la lingua italiana. Come prima cosa pensano alla Scuola per poi passare agli atti pubblici. Ma evidentemente le loro preoccupazioni non sono di tipo glottologico. Attraverso l’imposizione della lingua italiana vogliono sradicare la Spagna dall’Isola, rafforzare il proprio dominio, combattere il “Partito spagnolo” sempre forte nell’aristocrazia ma non solo, Pensano allora di elaborare “Il progetto di introdurre la lingua italiana nella scuola“ affidandone lo studio e la gestione ai Gesuiti. Nella prima fase il progetto coinvolgerà comunque pochi giovani: appartenenti ai ceti privilegiati. Il problema diventa molto più ampio ai primi dell’Ottocento, quando il Governo inizia a interessarsi dell’Istruzione del popolo. I bambini “poverelli” ricevono gratuitamente due libri in lingua italiana: Il Catechismo del Bellarmino e il Catechismo agrario, “giacché l’agricoltura è precipuo sostegno di ogni stato e in particolare della Sardegna”.
Ciononostante il popolo continuerà a parlare diffusamente come sotto la dominazione spagnola, la lingua sarda, affermando con essa la sua Identità, la sua cultura, la sua concezione del mondo.
Per quanto attiene all’insegnamento della storia la situazione è analoga: a Pietro Martini – uno dei padri della storiografia sarda, e siamo in pieno ‘800! – intenzionato a introdurre fra gli studenti dell’Isola l’insegnamento della Storia sarda, capitò di sentirsi rispondere seccamente dalle autorità governative piemontesi che “nelle scuole dello Stato debbasi insegnare la storia antica e moderna, non di una provincia ma di tutta la nazione e specialmente d’Italia”.
Tale concezione, da ricondurre a un progetto di omogeneizzazione culturale, – mche per l’Isola significherà dessardizzazione – la ritroviamo pari pari nelle Leggi sull’istruzione elementare obbligatoria nell’Italia pre e post unitaria: del Ministro Gabrio Casati (1859), Cesare Correnti (1867) e Michele Coppino (1877).
I programmi scolastici, impostati secondo una logica rigidamente nazional-statale o statalista che di si voglia e italocentrica, sono finalizzati a creare una coscienza “unitaria“, uno spirito “nazionale“, capace di superare i limiti – così si pensava – di una realtà politico-sociale estremamente composita sul piano storico, linguistico e culturale.
Questo paradigma fu enfatizzato nel periodo fascista, con l’operazione della “nazionalizzazione-italianizzazione” dell’intera storia italiana.
A onor del vero, proprio nel periodo fascista non mancò chi, come Giuseppe Lombardo Radice, estensore dei Programmi della Scuola elementare, sostenne la necessità di valorizzare il locale e il dialetto e di partire proprio dalla lingua viva per facilitare l’apprendimento e lo sviluppo intellettuale degli scolari.(G. L. Radice, Lezioni di didattica)
Sempre nello stesso periodo, fu lo stesso Gentile a voler introdurre la lingua sarda nelle scuole isolane, con altre lingue minori in altre Regioni italiane: subito dopo estromesse dal regime perché avrebbe messo in pericolo “ l’Italianità” della Sardegna!
L’idiosincrasia – usiamo volutamente un termine eufemistico – nei confronti di tutto ciò che è Sardo, e in modo particolare della lingua, continuerà comunque anche nel dopoguerra. Nel 1955, nei programmi elementari elaborati dalla Commissione Medici si introduce l’esplicito divieto per i maestri di rivolgersi agli scolari in “dialetto”. E in tempi a noi più vicini, con una nota riservata del Ministero – regnante Malfatti – del 13-2-1976 si sollecitano Presidi e Direttori Didattici a “controllare eventuali attività didattiche-culturali riguardanti l’introduzione della Lingua sarda nelle scuole”. Una precedente nota riservata dello stesso anno del 23-1 della Presidenza del Consiglio dei Ministri aveva addirittura invitato i capi d’Istituto a “schedare“ gli insegnanti.
E non si tratta di “pregiudizi” presenti solo negli apparati statali e ministeriali romani: il segretario provinciale sardo di un Partito politico, allora ferocemente centralistico, sia pure di un “centralismo democratico“(!), nel 1978 invitava, con una circolare spedita a tutte le sezioni, di non aderire, anzi di boicottare la raccolta di firme per la Proposta di legge di iniziativa popolare sul Bilinguismo perchè “separatista“ e attentatrice all’Unità della Nazione!
Negli ultimi decenni qualcosa si è mosso: in Sardegna con la Legge n.26 del 15 Ottobre 1997 sulla “Promozione e valorizzazione della cultura e della lingua della Sardegna” e la nuova erecente Legge legge regionale del 3 luglio 2018, n.22 concernente la Disciplina della politica linguistica regionale. E a livello nazional- statale italiano con la Legge n.482 del 15 Dicembre 1999 riguardante “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche” in cui è presente la lingua sarda.
Nell’Unione Europea, tra gli altri, Il documento più importante cui si può fare riferimento per la tutela della lingua sarda è però la Carta Europea delle lingue regionali e minoritarie approvata a Strasburgo nel 1992. Occorre però ricordare che l’Italia, con la sola eccezione della Francia, è l’unico stato europeo occidentale a non aver ratificato questo importante documento comunitario che ancora aspetta di avere piena attuazione nell’isola e in tutto il territorio peninsulare. Un ritardo di ben 31 anni: una vergogna!