2° CONVEGNO SARDISTA A BOSA 29 ottobre 1967

2° CONVEGNO SARDISTA A BOSA 29 ottobre 1967

Cari amici,
ci riuniamo a Bosa, nelle accoglienti sale del Centro di Cultura Popolare dopo quattro mesi dal primo nostro mee­ting del 2 luglio per discutere la situazione politica sarda, per valutare le scelte operate dal nostro Partito sia dopo la crisi di febbraio, sia dopo il fallimento del­la cosiddetta politica contestativa.
Voi sapete benissimo come la contestazione di Del Rio, la rivoluzione di luglio e gli avvenimenti suc­cessivi, soprattutto per la grinta dura mostrata dai padroni di Roma dei partiti metropolitani, siano approdati al porto della più grande beffa che il popolo sardo, in tutta la sua storia,abbia mai subito.
Il linguaggio aggressivo del Presidente Del Rio non corrispondeva e non corrisponde oggi a una pre­cisa volontà, sua e della Giunta di G0verno, di conqui­stare gli obiettivi che il famoso ordine del giorno-voto del Consiglio Regionale al Parlamento Italiano configu­rava. Il Governo italiano ha respinto tutte le richie­ste del popolo sardo, ha irriso con sprezzante paternalismo le istanze dei nostri legittimi rappresentanti, ha impedito al Presidente Del Rio, rappresentante elet­to del popolo sardo, di parlare alla sua gente per mezzo dello strumento più efficace: la radio.
E si è risolto tutto in un bagaglio inconsistente di promesse:
le solite promesse che da due secoli e mezzo piemontesi e italiani hanno fatto inalla in Sardegna, a questa vera e propria colonia, terra senza speranza di riscatto. Ed è per è per questo che oggi più che mai dobbiamo opporci al regime coloniale che che perdura, nonostante la concessione di una falsa autonomia.

 Oggi il banditismo, la cui importanza è stata amplificata in Italia e nel resto d’Europa con sadica insistenza dalla stampa di ogni colore, coadiuvata questa dalla compiaciuta complicità della radio e della televisione del monopolio italiano, è assurto a problema nazio­nale. Ma cosa vuol dire oggi in Sardegna, in questa 

terra di conquista e di sfruttamento, questione di importanza nazionale?

Significa soltanto che gli organi dello Stato, valicando i limiti delle competenze costituzionali, calpestando anche i brandelli formali dello Statuto Speciale di Autonomia della Sardegna, si sentono in dovere di intervenire. E viene accusato, ormai indi­scriminatamente, il popolo sardo e la sua classe politica; la sua classe dirigente, le migliaia e migliaia di lavoratori: i morti di fame di villaggi e delle borgate lontane, coloro che vivono cioè di sussidi e di rimesse degli emigranti. 

Ecco che un governo debole e inetto, come quel­lo italiano di oggi, ricerca un alibi storico con una inchiesta parlamentare. Ma voi sapete tutti che fine han­no fatto le precedenti inchieste parlamentari. La Sarde­gna è rimasta quella di prima. Sempre più povera e abban­donata. Non a caso, cari amici, accuso formalmente il pre­potere italiano di genocidio delle genti sarde. Perché quando ai sardi si nega il diritto alla vita, non si in­terviene con i finanziamenti stabiliti dalla legge, ma si invia un corpo militare di polizia e di carabinieri per distruggere la piaga del banditismo, con il semplice ri­sultato di sottoporre le popolazioni ad angherie, a so­prusi, a minacce di ogni genere, ebbene, allora si agisce secondo i più brutali e odiosi sistemi coloniali. Si ripe­te l’errore della Francia in Algeria. E le province dell’Algeria settentrionale per chi non lo rammentasse, erano considerate territorio metropolitano con uno Statuto speciale di autonomia. E gli al­gerini, nonostante questa concessione suprema della Repub­blica francese,si sono ribellati, sino a cacciare i francesi dal loro territorio e conquistare così, col sacrifi­cio e col sangue, la piena libertà e l’indipendenza. Ma gli algerini erano fiancheggiati dagli altri popoli arabi, dai marocchini, dai tunisini, dai libici e dalla Lega Araba. La loro guerriglia era sorretta dalla simpatia dell’opinione pubblica mondiale e, nella stessa Francia, paese civile, larga parte della popolazione me­tropolitana, gli intellettuali e i potenti, parteggiava per la liberazione dell’antica colonia. Noi, che siamo nelle stesse condizioni dell’Algeria di allora, non abbiamo nessuno, né stati amici né lega araba né popoli che parlino la nostra lingua che ci appoggino, ci sostengano, e sposino la nostra causa. Noi siamo soli, terribilmente soli, alla mercé della prepotenza italiana, della polizia italiana, dei prefetti-governatori italiani. E in mezzo a noi fioriscono come le rose di maggio i traditori, l prezzolati, i venduti, i servitori del padrone d’oltremare. Tutto ciò dovrebbe consigliarci a desistere dal­la lotta. A lasciar cadere le istanze, condendole soltanto di qualche protesta lecita, civile, ma del tutto inutile e vana. Ma noi difendiamo il diritto del nostro popolo. Noi vogliamo liberare il nostro popolo dalle pastoie colonialiste, vogliamo soprattutto informare il nostro popolo e indicargli la via da percorrere per la sua effettiva resurrezione.

 Non siamo degli illusi, cari amici, e abbiamo le nostre buone ragioni per parlarvi con questa schiettezza e durezza di linguaggio. Noi, proprio perché siamo sardi, e ci vantiamo di esserlo, siamo alieni da qualunque trasformismo, di tipo siculo-meridionale. Noi abbiamo sempre seguito questa linea politica. E questa è la linea di Bellieni, di Luigi Battista Puggioni, e di qualcuno che è qui presente e che ha sempre dato al Sardismo.

Noi dobbiamo diffondere queste nostre idee. Dobbiamo lottare perché anche nei centri più lontani si conosca questa che è una corrente di pensiero ben definita, chiara, responsabile. E’ la linea autentica, dura forse, ma l’unica che oggi possiamo seguire. Senza compromessi con nessuno. Sia ben chiaro.
Se non ci opponiamo a questa situazione coloniale, nella quale l’Italia ci ha lasciato, il nostro compito diventa inutile, vuoto, improduttivo, ridicolo.
Ci chiamano separatisti. Con disprezzo e con malcelata ironia. Ebbene, se separatisti ci chiamano, noi possiamo fare di questo termine una bandiera e non soltanto uno spaventa-passeri per i nostri avversari politici.
La via dell’indipendenza è lunga, difficile, costellata di trabocchetti, di sofferenze, di rinunce, di amare delusioni, e – soprattutto – di sconfitte. Ma noi crediamo, dobbiamo credere, dobbiamo far credere anche i nostri fratelli. Illuminarli e cancellare le loro illusioni integrazioniste, spazzare il servilismo di sempre. Noi abbiamo il dovere di seguire questa linea, perché soltanto così non tradiremo il Sardismo, ma soprattutto serviremo il popolo sardo, questo piccolo grande popolo che ha paura di essere salvato da un avvenire pieno di caligine e di miseria. Questo popolo che vuole essere distrutto.
Noi lottiamo e lotteremo per la libertà della Sardegna. Con tutti i mezzi, con tutte le nostre forze. Non rinunciamo alla dignità di uomini liberi.
Viva la Sardegna. Viva la libertà.
Antonio Simon Mossa

La truffa dell’Unità d’Italia e il mito di Garibaldi.

La truffa dell’Unità d’Italia e il mito di Garibaldi.

di Francesco Casula

Il 4 luglio scorso ricorreva il 208° Anniversario della nascita di Garibaldi. Fortunatamente, ci sono state risparmiate le ondate patriottarde che negli anni scorsi avevano alluvionato giornali e media. Ma covano sicuramente sotto la cenere. Quando invece, quello che occorre è iniziare a far le bucce al “Risorgimento” italiano e alla conseguente “Unità”, senza essere tacciati di leghismo o, peggio, di essere etichettati come clericali, filoborbonici e dunque arretrati, regressivi e premoderni..

A questo proposito voglio ricordare – anche perché mi sembra molto illuminante – un curioso episodio. Negli anni ’70 escono una serie di saggi, prevalentemente di giovani intellettuali e storici meridionali ( Nicola Zitara, Edmondo Maria Capecelatro, Antonio Carlo e altri).

Nei loro saggi attraverso una puntuale e rigorosa analisi socio-economica del Meridione preunitario, sostengono e dimostrano con dati e numeri inoppugnabili, (per esempio sull’industria agro-alimentare ma anche siderurgica nel Napoletano ma non solo) che al momento dell’Unità il divario Nord-Sud non esistesse (o comunque non fosse determinante) sicché a determinare il sottosviluppo del Sud sia stata l’azione politica dello Stato unitario, In altre parole sostengono che la dialettica svilupposottosviluppo si sia instaurata nell’ambito di uno spazio economico unitario – quindi a unità d’Italia compiuta – dominato dalle leggi del capitale.

Tale tesi –  che si ricollega fra l’altro a una serie di studi sullo sviluppo ineguale del capitalismo, in modo particolare di Paul A. Baran, di Andre  Gunter-Frank e Samir Amin  – tende a porre in rilievo come la dialettica sviluppo-sottosviluppo non si instauri fra due realtà estranee o anche genericamente collegate, ma presuma uno spazio economico unitario in cui lo sviluppo è il rovescio del sottosviluppo che gli è funzionale: in altri termini lo sviluppo di una parte è tutto giocato sul sottosviluppo dell’altra e viceversa e dunque il sottosviluppo del Sud è il risultato dello sviluppo capitalistico e non della sua assenza.

Zitara, Capecelatro e Antonio Carlo furono accusati e tacciati di “nostalgie borboniche”. Perché? Per le differenti analisi – parzialmente anche rispetto a Gramsci –  sulla Questione Meridionale?

No: semplicemente perché avevano osato dissacrare quanto tutti avevano divinizzato: il movimento e il processo, considerato progressivo e progressista, del Risorgimento. Avevano osato mettere in dubbio e contestare le magnifiche sorti e progressive dello Stato unitario, sempre celebrato da chi a destra, a sinistra e a centro aveva sempre ritenuto che tutto si poteva criticare in Italia ma non l’Italia Unita e i suoi eroi risorgimentali.

Come spiegare diversamente – ma è solo un esempio – l’atteggiamento nei confronti di Garibaldi? Durante il ventennio fu santificato ed eletto “naturalmente” come padre putativo di Mussolini e del regime e dunque fu “fascista”.  Dopo il fascismo, prima nel ’48, alle elezioni politiche, la sua icona fu scelta come simbolo elettorale del Fronte popolare e dunque divenne socialcomunista. Negli anni 80 fu osannato da Spadolini – e dunque divenne repubblicano – “come il generale vittorioso, l‘eroico comandante, l’ammiraglio delle flotte corsare e l’interprete di un movimento di liberazione e di redenzione per i popoli oppressi”. Fu poi celebrato da Craxi – e dunque divenne socialista – “come il difensore della libertà e dell’emancipazione sociale che univa l’amore per la nazione con l’internazionalismo in difesa di tutti i popoli e di tutte le nazioni offese”. Infine fu persino rivendicato da Piccoli che lo fece dunque diventare  democristiano.

    Ecco, è proprio questo unanimismo, questa unione sacra – destra, sinistra centro, tutti d’accordo –  intorno al Risorgimento e ai suoi personaggi simbolo, che non convince. E’ questa intercambiabilità ideologica dei suoi “eroi” che rende sospetti. Ecco perché bisogna iniziare a fare le bucce al Risorgimento, ecco perché occorre iniziare a sottoporre a critica rigorosa e puntuale  tutta la pubblicistica tradizionale – ad iniziare dunque dai testi di storia – intorno a Garibaldi, liquidando una buona volta la retorica  celebrativa del Risorgimento. Per ristabilire, con un minimo di decenza un po’ di verità storica occorrerebbe infatti, messa da parte l’agiografia e l’oleografia patriottarda italiota, andare a spulciare fatti ed episodi che hanno contrassegnato, corposamente e non episodicamente, il Risorgimento e Garibaldi: Bronte e Francavilla per esempio. Che. non sono si badi bene, episodi né atipici né unici né lacerazioni fuggevoli di un processo più avanzato. Ebbene, a Bronte come a Francavilla vi fu un massacro, fu condotta una dura e spietata repressione nei confronti di contadini e artigiani, rei di aver creduto agli Editti Garibaldini del 17 Maggio e del 2 Giugno 1860 che avevano decretato la restituzione delle terre demaniali usurpate dai baroni, a chi avesse combattuto per l’Unità d’Italia. Così le carceri di Franceschiello, appena svuotate, si riempirono in breve e assai più di prima. La grande speranza meridionale ottocentesca, quella di avere da parte dei contadini una porzione di terra, fu soffocata nel sangue e nella galera. Così la loro atavica, antica e spaventosa miseria continuò. Anzi: aumentò a dismisura. I mille andarono nel Sud semplicemente per “traslocare” manu militari, il popolo meridionale, dai Borboni ai Piemontesi. Altro che liberazione!

 Così l’Unità d’Italia si risolverà sostanzialmente nella “piemontesizzazione” della Penisola e fu realizzata dal Regno del Piemonte, dalla Casa Savoia, dai suoi Ministri – da Cavour in primis – dal suo esercito in combutta con gli interessi degli industriali del Nord e degli agrari del Sud – il blocco storico gramsciano – contro gli interessi del Meridione e delle Isole e a favore del Nord; contro gli interessi del popolo, segnatamente del popolo-contadino del Sud;  contro i paesi e a vantaggio delle città, contro l’agricoltura e a favore dell’industria.

Colonialismo italiano in Sardegna:dagli “spogliatori di cadaveri” alle scorie nucleari

Colonialismo italiano in Sardegna:dagli “spogliatori di cadaveri” alle scorie nucleari

ROMA – La politica italiana nei confronti della Sardegna (e del Sud) è tutto giocata sul colonialismo interno. Fin dai primordi dell’Unità. Tanto che un neomeridionalista come Nicola Zitara, scriverà un libro dal titolo emblematico: L’Unità d’Italia- nascita di una colonia

Ma di “colonialismo” italiano parlerà anche Gramsci a più riprese: fra  l’altro scrivendone il 16 Aprile  1919 in un articolo dell’Avanti, avente per titolo “I dolori della Sardegna”. 

Nel cinquantennio 1860-1910 – scriveva –  lo Stato italiano nel quale hanno sempre predominato la borghesia e la nobiltà piemontese, ha prelevato dai contadini e pastori sardi 500 milioni di lire che ha regalato alla classe dirigente non sarda. Perché–aggiungeva– è proibito ricordare, che nello Stato italiano, la Sardegna dei contadini e dei pastori e degli artigiani è trattata peggio della colonia eritrea in quanto lo stato «spende» per l’Eritrea, mentre sfrutta la Sardegna, prelevandovi un tributo imperiale”? 

Proseguirà ricordando che il gettito fiscale prelevato in Sardegna era esorbitante non solo in relazione  alle risorse di cui poteva disporre l’Isola ma al reddito reale dei suoi abitanti. “Il balzello” finiva così per “paralizzare ogni forza produttiva e ogni risparmio”. Lo stesso Gramsci il 14 Aprile del 1919, in un altro articolo, titolato significativamente “La Brigata Sassari” aveva parlato di sfruttamento coloniale della Sardegna da parte della classe borghese di Torino oltre che con le tasse sproporzionate, con la rapina delle risorse, segnatamente attraverso lo sfruttamento delle miniere e la distruzione delle foreste sarde. Soprattutto in seguito alla rottura dei Trattati doganali con la Francia (1887) e al protezionismo tutto a beneficio delle industrie del Nord, quando fu colpita a morte l’economia meridionale e quella sarda. UInfatti con la “guerra” delle tariffe voluta da Crispi, i prodotti tradizionali sardi (ovini, bovini, vini, pelli, formaggi) furono deprivati degli sbocchi tradizionali di mercato. Nel solo 1883 – ricorda lo storico sardo Raimondo Carta-Raspi – erano stati esportati a Marsiglia 26.168 tra buoi e vitelli, pagati in oro. Dopo il 1887 tale commercio crollerà vertiginosamente e con esso entrerà in crisi e in coma l’intera economia sarda.

Salgono i prezzi dei prodotti del Nord protetti. Di contro crollano i prezzi dei prodotti agricoli non più esportabili. Discende bruscamente il prezzo del vino e del latte. E s’affrettano a sbarcare in Sardegna quelli che Gramsci chiama “Gli spogliatori di cadaveri”. La prima categoria di tali “spogliatori” è quella degli industriali del formaggio. “I signori Castelli – scrive Gramsci – vengono dal Lazio nel 1890, molti altri li seguono arrivando dal Napoletano e dalla Toscana. Il meccanismo dello sfruttamento (ed è un lascito della borghesia peninsulare non più rimosso) è semplice: al pastore che privo di potere contrattuale, deve fare i conti con chi gli affitta il pascolo e con l’esattore, l’industriale affitta i soldi per l’affitto  del pascolo, in cambio di una quantità di latte il cui prezzo a litro è fissato vessatoriamente dallo stesso industriale”.

Il prezzo del formaggio cresce ma va ai caseari e ai proprietari del pascolo o ai grandi allevatori non ai pastori che conducono una vita di stenti, aggravati dalle annate di siccità e dalle alluvioni:conseguenze del disboscamento della Sardegna, opera  di un’altra categoria di spogliatori di cadaveri: gli industriali del carbone. Il cui lascito per la Sardegna è la degradazione catastrofica del suo territorio. L’Isola è ancora tutta boschi. Gli industriali – soprattutto toscani – ne ottengono lo sfruttamento per pochi soldi. “A un popolo in ginocchio anche questi pochi soldi paiono la salvezza”, scrive Gramsci.

Così – continua l’intellettuale di Ales –“L’Isola di Sardegna fu letteralmente rasa suolo come per un’invasione barbarica. Caddero le foreste. Che ne regolavano il clima e la media delle precipitazioni atmosferiche”. 

Massajos ridotti in miseria dalla politica protezionista di Crispi e pastori spogliati dagli industriali caseari, s’affollano alla ricerca di un lavoro stabile nel bacino minerario del Sulcis Iglesiente. Dove troveranno altri spogliatori di cadaveri. Sono quelli che arrivano dalla Francia, dal Belgio e da Torino per un’attività di rapina delle risorse del sottosuolo. I Savoia per quattro soldi le daranno in concessione a pochi “briganti”, in genere stranieri ma anche italiani.

Essi si limiteranno – scrive Gramsci –  a pura attività di rapina dei minerali, alla semplice estrazione, senza paralleli impianti per la riduzione del greggio e senza industrie derivate e di trasformazione”.

Nel ventennio del brutale regime fascista l’economia sarda si inabisserà ulteriormente: l’Isola continuerà ad essere considerata una colonia d’oltremare. “Più volte – scrive Carta-Raspi – Mussolini aveva fatto grandi promesse alla Sardegna e aveva pure stanziato un miliardo da stanziare in dieci anni. Era stato tutto fumo, anche perché né i ras né i gerarchi e i deputati isolani osarono chiedergli fede alle promesse”.

Con la nuova Italia democratica, il colonialismo nei confronti della Sardegna continuerà: certo assumendo forme più sofisticate e meno brutali ma non per questo meno devastanti. Continuerà l’emigrazione e proprio in coincidenza con il boom economico dell’Italia degli anni ’60. L’Isola sarà utilizzata come stazione di servizio per industrie nere e inquinanti: quelle petrolchimiche in primis. Senza per altro risolvere il problema dell’occupazione. E come area di servizio della guerra (con il 65 per cento di tutte le aree militarizzate in Italia). Con i Sardi privati del proprio territorio. Con 1/5 della costa sarda – ben 437 Km – vietata alla balneazione, specie a causa delle basi militari. Ed ora lo Stato e il Governo italiano, contro l’unanime opposizione dei Sardi, vorrebbero costringere l’Isola ad essere ricettacolo delle scorie nucleari. Trasformandola in un vero e proprio muntonargiu de aliga mala. Permanente e pericolosissima.