La Letteratura sarda a Udine

 

Relazione al Convegno LIMBA>LENGHE

“Letterature della Sardegna e del Friuli si incontrano”.  

Udine 1 dicembre 2012

 

La letteratura in lingua sarda

di Francesco Casula

 

Scrive Giovanni Lilliu, il più grande intellettuale sardo degli ultimi 50 anni, archeologo di fama, storico, membro dell’Accademia dei Lincei: L’umore esistenziale del proprio essere sardo, come individui e come gruppo, in ogni momento, nella felicità e nel dolore delle epoche vissute, ha reso i Sardi costantemente resistenti, antagonisti e ribelli, non nel senso di voler fermare, con l’attaccamento spasmodico alla tradizione, il movimento della vita e della loro storia, ma di sprigionarlo il movimento, attivandolo dinamicamente dalle catene imposte dal dominio esterno.

Ebbene, pur in presenza di forti elementi di integrazione e di assimilazione, nella società, nell’economia e nella cultura  tale “umore”continua a segnare profondamente, sia pure con gradazioni diverse, oggi come ieri, l’intera letteratura in lingua sarda, che risulta così, autonoma, distinta e diversa dalle altre letterature. E dunque non una sezione o, peggio, un’appendice di quella italiana: magari gerarchicamente inferiore e comunque da confinare nella letteratura “dialettale”. Il sistema linguistico e letterario sardo infatti, come sistema altro rispetto a quello italiano, è sempre stato, come tale, indipendente e contiguo ai vari sistemi linguistici e letterari che storicamente si sono avvicendati nell’Isola, da quello latino a quello catalano e castigliano, e, per ultimo, a quello italiano, con tutte le interferenze e le complicazioni e le contaminazioni che una simile condizione storica comporta. Una situazione ricca e complessa, propria di una regione-nazione dell’Europa e del mediterraneo.

Nasce anche da qui l’esigenza di un’autonoma trattazione delle vicende letterarie sarde: ad iniziare da quelle scritte in Lingua sarda. Da considerare non “dialettali” ma autonome, nazionali sarde, vale a dire.

A questa stessa conclusione arriva, del resto, un valente critico letterario (e cinematografico) italiano come Goffredo Fofi, che nell’Introduzione a Bellas Mariposas di Sergio Atzeni (edito dalla Biblioteca dell’Identità-Unione sarda, pag.18-19) scrive:”Sardegna, Sicilia. Vengono spontanei paragoni che indicano la diversità che è poi quella dell’insularità e delle caratteristiche che, almeno fino a ieri, ne sono derivate, di isolamento e di orgoglio. E’ possibile fare una storia della letteratura siciliana o una storia della letteratura sarda, mentre, per restare in area centro-meridionale- non ha senso pensare a una storia della letteratura campana, o pugliese, o calabrese, o marchigiana, o laziale…

Il mare divide e costringe: La letteratura siciliana e la letteratura sarda possono essere studiate  come “Letterature nazionali”. Con un loro percorso, una loro ragione, loro caratteri e segni”.

Ciò almeno per due motivi:

1.Il sardo non può essere considerato un dialetto, è una lingua;

2. Difficilmente la Sardegna a causa della sua posizione decentrata e della sua peculiarissima storia, specifica e dissonante rispetto alla coeva storia  europea, segnata com’è dall’incontro con diverse culture, può essere integrata in un discorso di storia italiana.

 Da una analisi attenta della letteratura sarda potremmo vedere che dalle origini del volgare sardo fino ad oggi, non vi è stato periodo nel quale la lingua sarda non abbia avuto una produzione letteraria.

Del resto a riconoscere una Letteratura sarda è persino  un viaggiatore francese dell’800, il barone e deputato Eugene Roissard De Bellet che dopo un viaggio nell’Isola, in La Sardaigne à vol d’oiseau nel 1882 scriverà :”Si è diffusa una letteratura sarda, esattamente  come è avvenuto in Francia del provenzale, che si è conservato con una propria tradizione linguistica”

Certo, qualcuno potrebbe obiettare, che essa, rispetto ad altre lingue romanze, ha prodotto pochi frutti. E’ questa  – per esempio – la posizione dello stesso Gramsci, che dopo aver detto una sacrosanta verità “ il sardo non è un dialetto, ma una lingua a sé”, afferma che esso non ha prodotto “ una grande letteratura”.

In realtà Gramsci non conosce la letteratura sarda: e per molti versi, non poteva neppure conoscerla, dati i tempi e le condizioni storiche – e personali – in cui viveva e operava. E non la conosciamo appieno neppure oggi tanto che è urgente una grande operazione di scavo e di recupero del nostro patrimonio letterario, molto del quale è ancora inedito, numerosissimi testi sono ancora ignorati dagli stessi  critici o sepolti in biblioteche e in archivi privati e pubblici. E occorre tener conto non solo dei testi scritti ma anche di quelli orali – abbondantissimi – quando ne siano recuperate le testimonianze.

Faccio solo un’esempio: abbiamo potuto conoscere Giovanni Matteo Garipa,  – non lo conosceva neppure Wagner – solo recentemente, grazie alla ripubblicazione della sua opera su Legendariu de Santas Virgines et Martires de Jesu Cristu (1627) da parte dalla casa editrice Papiros di Nuoro nel 1998 con l’introduzione di Diego Corraine e la presentazione di Heinz Jürgen Wolf  e Pasquale Zucca. Eppure si tratta del più grande scrittore in lingua sarda del secolo XVII  (1575/1585-1640). Eppure molti motivi avrebbero dovuto spingere gli studiosi a conoscere e valorizzare il Garipa, ma soprattutto due:

1.la tesi del sacerdote orgolese, oggi quanto mai attuale, della necessità dell’insegnamento della lingua sarda – definita “limba latina sarda” come prerequisito per il corretto apprendimento, da parte degli studenti, anche delle altre lingue;

2.la sua convinzione che fosse urgente dotare la Sardegna di una tradizione letteraria «nazionale» sarda, ossia, come si direbbe oggi, di una lingua letteraria uniformemente usata in tutto il territorio dell’Isola e sorretta da un repertorio di testi in grado di competere con quelli delle altre lingue europee.

E’ stato anche obiettato che la lingua sarda ha prodotto “cultura bassa”. Rispetto a questa accusa occorrerebbe finalmente iniziare a liquidare certi equivoci gerarchici sulla cultura e sulle sue forme, per cui ci si attarda ancora a parlare di cultura “alta” e cultura “bassa”, di cultura “materiale” (miniere, artigianato, agricoltura, pastorizia, turismo) inferiore e subordinata alla cultura “immateriale” (lingua, letteratura, arte, musica, diritto ecc. ecc) o di cultura orale inferiore alla cultura “scritta” e dunque meno degna di essere conosciuta e studiata. La cultura, senza gerarchie, deve essere intesa in senso antropologico, ovvero nei valori sottostanti alle scelte collettive e individuali e quindi agli ideali che orientano i comportamenti, con particolare riferimento a quelli sociali.

Anche il termine “letteratura”, secondo il dettato dei più moderni e aggiornati orientamenti di studi, va inteso nel senso di scrittura o produzione di opere di cultura che occupano spazi non tradizionali quali gli atti giuridici, le costituzioni politiche, la poesia e la tradizione orale e finanche le opere di carattere didascalico o divulgativo per le quali veniva usata la lingua sarda al fine comunicare meglio con il popolo. Penso ai Catechismi come ai Manuali medici-scientifici (ricordo a questo proposito Brevis lezionis de ostetricia po usu de is levatoras de su regnu de su rettori chirurgu collegiali Efis Nonnis).

Ma anche dato e non concesso che la lingua sarda abbia prodotto poco, si poteva pensare che un cavallo per troppo tempo tenuto a freno, legato  imbrigliato e impastoiato potesse correre e correre velocemente? La lingua sarda, certo, deve crescere, e sta crescendo: ha soltanto bisogno che le vengano riconosciuti i suoi diritti, che le venga proprio riconosciuto il suo “status” di lingua, e dunque le opportunità per potersi esprimere, oralmente e per iscritto, come avviene per la lingua italiana.

La Lingua sarda, dopo essere stata infatti lingua curiale e cancelleresca nei secoli XI e XII, lingua dei Condaghi e della Carta De Logu, con la perdita dell’indipendenza giudicale, viene infatti ridotta al rango di dialetto paesano, frammentata ed emarginata, cui si sovrapporranno prima i linguaggi italiani di Pisa e Genova e poi il catalano e il castigliano e infine di nuovo l’italiano.

Contrariamente a ciò che comunemente si dice e si pensa da parte degli stessi sardi, la letteratura in Sardo che l’isola ha espresso nei secoli, oltreché variegata nei diversi generi, è ricca di opere e di autori anche quando superata la fase esaltante del medioevo, all’indomani della sconfitta del regno di Arborea, mancando un centro politico indipendente, le lingue dominanti (catalano, castigliano e infine italiano) assunsero via via il ruolo di lingue ufficiali accolte in toto dal ceto dirigente isolano. La lingua sarda restò praticata dai cantori che diedero vita a una lunga tradizione poetica orale, ma anche da scrittori con riflessi di tipo colto.
Nei secoli si succedettero tentativi, da parte degli intellettuali sardi più vicini al popolo (in particolare uomini di Chiesa), di normalizzare l’uso scritto della lingua. Uno sforzo ancora oggi attuale, nel momento in cui, per effetto di una nuova coscienza linguistica, si è assistito alla nascita della prosa narrativa in lingua sarda.

Occorre comunque sottolineare che è soprattutto a partire dall’ultima metà del Novecento che i poeti e gli scrittori in lingua sarda hanno offerto risultati non solo quantitativamente ma anche qualitativamente risultati di grande rilievo.

Recentemente sono stati censiti, in modo rigoroso – vedi Antoni Arca (in Benidores, Literatura, limba e mercadu culturale in Sardigna, Condaghes editore, Cagliari 2008) i libri di narrativa in lingua sarda pubblicati in meno di 30 anni: fra cui più di 1000 romanzi: in tutte le varianti e anche in Limba sarda comuna: ricordo fra tutti Sa losa de Osana (La stele di Osana) del compianto Gianfranco Pintore, scomparso recentemente.

Ebbene nei primi dieci anni (1980-1989) le pubblicazioni sono state 22, fra cui 11 romanzi.

Nei secondi dieci anni (1990-1999) le pubblicazioni sono più che raddoppiate: dalle 22 del primo decennio passano a 57.

Nei terzi dieci anni (2000-2007) le opere narrative in sardo sono ben 107. E da quell’anno sono ancora cresciute enormemente.

Certamente ci sono anche opere modeste e persino mediocri – come in tutte le lingue! – ma molte sono di spessore e di gran vaglia. Segnatamente quando gli autori esprimono una condizione specifica sarda, per ottica e palpitazioni, per weltanschaung, per il modo con cui intendono e contemplano la vita e per tante altre cose, razionali e irrazionali, che derivano dai misteri e dalle iniziazioni dell’arte, compresa la nostalgia, che, a dispetto dei politici «realisti», come dice Borges, è la relazione migliore che un uomo possa avere con il suo paese.

Ovvero quando la produzione letteraria esprime una specifica e particolare sensibilità locale, “una appartenenza totale alla cultura sarda, separata e distinta da quella italiana” diversa dunque e “irrimediabilmente altra”, come scrive il critico sardo Giuseppe Marci.

O ancora – come scrive Antonello Satta – quando “gli autori sappiano andare per il mondo con pistoccu in bertula, perché proprio in questo andare per il mondo, mostrano le stimmate dei sardi e, quale che sia lo scenario delle loro opere, vedono la vita alla sarda”.

Conferenza di Francesco Casula su Sigismondo Arquer a Flumini di Quartu il 29-11-2012

(il testo che segue è tratto da LETTERATURA E CIVILTA’ DELLA SARDEGNA, Volume I, (Edizioni Grafica del Parteolla) di Francesco Casula.

SIGISMONDO ARQUER

Lo scrittore vittima dell’Inquisizione  e condannato al rogo in Spagna (1530-1571)

Sigismondo Arquer nasce a Cagliari nel 1530, studia teologia e legge nell’università di Pisa dove nel maggio del 1547 consegue la laurea in Diritto civile e canonico, mentre nell’università di Siena si laurea in Teologia. Tornato in Sardegna diviene avvocato del fisco a Cagliari. Nel settembre del 1548 lascia di nuovo l’Isola per recarsi presso il re Carlo I (Carlo V imperatore) a Bruxelles, a perorare la causa della sua famiglia alla quale erano stati posti sotto sequestro i beni.

   Durante un breve soggiorno a Basilea, su invito di Sebastian Münster, geografo, cartografo e di fede luterana presso il quale era ospite, scrive una monografia sulla Sardegna Sardiniae brevis historia et descriptio, cui era allegata una carta dell’isola e una veduta di Cagliari (Tabula corographica insulae ac metropolis illustrata), che viene inserita nella Cosmografia scritta dallo stesso Münster. La parte composta dall’Arquer  fu pubblicata nell’edizione del 1550, ma la stesura più nota in Italia è quella del 1558, riportata nelle Antiquitates Italicae Medii Evi di Ludovico Muratori. Il libro dell’Arquer sulla Sardegna fu inserito anche da Domenico Simon, insigne giurista e letterato algherese del secolo XVIII, nel suo Rerum Sardoarum Scxiptores, stampato a Torino nel 1778.

  Sulla figura dell’Arquer scrissero, tra gli altri, anche gli storici sardi Pasquale Tola, Pietro Martini e Giuseppe Manno. La Breve storia della Sardegna, rappresenta  la più antica descrizione dello stato e dei problemi dell’Isola in cui l’Arquer traccia anche un ritratto censorio del corrotto clero del tempo. La descrizione che egli presenta della condizione dei religiosi cagliaritani dell’epoca non è diversa da quella che espose nel 1562 l’Arci­vescovo Antonio Parragues de Castillejo, ma per tale censura l’Arquer incorse nelle ire dell’Inquisizione spagnola, è accusato di luteranesimo e incarcerato a Toledo nello stesso anno 1562. Riesce ad evadere, ma non può uscire dalla Spagna perché vengono inviate a tutte le frontiere le indicazioni sulla sua persona, per cui è imprigionato una seconda vol­ta.

L’Arquer sostiene appassionatamente la sua innocenza ed in carcere scrive un’autodifesa  in  lingua castigliana, la Passione. Il poema –che segna l’inizio della drammaturgia religiosa in Sardegna- si compone di 45 strofe, ognuna delle quali comprende dieci versi ottosillabi con rima assonante mista, ossia baciata e alternata. Il manoscritto del poema sulla Passione fu rinvenuto nel 1953 fra le carte del processo a carico di Arquer presso “l’Archvio Historico Nacional” di Madrid da Francesco Loddo e Alberto Boscolo, studiosi di storia sarda, durante un loro viaggio nella capitale spagnola, che lo pubblicarono nel volume XXIV dell’Archivio storico sardo. Nel poema l’Arquer esalta la passione di Gesù Cristo così simile alla sua, ma i suoi nemici cagliaritani, tra i quali vi erano gli Aymerich e gli Zapata, intrigheranno contro di lui raccogliendo prove tali da accelerarne la fine. Egli sosterrà sempre la propria innocenza ed anzi si dichiarerà martire della vera fede, schernendo quegli stessi ministri del culto che lo esortavano al pentimento. Per questo, durante il terribile “auto da fé” (l’espressione deriva dal portoghese e significa atto della fede), ossia la proclamazione pubblica della sentenza, lo si metterà alla sbarra prima che venisse addossato al palo, ed i carnefici vedendo che non solo non si pentiva ma che anzi esaltava il suo martirio, lo trafiggeranno con le lance e lo getteranno poi nel rogo degli eretici. Così morirà nel il 4 Giugno del 1571 a Toledo, dopo sette anni e otto mesi di detenzione.

La sua figura “assai complessa e conflittiva e di dimensione europea” –la definisce Marcello Maria Cocco, studioso dell’Arquer- e la sua opera, ignorata dagli scrittori sardi contemporanei e pressoché sconosciuta fino alla metà del ‘700, quando ne parlerà Ludovico Muratori-  verrà riscoperta e riproposta nell’800 con un triplice atteggiamento nei suoi confronti: di compassione per la sua tragica fine; di indispettita disapprovazione per le sue critiche impietose formulate nella Sardiniae brevis istoria; di ammirazione per la incisività e la concisione della sua prosa ma soprattutto per il sacrificio della sua vita che segna il trionfo della libertà di coscienza.

Lo storico Dionigi Scano, autore dello studio più ampio sull’Arquer, sostiene che il luteranesimo non fu che un pretesto di cui si servì la classe nobiliare cagliaritana per disfarsi di un terribile avversario. E sarebbe dunque la Cagliari della prima metà del ‘500, con i suoi odi e le lotte intestine a segnare la fine drammatica di Sigismondo Arquer. 

 

Presentazione del testo [tratto dal cap. VII dell’opera  Sardiniae brevis historia et descriptio, testi, traduzione e note a cura di Cenza Thermes, Ed. Gianni Trois, Cagliari 1987, pag.30].

L’opera scritta da Sigismondo durante il soggiorno basileense dal 21 Aprile al 5 Giugno del 1549, è un brevissimo saggio di 12 pagine articolato in sette paragrafi, redatto in un latino di rara  raffinatezza, chiaro, semplice ed elegante. Si tratta di un’opera informativa più che storica da cui emerge un agile ritratto della Sardegna del tempo, corredato da buone illustrazioni quali la carta dell’Isola, la riproduzione del muflone e la pianta schematica di Cagliari.

Poche pagine ma fitte di notizie, spesso di prima mano, di giudizi critici su alcune credenze superstiziose, di indagini sui problemi della lingua dei sardi, che confronta con il catalano e il latino, portando ad esempio una trascrizione del Pater Noster in queste tre lingue.

Particolarmente interessanti il quadro che offre della fauna della Sardegna, le informazioni sulle terme, sulle miniere, sulle saline. Più discutibili invece le brevi note sulle antiche vicende storiche che si rifanno alle fonti classiche, che affondano abbondantemente le loro radici nelle leggende e nei miti. Non manca un accenno alla validità e bontà della Carta de Logu di Eleonora d’Arborea, la Costituzione della Sardegna in vigore dal 1392 e nel capitolo VII, un quadro, riportato nel testo, che riguarda le magistrature, le condizioni della religione, della cultura, della morale in genere nonché delle condizioni economiche che si riflettono nell’uso del vestiario più o meno di lusso.

Il “librillo” –così lo chiama l’autore- è privo di organicità e anche piuttosto frammentario tanto che l’Arquer, conscio dell’incompletezza, ci fa sapere che nutre il proposito di scrivere una più completa storia dei Sardi, “Si dominus requiem e ocium dederit” (Se il Signore ci darà pace e tempo libero). Pace e tempo libero che purtroppo gli mancarono. In ogni caso La qualità intrinseca dell’opera, unita al prestigio della collocazione nella quale apparve, fanno della Sardiniae brevis historia et descriptio una pietra miliare nel panorama delle lettere isolane, anche perché si tratta dell’archetipo di una serie di scritti del genere letterario storico-descrittivo, destinato ad affermarsi con i secoli nella cultura isolana.  

 

DE MAGISTRATIBUS, INCOLARUM NATURA, MORIBUS, LEGIBUS ET RELIGIONE

 “[…] Ecclesiastici magistratus in Sardinia sunt constituti iuxta papae decreta. Nam sunt in ea tres archiepiscopi, nempe Calaritanus, Arborensis et Turritanensis seu Sassarensis, qui et nonnullos sub se habent episcopos. Est quoque ibi inquisitor generalis contra haereticos, apostatas et maleficos, secundum Hispaniae mores et constitutiones, ultra ea quae iure communi Imperato­rum et pontificum inquisitoribus sunt concessa. Habet iste immensa privilegia, nec quenquam praeter Hispa­niae supremum inquisitorem, cuius est delegatus, agno­scit superiorem in Sardinia. Constituit ipse quoque sub se alios inquisitores et ministros, quorum omnium iudex ipse est, qui tanta severitate contra suspectos procedunt, ut paucis verbis exprimi nequeat. Nam miseros homines multis annis in carcere detinent, examinant et torquent priusquam eos vel damnent vel absolvant. Habent autem de his rebus libros impressos, ut Malleum malefica­rum, Directorium inquisitorum et nonnullos alios, item instructiones secretas et multa alia quae ex ipsorum pendent arbitrio.

Habent praeterea Sardi et Cruciatae commissarium, qui nullum praeter Romanum pontificem agnoscit superio­rem, etc.

Caeterum quantum attinet ad mores et naturam Sardo­rum, noveris eos esse corpore robustos, agrestes et laboribus assuetos, praeter paucos luxui deditos: literarum studio parum sunt intenti, venationi autem deditissimi sunt. Multi pecuariam faciunt rem, agresti cibo et .aqua contenti. Qui in oppidi et villis habitant, pacifice inter se vivunt, advenas amant, et humaniter tractant. Vivunt in diem, vilissimoque vestiuntur panno. Bella nulla ha­bent, neque multa arma. Et quod mirandum est, nullum habent artificem in tam ampia insula, qui enses, pugio­nes et alia fabricet arma, sed haec petunt ex Hispania et Italia. Utuntur plerunque balistis, maxime in vena­tionibus. Et si quando piratae, Turcae aut Afri illuc veniunt praedam abacturi, facile a Sardis in fugam vertuntur aut captivi detinentur. Sunt Sardi optimi equites, sunt ob solis ardorem subfusci coloris, vivunt bene secundum legem naturae, optime victuri, si sin­ceros haberent verbi Dei praecones.

Cum rustici diem fe­stum alicuius sancti celebrant, audita missa in ipsius sancti templo, tota reliqua die et nocte saltant in templo, prophana cantant, choreas viri cum foeminis ducunt, porcos, arietes et armenta mactant, magnaque laetitia in honorem sancti vescuntur carnibus illis. Sunt etiam multi qui pecus aliquod saginant in hono­rem certi alicuius sancti, ut illud in fano eius potissimum in sylvis extructo, et festa die devorent. Et si familia minor fuerit ad esum pecoris, convocant et alios ad con­vivium illud quod in fano celebrant, ne quid residui maneat. Foeminae rusticorum valde honestae sunt in vestitu, omnem escludentes pompam at urbanae di­vitiis abundantes, abutuntur illis in magnam super­biam.

Sacerdotes indoctissimi sunt, ut raros inter eos, sicut et apud monachos, inveniatur, qui latinam intelligat linguam. Habent suas concubinas, maioremque dant operam procreandis filiis quam legendis libris”.

Nota

1.Sull’Inquisizione in Sardegna, Raffa Garzia –in Gerolamo Araolla, Stabilimento poligrafico italiano, Bologna 1914, pag.24-25- scrive : “Non è da dubitare della parola dello storico cagliaritano; eppoi sappiamo effettivamente di atti di tortura e di autos da fè in Sassari…ma merita attenzione il fatto che cioè non ci sia giunto notizia di efferatezze; abbiamo pur saputo dall’Arquer: perché non d’altri? E si badi: che il rogo per questi fu acceso a Toledo: pare che egli sia stato tratto in Ispagna con inganno, nonostante che le accuse venissero fatte nell’Isola e che qui si compisse anche l’istruttoria; ciò mi fa credere che gli Spagnuoli si astenessero prudentemente nell’isola da quelli atti di feroce fanatismo che han reso tristamente celebri i nomi del Torquemada, dello Ximenes Cisneros, del Valdès e di tanti altri”. 

Traduzione

MAGISTRATURE, NATURA DEGLI ABITANTI, LORO COSTUME, LEGGI E RELIGIONE

 […] Le cariche ecclesiastiche in Sardegna sono regolate secondo i decreti del Papa. Infatti vi si trovano tre arci­vescovi, a Cagliari, Arborea e Torres o Sassari, i quali hanno sotto di sé alcuni vescovi. Vi è pure un inqui­sitore generale contro gli eretici, gli apostati e gli stregoni, come av­viene in Spagna, al quale sono con­cessi altri diritti, oltre quelli che, per norma generale voluta dai re e dai papi, sono concessi agli altri inqui­sitori. Gode di grandissimi privilegi e non ha sopra di sé nessuno all’in­fuori del supremo inquisitore di Spa­gna, del quale è delegato. Nessuno in Sardegna può contare più di lui. Egli, per suo conto, nomina, come suoi dipendenti, altri inquisitori e funzionari, dei quali è giudice; co­storo agiscono contro chi è sospet­tato, con tanta durezza che non è possibile accennarne solo con poche parole. Infatti, tengono in carcere per molti anni dei poveri infelici, e li interrogano e li sottopongono a torture prima di decidere se devono condannarli o assolverli. Hanno an­che, per esercitare le loro funzioni, dei libri, come il Malleum malefica­rum, il Directorium inquisitorum e alcuni altri volumi. Inoltre hanno del­le istruzioni segrete e molte altre disposizioni che interpretano secondo il loro personale giudizio. I Sardi hanno anche un Commissarium Crociatae1, che non ha alcun superiore, oltre il pontefice, ecc. Infine, per quanto riguarda i costumi e la natura dei Sardi, dirò che essi son robusti, per lo più rudi e avvez­zi alla fatica, all’infuori di pochi che si abbandonano al lusso; son poco dediti allo studio delle lettere, men­tre amano moltissimo la caccia. Mol­ti sono pastori e a loro bastano cibo agreste e acqua. Quelli che abitano nei borghi e nei villaggi, vivono tran­quilli e sono ospitali e gentili; vivo­no alla giornata e vanno vestiti di poverissimo panno; non conoscono guerra ed hanno anche poche armi; ciò che è ancora più straordinario è il fatto che, in un’isola così vasta, non vi è chi fabbrichi spade, pugnali e altre armi; ma queste vengono dalla Spagna e dall’Italia. I Sardi si servono invece di frecce, soprattutto quando vanno a caccia. Ma se tal­volta sbarcano nell’isola, per far pre­da, pirati turchi o africani, vengono subito volti in fuga dai Sardi o son fatti prigionieri.

Gli isolani son ottimi cavalieri e di colorito bruno a causa del sole ar­dente; vivono onestamente, secondo le leggi di natura, e meglio vivreb­bero se avessero degli onesti pre­dicatori della parola di Dio.

Quando i contadini celebrano qual­che festa, dopo la Messa, per tutto il resto della giornata e della notte ballano -uomini e donne- dentro la chiesa del Santo, cantando canzoni profane; inoltre uccidono maiali, montoni e buoi e mangiano allegra­mente di queste carni in onore del Santo. Vi sono anche di quelli che ingrassano qualche maiale in onore di un santo, per poterlo poi mangiare durante la festa, spesso in una chie­sina costruita fra i boschi. E se la famiglia non è tanto numerosa da poter consumare tutta quella carne, perché non ne avanzi, invitano altre persone al banchetto che si fa den­tro la chiesa stessa. Le donne cam­pagnole sono modestissime nel ve­stire che non ostenta lussi; ma le signore delle città, che son ricchis­sime, abusano del fasto e del lusso, ostentandoli superbamente. I sacer­doti sono ignorantissimi al punto che è raro trovarne tra essi, come tra i monaci, uno che conosca il latino. Vivono con le loro concubine e si danno con più impegno a mettere al mondo figli che a dedicarsi alla lettura.

Nota

1. Con bolla della crociata, ottenuta dalla Spagna ed estesa alla Sardegna. Si trattava di un funzionario che si occupava della raccolta dei fondi per la lotta contro gli infedeli, che venivano però adibiti anche ad altri usi.

Giudizi critici

Scrive Pietro Martini a proposito dell’opera Sardiniae brevis historiae dell’Arquer, denominato storico, letterato e uomo illustre: “Egli è vero che questa scrittura è molto leggiera e si limita a poche pagine: pure è degna di ricordo per la ragione specialmente che è il più antico lavoro sulle cose di Sardegna di cui si abbia memoria”.

[Biografia sarda di Pietro Martini, Ed. Reale stamperia, Cagliari 1837, pag.69].

 

Mentre per un altro storico sardo, Pasquale Tola, “L’Arquer è esattissimo nella descrizione delle produzioni naturali della Sardegna: ma in tutto il libro fa un ritratto così misero dei costumi sardi, che sembra il censore anziché il narratore delle cose della sua patria”.

[Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna di Pasquale Tola, Ed. Chirio e Mina, Torino 1836738, pag. 92].

ANALIZZARE

Nel passo che si riporta, particolarmente inquisite furono le parole rivolte al clero sardo, parole che le indagini storiografiche moderne hanno confermato essere veritiere non solo per il clero isolano, ovvero che  “Sacerdotes indoctissimi sunt, ut rarus inter eos, sicut et apud monachos, inveniatur, qui latinam intelligat linguam. Habent suas concunbinas, maioremque dant operam procreandis filiis quam legendis libris » (I Sacerdoti sono ignorantissimi al punto che è raro trovarne fra essi, come tra i monaci, uno che conosca il latino. Vivono con le loro concubine e di danno con più impegno a mettere al mondo figli che a dedicarsi alla lettura).

Ma sono altrettanto dure le parole con cui denuncia gli inquisitori che “tengono in carcere per molti anni dei poveri infelici e li interrogano e li sottopongono a torture prima di decidere se devono condannarli o assolverli”.

Nello stigmatizzare il clero ignorante e lascivo come nel denunciare, con atteggiamento critico, la violenza inquisitrice, l’Arquer fa sua la critica tardo medievale alla condizione ecclesiastica ed è partecipe del patrimonio ideale della nuova fede, forse acquisito nell’ambiente pisano ove, durante l’Università, il giovane studioso si era intellettualmente formato.

Proprio negli anni universitari (1544-1547) Sigismondo frequentando ambienti religiosi eterodossi entrò in contatto con quella cultura tutta italiana, che dopo aver subito il fascino del luteranesimo elaborò una sensibilità e una dottrina religiosa fondata sulla profonda interiorizzazione  e sulla libera interpretazione delle sacre Scritture, secondo una “sapientia” che non tollerava pregiudizi né dogmi nel suo procedere verso una “pietas” intesa come perfezione spirituale: Savonarola, Erasmo da Rotterdam, Lutero, Calvino, Valdés influenzarono grandemente lo “spiritualismo italiano” di quel periodo e lo stesso Arquer.

Il compendio è scritto in latino, la lingua scritta che gli era più congeniale. E la prosa risulta, nella sua classicità, sintetica, nuda,  robusta ed essenziale.

FLASH DI STORIA-CIVILTA’

Arquer plurilinguista

L’Arquer usava un latino di rara raffinatezza, chiaro, conciso, semplice ed elegante: tacitiano insomma. Conosceva bene, oltre che il latino, il sardo, il castigliano e l’italiano, come dimostrano le sue Lettere a Gaspar Centelles e le Coplas a l’imagen del Crucifixo, (Strofe a immagine di Cristo, contenute nella Passione), composte durante la prigionia a cui fu sottoposto durante il lunghissimo processo per eresia.

Arquer scrive però solo in latino, in italiano e in castigliano, non ci sono pervenute invece testimonianze scritte nelle sue due lingue madri ovvero in catalano e in sardo, (tranne, in quest’ultima lingua, che il  Babbu nostru “Padre nostro” contenuto nella Descriptio Sardiniae). Tuttavia dichiara che tutti i processi era solito redigerli in catalano “la lingua de mi tierra” (la lingua della mia terra).

La lingua scritta che gli era più congeniale era però certamente il latino, il compendio Sardiniae brevis historiae infatti è sempre stato ammirato per la classicità della sua prosa, che risulta –come abbiamo già detto- sintetica, nuda robusta ed essenziale.

Sulla lingua sarda scrive che: corrupta fuit multum lingua eorum, relictis (ne rimase corrotta poiché nell’Isola sopraggiunsero diversi popoli) etiamsi ipsi mutuo sese recte intelligant ( ma i Sardi fra loro si intendono ugualmente bene).

Aggiunge specificando che nell’Isola due sono le lingue principali che si parlano: una è quella usata nelle città, l’altra è quella usata fuori di essa. Infatti nelle città si parla quasi dovunque la lingua spagnola, tarragonese o catalana, che gli abitanti hanno appreso dagli Spagnoli, che quasi sempre vi tengono i posti di comando, gli altri mantengono intatta la lingua sarda.

I catalanismi e gli ispanismi presenti nel sardo sono numerosi e riguardano la vita sociale, l’amministrazione dello stato, i cerimoniali religiosi, le arti e i mestieri, la vita quotidiana, l’abbigliamento, la gastronomia, l’oggettistica, la nomenclatura delle piante, la medicina e più in generale i modi di dire e quindi, almeno in certa misura, i modi di pensare. Si può conclusivamente affermare con Wagner che l’elemento catalano spagnolo è, naturalmente dopo il latino, di gran lunga il più importante del sardo. 

 

– Il multilinguismo nella Sardegna del ‘500/’600

Sigismondo Arquer rappresenta emblematicamente ed esprime il multilinguismo presente in Sardegna nel ‘500/’600: occorre infatti ricordare che insieme all’Arquer nel Cinquecento in Sardegna scrittori come Antonio Lo Frasso, Girolamo Araolla, Pietro Delitala, utilizzano con intenti letterari una o più lingue delle almeno quattro comunemente usate. “I destinatari– scrive Nicola Tanda sono evidentemente diversi. Scrive in sardo chi intende comunicare con un lettore intermediario che lo possa mettere in comunicazione con un pubblico di parlanti sardo, di solito il clero che ha saputo stabilire un’immedesimazione con le popolazioni parlandone la lingua. Lo spagnolo e l’italiano mettono in comunicazione con ambiti di cultura più allargati e consentono un colloquio più stretto e privilegiato con le istituzioni e con il potere”.

Arquer conosce il sardo e il catalano –che apprende in famiglia, da ricordare che l’Arquer era di origine spagnola- l’italiano che apprende e approfondisce a Pisa, il castigliano che impara in seguito, durante la lunga permanenza a corte in Spagna. Essa è la lingua ufficiale scritta, insieme al Latino, quest’ultima  specie all’interno della Chiesa.

Ha dunque due lingue madri: il catalano e il sardo, appartenenti alla sfera dell’oralità, mentre il latino, italiano e castigliano vengono impiegati nella scrittura, con una diversità di funzioni: il castigliano che utilizzerà per scrivere “Passione” e altre brevi preghiere, finirà col diventare “la lingua para hablar con Dios” (la lingua per parlare con Dio), come diceva Carlo V; mentre il latino, che utilizzerà nell’Historia, sarà la lingua scritta che gli è più congeniale. 

 

Letture

1. De Sardorum lingua [testo tratto da Sardiniae brevis istoria et descriptio di Sigsmondo Arquer a cura di Cenza Thermes, Gianni Trois editore, Cagliari 1987, pag. 29]

“Habuerunt quidem Sardi olim linguam propriam; sed quum diversi populi immigraverint in Insulam atque ab exteris principibus eius imperium usurpatum fuerit, nempe Latinis, Pisanis, Genuensibus, Hispanis et Afris, corrupta fuit multum lingua eorum, relictis, tamen plurimis vocabulis; quae in nullo inveniuntur idiomate. Latini sermonis aduc multa tenet vocabula, praesertim in Barbariae montibus, ubi Romani Imperatores militum habebant praesidia, ut L.ij.C. de officio praefecti prae. Afric.

 Hinc est quod Sardi in diversis locis tam diverse loquuntur,  iuxta quod tam varium habuerunt imperium; etiamsi ipsi mutuo sese recte intelligant. Sunt autem duae praecipuae in ea Insula linguae, una. qua utuntur in civitatibus, et altera qua extra civitates.

Oppidani loquuntur fere lingua Hispanica, Tarraconensi seu Catalana, quam. didicerunt ab Hispanis, qui plerumque magistratum in eisdem gerunt civitatibus: alii vero genuinam retinent Sardorum linguam, Eu habes utrìusque linguae discrimen in domenica oratione”.

Traduzione

La lingua dei Sardi

Un tempo i Sardi ebbero una lingua propria, ma poiché nell’isola soprag­giunsero diversi popoli e la terra sarda fu dominio di signorie stra­niere, come quelle dei Latini, dei Pisani, dei Genovesi, degli Ispanici e degli Africani, la lingua ne rimase corrotta, sebbene tuttora vi si tro­vino moltissimi vocaboli che non e­sistono in nessun’altra lingua. Ci re­stano molte parole latine, soprattut­to nei monti della Barbagia, dove gli imperatori romani stanziarono i loro presidi, come è detto nel libro II C. De officio prae. Afric.

Da quanto ho detto precedentemen­te, ne è derivato il fatto che i Sardi, nei diversi luoghi, parlano lingue tan­to diverse, a seconda dei dominato­ri; ma fra di loro si intendono bene.

Nell’isola, due sono le lingue prin­cipali: una è quella usata nelle cit­tà, l’altra è quella usata fuori di esse. Infatti, nelle città si parla quasi do­vunque la lingua spagnola, tarrago­nense o catalana, che gli abitanti hanno appreso dagli Spagnoli, che quasi sempre vi tengono i posti di comando; gli altri mantengono intatta la lingua sarda. Ecco, dunque, un esempio dell’una e dell’altra lingua, in una preghiera rivolta al Signo­re. 

2. Il Padre nostro trilingue: in latino, catalano e sardo [testo tratto da Sardiniae brevis istoria et descriptio di Sigsmondo Arquer a cura di Cenza Thermes, Gianni Trois editore, Cagliari 1987, pag. 41]

Pater noster qui es in coelis sanc­tificetur nomen tuum. Adveniat

Pare nostre che ses en los cels sia santificat lo nom teu. Venga

Babu nostru sughale ses in sos che­ius santu siada su nomine tuo. Ben­giad

regnum tuum, fiat voluntas tua sicut in coelo et in terra:

lo regne teu, fasase la voluntat tua axicom en lo cel i en la terra:

su rennu tuo, faciadsi sa voluntade tua comenti in chelo et in sa terra:

Panem nostrum quotidianum da nobis hodie, et dimitte nobis

lo pa nostre cotidià dona a nosaltres hui, i dexia a nosaltres

su pane nostru dogniedie dona a no­sateros hoae, et lassa a nosateros 

debita nostra, sicut et nos dimittimus debitoribus nostris, et ne

los deutes nostres, axicom i nosal­tres dexiàm als deutors nostres, i no

is debitus nostrus, comente e nosa­teros lassaos a is debitores nostrus, e no

inducas in tentationem, sed libera nos a malo, quia tuum est

nos induescas en la tentatio, mas livra nos del mal perché teu es

nos portis in sa tentatione, impero libera nos de su male, poiteu tuo esti

regnum, gloria et imperium, in secula seculorum amen.

Su rennu, sa gloria e su imperiu in sos seculos de sos seculos, amen. 

 

COMPRENDERE E VALUTARE

Altre attività didattiche per lo studente

Approfondimenti

-Il problema della “tortura” da parte della Inquisizione ecclesiastica: approfondisci, illustra e motiva le tue opinioni.

-Precisa, illustra e approfondisci il tuo pensiero in merito al giudizio che esprime l’Arquer sulla cultura e la moralità dei preti.

-Inquadra il testo riportato nel periodo storico in cui è stato scritto accennando in particolare al tema dell’Inquisizione.

Confronti

-La condanna al rogo di Arquer (1571) e la condanna al rogo di Giordano Bruno (1598): individua e illustra possibili analogie e differenze.

Ricerche (anche a mezzo Internet)

-Servendoti anche di Internet, registra le opere ispirate dalla vicenda tragica dell’Arquer, sia nel campo letterario che teatrale in Sardegna.

Spunti vari

-Riassumi i costumi e la natura dei sardi, così come emergono dal testo.

Bibliografia essenziale

Opere dell’Autore

Sardiniae brevis historia et descriptio, traduzione e note a cura di Cenza Thermes, Ed. Trois,Cagliari 1987.

Lettere, in Sigismondo Arquer, dagli studi giovanili all’autodafè, Marcello Maria Cocco, Ed. Castello, Cagliari 1986.

Passione, in Sigismondo Arquer e la “Passione”, a cura di Marisa Cocco Angioy, Tip. Operai, Cagliari 1986.

Opere sullAutore:

– Sergio Bullegas, Il teatro in Sardegna fra Cinque e Settecento,da Sigismondo Arquer ad Antioco del’Arca, Ed. Edes, Cagliari 1976.

  Marcello Maria Cocco, Sigismondo Arquer, dagli studi giovanili all’autodafè, Ed. Castello, Cagliari 1986.

  Salvatore Loi, Sigismondo Arquer, un innocente sul rogo dell’Inquisizione, AM&D ed. Cagliari 2003.

– Frantziscu Casula-Marco Sitzia, Sigismondo Arquer, Alfa editrice, Quartu, 2008.

 

 

 

A Biella un Convegno internazionale sulle Lingue dei popoli

Si terrà a Biella il 24 novembre un Convegno internazionale sulle Lingue dei popoli. Ecco il programma e i relatori.

 

 

 

 

TITLE / TITRE / TITOLO

LINGUE DEI POPOLI

LANGUES DES PEUPLES

MOTHER TONGUES OF THE EARTH

 

Colloquio internazionale sulle lingue ancestrali

Biella, Sabato, 24 novembre 2012, Sede Associazione Sardi di Biella

 

Colloque international sur les langues ancéstrales

Biella, Samedi, le 24 novembre 2012, Siège de l’Association Sardes de Biella

 

International Symposium on Ancestral Languages

Biella, Saturday, November 24th, 2012, Home of the Sardinian Association of Biella

 

LINGUE DEI POPOLI

LANGUES DES PEUPLES

MOTHER TONGUES OF THE EARTH

 

Mentre le lingue dei popoli continuano a morire al preoccupante ritmo di centinaia all’anno, l’opinione pubblica mondiale si accentra sempre di più sull’apprendimento di lingue-codice che facilitino commercio e scambi su scala mondiale.

Bisogna incoraggiare con ogni mezzo l’apprendimento delle lingue mondiali, ma al contempo constatare che si sta perdendo il senso e la conoscenza del fenomeno “lingua” come dimensione storica e ancestrale.

Si impone un dialogo sul significato, sul ruolo e sull’importanza delle lingue dei popoli.

Il convegno di Biella è concepito per dare voce ad alcuni dei più aggiornati portavoce nel campo della conservazione e rivitalizzazione linguistica, con particolare riferimento alle lingue regionali e ancestrali italiane, europee e nordamericane.

 

Tandis que les langues des peuples continuent de disparaître par centaines chaque année, l’opinion publique se fixe de plus en plus sur l’acquisition de langues-code susceptibles de faciliter le commerce et les échanges à la largeur de la planète.

Bien sûr, on veut encourager par tous les moyens possibles l’apprentissage des langues mondiales, mais en même temps on ne peut ne pas constater que l’humanité est en train de perdre le sens et la connaissance du phénomène « langue » en tant que dimension historique et ancestrale.

Il s’impose un dialogue suivi pour clarifier la signification, le rôle et l’importance des langues des peuples. La rencontre de Biella a été conçue pour donner la parole à quelques-uns des protagonistes les plus chevronnés dans le domaine de la conservation et de la revitalisation linguistique, avec un focus particulier sur les langues régionales et ancestrales italiennes, européennes et nord-américaines.

 

Whilst ancestral languages keep disappearing at an alarming rate, public opinion drifts more and more in favour of code-languages to streamline trade and exchanges on a world-wide scale.

We most certainly wish to encourage learning international languages by all possible means, yet cannot refrain from noticing that, slowly but surely, we are loosing both the feeling and command of  “language” as a historical and ancestral asset.

We owe it to ourselves to set up a forum to discuss the meaning, the role and the importance of ancestral tongues.

Biella’s meeting has been designed to enable spokesmen and spokeswomen working at conservation and revitalization programmes to voice their views on regional and ancestral languages in Italy, Europe and North-America.

 

ORATORI – CONFÉRENCIERS – SPEAKERS

(in alphabetical order – en ordre alphabétique – in ordine alfabetico)

 

 

Silvana Berra (rivitalizzazione piemontese)

Francesco Casula (lingua sarda)

Davide Filié (lingua dei Walser)

Sergio Gilardino (le lingue ancestrali)

Giuseppe Goria (lingua piemontese)

Karihwakeron Tim Thompson (lingue amerindiane)

Manon Tremblay (lingue amerindiane)

Remi Venture (lingua provenzale)

 

Presentazione di Massaria-Agricoltura tradizionale a Guasila e in Sardegna di Salvatore Atzori (CUEC Editrice, Cagliari 2011). Note di Francesco Casula

Giovedì 22 novembre 2012 ore 17,30

Sala polifunzionale del Parco di Monte Claro, Cagliari

 

Presentazione del libro di Salvatore Atzori:

MASSARIA-Agricoltura tradizionale a Guasila e in Sardegna

Note di Francesco Casula

 

1.Una bella e rigorosa ricerca che rappresenta una vera e propria sonda infilata nel passato di Guasila ma non solo: della Trexenta, del campidano, dell’intera Sardegna di cui è paradigma. Una sonda che registra segni etnologici e antropologici; un bastimento carico di preistoria, storia, di archeologia e di lingua, di cultura popolare e di poesia orale, con distici ironici e d’amore, di riti e tradizioni  (penso a s’agiudu torrau), di cultura materiale e immateriale; un incunabolo dell’identità etno-nazionale e linguistica dei Sardi.

2.libro prezioso soprattutto per conoscere il paesaggio agrario del paese della Trexenta ma, dicevo, non solo. Paesaggio agrario analizzato nei fattori della produzione, nei mezzi tecnici a forza animale e umana; nelle colture, nelle fasi lavorative, nei rapporti di produzione. Con i vari tipi di contratto e il trattamento economico dei subordinati, con la scala gerarchica servile e le mansioni dei Serbidoris. Con le mansioni femminili.

3.Interessantissima l’appendice documentaria con le figure della strumentazione agricola, dei mezzi e delle tecniche del ciclo produttivo, delle tipologie di case padronali e annessi agricoli, con il registro di note aziendali.

3. Quello che emerge è una vera e propria la storia dei contadini in Sardegna, un romanzo corale, con la straordinaria raccolta di testimonianze di giorronaderis, pastoris, messaius e messaieddus, boinarxus, sotzus e sotzas, con la minuziosa e rigorosa perlustrazione e documentazione sulle colture intensive con sa bingia, s’ortu, sa mendula, s’olia. Non è infatti – come scrive Salvatori Atzori – solo opera personale, ma identità collettiva, matrice di ogni madre.

4. Quello che emerge è un racconto di persone della cui esistenza e delle cui gioie e pene non avremo saputo. Anche a questo serve infatti la storia orale, a dar voce a chi non l’ha avuta e no l’ha e anche a mettere in piedi la storia a partire dal basso, dal comune, dal vero, dall’esperienza diretta delle classi subalterne come si diceva un tempo e non si dice più, si finge che in democrazia (e che democrazia!) si sia realizzata fra le classi una parità inesistente.

5. E tutto questo senza nessun sospetto di idealizzazione e di arcadia e di nostalgia dei bei tempi antichi: anche perché, quasi sempre belli non erano: come ricorda nella esemplare prefazione Giulio Angioni. Con l’arretratezza, l’analfabetismo, la miseria ecc. . E’ infatti – per utilizzare l’espressione di Atzori – una ricerca che non ha alcuna parentela con le rappresentazioni decontestualizzate e defunzionalizzate, alla moda, che vanno abusivamente sotto l’etichetta del folclore.

6. Rappresentazioni nostalgiche, bucoliche e folcloristiche che sono prevalenti e che servono per farci dimenticare  che il coltivatore e l’allevatore è stato quasi sempre un asservito, cosa che spiega anche la furia con cui nei tempi più recenti si è distrutto ogni cosa di ciò che si è anche detta civiltà contadina. Di cui dobbiamo discutere quanto e che cosa si può recuperare del nostro passato contadino: magari alcuni saperi, la manualità, l’agricoltura biologica, nicchia di mercato sempre più rilevante anche se ancora con prezzi alti e a circolazione molto ristretta.

7. Anche per questo è utile il libro di Salvatore Atzori. Oltre che – come lui scrive nella premessa – a conoscere il passato, a comprendere il presente e, spero a tramandare al futuro un tratto essenziale della nostra identità.  Conoscere dunque il passato e le nostre tradizioni. Perché non basta averle. Ce lo ricorda Cesare Pavese nella prefazione a Moby Dich, romanzo dello scrittore e poeta statunitense Herman Melville, da lui tradotto in Italiano quando scrive scrive:Avere una tradizione è men che nulla, è soltanto cercandola che si può viverla”

E con un aforisma affilato e fulminante, il compositore austriaco Gustav Mahler in qualche modo integra Pavese stesso, scrivendo che La tradizione deve essere considerata come rigenerazione del fuoco e non come venerazione delle ceneri”.

Non quindi come isolato e fermo recupero e cernita di semplici memorie, come fossero un magazzino di dati, fatti, frasi e immagini. Dobbiamo invece pensare alle tradizioni come a un meccanismo che genera atti contemporanei, inclusi pensieri e azioni, certo basati anche sulle esperienze del passato, ma nei termini accrescitivi di un confronto nel tempo perché è in quel confronto, in quello scambio intersoggettivo che trova la ragione la capacità di conservare ma anche di progettare e di accogliere e di proporre di ricevere e di dare.

Non si tratta – ha scritto Angioni ed io sono d’accordo – quindi di un generico ritorno ai campi, e tanto meno al “servo sudore” dei campi del passato, ma di un restare nei campi del mondo per avere prodotti convenienti in grande quantità, soggetti agli standard legali di qualità e di sicurezza e anche sempre più adatti alle tecnologie della trasformazione industriale.

8. Ma io aggiungerei un altro punto: questo saggio può essere l’occasione e il pretesto per una discussione sul ruolo dell’agricoltura e della pastorizia in Sardegna. Specie dopo le illusioni industrialiste. E a fronte del nuovo mito del turismo: ovvero a fronte di una nuova illusione monoculturale. Partendo almeno da tre dati incontrovertibili:

a. I grandi paesi ricchi dagli Usa ad alcuni stati europei, hanno anche una agricoltura ricca;

b. In Italia come in Sardegna la questione agraria o contadina che dir si voglia non è stata ancora irrisolta;

c. Nella storia italiana – e sarda – le campagne sono s tate completamente subordinate alla città; il comparto agropastorale ha perso, è stato sconfitto e quello urbano/industriale ha vinto: sia economicamente (150 litri di vino di un agricoltore/vignaio valgono oggi una maglietta “firmata”!) che socialmente e persino culturalmente: pastore/contadino = arretratezza; operaio/impiegato=modernità!

 O abbiamo dimenticato l’industrializzazione di Ottana – per altro fallita miseramente –  con cui si voleva trasformare il pastore barbaricino con la mastruca, bandito, violento e arretrato in operaio con la tuta, come a Sesto San Giovanni? Ciò è stato persino teorizzato. Da Carlo Cattaneo – ma è solo un esempio – secondo cui alla città si doveva persino l’agricoltura come atto di incivilimento e come idea di proprietà !(in La città considerata come principio ideale delle Istorie italiane).

9. Il merito di Sa Massaria non è solo scientifico ma anche linguistico e persino etico nel riportare alla nostra attenzione queste storie, nel ridare vita a vicende, pensieri e saperi, opere e fatiche e passioni con  il rispetto per migliaia di vite il cui passaggio sulla terra tutti dimentichiamo.

10. Dicevo dunque valore linguistico: della lingua sarda intendo. Che attraversa l’intero libro con is dicius, distici ironici e d’amore ma soprattutto con i nomi in sardo di quanto attiene all’intera agricoltura: dai fattori della produzione agli attrezzi di lavoro; dai rapporti di produzione ai contratti; dai tempi di lavoro, di semina e di raccolto alle colture. E non potevano che essere in lingua sarda. Perché i lemmi che compongono una lingua, prima di essere un suono sono stati oggetti, oggetti che hanno creato una civiltà, oggetti che hanno creato storia, lavoro, tradizioni, letteratura, cultura. E la cultura è data proprio dal battesimo dell’oggetto.

 

11.Una lingua sarda che Atzori scrive con una grafia secondo uno standard campidanese. In una Nota di indirizzo ortografico l’Autore spiega e giustifica la sua scelta. La dinamica orale – scrive – per una legge di economia locutoria, soprattutto nella articolazione e combinazione dei suoni, modifica transitoriamente la forma della parola. Il fenomeno non si presenta uniforme in tutta l’area campi danese, all’interno della quale si manifestano tratti o caratteristiche fonetiche peculiari. Che fare di fronte a ciò? L’autore ricorre a uno standard grafico campidanese, che io condivido totalmente: del resto gli scrittori (penso a Franco Carlini) come i poeti in sardo-campidanese, più avveduti, sempre più ricorrono alla grafia standard utilizzata da Atzori. Del resto: perché la grafia della lingua sarda non può essere come quella di tante lingue normali (inglese, francese, tedesco, olandese ecc.) in cui la corrispondenza fra grafemi e fonemi non è univoca? O perché dimenticare che neanche in Italiano esiste una corrispondenza perfetta fra grafemi e fonemi?

Senza che ciò significhi un qualche attentato alla libertà di esprimersi secondo le proprie varietà e parlate dei singoli paesi: lo standard infatti attiene allo scritto non all’orale. E dunque parla come vuoi ma scrivi come devi.

 

 

Sardo.lingua o dialetto?

Ma il Sardo è un dialetto o una lingua?, di Francesco Casula

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Pubblicazione:

Mercoledì, 8 Febbraio, 2012 – 10:54

 

Sul Sardo sono presenti una serie di luoghi comuni creati e sedimentati nel tempo, frutto insieme dell’ignoranza e della malafede da parte dei nemici della Lingua sarda.

Il luogo comune più diffuso è che il Sardo sia un dialetto. Occorre rispondere e chiarire con nettezza che nessun linguista o intellettuale rigoroso e serio ritiene che il Sardo sia un dialetto: dal massimo studioso Max Leopold Wagner (che scriverà una monumentale opera dal titolo inequivocabile: La lingua sarda. Storia, spirito e forma) a Gramsci.

Ma oggi è lo stesso Stato italiano a riconoscere al Sardo lo status di Lingua: nella Legge del 15 dicembre 1999, n.482 concernente “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”. Il Sardo è una lingua con proprie strutture sintattiche e grammaticali, espressioni foniche e semantiche, peculiari, autonome e distinte da tutte le altre lingue neolatine, ad iniziare dall’italiano, rispetto al quale nasce 300 anni prima.

Ciò premesso occorre anche aggiungere che la linguistica moderna, scientifica, non distingue né fa differenze tra ciò che comunemente si chiama lingua da ciò che si chiama dialetto. Ciò che rende differente ciò che noi chiamiamo lingua da quello che chiamiamo dialetto non è qualcosa di insito nel sistema linguistico ma l’uso e l’importanza sociale dello stesso. In altre parole fra lingua e dialetto non ci sono differenze culturali ma politiche e giuridiche.

Per cui schematicamente potremmo affermare che la lingua è un dialetto che nella storia “vince” politicamente: così è stato per l’Attico di Atene in Grecia; per il castigliano di Madrid in Spagna; per il francese che da “dialetto” di Parigi, in seguito alla supremazia della città, è stato adottato come idioma di tutto lo stato francese; per lo stesso italiano che da “dialetto” di Firenze, diviene idioma comune a tutta la penisola per il prestigio culturale degli scrittori fiorentini,

O pensiamo ai “dialetti” dei vari paesi africani e asiatici ecc., che una volta decolonizzati e ottenuta l’indipendenza, diventano “lingue”. È cambiata qualcosa? Sì. Lo status politico e giuridico, non altro. Ed è proprio lo status politico, in buona sostanza, a distinguere una lingua da un dialetto. A questo proposito è quanto mai opportuno ricordare la famosa definizione di Max Weinreich : “Una lingua è un dialetto con un esercito e una flotta”.

Pubblicato su SARDEGNA Quotidiano del 7-2-2012

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Visti i numerosissimi lettori di questa mia nota (solo nel sito Forma paris dell’Università di Cagliari sono stati, come si evince da sopra, ben 824) la ripubblico con una correzione che mi è stata suggerita, opportunamente e giustamente da Alexandra Porcu da Berlino. La quale ha scritto:la frase “Una lingua è un dialetto con un esercito e una flotta”, non è di Einar Haugen, – come sbagliando avevo scritto io – ma di Max Weinreich. Il linguista tedesco-baltico era il primo a dire questa frase:(“אַ שפראַך איז אַ דיאַלעקט מיט אַן אַרמײ און פֿלאָט”, “a shprakh iz a dialekt mit an armey un flot”). La definizione si trova nel suo articolo “der yivo un di problemen fun undzer tsayt” (La YIVO e i problemi del nostro tempo) pubblicato sul periodico yivo bleter, gennaio-luglio 1945, pag. 13…”

Lingu sarda e Letteratura

1. LA NASCITA DELLA LINGUA SARDA E I PRIMI DOCUMENTI.

-Apparizione di un volgare “nazionale”.

Il sardo (come l’italiano e le altre lingue neolatine o romanze: il portoghese, il castigliano, il catalano, il francese, il provenzale, il franco-provenzale, il ladino e il rumeno) deriva dal latino comune, ossia dal latino parlato e non da quello letterario, noto come latino volgare.  Queste lingue si formano in Europa nei regni cosiddetti romano-barbarici nel periodo di tempo compreso tra il 476 d.C., data della caduta dell’Impero Romano d’Occidente, e l’VIII-IX secolo, quando cominciano ad apparire le prime attestazioni scritte dei volgari neolatini.

La lingua sarda è una delle prime lingue neolatine che si formano in Europa, circa 400 anni prima della lingua italiana. Infatti le prime testimonianze del volgare sardo nelle diverse parti dell’Isola risalgono alla fine del secolo XI e compaiono in tutti e quattro i Giudicati sardi: quasi contemporaneamente nel Giudicato di Cagliari al Sud e nel Giudicato di Torres al Nord. Subito dopo al centro, nel Giudicato di Arborea ed infine al Nord est nel Giudicato di Gallura.

Così mentre in questo stesso periodo nelle altre regioni italiane ma anche in altre parecchie aree romanze, sul fronte del volgare, si registrano ancora silenzi totali, nell’Isola, in Monasteri e Basiliche appaiono i primi documenti in Lingua sarda. Si tratta di una ricchissima messe di documenti volgari del medioevo fra le più importanti in assoluto nell’area delle lingue romanze.

Anche in Sardegna -come in quasi tutto il mondo neolatino-  l’esigenza del volgare sgorga e prende forma dalla cultura e dalla pratica giuridica: è questo il terreno in cui anche la lingua sarda o meglio le varietà locali che l’articolano, affermano la loro prima necessità di scrittura. “Solo che poi, -scrive Paolo Merci in Le origini della scrittura volgare, in La Sardegna Enciclopedia, vol. I, sezione Arte e Letteratura, a cura di Manlio Brigaglia, Ed. Della Torre, Cagliari 1982, pag.12- a differenza di quasi tutte le culture romanze coeve, dall’area limitata dell’uso giuridico la lingua scritta in Sardegna non s’affranca quasi mai, fino al Quattrocento inoltrato. I tre secoli che precedono forniscono solo ampia documentazione di negozi, donazioni, contratti, processi, le loro spesso abbreviate registrazioni da parte dei monasteri (i cosiddetti Condaghi) atti politici in genere minori, ma talvolta invece assai solenni come statuti e leggi o trattati intergiudicali. Con solo qualche sporadica apertura alla cronaca (il Libellus judicum turritanorum e qualche sparsa pagina dei condaghi) o ancora nei condaghi qualche breve involontaria concessione narrativa”.

Se l’assenza di resti della poesia popolare è fenomeno, con poche eccezioni, comune alle origini romanze, ciò che invece colpisce è la totale mancanza nella Sardegna medievale di qualsiasi forma di poesia o letteratura «colta» in volgare, in contrasto con la ricchezza di carte volgari e la tempestività con cui la prosa sarda afferma la sua emancipazione dall’oralità, la duttilità che la lingua mostra nei condaghi e più avanti nel corso di tutto il secolo XIV, la capacità e l’efficacia mostrata dal volgare nell’impegnarsi ad interpretare e risolvere problemi di rapporto fra il potere locale e le genti isolane (e di cui sono testimonianza documenti come gli Statuti Sassaresi, quelli di Castelsardo, le Carte de logu ecc.).

Se letteratura scritta ci fosse stata, certo qualche resto anche parziale e mutilo, qualche ricordo o accenno sarebbe rimasto negli stessi conventi o archivi che ci hanno conservato i documenti giuridici.

 

-I primi documenti in lingua sarda

Le caratteristiche dei primi documenti in sardo sono, come abbiamo visto, la precocità e la copiosità rispetto alle altre regioni italiane, la diffusione generalizzata in tutte le zone dell’Isola, la complessità e la maturità linguistica e stilistica. “I Sardi inoltre –scrive Mario Puddu, autore di un eccellente Ditzionariu de sa limba e de sa cultura sarda nonché di una Grammatica de sa limba sarda sono i primi fra tutti i popoli di lingua romanza a fare della lingua comune della gente, la lingua ufficiale dello Stato, del Governo” (in Istoria de sa limba sarda, Ed. Domus de Janas, Selargius, 2000, pag.14).

In ambiente laico, le cancellerie giudicali sono le uniche depositarie della scrittura: che però, si avvalgono dell’operato degli ecclesiastici. Così i primi documenti scritti in sardo e redatti in Sardegna provengono dalle cancellerie dei Giudicati oltre che dai conventi, monasteri e basiliche.

Il documento più antico proviene dal Giudicato meridionale: è la Carta del giudice Torchitorio che contiene un’ampia donazione che fa all’arcivescovo di Cagliari (ville e soprattutto i diritti su “totus sus liberus de paniliu cantu sunt per totu Caralis– tutti i liberi dal panilio che si trovano Cagliari: “Se il paniliu  –scrive Francesco Cesare Casula nel suo Dizionario storico sardo- era «la schiera, la lista di servi», i liberos de paniliu nei regni giudicali sardi (Calàri, Torres, Gallura, Arborèa) sarebbero i liberati dal “panilio”, cioè gli affrancati dalla lista dei servi, divenuti semiliberi o colliberti, chiamati in sardo medioevale anche liberos ispesionarios o pensionarii in toscano antico” .

 Pare che il termine panilio –scrive ancora F. Cesare Casula-  derivi da banilius, proclama franco carolingio che imponeva ai vassalli certe prestazioni o corvèe, quali l’obbligo di macinare nel mulino del signore, di cuocere nel suo forno, di strizzare l’uva nel suo torchio, ecc”. Chi dunque se ne affrancava era libero dal paniliu).

La Carta che va datata fra il 1070-1080 (Arrigo Solmi) non ci è pervenuta nell’originale: ne resta una copia quattrocentesca nell’Archivio arcivescovile di Cagliari. Sempre agli anni 1070/1080 o comunque a prima del 1100 si fanno risalire altre Carte: solo nell’Archivio arcivescovile di Cagliari ce ne sono 21, scritte in diverse zone della Sardegna, in lingua sardo-campidanese o sardo-logudorese, le cui differenze comunque erano meno marcate di quelle odierne.

Segue a poca distanza di tempo (1080-85) il così detto Privilegio logudorese detto anche Carta consolare pisana, di cui rimane la pergamena  originale nell’archivio di stato di Pisa. E’ il più antico documento sardo del nord della Sardegna.

Ecco il testo.

 

PRIVILEGIO LOGUDORESE

In nomine Domini amen. Ego iudice Mariano de Lacon fazo ista carta ad onore de omnes homines de Pisas pro xu toloneu ci mi pecterunt: e ego donolislu pro ca lis so ego amicu caru e istos a mimi; ci nullu imperatore ci lu aet potestare istu locu de non (n)apat comiatu de leuarelis toloneu in placitu: de non occidere pisanu ingratis: e ccausa ipsoro ci lis aem leuare ingratis, de facerlis iustitia imperatore ci nce aet exere intu locu. E ccando mi petterum su toloneu, ligatorios ci mi mandarun homines ammicos meos de Pisas, fuit Falceri e Azulinu e Manfridi, ed ego fecindelis carta pro honore de xu piscopu Gelardu e de Ocu Biscomte e de omnes consolos de Pisas: e ffecila pro honore de omnes ammicos meos de Pisas; Guidu de Uabilonia e lLeo su frate, Tepaldinu e Gelardu, e Iannellu, e Ualduinu, e Bernardu de Conizo, Francardu e Dodimundu e Brunu e rRannuzu, e Uernardu de Garulictu e tTornulu, pro siant in onore mea ed in aiutoriu de xu locu meu. Custu placitu lis feci per sacramentu Ego e domnicellu Petru de Serra, e Gostantine de Azzem e Bovechesu e Dorgotori de Ussam e nNiscoli su frate (e n)Niscoli de Zor(i e) Mariane de Ussam (…)

 

Traduzione

In nome di Dio, amen. Io giudice Mariano di Lacon faccio questa carta ad onore di tutti gli uomini di Pisa, per il dazio che mi chiesero; ed io la dono loro perchè sono a loro amico caro ed essi a me; che nessun imperatore (governatore) che abbia a governare in questo luogo non possa togliere loro questo dazio concesso con placito: di non uccidere arbitrariamente un pisano: e quanto a coloro i quali gliela togliessero arbitrariamente, che gli faccia giustizia l’imperatore (governatore) che ci sarà nel luogo. E quando mi chiesero l’esenzione dal dazio, gli ambasciatori che mi mandarono i miei amici pisani furono Falcheri, Azzolino e Manfredi ed io feci loro la carta in onore del vescovo Gelardo e di Ugo Visconte e di tutti i consoli pisani. E la feci anche in onore di tutti i miei amici pisani: Guido di Babilonia e suo fratello Leo; Tebaldino e Gelardo e Giannello, e Ubaldino e Bernardo di Ionizzo, Francardo e Odimundo e Bruno e Ranuccio e Bernardo di Carletti e Tornolo. Perché possano a me rendere onore e al mio territorio aiuto, contrassi con loro questo patto sotto giuramento, io e donnicello Pietro de Serra e Costantino de Athen e Bovechesu e Torchitorio de Ussan e Discoli suo fratello e Discoli de Zori e Mariano de Ussan(…).

 

Da segnalare, fra i documenti antichi, oltre ai Condaghi, che vedremo a parte, il Libellus Judicum turritanorum (Libro dei Giudici turritani) ma siamo già nel 1255-1287, opera di carattere cronachistico, con una certa capacità di elaborazione narrativa. 

2. La Letteratura in lingua sarda

 

L’umore esistenziale del proprio essere sardo, – di cui parla Lilliu – come individui e come gruppo che, in ogni momento, nella felicità e nel dolore delle epoche vissute, ha reso i Sardi costantemente resistenti, antagonisti e ribelli, non nel senso di voler fermare, con l’attaccamento spasmodico alla tradizione, il movimento della vita e della loro storia, ma di sprigionarlo il movimento, attivandolo dinamicamente dalle catene imposte dal dominio esterno” pur in presenza di forti elementi di integrazione e di assimilazione, nella società, nell’economia e nella cultura continua a segnare profondamente, sia pure con gradazioni diverse, oggi come ieri, l’intera letteratura sarda che risulta così, autonoma, distinta e diversa dalle altre letterature. E dunque non una sezione o, peggio, un’appendice di quella italiana: magari gerarchicamente inferiore e comunque da confinare nella letteratura “dialettale”. Il sistema linguistico e letterario sardo infatti, come sistema altro rispetto a quello italiano, è sempre stato, come tale, indipendente e contiguo ai vari sistemi linguistici e letterari che storicamente si sono avvicendati nell’Isola, da quello latino a quello catalano e castigliano, e, per ultimo, a quello italiano, con tutte le interferenze e le complicazioni e le contaminazioni che una simile condizione storica comporta. Una situazione ricca e complessa, propria di una regione-nazione dell’Europa e del mediterraneo.

Nasce anche da qui l’esigenza di un’autonoma trattazione delle vicende letterarie sarde, scritte in Lingua sarda. Da considerare non “dialettali” ma autonome, nazionali sarde, vale a dire.

A questa stessa conclusione arriva, del resto, un valente critico letterario (e cinematografico) italiano come Goffredo Fofi, che nell’Introduzione a Bellas Mariposas di Sergio Atzeni scrive:”Sardegna, Sicilia. Vengono spontanei paragoni che indicano la diversità che è poi quella dell’insularità e delle caratteristiche che, almeno fino a ieri, ne sono derivate, di isolamento e di orgoglio. E’ possibile fare una storia della letteratura siciliana o una storia della letteratura sarda, mentre, per restare in area centro-meridionale non ha senso pensare a una storia della letteratura campana, o pugliese, o calabrese, o marchigiana, o laziale…

Il mare divide e costringe: La letteratura siciliana e la letteratura sarda possono essere studiate come “Letterature nazionali”. Con un loro percorso, una loro ragione, loro caratteri e segni”.

Segnatamente per due ordini di motivazioni:

1.Il sardo non può essere considerato un dialetto;

2. Difficilmente la Sardegna a causa della sua posizione decentrata e della sua peculiarissima storia, specifica e dissonante rispetto alla coeva storia  europea, segnata com’è dall’incontro con diverse culture, può essere integrata in un discorso di storia  e dunque di Letteratura italiana.

 Da una analisi attenta della letteratura in Sardo potremmo vedere che dalle origini del volgare sardo fino ad oggi, non vi è stato periodo nel quale la lingua sarda non abbia avuto una produzione letteraria.

Del resto a riconoscere una Letteratura sarda è persino  un viaggiatore francese dell’800, il barone e deputato Eugene Roissard De Bellet che dopo un viaggio nell’Isola, in La Sardaigne à vol d’oiseau nel 1882 scriverà :”Si è diffusa una letteratura sarda, esattamente  come è avvenuto in Francia del provenzale, che si è conservato con una propria tradizione linguistica”

Certo, qualcuno potrebbe obiettare, che essa, rispetto ad altre lingue romanze, ha prodotto pochi frutti. E’ questa  – per esempio – la posizione dello stesso Gramsci, che dopo aver detto una sacrosanta verità “ il sardo non è un dialetto, ma una lingua a sé”, afferma che esso non ha prodotto “ una grande letteratura”.

In realtà Gramsci non conosce la letteratura sarda: e per molti versi, non poteva neppure conoscerla, dati i tempi e le condizioni storiche – e personali – in cui viveva e operava. Come la conosceva poco lo stesso Wagner. E non la conosciamo appieno neppure oggi tanto che è urgente una grande operazione di scavo e di recupero del nostro patrimonio letterario e poetico, molto del quale è ancora inedito, numerosissimi testi sono ancora ignorati dagli stessi  critici o sepolti in biblioteche e in archivi privati e pubblici. E occorre tener conto non solo dei testi scritti ma anche di quelli orali – abbondantissimi, pensiamo solo alla poesia improvvisata o alle Preghiere (Pregadorias) o Gosos – quando ne siano recuperate le testimonianze.

Faccio solo un’esempio : abbiamo potuto conoscere Giovanni Matteo Garipa, – non lo conosceva neppure Wagner – solo recentemente, grazie alla ripubblicazione della sua opera su Legendariu de Santas Virgines et Martires de Jesu Cristu (1627) da parte dalla casa editrice Papiros di Nuoro nel 1998 con l’introduzione di Diego Corraine e la presentazione di Heinz Jürgen Wolf  e Pasquale Zucca. Eppure si tratta del più grande scrittore in lingua sarda del secolo XVII  (1575/1585-1640). Eppure molti motivi avrebbero dovuto spingere gli studiosi a conoscere e valorizzare il Garipa, ma soprattutto due:

1.la tesi del sacerdote orgolese, oggi quanto mai attuale, della necessità dell’insegnamento della lingua sarda – definita “limba latina sarda” come prerequisito per il corretto apprendimento, da parte degli studenti, anche delle altre lingue;

2.la sua convinzione che fosse urgente dotare la Sardegna di una tradizione letteraria «nazionale» sarda, ossia, come si direbbe oggi, di una lingua letteraria uniformemente usata in tutto il territorio dell’Isola e sorretta da un repertorio di testi in grado di competere con quelli delle altre lingue europee.

E’ stato anche obiettato che la lingua sarda ha prodotto “cultura bassa”. Rispetto a questa accusa occorrerebbe finalmente iniziare a liquidare certi equivoci gerarchici sulla cultura e sulle sue forme, per cui ci si attarda ancora a parlare di cultura “alta” e cultura “bassa”, di cultura “materiale” (miniere, artigianato, agricoltura, pastorizia, turismo) inferiore e subordinata alla cultura “immateriale” (lingua, letteratura, arte, musica, diritto ecc. ecc) o di cultura orale inferiore alla cultura “scritta” e dunque meno degna di essere conosciuta e studiata. La cultura, senza gerarchie, deve essere intesa in senso antropologico, ovvero nei valori sottostanti alle scelte collettive e individuali e quindi agli ideali che orientano i comportamenti, con particolare riferimento a quelli sociali.

Anche il termine “letteratura”, secondo il dettato dei più moderni e aggiornati orientamenti di studi, va inteso nel senso di scrittura o produzione di opere di cultura che occupano spazi non tradizionali quali gli atti giuridici, le costituzioni politiche, la poesia e la tradizione orale e finanche le opere di carattere didascalico o divulgativo per le quali veniva usata la lingua sarda al fine comunicare meglio con il popolo: I Catechismi come i Manuali medici-scientifici (ricordo a questo proposito Brevis lezionis de ostetricia po usu de is levatoras de su regnu de su rettori chirurgu collegiali Efis Nonnis),

Ma anche dato e non concesso che la lingua sarda abbia prodotto poco, si poteva pensare che un cavallo per troppo tempo tenuto a freno, legato  imbrigliato e impastoiato potesse correre e correre velocemente? La lingua sarda, certo, deve crescere, e sta crescendo: ha soltanto bisogno che le vengano riconosciuti i suoi diritti, che le venga proprio riconosciuto il suo “status” di lingua, e dunque le opportunità per potersi esprimere, oralmente e per iscritto, come avviene per la lingua italiana.

La Lingua sarda, dopo essere stata infatti lingua curiale e cancelleresca nei secoli XI e XII, lingua dei Condaghi e della Carta De Logu, con la perdita dell’indipendenza giudicale, viene infatti ridotta al rango di dialetto paesano, frammentata ed emarginata, cui si sovrapporranno prima i linguaggi italiani di Pisa e Genova e poi il catalano e il castigliano e infine di nuovo l’italiano.

Contrariamente a ciò che comunemente si dice e si pensa da parte degli stessi sardi, la letteratura in Sardo che l’isola ha espresso nei secoli, oltreché variegata nei diversi generi, è ricca di opere e di autori anche quando superata la fase esaltante del medioevo, all’indomani della sconfitta del regno di Arborea, mancando un centro politico indipendente, le lingue dominanti (catalano, castigliano e infine italiano) assunsero via via il ruolo di lingue ufficiali accolte in toto dal ceto dirigente isolano. La lingua sarda restò praticata dai cantori che diedero vita a una lunga tradizione poetica orale, ma anche da scrittori con riflessi di tipo colto.

Nei secoli si succedettero tentativi, da parte degli intellettuali sardi più vicini al popolo (in particolare uomini di Chiesa), di normalizzare l’uso scritto della lingua. Uno sforzo ancora oggi attuale, nel momento in cui, per effetto di una nuova coscienza linguistica, si è assistito alla nascita della prosa narrativa in lingua sarda.

Occorre comunque sottolineare che è soprattutto a partire dall’ultima metà del Novecento che i poeti e gli scrittori in lingua sarda hanno offerto risultati non solo quantitativamente ma anche qualitativamente di grande rilievo.

Recentemente sono stati censiti, in modo rigoroso – vedi Antoni Arca (in Benidores, Literatura, limba e mercadu culturale in Sardigna, Condaghes editore, Cagliari 2008) i libri di narrativa in lingua sarda pubblicati in meno di 30 anni. Ebbene nei primi dieci anni (1980-1989) le pubblicazioni sono state 22, fra cui 11 romanzi. Nei secondi dieci anni (1990-1999) le pubblicazioni sono più che raddoppiate: dalle 22 del primo decennio passano a 57. Nei terzi dieci anni (2000-2007) le opere narrative in sardo sono ben 107. E da quell’anno sono ancora cresciute enormemente. Certamente ci sono anche opere modeste e persino mediocri – come in tutte le lingue! – ma molte sono di spessore e di gran vaglia. segnatamente quando gli autori esprimono una condizione specifica sarda, per ottica e palpitazioni, per weltanschaung, per il modo con cui intendono e contemplano la vita e per tante altre cose, razionali e irrazionali, che derivano dai misteri e dalle iniziazioni dell’arte, compresa la nostalgia, che, a dispetto dei politici «realisti», come dice Borges, è la relazione migliore che un uomo possa avere con il suo paese.

Ovvero quando la produzione letteraria esprime una specifica e particolare sensibilità locale, “una appartenenza totale alla cultura sarda, separata e distinta da quella italiana” diversa dunque e “irrimediabilmente altra”, come scrive il critico sardo Giuseppe Marci.

O ancora – come scrive Antonello Satta – quando “gli autori sappiano andare per il mondo con pistoccu in bertula, perché proprio in questo andare per il mondo, mostrano le stimmate dei sardi e, quale che sia lo scenario delle loro opere, vedono la vita alla sarda”.

Ma soprattutto quando la letteratura sarda ha, come ogni letteratura, i tratti universali della qualità estetica.

Fra questi, voglio ricordare in questa sede e non a caso, Gianfranco Pintore, recentemente scomparso e che altrimenti sarebbe stato qui a parlare proprio di Letteratura sarda. Lo voglio ricordare non solo perché lo ritengo uno dei più valenti e significativi romanzieri in Sardo, ma anche perché nella sua scrittura, ha preso a roncolate, liquidandoli, inveterati pregiudizi e luoghi comuni che ancora vengono circuitati ad arte, segnatamente dai nemici del Sardo. Ovvero che la Lingua sarda sia  lingua agro-pastorale, strumento di esclusivo recupero memoriale del passato, arcaica e inadatta a esprimere la modernità. Gianfranco Pintore come ha scritto recentemente  Vittorio Sella non est pro una limba sarda museificata, arressa a su tempus colatu, ma, senne limba sarda intro sa modernitate, de custu nos dat contu chin sas istorias suas, sos protagonistas, sas novitates, presentannelas a chi leghet operas de litteratura. Non cheriat una limba intro unu baule, prontu a s’interru.

Nei suoi romanzi infatti almanacca e descrive la modernità: parlando di rebellias telematicas,-ribellioni telematiche, cavos otticos-cavi ottici, carculadores -computer, enerzia atomica –energia nucleare (vedi Su Zogu) o di intrighi politici e istituzionali (vedi Morte de unu Presidente) o di questioni storiografiche, storiche e archeologiche (vedi Sa Losa de Osana).

Ma c’è di più. Soprattutto in Sa Losa de Osana Pintore  utilizza Sa Limba sarda comuna. A questo proposito e mi avvio alla conclusione – voglio ricordare un episodio successo a Sinnai in occasione della presentazione proprio di Sa Losa de Osana.  A un certo punto della discussione intervenne un nemico feroce della LSC, caricandola di tutti i misfatti della Sardegna e concludendo che si trattava di una lingua costruita a tavolino, artefatta e artificiosa, povera, burocratica e senza vita. Occorreva invece scrivere ciascuno nella propria parlata locale. Come aveva fatto Pintore nel romanzo Sa Losa de Osana. Di cui lui apprezzava il ritmo nonché la musicalità ed espressività del lessico. Il “nostro” critico non si era accorto che il romanzo era scritto proprio in quella lingua, la LSC appunto, contro cui aveva lanciato i suoi improperi e le sue contumelie!  

 

 

 

 

 

 

 

 

Fratelli d’Italia? No:Fratelli di sardegna, il nostro Inno è PROCURADE DE MODERARE, BARONES SA TIRANNIA…

Fratelli d’Italia?

No Grazie, Tenetevelo.

E’ retorico e  brutto, ma soprattutto italo centrico e patriottardo (della patria italiana, s’intende).

Il nostro Inno è Procurade de moderare, barones sa tirannia.

L’Inno è un lungo e complesso carme in sardo logudorese, di 47 ottave in ottonari,- modellato sui gosos, inni di origi­ne spagnola che nella tradizione religiosa locale venivano cantati in onore dei santi- per un totale di 376 versi in cui ripercorre le vicende di un momento cruciale della storia della Sardegna contemporanea: il periodo del triennio rivoluzionario sardo (1793-96) -che la ricerca storica più recente indica come l’alba della Sardegna contemporanea- anni drammatici, di profondissimi sconvolgimenti e di grandi speranze in cui il popolo sardo –oppresso da un intollerabile regime feudale- riuscì a esprimere in modo corale le sue rivendicazioni di autonomia politica e di riforma sociale.

L’inno è legato dunque ai momenti più fervidi della rivolta dei vassalli contro i feudatari, quando alla fine del secolo XVIII i Sardi, acquistata coscienza del loro valore contro i Francesi del generale Troguet, vollero spezzare il giogo dei baroni e dei Piemontesi e reclamarono per sé libertà  e giustizia. Esso è dunque imbevuto del diritto naturale della “bona filosofia” illuminista e delle letture degli enciclopedisti francesi: Diderot, Montesquieu, Rousseau.

Si tratta dunque di un terribile giambo contro i feudatari, anzi, più che un giambo il suo doveva essere un canto di marcia, una vibrata e ardente requisitoria contro le prepotenze feudali, animata dall’inizio alla fine da un’ira violenta. L’andamento della strofa è concitato e commosso, il contrasto fra l’ozio beato dei feudatari e la vita misera dei vassalli è rappresentata con crudezza.na superiore visione poetica. Dopo tanta arcadia è una voce schietta, maschia e vigorosa e come tale sarà destinato ad avere una enorme risonanza, tanto da diventare il simbolo stesso della sollevazione contro i baroni e da essere declamata dai vassalli in rivolta a guisa di “Marsigliese sarda”.

L’inno –che sotto il profilo linguistico, si articola su due livelli, uno alto e uno popolare- non è sardo solo nella lingua, ma anche nel repertorio concettuale e simbolico che utilizza. Infatti, anche se, come abbiamo visto, rappresenta un esplicito veicolo di cultura democratica d’oltralpe, esso è un primo esempio di discorso altrui divenuto autenticamente discorso sardo.

 

Su patriotu sardu a sos feudatarios

 

1.Procurade e moderare,

Barones, sa tirannia,

Chi si no, pro vida mia,

Torrades a pe’ in terra!

Declarada est già sa gherra

Contra de sa prepotenzia,

E cominzat sa passienzia

ln su pobulu a mancare

 

2.Mirade ch’est azzendende

Contra de ois su fogu;

Mirade chi non est giogu

Chi sa cosa andat a veras;

Mirade chi sas aeras

Minettana temporale;

Zente cunsizzada male,

Iscultade sa ‘oghe mia.

 

3.No apprettedas s ‘isprone

A su poveru ronzinu,

Si no in mesu caminu

S’arrempellat appuradu;

Mizzi ch’es tantu cansadu

E non ‘nde podet piusu;

Finalmente a fundu in susu

S’imbastu ‘nd ‘hat a bettare

 

4.Su pobulu chi in profundu

Letargu fit sepultadu

Finalmente despertadu

S’abbizzat ch ‘est in cadena,

Ch’istat suffrende sa pena

De s’indolenzia antiga:

Feudu, legge inimiga

A bona filosofia!

 

5.Che ch’esseret una inza,

Una tanca, unu cunzadu,

Sas biddas hana donadu

De regalu o a bendissione;

Comente unu cumone

De bestias berveghinas

Sos homines et feminas

Han bendidu cun sa cria

 

6.Pro pagas mizzas de liras,

Et tale olta pro niente,

Isclavas eternamente

Tantas pobulassiones,

E migliares de persones

Servint a unu tirannu.

Poveru genere humanu,

Povera sarda zenia!

 

7.Deghe o doighi familias

S’han partidu sa Sardigna,

De una manera indigna

Si ‘nde sunt fattas pobiddas;

Divididu s’han sas biddas

In sa zega antichidade,

Però sa presente edade

Lu pensat rimediare.

 

8.Naschet su Sardu soggettu

A milli cumandamentos,

Tributos e pagamentos

Chi faghet a su segnore,

In bestiamene et laore

In dinari e in natura,

E pagat pro sa pastura,

E pagat pro laorare.

 

9.Meda innantis de sos feudos

Esistiana sas biddas,

Et issas fìni pobiddas

De saltos e biddattones.

Comente a bois, Barones,

Sa cosa anzena est passada?

Cuddu chi bos l’hat dada

Non bos la podiat dare.

 

10.No est mai presumibile

Chi voluntariamente

Hapat sa povera zente

Zedidu a tale derettu;

Su titulu ergo est infettu

De s’infeudassione

E i sas biddas reione

Tenene de l’impugnare

 

11.Sas tassas in su prinzipiu

Esigiazis limitadas,

Dae pustis sunt istadas

Ogni die aumentende,

A misura chi creschende

Sezis andados in fastu,

A misura chi in su gastu

Lassezis s ‘economia.

 

12.Non bos balet allegare

S’antiga possessione

Cun minettas de presone,

Cun gastigos e cun penas,

Cun zippos e cun cadenas

Sos poveros ignorantes

Derettos esorbitantes

Hazis forzadu a pagare

 

13.A su mancu s ‘impleerent

In mantenner sa giustissia

Castighende sa malissia

De sos malos de su logu,

A su mancu disaogu

Sos bonos poterant tenner,

Poterant andare e benner

Seguros per i sa via.

 

Est cussu s’unicu fine

De dogni tassa e derettu,

Chi seguru et chi chiettu

Sutta sa legge si vivat,

De custu fine nos privat

Su barone pro avarissia;

In sos gastos de giustissia

Faghet solu economia

 

15.Su primu chi si presentat

Si nominat offissiale,

Fattat bene o fattat male

Bastat non chirchet salariu,

Procuradore o notariu,

O camareri o lacaju,

Siat murru o siat baju,

Est bonu pro guvernare.

 

16.Bastat chi prestet sa manu

Pro fagher crescher sa rènta,

Bastat si fetat cuntenta

Sa buscia de su Segnore;

Chi aggiuet a su fattore

A crobare prontamente

Missu o attera zante

Chi l’iscat esecutare

 

17.A boltas, de podattariu,

Guvernat su cappellanu,

Sas biddas cun una manu

Cun s’attera sa dispensa.

Feudatariu, pensa, pensa

Chi sos vassallos non tenes

Solu pro crescher sos benes,

Solu pro los iscorzare.

 

18.Su patrimoniu, sa vida

Pro difender su villanu

Cun sas armas a sa manu

Cheret ch ‘istet notte e die;

Già ch ‘hat a esser gasie

Proite tantu tributu?

Si non si nd’hat haer fruttu

Est locura su pagare.

 

19.Si su barone non faghet

S’obbligassione sua,

Vassallu, de parte tua

A nudda ses obbligadu;

Sos derettos ch’hat crobadu

In tantos annos passados

Sunu dinaris furados

Et ti los devet torrare.

 

20.Sas rèntas servini solu

Pro mantenner cicisbeas,

Pro carrozzas e livreas,

Pro inutiles servissios,

Pro alimentare sos vissios,

Pro giogare a sa bassetta,

E pro poder sa braghetta

Fora de domo isfogare,

 

21.Pro poder tenner piattos

Bindighi e vinti in sa mesa,

Pro chi potat sa marchesa

Sempre andare in portantina;

S’iscarpa istrinta mischina,

La faghet andare a toppu,

Sas pedras punghene troppu

E non podet camminare

 

22.Pro una littera solu

Su vassallu, poverinu,

Faghet dies de caminu

A pe’, senz ‘esser pagadu,

Mesu iscurzu e ispozzadu

Espostu a dogni inclemenzia;

Eppuru tenet passienzia,

Eppuru devet cagliare.

 

23.Ecco comente s ‘impleat

De su poveru su suore!

Comente, Eternu Segnore,

Suffrides tanta ingiustissia?

Bois, Divina Giustissia,

Remediade sas cosas,

Bois, da ispinas, rosas

Solu podides bogare.

 

24.Trabagliade trabagliade

O poveros de sas biddas,

Pro mantenner’ in zittade

Tantos caddos de istalla,

A bois lassant sa palla

Issos regoglin’ su ranu,

Et pensant sero e manzanu

Solamente a ingrassare.

 

25.Su segnor feudatariu

A sas undighi si pesat.

Dae su lettu a sa mesa,

Dae sa mesa a su giogu.

Et pustis pro disaogu

Andat a cicisbeare;

Giompidu a iscurigare

Teatru, ballu, allegria

 

26.Cantu differentemente,

su vassallu passat s’ora!

Innantis de s’aurora

Già est bessidu in campagna;

Bentu o nie in sa muntagna.

In su paris sole ardente.

Oh! poverittu, comente

Lu podet agguantare!.

 

27.Cun su zappu e cun s’aradu

Penat tota sa die,

A ora de mesudie

Si zibat de solu pane.

Mezzus paschidu est su cane

De su Barone, in zittade,

S’est de cudda calidade

Chi in falda solent portare.

 

28.Timende chi si reforment

Disordines tantu mannos,

Cun manizzos et ingannos

Sas Cortes han impedidu;

Et isperdere han cherfidu

Sos patrizios pius zelantes,

Nende chi fint petulantes

Et contra sa monarchia

 

29.Ai caddos ch’in favore

De sa patria han peroradu,

Chi s’ispada hana ogadu

Pro sa causa comune,

O a su tuju sa fune

Cheriant ponner meschinos.

O comente a Giacobinos

Los cheriant massacrare.

 

30.Però su chelu hat difesu

Sos bonos visibilmente,

Atterradu bat su potente,

Ei s’umile esaltadu,

Deus, chi s’est declaradu

Pro custa patria nostra,

De ogn’insidia bostra

Isse nos hat a salvare.

 

31.Perfidu feudatariu!

Pro interesse privadu

Protettore declaradu

Ses de su piemontesu.

Cun issu ti fist intesu

Cun meda fazilidade:

Isse papada in zittade

E tue in bidda a porfia.

 

32.Fit pro sos piemontesos

Sa Sardigna una cucagna;

Che in sas Indias s ‘Ispagna

Issos s ‘incontrant inoghe;

Nos alzaiat sa oghe

Finzas unu camareri,

O plebeu o cavaglieri

Si deviat umiliare…

 

33.Issos dae custa terra

Ch’hana ogadu milliones,

Beniant senza calzones

E si nd’handaiant gallonados;

Mai ch’esserent istados

Chi ch’hana postu su fogu

Malaittu cuddu logu

Chi criat tale zenìa

 

34.Issos inoghe incontràna

Vantaggiosos imeneos,

Pro issos fint sos impleos,

Pro issos sint sos onores,

Sas dignidades mazores

De cheia, toga e ispada:

Et a su sardu restada

Una fune a s’impiccare!

 

35.Sos disculos nos mandàna

Pro castigu e curressione,

Cun paga e cun pensione

Cun impleu e cun patente;

In Moscovia tale zente

Si mandat a sa Siberia

Pro chi morzat de miseria,

Però non pro guvernare

 

36.Intantu in s’insula nostra

Numerosa gioventude

De talentu e de virtude

Ozïosa la lassàna:

E si algun ‘nd’impleàna

Chircaiant su pius tontu

Pro chi lis torrat a contu

cun zente zega a trattare.

 

37.Si in impleos subalternos

Algunu sardu avanzàna,

In regalos non bastada

Su mesu de su salariu,

Mandare fit nezessariu

Caddos de casta a Turinu

Et bonas cassas de binu,

Cannonau e malvasia.

 

38.De dare a su piemontesu

Sa prata nostra ei s’oro

Est de su guvernu insoro

Massimu fundamentale,

Su regnu andet bene o male

No lis importat niente,

Antis creen incumbeniente

Lassarelu prosperare.

 

39.S’isula hat arruinadu

Custa razza de bastardos;

Sos privilegios sardos

Issos nos hana leadu,

Dae sos archivios furadu

Nos hana sas mezzus pezzas

Et che iscritturas bezzas

Las hana fattas bruiare.

 

40.De custu flagellu, in parte,

Deus nos hat liberadu.

Sos sardos ch’hana ogadu

Custu dannosu inimigu,

E tue li ses amigu,

O sardu barone indignu,

E tue ses in s’impignu

De ‘nde lu fagher torrare

 

41.Pro custu, iscaradamente,

Preigas pro su Piemonte,

Falzu chi portas in fronte

Su marcu de traitore;

Fizzas tuas tant’honore

Faghent a su furisteri,

Mancari siat basseri

Bastat chi sardu no siat.

 

42.S’accas ‘andas a Turinu

Inie basare dès

A su minustru sos pes

E a atter su… già m ‘intendes;

Pro ottenner su chi pretendes

Bendes sa patria tua,

E procuras forsis a cua

Sos sardos iscreditare

 

43.Sa buscia lassas inie,

Et in premiu ‘nde torras

Una rughitta in pettorra

Una giae in su traseri;

 

Giudizi critici

Scrive Raimondo Carta Raspi: “vigoroso e incisivo, dalle strofe tambureggianti, quasi a scuotere la sonnolenza dei Sardi, tutto il canto è un’incalzante e sferzante satira contro i feudatari e i Piemontesi e un incitamento perché la rivolta in atto divampi come un immenso incendio: <cando si tenet su bentu/est prezisu bentulare> (quando il vento è propizio/è il momento di ventilare [il grano]”.

 [Raimondo Carta-Raspi, Storia della Sardegna, Mursia editore, Milano 1971, pag.887]

Mentre Girolamo Sotgiu sostiene:”L’inno di Francesco Ignazio Mannu, stupendo canto di emancipazione, è ancora più esplicito nel denunciare la rapina del regime feudale e anche più incisivo nell’esortare alla lotta contro di esso”.

 [Girolamo Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda, 1720-1847, Editori Laterza, Bari 1984, pagg.202-203] 

Nelle prime tre ottave abbiamo s’isterrida (distesa) ovvero l’introduzione e la proposizione dell’argomento con un concitato monito e una minaccia scandita duramente, in ottonari sentenziosi e sostenuti: cercate di moderare, o baroni, la vostra tirannia o sarà per voi la fine: Il popolo non ne può delle sofferenze e delle angherie dovute alla vostra prepotenza e la guerra è ormai dichiarata. Ascoltate la mia voce, ammonisce  l’autore, o tutto andrà a fuoco: l’età buia della legge “inimiga” (nemica) –chiarissima l’allusione all’ordinamento feudale- deve finire. Lo pretende e lo insegna, la “buona filosofia”, ovvero l’Illuminismo. 

L’Inno è composto di versi ottonari: non molto usati nella poesia popolare sarda. Il primo e l’ultimo verso non rimano, gli altri sono legati da rime interne a-bb-cc-dd-e. C’è una curiosità ritmica: l’ultimo verso – ha solo due rime in –ia- ed in –are-  che si alternano senza limite fisso, nelle diverse strofe.

La lingua utilizzata è il sardo nella variante logudorese: esso per la sua armoniosità intrinseca ma anche per una certa vigoria dovuta al frequente succedersi di consonanti sonore, è particolarmente adatto ad esprimere sentimenti vivi e concitati.

Si può rimproverare la tessitura troppo vasta e non adatta a un inno di guerra e ancor di più il tono eccessivamente oratorio ma non gli si può negare di essere una voce ironica e sarcastica, schietta e commossa, dopo tanta arcadia e bamboleggiamenti idilliaci. 

-Inni patriottici  

La tradizione letteraria e musicale della Sardegna non offre molti canti patriottici. Dello stesso Inno sardo Cunservet deus su re,(Conservi Dio il re) che ricalca almeno nel titolo l’inno nazionale inglese, composto da Vittorio Angius nel 1844 e musicato dal maestro Giovanni Gonella, in voga tra i soldati dei reggimenti sardi fino alla Prima Guerra, oggi si conserva appena il ricordo.

A un solo componimento i Sardi, almeno a partire dalla fine del XVIII secolo, hanno riconosciuto dignità di canto patriottico, attraverso il quale esprimere il sentimento di ribellione contro le ingiustizie e per una società più equa: è Su patriota (o patriottu) sardu a sos feudatarios di Mannu.

Sono stati numerosi gli artisti –sardi e non- che lo hanno musicato, inciso e cantato: da ricordare fra gli altri i Cori di Orgosolo e  di Nuoro; i cantanti Peppino Marotto, Anna Maria Puggioni e Maria Carta, Anna Loddo e Franco Madau; i Gruppi dei Cordas e Cannas, dei Tazenda ma anche il gruppo siciliano Kunsertu e il canzoniere del Lazio. Nel 2000 i tenores di Neoneli incidevano un CD “Barones” cui partecipano noti personaggi del panorama musicale italiano che interpreteranno 17 delle 47 strofe dell’Inno: da Francesco Baccini a Angelo Branduardi, da Francesco Guccini a Luciano Ligabue e Elio delle Storie Tese.

 

 

Conferenza su Eleonora d’Arborea e la Carta De Logu

ELEONORA D’ARBOREA

La regina-giudicessa, ultimo baluardo dell’indipendenza della Sardegna (1340-1403)

Eleonora d’Arborea – Madona Elionor per gli Aragonesi – nasce probabilmente in Catalogna verso il 1340 da Mariano de Bas-Serra e da Timbra de Roccabertì. Aveva due fratelli: Ugone e Beatrice. Vive i primi anni della sua adolescenza in Oristano. Quando nel 1340 muore il Giudice Pietro III senza lasciare discendenti, la Corona de Logu, che comprendeva notabili, preti e funzionari delle città e dei paesi, elegge il padre di Eleonora, Mariano IV, fratello del morto, che sarà Giudice dal 1347 al 1376.

Eleonora sposa, prima del 1376, il quarantenne Brancaleone Doria. Questo matrimonio fa parte di un disegno per legare gli Arborensi con i Doria, antiaragonesi e che controllavano una gran parte della Sardegna. Dopo il matrimonio va ad abitare a Castelsardo e ha due figli, Federico e Mariano. Quando il fratello Ugone III si ammala si pone la questione della successione: Eleonora scrive al re d’Aragona chiedendogli di sostenere le ragioni del figlio Federico, e non quelle del visconte de Narbona, vedovo della sorella Beatrice morta nel 1377. Ma Ugone viene ucciso nel 1383 nel suo palazzo a Oristano. In questo clima di crisi e conflitti, nel 1383 Eleonora scrive al re chiedendogli di riconoscere il figlio Federico come successore di Ugone III. Nello stesso tempo manda il marito Brancaleone a trattare con il re e scrive alla regina chiedendole di intercedere presso il re a favore del figlio, per poter porre così fine alla crisi che regna nell’Isola. Il progetto di Eleonora era quello di riunificare nelle mani del figlio quei due terzi della Sardegna che Ugone, prima di morire, aveva occupato. Questo disegno non piaceva al re, perché non gli conveniva la presenza di una famiglia tanto potente nel suo regno. Brancaleone, nel frattempo, è trattenuto come prigioniero, ma Eleonora, per niente  ntimorita, persegue nella sua politica: si reca a Oristano, punisce quelli che avevano organizzato congiure e tradimenti e si proclama regina-giudicessa d’Arborea, secondo l’antico diritto regio sardo che permetteva alle donne di poter diventare sovrane.

Dopo lunghe trattative, viene liberato il marito Brancaleone il primo gennaio del 1390, in seguito alla pace stipulata nel 1388 fra Catalani, Aragonesi e la Casa d’Arborea. Eleonora, però, ricusa gli accordi estorti malvagiamente e con grande tradimento e vilenza: quindi mobilita l’esercito al completo e in meno di sei mesi riconquista

tutti i territori che gli accordi del 138l le avevano sottratto. Nel 1392 il figlio Mariano  compì quattordici anni e divenne re regnante (Mariano V Doria-Bas) secondo una nuova disposizione giudicale sul maggiorascato. Eleonora, al termine della sua reggenza, forse il 14 aprile, giorno di Pasqua – sostiene Francesco Cesare Casula – rieditò con alcune modificazioni la Carta de Logu di Arborea, che rimane il suo lascito storico più importante. Morì di peste, forse a Oristano, nel giugno del 1403.

 

 

Presentazione del testo [tratto da La Carta de Logu del regno d’Arborea, traduzione

libera e commento storico di Francesco Cesare Casula, Ed. Consiglio nazionale della ricerche – Istituto sui rapporti italo-iberici, Cagliari 1994, pagine 58-59]

La Carta de Logu, promulgata da Eleonora nel 1392, raccoglie leggi consuetudinarie di diritto civile, penale e rurale. Contiene un proemio e 198 capitoli: i primi 132 formano il Codice civile e penale, gli altri 66 il Codice rurale, emanato dal padre Mariano IV, il  padre di Eleonora.In seguito alla sua promulgazione, si inizia a chiamare la Sardegna nacion sardesca e la Carta de sa republica sardisca, a significare che era espressione

dell’intera Sardegna, ma soprattutto che era una vera e propria Carta costituzionale

nazionale. La Carta di Mariano IV da sedici anni non era stata rivista e, poiché non rispondeva più ai bisogni delle nuove condizioni sociali, occorreva rivederla e aggiornarla per preservare la giustizia e in buono tranquillo e pacifico stato del popolo del suddetto nostro regno e delle chiese e dei diritti ecclesiastici e dei liberi e dei probi uomini e di tutta la gente della suddetta nostra terra e del regno di Arborea. Queste le

finalità della Carta annunciate nel Proemio. Scritta in sardo-arborense, è sicuramente il Codice legislativo più importante di tutto il Medioevo sardo e non solo. Il re spagnolo Alfonso il Magnanimo – che ormai domina sulla Sardegna – l’apprezza a tal punto da estenderla nel 1421 a tutta l’Isola, in cui rimarrà in vigore per ben 400 anni, fino al 1827, quando sarà sostituita dal Codice Feliciano.

 

XXI CAPIDULU

De chi levarit per forza mygeri coyada.

Volemus ed ordinamus chi si alcun homini levarit per forza mugeri coyada, over alcun’attera femina, chi esserit jurada, o isponxellarit alcuna virgini per forza, e dessas dittas causas esserit legittimamenti binchidu, siat iuygadu chi paghit pro sa coyada liras chimbicentas; e si non pagat infra dies bindighi, de chi hat a esser juygadu, siat illi segad’uno pee pro moda ch’illu perdat. E pro sa bagadìa siat juygadu chi paghit liras ducentas, e siat ancu tenudu pro levarilla pro mugeri, si est senza maridu, e placchiat assa femina; e si nolla levat pro mugeri, siat ancu tentu pro coyarilla secundu sa condicioni dessa femina, ed issa qualidadi dess’homini. E si cussas caussas issu non podit fagheri a dies bindighi de chi hat a esser juygadu, seghintilli unu pee per modu ch’illu perdat. E pro sa virgini paghit sa simili pena; e si non hadi dae hui pagari, seghintilli unu pee, ut supra.

 

Traduzione

XXI

CAPITOLO VENTUNESIMO

Di chi violentasse una donna sposata.

Vogliamo ed ordiniamo che se un uomo violenta una donna maritata, o una qualsiasi sposa promessa, o una vergine, ed è dichiarato legittimamente colpevole, sia condannato a pagare per la donna sposata lire cinquecento; e se non paga entro quindici giorni dal giudizio gli sia amputato un piede. Per la nubile, sia condannato a pagare duecento lire e sia tenuto a sposarla, se è senza marito (= promesso sposo) e se piace alla donna. Se non la sposa (perché lei non è consenziente), sia tenuto a farla accasare (munendola di dote) secondo la condizione (sociale) della donna e la qualità (= il rango) dell’uomo. E se non è in grado di assolvere ai suddetti òneri entro quindici giorni dal giudizio, gli sia amputato un piede. Per la vergine, sia condannato a pagare la stessa cifra sennò gli sia amputato un piede come detto sopra.

 

Giudizio critico

Federigo Sclopis, un magistrato piemontese, autore della Storia della Legislazione italiana (la prima edizione è del 1844, la seconda del 1863), considerata da molti studiosi la prima significativa opera di sintesi sulla storia del diritto in Italia, scrive a proposito della Carta de Logu: “Sullo scorcio del secolo XIV si vide in una regione dell’Isola di Sardegna promulgarsi una legge che per la sapienza di molti precetti, che vi si racchiudono, ottenne non solamente di essere estesa a tutto il regno, ma ebbe di più il vanto di essere tenuta per segno di un perfezionamento sociale, del quale erano allora ancora lontane le più vaste contrade del continente italiano […]. La Carta de Logu contiene molte e particolari disposizioni, le quali a dire di un dotto giureconsulto sardo che la prese a illustrare, pressoché tutte convengono ai costumi dei Sardi dei nostri tempi”. [Federigo Sclopis, Storia della Legislazione italiana, vol. II, Unione tipografica editrice, Torino 1963, pagine 189-190].

 

ANALIZZARE

Nel capitolo XXI si prevedono le pene contro chi violenta una donna sposata o una qualsiasi donna promessa sposa o una vergine. L’interesse del capitolo è dato soprattutto

dalla pena prevista per chi violenta una donna nubile: sia condannato – si ordina – a pagare duecento lire e sia tenuta a sposarla ma solo se piace alla donna e dunque se lei è consenziente. Si tratta, come ognuno può notare, di una posizione che potremmo definire di un “femminismo ante litteram”, epressione, non a caso, di un legislatore donna. Ma non basta: nel caso che lei non sia consenziente, l’uomo violentatore è tenuto a farla accasare munendola di una dote, secondo la condizione sociale della donna violentata e il rango dell’uomo violentatore.

Il testo è a dominanza prescrittiva: inizia nella forma canonica della prima persona del presente indicativo al plurale maiestatis, volemus e ordinamus (vogliamo e ordiniamo). L’autorità enunciante, fonte del potere normativo e quindi dell’esercizio della sovranità, regolamenta e condiziona l’azione futura dei destinatari del testo, realizzando appunto atti direttivi, dotati di forza illocutoria esplicita. Alle formule performative introduttive, all’indicativo (vogliamo e ordiniamo) seguono le indicazioni normative espresse in genere con il congiuntivo (sia condannato).La struttura del testo è basata su una progettazione sintattica di breve respiro, frammentata in tre blocchi frasali, debolmente legati fra loro dalla semplice congiunzione «e». La lingua sarda, nella variante arborense, è da collocare nell’area linguistico culturale e nel periodo storico che ha prodotto la Carta. Si tratta di un sardo colto,che va visto nel quadro di una consapevole volontà politica dei Giudici di Arborea di presentarsi come interpreti e guide dell’intera “nazione” sarda.

 

FLASH DI STORIA-CIVILTÀ

La Magna Charta

In Europa, prima della Carta de Logu, la “costituzione” più famosa nel Medioevo è la Magna Charta, concessa nel 1215 da Giovanni Senza Terra agli inglesi. Era destinata ai membri della Chiesa (arcivescovi, vescovi e abati), ai suoi funzionari (conti, baroni, visconti, ministri) e solo per ultimi, a tutti i fedeli.

La verità è che quasi tutti gli articoli prevedono solo privilegi per gli Ordini più

alti del regno e disposizioni per i funzionari pubblici, ma non diritti alla popolazione.

 

La legislazione sarda pre Carta de Logu

In Sardegna – come in Europa – vige, a titolo di diritto comune, il diritto romano,

recepito nell’Isola nel corso del XIII secolo, ma soprattutto quello consuetudinario: con usanze antichissime, tramandate di generazione in generazione e alcune custodite gelosamente fino ai nostri giorni.

Già nell’età post-nuragica, l’introduzione e l’applicazione in Sardegna del diritto

romano non abolì del tutto il vecchio diritto indigeno, che anzi questo coesistette a

fianco di quello, così da permettere per esempio che si continuasse lo sfruttamento

comune delle terre, che verrà abolito soltanto con la Legge delle chiudende (1821) e con quelle successive.

Nei secoli che seguirono lo sfaldamento dell’impero, continuò ad avere vigore il

diritto romano insieme con quello indigeno; dopo furono applicate in Sardegna anche le leggi bizantine, quantunque, a quanto pare, non siano rimaste di esse che poche tracce.

Scarsissime furono le tracce degli ottantanni di dominio vandalico (456-534) e quasi nulle quelle degli arabi, che fecero nell’Isola soltanto scorrerie, certo numerose ma brevi.

Anche nel campo del diritto, un soffio innovatore si ebbe dopo il Mille, con la

ripresa dei rapporti commerciali e politici fra la Sardegna e il Continente e con l’evoluzione della vita sociale isolana. L’influsso di Pisa e di Genova, la popolazione immigrata dalla Penisola, i monaci, i commercianti, i notai continentali portarono in Sardegna il diritto canonico e il diritto romano, rielaborato nelle università italiane, mentre le esigenze di governo e di amministrazione, nelle città e nelle zone rette da vicari e podestà pisani, imposero la necessità di leggi scritte, che servissero di guida e di norma per i magistrati.

 

1. Brevi regni Callari o Carta de Logu cagliaritana

Complesso di norme e di leggi raccolte da Pisa per il territorio (logu) comprendente i suoi domini nella Sardegna meridionale e per i Sardi abitanti in Cagliari. È andata perduta: la conosciamo grazie ai riferimenti che ad essa fanno altri Statuti. Raccoglie e codifica le antichissime consuetudini dei Sardi: come la commutazione della pena pecuniaria in pena corporale o la responsabilità collettiva nella cattura del delinquente. Fu abrogata nel 1421 con l’estensione a tutta la Sardegna della Carta de Logu di Eleonora d’Arborea.

 

2. Statuti di Sassari

Regolano la costituzione di Sassari in libero comune. Sono dovuti a Pisa e si ispirano al diritto pisano. Le pene sono stabilite con una severità feroce e non si fa distinzione fra dolo e colpa; per molti reati si stabilisce la mutilazione (taglio della mano, della lingua, perdita di uno o due occhi) e non è ammesso il riscatto con denaro, della pena corporale.

 

3. Legislazione dei Doria per Castelgenovese

Lo statuto concesso a Castelgenovese dai Doria è l’unico esempio rimastoci di statuto signorile in Sardegna. Molte disposizioni riguardavano l’agricoltura e l’allevamento del bestiame.

 

4. Breve di Villa di Chiesa

Fatto sulla falsariga di quello pisano, conteneva disposizioni riguardanti il diritto minerario civile e penale: le pene erano maggiori per le categorie sociali più elevate. Le norme del diritto minerario contengono termini tecnici tedeschi: ciò dimostra l’influsso del diritto minerario importato in Italia da minatori tedeschi.

 

5. Altri Statuti

Da allusioni e accenni contenuti in carte e documenti medievali, sappiamo che anche Alghero, Bosa, la Gallura, Terranova, Domusnovas ed Orosei avevano propri statuti,ma di essi nulla ci rimane.

 

6. Legislazione arborense

Come in tutta la Sardegna, anche nel Giudicato d’Arborea fino al secolo XIII non

esistevano leggi scritte. La vita sociale e l’amministrazione della giustizia erano regolate dal diritto consuetudinario:

 

Carta de Logu del Goceano

La prima raccolta di leggi fu fatta da Mariano IV, prima che salisse al trono, per le

popolazioni del Goceano e della Marmilla, di cui era signore. Non ne conosciamo il testo.

 

Codice rurale e Carta de Logu di Mariano IV

Dello stesso Mariano IV conosciamo invece il Codice rurale in 28 capitoli, che fu

poi incorporato nella Carta de Logu di Eleonora, e sappiamo che anch’egli compilò una Carta de Logu della quale la Carta di Eleonora tenne conto, correggendola e adattandola alle nuove esigenze dei tempi: tanto che è difficile oggi distinguere – nella Carta de Logu che conosciamo – quanto si deve a Mariano e quanto a Eleonora. Che comunque riconosce al padre grandu sinnu e providimentu.

 

Le Ordinanze di Ugone III

Meno famoso di Eleonora e di Mariano è Ugone III. Le sue Ordinanze, in numero di 23, sono contenute nello Statuto di Sassari e riguardano il diritto civile e penale. Rispetto alle leggi precedenti si prevede che nessuno sfugga alla pena di morte dovuta per l’assassinio, mediante il pagamento di denaro (e pro dinari alcunu campari non pothat), si danno disposizioni più severe agli ufficiali di giustizia per la cattura dei delinquenti, si stabilisce una tariffa dei prezzi e delle prestazioni di lavoro, si disciplina il commercio. Ugone stesso dice di avere emanato queste leggi ad vindicta et terrore dessos malefactores, e non c’è da meravigliarsi quindi per la crudeltà delle pene corporali. Si può sfuggire ad esse (eccezion fatta per la pena di morte) mediante il pagamento di una somma di denaro.

 

Lettura [testo tratto da La Carta de Logu del regno di Arborea, traduzione libera e commento storico di Francesco Cesare Casula, Ed. Consiglio nazionale delle ricerche – Istituto sui rapporti italo-iberici, Cagliari 1994, pagine 40-41]

 

CAPITOLO VII

De omini chi esserit isbandidu dae sas Terras nostras pro homicidiu, over alcuna

attera occasioni, pro sa quali deberit morri. Constituimus ed ordinamus chi si alcunu esserit isbandidu dae sas Terras nostras pro homicidiu, over pro alcun’attesa occasioni pro sa quali deberit morti, e vennerit ad alcuna dessas villas nostras senza esser fidadu, e basadu per Nos, siant tenudos sos Jurados ed hominis de cussa villa de tennirillu e battirillu assa Corti nostra; e si nollu tennerint e battirint secundu chi est naradu de sopra, paghit sa villa manna assa Corti nostra pro sa negligencia issoru liras vintichimhi, ed issa villa piccinna liras bindighi,

ed issu Mayori de cussa villa de per see liras deghi, e ciascuno Juradu liras chimbi.E ciò s’intendat si sos hominis de cussa tali villa illu ischírint. E si alcunu homini dessa ditta villa illu recivirit, e recettarit cussu tal’isbandidu palesimenti, o a fura, e darit illiconsigiu, ajuda, o favori, s’illi est provadu, paghit assu Rennu liras centu. E si non pagat issu, o atter’homini pro see, istit in prexoni a voluntadi nostra, salvu si cussu isbandidu bennerit a domu dessa mugeri, over de su padri, o dessa mamma, o dess’aviu, ed avia, o dessu figiu, o figia, o dessu fradi, o dessa sorri carrali, chi cussas personas non siant tenudas assa machicia  ssas predittas liras centu in totu, nen in parti.

 

Traduzione

CAPITOLO VII

Di colui che fosse bandito dalle nostre terre per omicidio o altra causa passibile di pena di morte.

Stabiliamo e ordiniamo che se qualcuno viene bandito dalle nostre terre per omicidio o altra causa passibile di pena di morte, e tornasse in qualche nostro villaggio senza un nostro permesso fiduciario per oscula (salvacondotto concesso con la cerimonia del bacio), i giurati e gli uomini di quel villaggio sono tenuti a catturarlo e a portarlo alla nostra Corte (di giustizia). Se non lo fanno, in villaggio grande (= da duecento nuclei familiari in su) dovrà pagare alla nostra Corte (di giustizia) per questa negligenza una multa di venticinque lire, ed un villaggio piccolo (= da duecento nuclei familiari in giù) una multa di quindici lire; inoltre, il maiori de villa (= la massima autorità del villaggio) dovrà pagare di per sé dieci lire, mentre i giurati della villa (= villaggio, paese, in sardo odierno bidda) dovranno dare ciascuno cinque lire, ovviamente se gli abitanti della villa, erano a conoscenza della presenza del reo nel proprio villaggio. E se qualcuno lo avesse accolto e ricettato palesemente o di nascosto, e gli avesse prestato consiglio, aiuto o favori, se è provato paghi all’Erario regio cento lire. E se non paga, o se qualcuno non paga per lui, resti in prigione a nostra volontà. A meno che a dargli ricetta non sia stata la moglie, o il padre, o la madre, o il nonno, o la nonna, o il figlio, o la figlia, o il fratello, o la sorella carnale, perché costoro non sono tenuti a pagare in toto o in parte le cento lire di multa.

 

Nota bene

Questi ampi stralci sulla figura di Eleonora d’Arborea e sulla Carta De Logu sono tratti dalla mia “Letteratura e civiltà della Sardegna , volume I, Edizioni Grafica del Parteolla, Dolianova, 2011, Euro  20.

 

Bibliografia essenziale

OPERE DELL’AUTORE

– La Carta de Logu

(da notare che anche se nel capitolo CXXIX si afferma che ciaschuno curadore

siat tenudo de aviri ad ispesas suas sa carta de logu…– ogni curatore sia

obbligato a possedere una copia della carta de logu – a noi della Carta sono

arrivate solo nove edizioni a stampa, precisamente del 1485, 1560, 1567, 1607,

1617, 1628, 1708, 1725, 1805). Per quanto attiene a edizioni recenti ricordo

La Carta de Logu del regno di Arborea, traduzione libera e commento storico

di Francesco Cesare Casula, Ed. Consiglio nazionale delle ricerche – Istituto sui

rapporti italo-iberici, Cagliari 1994).

 

OPERE SULL’AUTORE

– Enrico Besta, Carta de Logu di Arborea, “Studi sassaresi” III, I, 1905.

La Carta de Logu d’Arborea nella storia del diritto medievale e moderno, a

cura di Italo Birocchi e Antonello Mattone, Editori GLF Laterza, Roma-Bari 2004

(con scritti di A. Argiolas, F. Artizzu, M. Bellomo, I. Birocchi, G. Catani, M.M.

Costa Paretas, M. Da Passano, J. Day, S. De Santis, A. Dettori, C. Ferrante, L.

Galoppini, J. Lalinde Abadía, L. Lo Schiavo, A. Mattone, A. Multinu, T. Olivari,

G.G. Ortu, V. Piergiovanni, P. Sanna, F. Sini, M. Tangheroni).

– Frantziscu Casula, Leonora d’Arborea, Alfa Editrice, Quartu Sant’Elena 2006.

 

 

 

 

MA LA LINGUA SARDA E’ “GREZZA”?

MA SA LIMBA SARDA EST “GREZZA”?

Bi su nt galu medas isantalaos – no isco si prus tontos o maccos   chi galu pessant e narant chi sa limba sarda est “grezza”.

No ischint su chi narant. A s’imbesse: sa limba sarda est galantzina meda. Ca est mescamente limba de sentidu, de sonos, de musica. Limba de vocales. Duncas corporale e fisica e in su matessi tempus, aerea e  lebia, fini e impalpabili. E sas vocales sunt pro su poete s’anima de sa limba, sunt s’acapiu, su ligongiu intre sa limba e su cantu; intre sa poesia, sa musica, su ritmu e su ballu.

E difatis in s’istoria sas lacanas intre sa poesia e sa musica e su ballu, sunt istadas semper debilis e isfumadas a tale puntu chi sos poetes antigos – sos aedos grecos pro assempru – no iscriiant poesias  ma las cantaiant acumpagnendesi cun sa lira: no a casu naschit sa paraula “lirica” e aoidòs  in grecu cheret narrere “cantore”.

Ma cantant peri Dante e Petrarca, Ariosto, Tasso e Leopardi. E sos cantadores sardos, mescamente sos improvisadores.

Cun cussa limba, su Sardu, chi in manera cuada e subliminale tenet in suta sentimentu e sensu, musica, ritmu e ballu. Mesche su ballu tundu: mamentu fadadu cando sa comunidade intrea, tot’umpare si pesat a ballare moendesi in circulu. E cun custu movimentu esprimit unu muntone de sinnos e de significados, simbulos e ritos: s’armonia de s’Universu, su movimentu de s’abba, su Nuraghe. E cun issu totu sa tzivilidade nuragica cun sa democratzia federalista e comunitaria, su refudu de su capu, de su gerarca, de su soberanu: ca sa Sardigna est istada semper atzefala amparende semper sa difesa  de s’Autonomia e s’Indipendentzia de cada bidda.

Ma leghide custa poesia de Montanaru e a pustis m’azis a narrere si sa limba sarda est “grezza”.

 

It’est sa poesia?… Est sa lontana

bell’immagine bida e non toccada,

unu vanu disizu, una mirada,

unu ragiu ’e sole a sa fentana,

………………………………….

Unu sonu improvisu de campana,

sas armonias d’una serenada

o sa oghe penosa e disperada

de su entu tirende a tramuntana.

……………………………….

It’est sa poesia?… Su dolore,

sa gioia, su tribagliu, s’isperu,

sa oghe de su entu e de su mare.

………………………………..

Sa poesia est tottu, si s’amore

nos animat cudd’impetu sinceru,

e nos faghet cun s’anima cantare.

(Montanaru)