Civitates Barbariae:la cronistoria della rappresentazione teatrale di Mario MurgiaN

Civitates barbariae di Mario Murgia

Venerdì 5 novembre 2014 si è svolta a Quartu S.Elena, nella Sala Comunale del Comune, alla presenza delle autorità Comunali e di un folto pubblico, organizzata da Itamicontas, la rappresentazione teatrale dell’atto unico di Mario Murgia Civitates barbariae. Qui di seguito è riportata l’untroduzione di Paolo Maccioni, vicepresidente di Itamicontas.

Gentili signore e signori, Itamicontas nella persona del vicepresidente Paolo Maccioni vi da il benvenuto a questa manifestazione che riguarderà la esecuzione dell’opera teatrale di Mario Murgia: Civitates Barbariae. Prima di entrare nel vivo della rappresentazione diamo la parola alla signora Romina Angius vice presidente del Consiglio Comunale e al signor Guido Sarritzu assessore alla Cultura e lingua sarda del Comune di Quartu.

L’Assessore alla cultura Guido Sarritzu dà il benvenuto Grazie signora vice presidente del consiglio e grazie signor assessore.

Entriamo ora nel vivo della serata. Mi presento per coloro che non mi conoscono, mi chiamo Paolo Maccioni e vivo a Quartu S Elena da quasi trent’anni per cui, pur essendo nato a Cagliari mi considero e sono a tutti gli effetti cittadino di Quartu. Sono spesso confuso con un dentista di Cagliari perché ambedue, oltre ad avere lo stesso nome ed essere nati nella stessa città abbiamo in comune anche la stessa passione per lo scrivere. Solo che lui, magari, è un po’ più giovane!

Paolo Maccioni legge l’introduzione Sono il vice presidente della associazione culturale Itamicontas che insieme ad alcuni amici ho contribuito a fondare a Flumini. Dapprima ha operato come gruppo autogestito e poi alla fine del 2012 come associazione onlus iscritta al registro regionale del volontariato sezione cultura. In questa veste vi vorrei parlare oggi della nostra associazione. Poi, come amico di Mario Murgia vorrei dirvi due parole sulla sua opera Civitates Barbariae alla quale state per assistere oggi. L’associazione Itamicontas è nata dunque a Flumini, con il preciso intento di diffondere la cultura in una vasta zona del territorio abbondantemente popolata ma che era ed è tuttora priva di qualunque istituzione pubblica o privata che risponda a quell’importante compito, imprescindibile in una società evoluta e civile, di dare ai propri cittadini strutture adeguate perché possano evolversi culturalmente. Le sole eccezioni a questo vuoto sono rappresentate della Chiesa e dell’organizzazione degli Scaut. Ma era ed è troppo poco. In questo contesto è nata Itamicontas. Con il passare del tempo e attratti dalla validità della nostra iniziativa si sono via via aggiunti al nucleo originario diversi altri elementi di spicco che hanno fatto si che l’associazione sia diventata nel breve giro di tempo un punto di riferimento importante per la diffusione della cultura in quella zona ma non solo in essa.

Il successo che le iniziative di Itamicontas hanno riscosso sono dovute a due fondamentali motivi: Innanzitutto perché vi sono tra i nostri soci molti elementi che la cultura la fanno, e non si limitano solamente a commentarla, studiarla e diffonderla. Alcuni di loro, infatti scrivono come Giulio Solinas, Carlo Corda, Livy Former, Guido Pegna, Paola Murranca, Antonio Cogoni, Cosimo Corvetto, Francesco Pilloni, Paolo Piras, Nino Nonnis, Caterina Roberto, Tonino Oppes, io stesso, oppure dipingono, come Serena Fazio, o fanno musica, come il soprano Gesy Lai, Giuseppe Pes, lo stesso Mario Murgia, Antonio Solla, e tanti altri che si occupano di settori diversi come la fotografia, l’artigianato, il turismo e che con il loro apporto appassionato rendono le nostre manifestazioni sempre vivaci e godibili. In secondo luogo ma non certo secondo come importanza è il fatto che Itamicontas può contare su un presidente di valore indiscusso come il professor Francesco Casula che rappresenta per l’associazione il fiore all’occhiello, quel di più rispetto ad altre associazioni similari alla nostra, e che, con la sua presenza avvalla la serietà dei nostri sforzi e dei nostri intenti che sono e rimangono esclusivamente di tipo culturale. Inutile dire che sono felicissimo di collaborare con lui.

Tutte le manifestazioni che Itamicontas ha effettuato, anche quelle dirette ai bambini, sono riprodotte e raggruppate in fascicoli con commenti e documentazione fotografica, a partire dalla sua nascita, fino a tutto il 2013 ( il fascicolo relativo al 2014, che conta ben 42 eventi, sarà pronto nei primi mesi del 2015) e sono distribuiti gratuitamente ai soci via mail, in formato PDF, facilmente scaricabile. Ma anche i non soci possono averli richiedendoli all’indirizzo mail itamicontas@tiscali.it. accompagnando la richiesta con una semplice offerta Chi è interessato può chiedere maggiori dettagli oltre che all’indirizzo mail indicato, alla nostra segretaria signora Carla Scano che è qui presente in aula.

Ora vorrei parlarvi di Mario Murgia e della sua opera Civitates Barbariae. La mia amicizia con Mario dura ormai da molto tempo, forse da un decennio, da quando ambedue reduci dall’aver vinto un primo premio ad uno dei diversi concorsi indetti dalla associazione amici dell’Umbria ci siamo incontrati e abbiamo collaborato assieme ad alcune presentazioni dei miei romanzi. Lui accompagnava con il suo strumento e la sua voce l’illustrazione che io facevo dei miei libri. Già in quel periodo nasceva in lui la idea di quella che attualmente è diventata Civitates Barbariae e che allora era una semplice paginetta e che pure vinse un concorso indetto dalla provincia di Cagliari. Ma era ed è tutt’altra cosa da quell’opera che è diventata oggi Civitates Barbariae. Ho vissuto appieno con Mario le trasformazioni che ha apportato all’opera originaria, le aggiunte, le precisazioni, le incertezze e la passione con cui si è dedicato a questo lavoro. La sua insoddisfazione era continua e credo che ancora oggi lui trovi che qualche cosa debba essere corretta e migliorata, perché la sua meticolosità e precisione lo portano a ricercare una perfezione impossibile.

Il dramma si svolge nell’età nuragica, quell’età tanto cara non solo a Mario Murgia ma a quasi tutti gli storici della nostra isola perché essa rappresenta il periodo migliore tra quelli della nostra antichità e un’epoca in cui era a portata di mano la felicità. Ebbene questo melodramma riguarda proprio il momento culminante di quella felicità quando essa però sta per svanire per un nemico che ancora non è di fronte agli occhi ma dal quale si deve fuggire per evitare la tragedia. Sono certo che questa sua opera troverà il riscontro che merita non solo qui in questa aula, in cui viene presentato per la prima volta e con mezzi teatrali limitati, ma anche e soprattutto fuori di qui, perché essa rappresenta il nostro mondo antico, da dove tutti noi proveniamo e del quale abbiamo solo tracce che lentamente emergono dal buio in cui è stato sepolto. Mi riferisco in particolare ai giganti di monte Prama e ai continui ritrovamenti che alimentano fortemente il desiderio di maggiore conoscenza e che speriamo possano darci in questo senso altre importanti soddisfazioni. Ho detto tutto quello che dovevo dire e ora proseguiamo ascoltando ciò che vorrà dirci in proposito il presidente Francesco Casula.

Relazione di Francesco Casula

Grazie Presidente Casula, la parola va ora alla dottoressa Claudia Zuncheddu della Associazione culturale Eliseo Spiga del quale sono stato amico dai tempi del suo impegno politico di Quartucciu fino a ritrovarlo poi nella sua veste di conduttore agricolo a Sant’Isidoro)

Interviene ClaudIa Zuncheddu

Adesso entriamo veramente nel vivo dell’opera e dò la parola al signor Tonino Dessì e poi interverranno

Mario Murgia, Paolo Maccioni, Francesca Serra, Roberto Ingrosso, Mariuccia Vera

Pubblicato dapaolo maccionia07:281 commento: Ubicazione:Quartu Sant’Elena CA, Italia

Letteratura e civiltà della Sardegna:recensione di Claudia Zuncheddu, leader di SARDIGNA LIBERA e già Consigliere regionale

sa sardigna no est italia – sa sardigna est in su mundu

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“Letteratura e civiltà della Sardegna” 1° e 2° Volume

di Francesco Casula

Ho avuto l’onore di essere interpellata su quest’opera e ritengo che il Pensiero di Francesco Casula, in modo palese rimette al centro degli obiettivi di noi sardi, la nostra storia e l’esigenza di riappropriarci del nostro ruolo di protagonisti.

E’ curioso che Francesco Casula apra questo grande lavoro con una provocazione e cioè sul dilemma secondo cui i sardi abbiano avuto oppure no una storia propria. Secondo alcuni, noi sardi non abbiamo avuto una storia, secondo altri è la storia di un popolo vinto, per non parlare di alcune interpretazioni snob di certi francesi, che forti di una visione colonialistica delle relazioni tra i popoli, non esitano a sentenziare: “La Sardegna è rimasta ribelle alla legge del progresso, terra di barbarie in seno alla civiltà che non ha assimilato dai suoi dominatori altro che i loro vizi “. Così scriveva nel 1861 in Ile de Sardaigne, Gustavo Jourdan, un uomo d’affari francese, dopo il fallimento di un suo progetto che mirava a coltivare nella nostra Isola gli asfodeli per la produzione di alcool.

Se il Popolo sardo ha una Preistoria straordinaria e unica: la civiltà nuragica, come può non avere una sua Storia? La nostra è semplicemente una storia negata e sepolta dalle dominazioni coloniali. A noi sardi è stata tagliata la lingua e imposta quella del dominatore. E’ stata occultata la nostra storia per sradicare la nostra identità e farci dimenticare chi siamo, impoverirci e indebolirci per renderci più dominabili. Anche a Popoli africani, sotto pressione coloniale, hanno fatto dimenticare chi fossero e da dove arrivassero, cancellando dalla loro memoria persino la storia dei loro potenti Imperi Neri, che nulla avevano da invidiare all’Impero romano e alla cultura del Rinascimento sia militarmente, che come produttori d’arte e di culture raffinate.

Non esistono popoli senza storia. Esistono popoli sotto un dominio coloniale, con una storia da disseppellire e liberare. L’opera di Casula è uno strumento di orientamento all’interno di un processo di liberazione della storia e della identità sarda.

L’Autore inserisce i più illustri testimoni della nostra storia: scrittori, storici, scienziati e poeti, come porte aperte a cui accedere per riscoprire il valore e la bellezza della nostra identità. La Costante Resistenziale a cui fa riferimento Lilliu, il senso di appartenenza e di difesa delle nostre radici, ci ha reso forti e resistenti come alberi nati su terreni difficili. Penso ai ginepri del Supramonte con le radici fossili che sprigionano dalla roccia. Questi siamo noi sardi. La nostra resistenza ha fatto sì che si conservasse il nostro ricco patrimonio identitario, dalla musica con i suoi strumenti, alla poesia, all’arte e all’archeologia, alla gastronomia, alla biodiversità della nostra natura e al nostro bene ambientale, alla cultura orale di inestimabile valore, riconosciuta spesso come patrimonio materiale e immateriale dell’Umanità. Noi non abbiamo mai rinunciato a tutto ciò nonostante i violenti attacchi dall’esterno.

Sull’ironia di Casula, nel raccontare che nel 2005 la Biblioteca del quotidiano La Repubblica stampò un volume di 800 pagine sulla Preistoria italiana escludendo la civiltà nuragica, ritengo che non sia una dimenticanza o un’omissione. Gli autori italiani, che noi sardi ringraziamo per l’onestà culturale, non possono aver dimenticato la preistoria sarda. Essi hanno preso atto che quella cultura così diversa, non poteva appartenere all’Italia, riconoscendo al di là di ogni artefatto politico che sa Sardigna no est Italia. E’ dalla cultura nuragica che trae spunto la critica di Eliseo Spiga alla società della crescita che non rispetta l’ambiente, che consuma le risorse della Terra, senza garantire il benessere ai popoli, al concetto di “città che fagocita i territori”. Di questo Pensatore, Casula riporta un concetto di grande attualità: “E’ la civiltà della sovranità comunitaria, che non costruisce città ma villaggi, perché la città è ostile alla terra, agli alberi, agli animali e inselvatichisce gli uomini, pretende tributi insopportabili per accrescere le sue magnificenze… crea i funzionari del tempio e del sovrano… i servi e gli schiavi”.

Quest’opera è una bussola per i nostri giovani in un mondo globalizzato. E’ uno stimolo per “disseppellire” la nostra storia e a riappropriarsi del patrimonio identitario, per giustizia, per missione e per necessità. Questa è la forza che permette a noi sardi di camminare e di confrontarci nel mondo, senza stampelle, senza la necessità di mediazione da parte di Stati dominatori o di tutori.

Claudia Zuncheddu

Le origini sarde di Jean Paul Marat. Il padre era di Cagliari. di Francesco Casula

Le origine sarde di Jean Paul Marat.

di Francesco Casula

1. Un  protagonista della Rivoluzione francese

Jean Paul Marat è stato tra i protagonisti della Rivoluzione francese quello più radicale. Deputato della Convenzione fu anche presidente del Club dei Giacobini. Fu estremamente critico anche nei confronti della dichiarazione dei Diritti dell’uomo dell’89, che considerò “un’irrisoria esca per distrarre gli sciocchi” un’atroce beffa per il popolo perché – scrive – Votre fameuse déclaration des droits n’etait donc qu’un leirre derisoire pour amuser les sots …puisqu’elle se réduit en derniere analysi à conférer aux riches tous les avantages, tous les honneurs du nouveau régime.

La dichiarazione dei diritti aveva infatti proclamato l’uguaglianza degli uomini in linea di diritto ma non di fatto: aveva infatti affermato e riconosciuto a tutti il diritto di concorrere al potere e alla ricchezza e aveva conseguentemente dichiarato guerra al privilegio ereditario ma aveva creato altri “privilegiati”: la borghesia. Si era infatti dimenticata di proclamare l’uguaglianza economica dei cittadini. Sono stati distrutti i privilegi ed è stata regolata la proprietà – sosterrà Marat – ma ciò non riguarda il popolo che non ha niente da difendere: ”Les changements survenus dans l’Etat, ils sont tous pour le riche”

Occorreva dunque secondo lui, quindi riformare radicalmente il regime economico, abolendo la proprietà privata: questa sarà la sua battaglia come deputato alla Convenzione, battaglia che perderà e anzi, la società borghese uscirà consolidata dal travaglio della grande Rivoluzione. Fin dal 1789 inizia una lotta contro il regime borghese del censo agli effetti elettorali esaltando la sovranità popolare la quale può essere solo delegata, con mandato sempre revocabile..

2. l’origine sarda

Sull’origine sarda di Jean Paul Marat non vi sono ormai dubbi. A documentarlo con certezza vi sono studi rigorosi con relative documentazioni e prove, ad iniziare dagli Atti di nascita, di battesimo e di matrimonio. L’ultima opera sul rivoluzionario, corposa (596 pagine in due tomi) ed estremamente documentata, Marat en famille-La saga des Marat è della professoressa belga Charlotte Goetz, con corredo di note, bibliografia e riproduzione di documenti fra cui quelli provenienti da archivi sardi. Molti sono stati forniti da Carlo Pillai1, già Sovrintendente archivistico per la Sardegna e autore di numerosi articoli su Jean Paul Marat.

A documentare l’origine sarda, fin dagli inizi del Novecento è stato  Egidio Pilia2, – avvocato e saggista, nonché uno dei fondatori del Partito sardo d’azione – con l’opuscolo Gian Paolo Marat.

Il protagonista della Rivoluzione francese, di cui rappresentava l’anima più radicale e popolare, non a caso fu soprannominato l’ami de peuple, nacque a Boudry, nel cantone di Neuchâtel in Svizzera il 24 maggio 1743 da Giovanni e da Luisa Cabrol. L’8 giugno verrà battezzato e nell’Atto, conservato – precisa Pilia –  nel Registro dei battesimi di Neuchâtel dove si accenna esplicitamente a “Jean Paul, fil de M. Jean Mara de Cagliari en Sardaigne et de Loise Cabrol de Geneve”.

Ma lo stesso rivoluzionario, ci ha lasciato più di una prova a conferma della sua origine sarda: nella Biblioteca universitaria di Neuchâtel si trova ancora conservato un dizionario latino-francese, a lui appartenuto in gioventù, che porta sulla prima pagina il nome Jean Paul Mara, scritto di suo pugno.

3. Chi era il padre?

Esiste a Cagliari nella Parrocchia del Quartiere Marina,(Pagina XVI del volume XVI Quinque libri) dal quale risulta che Juan Salvador padre di Giampaolo, nacque a Cagliari da Antonio Mara e Millana Trogu e fu battezzato nella chiesa parrocchiale di Marina il 9 agosto 1704 :”En los nueve dias del mes de Agosto del presente anno del mille siete sientes y quatro yo el reverendo Costantino Espissu, domero de la Iglesia Parroquial de la Marina bautize segun el rito de la santa Iglesia romana à Juan salvator Mara y Millana trogu, coniuges de la Marina etc. etc.” .

Ma un contributo decisivo sulla vita e sulla figura di Juan Salvador Mara ce lo offre Carlo Pillai Dalle sue ricerche archivistiche risulta senza ombra di dubbio che il padre del rivoluzionario, nato a Cagliari nel 1704 divenne frate Mercedario il 10 agosto 1720. “Ben presto fu avviato alla carriera ecclesiastica – scrive Pillai – e a quattordici anni vestì l’abito dei Mercedari nel convento di Bonaria. Nel 1726 era diacono e dopo la nomina a lettore fu inviato a Bono, in un convento di nuova istituzione” 3 .“A causa del suo carattere irruento e focoso – è sempre Pillai a scriverlo – ebbe a scontrarsi vivacemente col potere secolare, in relazione al pagamento di certe quote arretrate del Regio Donativo dovute dal Convento”.

Con il potere politico si scontra anche in merito ad altre questioni tanto che il viceré, conte d’Apremont ordinò un’inchiesta, “manifestando il proposito di punire a dovere quel frate ribelle che osava mettere in discussione l’ordine costituito. Pertanto ordinò ai superiori dell’Ordine di farlo rientrare a Cagliari, dove l’avrebbe convocato alla sua presenza per comunicargli il meritato castigo” 4 .

Avuto sentore del pericolo che correva Juan Salvador scappa abbandonando la Sardegna. Si spreta e si reca a Ginevra dove vivrà facendo il disegnatore per un’industria tessile. E a Ginevra si sposerà con la calvinista Luisa Cabrol, sedicenne da cui avrà Jean Paul e altri cinque figli.

4. Perché il padre al cognome Mara aggiunge Bonfils e non Trogu, il cognome della madre?

Nasce a questo punto un problema: se il padre di Giampaolo, Giovanni è figlio di Millana Trogu, come mai si firma aggiungendo sempre al cognome paterno Bonfils e non Trogu?

Ebbene il cognome Bonfils, usato da Giovanni Mara è quello della sua nonna paterna, come risulta dall’atto di matrimonio celebrato nella Chiesa parrocchiale di Marina a Cagliari (Atti di Matrimonio dal 1693 al 1703, Foglio59) in cui il domero Costantino Espissu…en onze diade mes de meayo del presente anno del mil seicentos nouenta y ociodesposò por calabra de presente, en mi presencia, segun el rittu de la Santa Iglesia Romana, Antonio Mara de la ciudad de sasser, hijo de Antonio Mara y de Maria Vittoria Bonfils, coniuges vesinos de dicha ciudad y a Millana Trogu de la Marina etc. etc.”.

Sappiamo dunque da quest’Atto di matrimonio che Antonio Mara, bisnonno del nostro rivoluzionario era oriundo di Sassari e che egli era un Bonfils, come si firmava il padre.

“Questa tesi – scrive Egidio Pilia – è corroborata da un altro documento: l’Atto di matrimonio intervenuto a Ginevra il 21 dicembre 1740 fra Giovanni Mara e la sedicenne Luisa Cabrol dalla cui unione dovrà nascere tre anni dopo l’ami du Peuple. Dall’atto redatto dal notaio Marco Fornet, in Ginevra, risulta all’evidenza che il cognome Bonfils apparteneva ad Antonio Mara, non al figlio Giovanni.

L’Atto infatti suona così : «Contrat intervenu entre sieur Jean fils de sieur Antoines Mara Bonfils, peintre et  dessinauteur, natif de Caìllary, dans l’île  de Sardaigne, demeurant dès quelque temps en cette dille de Genève, d’une part et demoiselle Louise, fille de sieur Louis Cabrol, native d’autre part etc. etc.» 5 .

5. Perché aggiunge una t al suo cognome.

Acclarato che Jean Paul Marat è Giampaolo Mara rimane una questione: perché ha voluto aggiungere al cognome Mara la t diventando Marat.

Uno dei biografi del rivoluzionario il francese François Chèvremont6, riporta una lettera scrittagli il 2 luglio 1867 dal Giovanni Mara, nipote di Jean Paul e ricevitore del registro e bollo a Genova, dalla quale si apprende che fu il proprio il rivoluzionario ad aggiungere «un t final a son nom pour le rendre francais, t chi ne se trouve ni dans son acte de maissance ni dans aucun de ceuux des membres de notre famille».

“Dall’esame degli atti di nascita dei numerosi figli – scrive ancora Egidio Pilia6– non risulta infatti esserne neppure uno in cui si trovi traccia di t finale, compreso quello di Albertina, che pure fu l’unica, ad imitazione del fratello Gian paolo, a firmarsi Marat, anzi in quello di Davide Mara, l’origine cagliaritana del padre risulta confermata.

Solo quando Giovanni Mara riesce a ottenere la cittadinanza svizzera (21 aprile 1760) egli non è più indicato negli atti di nascita dei propri figli come natif de Cagliari en Sardaigne ma come ma come bourgeois de Boudry 7 .

Ma c’è di più: il fratello Giovanni, nell’atto di richiesta degli oggetti lasciati da Jean Paul dopo che fu assassinato dalla girondina Charlotte Corday, dice di essere «Jean Mara, horloger, demeurant à Genève, fils de Jean Mara de Cagliari en Sardaigne, recue abitant de Genève le dexième mars milseptcent quarentun8».

Anche il fratello minore, quando il 4 aprile 1791 si sposa, a Genova, firma il suo contratto matrimoniale col cognome paterno dei Mara, sebbene il fratello Gian Paolo fosse ormai celebre con il cognome Marat.

Bibliografia

1.Carlo Pillai, Le ascendenze sarde di Jean Paul Marat, in Nobiltà 2005 e Carattere focoso e pensiero acuto in Almanacco di Cagliari anno 2003.

2. Egidio Pilia, Gian Paolo Marat, Edizioni Fondazione il Nuraghe, Cagliari 1925.

3. Carlo Pillai, Carattere focoso e pensiero acuto, articolo cit.

4. Ibidem

5.Chèvremont Francois, J. Paul Mara “L’Esprit politique” -2 volumi in 8.0- Parigi 1880.

6. Egidio Pilia, Gian Paolo Marat, op. cit.

7. Docteur Cabanès, Marat Inconnu-l’homme privé, le medicin, le savant, Nuovelle Edition  – Paris – Albin Michel 1891.

8. Archives Nationales de Paris: F – 4885, dossier Corday, pièce n.5

 

 

LA SARDEGNA NELL’ULTIMO LIBRO DI PINO APRILE:”Terroni ‘ndernescional”, a cura di Francesco Casula.

Pino Aprile, giornalista (è stato vicedirettore di “Oggi” e direttore di “Gente”) e scrittore (ricordo alcuni suoi libri di successo: “Terroni”, “Giù al Sud”, “Mai più Terroni”, “Il Sud puzza”) in questi giorni ha pubblicato l’ultimo suo saggio storiografico in cui la Sardegna è abbondantemente presente:

TERRONI ‘NDERNESCIONAL(Piemme Edizioni, Milano 2014)

Ecco la gran parte di un capitolo

YESTERDAY

[…] Tutto questo radicalizza le posizioni. E chi recupera la storia negata (ma non perduta) viene accusato di “nostalgia borbonica”, così come di “Ostalgia” i tedeschi dell’Est. Intendendo, con questo, che chi rimpiange quei tempi, li vorrebbe riproporre oggi. Naturalmente, non è vero, anche se lo trovi sempre qualcuno che rivedrebbe volentieri i Borbone alla guida del Regno delle Due Sicilie, Cecco Beppe a governare le Tre Venezie, il muro a dividere di nuovo Berlino, Eleonora d’Arborea a governare la Sardegna con leggi della Carta de Logu, del 1392 (che rimase in vigore più di quattro secoli e che i sardi ritengono la prima vera carta dei diritti del popolo, perché la precedente Magna Charta inglese del 1215 si occupava più dei potenti, ecclesiastici e no, che della gente; mentre la Carta de Logu fa il contrario, e con visione molto moderna, persino femminista, in alcuni casi: la violenza sessuale era duramente punita e lo stupratore condannato anche a sposare la donna aggredita, ma solo “se piace alla donna”. Ove fosse rifiutato, doveva “farla accasare munendola di una dote, secondo la condizione sociale della donna violentata e il rango sociale dell’uomo violentatore”. Immaginate un don Rodrigo che approfitta di una popolana…).

Quella nostalgia è importante! Va capita e compresa, perché segnala il valore di una perdita che non è stata compensata da quel che doveva sostituirla, in meglio. È una promessa tradita. Insomma, ti manca il passato che era, o anche solo ti sembrava, migliore del presente. Proprio il professor Francesco Casula, nella sua monumentale opera sulla letteratura sarda, rammenta che “la nostalgia, a dispetto dei politici “realisti” -come diceva Borges- è la relazione migliore che un uomo possa avere con il suo paese”. Può avvenire che quel passato venga aggiustato nel ricordo e dal ricordo (la memoria salva il nostro equilibrio psichico, dimenticando i dolori più grandi: per questo le donne non si fermano tutte al primo figlio), ma la ragione del fenomeno rimane: cerchi rifugio in un’altra epoca, quando quella in cui vivi ti esclude: un modo per fuggirne. Soprattutto, se nel raffronto fra ieri e oggi, l’oggi perde; in più, se di quel passato ti è stato mostrato soltanto il male, mentre il bene ti è stato nascosto o diminuito, persino dileggiato e ridotto a motivo per denigrarti, sottrarti diritti, renderti “meno”, rispetto ad altri, allora recuperare quel che è stato diviene il modo per ritrovare la dignità e l’orgoglio amputati e pretendere la parità di trattamento e il rispetto che ti negano. Se nel passaggio da ieri a oggi ci siamo persi qualcosa, o ce l’ha rubato chi ha voluto traghettarci qui, magari a mano armata, è nel passato che dobbiamo cercarla, per rifarla nostra. Insomma: per quanto male o bene stessero i tedeschi orientali nella Germania Est, i sudditi dei Borbone nel Regno delle Due Sicilie, i sardi prima della conquista iberica e poi piemontese, non erano i meridionali, gli “ossiess” (orientali), i serbidoris di nessuno; fossero pure stati “poco”, a confronto con altri Paesi (ma erano avanti a molti che oggi li hanno superati), non erano “meno” in casa loro. Infatti: se “quell’umore esistenziale del proprio essere sardo, come individui e come gruppo” ha resistito, è in virtù di quella che Giovanni Lilliu, il più grande archeologo sardo, chiama “la costante resistenziale”, ovvero, la forza e la coscienza di essere “nazione”. Tant’è che mentre “non ha senso pensare a una storia della letteratura campana, o pugliese, o calabrese, o marchigiana, o laziale…”, sostiene il professor Francesco Casula, è possibile fare una storia delle letterature sarda e siciliana come “Letterature nazionali”. Parliamo di valori che possono a lungo affievolirsi, sino a diventare poco più di sussurri nell’anima, ma non muti. E quando magari non te l’aspetti, ti riportano qualcosa di tuo (a proposito: per “letteratura campana” si intende regionale, essendo di grande rilievo quella “napolitana”, che si riferisce a una lingua e a una cultura non cittadina, ma ultraregionale).

La frattura, così, si allarga, fra chi non vuol perdere il vantaggio che pensa di meritare (mentendo su come l’ha raggiunto, o ignorandolo, perché lo si tace: ricordate?, sino al 2050, non saranno accessibili i documenti più imbarazzanti su come è stata fatta la riunificazione tedesca; e di quelli risorgimentali nostri meglio non parlare) e chi non accetta più di essere un tedesco “ma” dell’Est, italiano “ma” del Sud; dove il “ma” è un diminutivo; del regno Sardo, “ma” sardo (!). E accade ben altro, con il dilagare di pubblicistica e movimenti di revisione culturale, a volte con progetti politici: si è voluta operare una distinzione fra “i meridionalisti cattivi” e quelli “buoni” (che non protestano se il governo ruba i soldi delle scuole del Sud e li porta al Nord; se cancella gli autori meridionali dai libri del liceo; se condanna a morte le università dei terroni o un ministro chiama i napoletani “topi da derattizzare”… Mai. Si inalberano solo se altri meridionali lo fanno notare e non dicono che, se questo accade, è “Tutta colpa del Sud”, come gridava a tutta pagina l’edizione del Mezzogiorno del Corriere della sera, citando il libro di un “nativo” che lo “dimostrava”).

Chi tiene altri in stato di subordinazione, ha bisogno di una classe intermedia locale (politica, culturale, imprenditrice) che funga da cuscinetto. E sono proprio queste truppe cammellate, non la Lega Nord, a partorire continuamente nuovi termini che accoppiano l’idea di “negativo” a quella di “Sud”. Per distinguere i meridionalisti acquiescenti da quelli no, quindi sbagliati, li hanno chiamati “neomeridionalisti” (brutta gente, neh?); non bastando, visto che aumentano di numero e pretese, per degradarli ancora di più, sono passati a: “sudisti” (bruttissima gente!); e quando un sudista esagera, diviene addirittura “neoborbonico” (per favore, siamo in fascia protetta, non fate leggere la parola i bambini: il trauma potrebbe bloccarne lo sviluppo. L’umanità ne uscirebbe impoverita per la perdita di un Trota o di un genio che ci spieghi perché è “Tutta colpa del Sud”. E la massoneria potrebbe non perdonarci, i posteri nemmeno).

Così, proprio alcuni meridionali, per far sapere (a chi?) che loro sono evoluti, non come gli altri, moltiplicano le parole che diventano dispregiative perché contengono l’idea di Sud (ai settentrionali basta “terroni”). Domanda: come mai non esiste qualcosa di analogo per il Nord? Forse perché non c’è nulla di sbagliato, sporco, disonesto, deteriore, lì? (Non so rispondere; proverò a fare qualche telefonata alla Parmalat, alla Minetti, alla coppia Berlusconi-Salvini, a Craxi e Mussolini, al Trota e a Cota, a Formigoni, al suo compagno di vacanze Daccò e a quelli di castità e appalti in Comunione e Liberazione. Se la direzione del carcere me li passa, anche a quelli che stanno in galera per gli appalti dell’Expo di Milano o le tangenti del Mose di Venezia: un miliardo di euro, non sarà un record mondiale? Poi vi dico). Chi usa termini che “sanno di Sud” per farne insulti, lo diminuisce, costringendolo alla sudditanza: è con le sue parole che il vincitore incatena il vinto (l’opportunismo non ha latitudine, ma questo sport miserabile praticato da meridionali contro il Meridione è anche un volersi allontanare da qualcosa, per non riconoscerla come propria. Quel qualcosa è nella storia che rese nemici, nel Sud, il popolo e quella che, avendone aspirazione e doti, si proponeva come sua classe dirigente; volendolo essere pur a dispetto del popolo, e persino contro, se non accettata come tale. E diventandola, alla fine, ma conto terzi. E contro, nella giacobina convinzione di essere la guida giusta di un popolo lazzaro e sbagliato).

Sarebbe interessante investigare ancora sui sentimenti che portano a quella (n)ostalgia, ma mi allontanerei troppo dalla ragione di questo libro (già così…). Ci basta sapere che non è il desiderio di tornare al passato, ma di recuperare dal passato le ragioni di una reputazione sminuita per altrui convenienza. Per questo, non è nemmeno importante quanto indietro stia, nel tempo, quel passato, purché offra quelle ragioni. Per i tedeschi orientali bastano 25-30 anni; per gli ex abitanti del Regno delle Due Sicilie, ce ne vogliono più di 150; per i sardi, sono pochi duemila: la loro preistoria e la loro storia sino all’oppressione dei fenici (che li costrinsero a rifugiarsi nell’interno), sono state idealizzate in una sorta di età dell’oro, della libertà fra pari, della giustizia e persino nell’origine del mito di Atlantide (“Epica della Sardegna antica, quindi: mito al posto della storia”, scrive Accardo. Ovviamente, su questo si discute molto, ma sentite quanta fierezza c’è nella sintesi che ne fa il professor Francesco Casula, in Letteratura e civiltà della Sardegna: “Quella nuragica è stata la più grande civiltà della storia di tutto il Mediterraneo centro-occidentale del secondo millennio avanti Cristo. Con migliaia di nuraghi”, le tipiche costruzioni in pietra a tronco di cono. Una Sardegna “con un’economia dell’abbondanza: di carne, pesce, frutti naturali. Che produce oro, argento, rame, formaggi, sale, stoffe, vini (…), combatte alleata con i Popoli del mare contro i potenti eserciti dei faraoni e dei re di Atti che tiranneggiano e opprimono i popoli (…) isola libera, indipendente e senza stato. Organizzata in una confederazione di comunità nuragiche mentre altrove dominano monarchi e faraoni, tiranni e oligarchi. E dunque schiavitù (…) molti si rifugeranno nell’Isola, che accoglierà esuli e fuggitivi” da tutto il Mediterraneo, anche da Troia.

Poi, arrivano i cartaginesi, che seminano distruzione e morte e tutto finisce, con i sardi in fuga negli orridi, le caverne, i boschi dell’interno, come “verso un carcere, quasi verso un enorme campo di concentramento naturale, ma fu anche e soprattutto la capitolazione di una intera civiltà”, scrive Giovanni Lilliu, in La civiltà dei sardi. Che si divisero: “da una parte l’Isola montana dei Sardi ancora liberi, seppur costretti in una sorta di riserva dai conquistatori (…), dall’altra i Sardi più deboli, arresisi agli invasori” (cercate di immaginare quelle fughe e quei luoghi. Anche se non ci siete mai stati, li conoscete, specie l’Ogliastra, la provincia a Nord-Ovest della Sardegna, la più disabitata d’Italia: sterminato paesaggio di canyon, montagne a tronco di piramide, dette “tacchi”, pareti precipiti, anfratti… Ci siamo cresciuti in quei posti, con la fantasia, perché Aurelio Galleppini, detto Galep, e Gian Luigi Bonelli, gli inventori di Tex Willer, si ispirarono a quelli per farne la terra dei Navajos, spogliandola, però, dei boschi, dei pascoli).

Da allora, è un racconto di dominazioni che sostituiscono altre dominazioni e di sardi che si ribellano, indomiti e sempre schiacciati: i romani sterminarono metà della popolazione dell’isola, per piegarli e così tanti ne vennero ridotti in cattività, che i prezzi degli schiavi crollarono in tutto il Mediterraneo. Le insurrezioni continuarono finché i sardi, caduto l’impero di Roma, tornarono liberi, divisi in quattro regni o Giudicati, nei quali, per qualche secolo, specie in quello di Arborea, recuperarono se stessi. Ma ancora oggi, per dire, vuoi il retaggio di quella frattura fra sardi di costa e dell’interno, o la maggiore facilità di collegamenti dei primi con il continente (dopo aver ottenuto tariffe agevolate, in virtù del principio di “continuità territoriale”), si distingue fra una “Sardegna italiana”, che s’affaccia sul mare, più aperta e …contaminata, anche dal turismo internazionale; e quella interna, che maggiormente conserva anima e memoria. Ma anche questa, in qualcosa muta (con fastidio di chi teme che così possa perdersi), nell’incontro con un turismo meno superficiale, che cerca nelle antiche feste, nelle tradizioni, dalla cucina ai mamuthones, le famose maschere del carnevale di Mamoiada, la “vera Sardegna” (ricostruita per l’occasione, a volte).

Quella (n)ostalgia, allora diventa la vera patria, perché ti riporta al tempo in cui non eri figlio di un dio minore, a casa tua. Il ricordo potrà abbellirlo, certo, ma non ne tradisce la sostanza; che altri, invece, nutrendo i loro privilegi con la tua subordinazione, hanno interesse a negare e denigrare, per farti piacere quel che sei più di quello che eri. A questo serve costruire una memoria peggiorativa, che diminuisca te e tutto il tuo passato: “borbonico”, fosse pure un succo d’arancia, non può essere buono; “blocco socialista”, peggio mi sento; degli spagnoli in Sardegna, meglio dimenticarsene! Fortuna che sono arrivati i Savoia e i fratelli dell’Ovest. È l’operazione esattamente inversa a quella compiuta dalla (n)ostalgia: il tuo passato è così brutto (te lo dico io), da diventare la tua colpa; ringraziami per il presente che ti do. Se ti lamenti per il trattamento inferiore, metti in discussione il mio giudizio e il mio racconto sul tuo passato e il tuo miglior presente, e non lo condividi, scelte truppe cammellate indigene di intellettuali da riporto sapranno come squalificarti (che ne dite di “lagna neoborbonica”? Così, negli scritti di Giuseppe Manno, primo storico sardo, “è evidente”, avverte Accardo, “il fastidio per il vittimismo querulo e inconcludente dei sardi, talvolta malamente camuffato da ribellismo” contro gli spagnoli; e “atteggiamenti che gli apparivano velleitariamente lamentosi”, con i Savoia, di cui era intimo e con cui faceva carriera, per meriti). In Germania, sono stati più furbi e pratici: quando hanno visto che, a ogni sondaggio, la percentuale di tedesco orientali che rimpiangono le perdute condizioni (meglio primi nel blocco dell’Est che ultimi nel Paese unificato) era arrivata a due su tre, il governo ha deciso di non fare più sondaggi.

E dopo averti ridotto così, si chiedono perché sei così. Così come? Te lo dicono loro: raccontano quant’è ladro, incivile, incapace, assistito, pigro il Sud, o l’Est o quello a cui tocca, stavolta. Quelli progressisti “e di sinistra”, come la puttana della canzone di Lucio Dalla, spiegano che non tutti i tedesco-orientali o i terroni sono così: alcuni sono attivi, lavoratori, onesti (fanno esempi, nomi, cognomi); e nemmeno i tedesco occidentali o i padano-veneti sono tutti in gamba, intraprendenti, onesti: c’è qualcuno disonesto anche lì (seguono citazioni). Siam mica razzisti, noialtri! Un modo che, persino oltre le reali intenzioni degli autori (non sempre, non tutti), trasmette l’idea che gli onesti siano eccezioni qui e i disonesti, eccezioni lì: il mondo ha le sue imperfezioni… Se chiedi perché del particolare accanimento nel raccontare solo il peggio dei “meno” e solo il meglio dei “più” la risposta è “per dare una salutare scossa” a chi non si muove, insomma una sorta di brutale verità, di schiaffo a fin di bene (tipo L’inferno, di Giorgio Bocca e più recenti tomi di suoi imitatori). È l’unica forma di aiuto che viene profusa con illimitata generosità (fai schifo, te lo dico perché tu possa correggerti). Il seguace di Lombroso, Paolo Orano per amore dei sardi, che lo elessero pure al Parlamento, “dimostrò” che erano arretrati e delinquenti per patrimonio genetico (speriamo in quelli che gli vogliono male…). Mi ricorda una scena del film L’aereo più pazzo del mondo: appresa la notizia che  si rischia di precipitare, un passeggero resta paralizzato dal terrore e tutti gli altri, in fila, a turno, lo prendono a ceffoni e gli urlano: «Ritorni in sé!». Il poveraccio lo farebbe pure, ma non riesce manco dire «Ok!», ché arriva un altro soccorritore a schiantargli due sganassoni sul viso: «Ritorni in sé!». E poi un altro, e un altro, e… Alla fine, le amorevoli cure dei soccorritori brutali solo per necessità rendono il malcapitato catatonico peggio di prima, ma con la mascella a pezzi.

Riconoscete il metodo? Non è quello che l’Europa teutonicamente diretta ha fatto con la Grecia e con altri, Italia inclusa? Così si fece il Regno Sardo, così l’Italia unita, così la riunificazione della Germania, così si pretende, con la moneta unica gestita dai più forti come una clava sui più deboli, di fare dell’Europa una sorta di Stato continentale. Magari fosse! Magari no, se nasce diviso nei fatti e unito a parole, come il Regno sardo, l’Italia, la Germania.

Non chiamate “passatista”, volendo offenderlo, chi stanco di essere “meno” nella stessa casa, comincia a pensare che forse era più rispettato quando se ne stava per i fatti suoi. Nella cosiddetta Marsigliese sarda di Francesco Ignazio Mannu, un paio di secoli fa, di avvertiva: “Su pobulu chi in profundu/ Letargu fi’ sepultatdu/ Finalmente despertadu/ S’abbizza ch’est in cadena/ Ch’ista’ suffrende sa pena/ De s’indolenzia antiga” (Il popolo che in profondo/ Letargo era sepolto/ Finalmente svegliatosi/ S’accorge ch’è in catena/ Che sta soffrendo la conseguenza/ Della sua antica indolenza). “Passatista” è la sciocca condanna di chi volge attenzione al valore del passato, accomunando lui e quel che è stato in una sentenza che non salva nulla dell’uno e dell’altro. Beh, solo questo: se dell’oggi siete così fieri da farne luogo e tempo di ogni bene, contrapposto al passato, luogo e tempo di ogni male, pensate che questo presente non ci sarebbe, senza quel passato. Distinguere è fatica, fra il bene e il male di oggi e il bene e il male di ieri. Ma non conosco altra forma di onestà.

 

MOLTA SARDEGNA NELL’ULTIMO LIBRO DI PINO APRILE:”TERRONI ‘NDERNESCIONAL”.

Pino Aprile, giornalista (è stato vicedirettore di “Oggi” e direttore di “Gente”) e scrittore (ricordo alcuni suoi libri di successo: “Terroni”, “Giù al Sud”, “Mai più Terroni”, “Il Sud puzza”) in questi giorni ha pubblicato l’ultimo suo saggio storiografico in cui la Sardegna è abbondantemente presente:

TERRONI ‘NDERNESCIONAL(Piemme Edizioni, Milano 2014)

Ecco la gran parte di un capitolo

YESTERDAY

[…] Tutto questo radicalizza le posizioni. E chi recupera la storia negata (ma non perduta) viene accusato di “nostalgia borbonica”, così come di “Ostalgia” i tedeschi dell’Est. Intendendo, con questo, che chi rimpiange quei tempi, li vorrebbe riproporre oggi. Naturalmente, non è vero, anche se lo trovi sempre qualcuno che rivedrebbe volentieri i Borbone alla guida del Regno delle Due Sicilie, Cecco Beppe a governare le Tre Venezie, il muro a dividere di nuovo Berlino, Eleonora d’Arborea a governare la Sardegna con leggi della Carta de Logu, del 1392 (che rimase in vigore più di quattro secoli e che i sardi ritengono la prima vera carta dei diritti del popolo, perché la precedente Magna Charta inglese del 1215 si occupava più dei potenti, ecclesiastici e no, che della gente; mentre la Carta de Logu fa il contrario, e con visione molto moderna, persino femminista, in alcuni casi: la violenza sessuale era duramente punita e lo stupratore condannato anche a sposare la donna aggredita, ma solo “se piace alla donna”. Ove fosse rifiutato, doveva “farla accasare munendola di una dote, secondo la condizione sociale della donna violentata e il rango sociale dell’uomo violentatore”. Immaginate un don Rodrigo che approfitta di una popolana…).

Quella nostalgia è importante! Va capita e compresa, perché segnala il valore di una perdita che non è stata compensata da quel che doveva sostituirla, in meglio. È una promessa tradita. Insomma, ti manca il passato che era, o anche solo ti sembrava, migliore del presente. Proprio il professor Francesco Casula, nella sua monumentale opera sulla letteratura sarda, rammenta che “la nostalgia, a dispetto dei politici “realisti” -come diceva Borges- è la relazione migliore che un uomo possa avere con il suo paese”. Può avvenire che quel passato venga aggiustato nel ricordo e dal ricordo (la memoria salva il nostro equilibrio psichico, dimenticando i dolori più grandi: per questo le donne non si fermano tutte al primo figlio), ma la ragione del fenomeno rimane: cerchi rifugio in un’altra epoca, quando quella in cui vivi ti esclude: un modo per fuggirne. Soprattutto, se nel raffronto fra ieri e oggi, l’oggi perde; in più, se di quel passato ti è stato mostrato soltanto il male, mentre il bene ti è stato nascosto o diminuito, persino dileggiato e ridotto a motivo per denigrarti, sottrarti diritti, renderti “meno”, rispetto ad altri, allora recuperare quel che è stato diviene il modo per ritrovare la dignità e l’orgoglio amputati e pretendere la parità di trattamento e il rispetto che ti negano. Se nel passaggio da ieri a oggi ci siamo persi qualcosa, o ce l’ha rubato chi ha voluto traghettarci qui, magari a mano armata, è nel passato che dobbiamo cercarla, per rifarla nostra. Insomma: per quanto male o bene stessero i tedeschi orientali nella Germania Est, i sudditi dei Borbone nel Regno delle Due Sicilie, i sardi prima della conquista iberica e poi piemontese, non erano i meridionali, gli “ossiess” (orientali), i serbidoris di nessuno; fossero pure stati “poco”, a confronto con altri Paesi (ma erano avanti a molti che oggi li hanno superati), non erano “meno” in casa loro. Infatti: se “quell’umore esistenziale del proprio essere sardo, come individui e come gruppo” ha resistito, è in virtù di quella che Giovanni Lilliu, il più grande archeologo sardo, chiama “la costante resistenziale”, ovvero, la forza e la coscienza di essere “nazione”. Tant’è che mentre “non ha senso pensare a una storia della letteratura campana, o pugliese, o calabrese, o marchigiana, o laziale…”, sostiene il professor Francesco Casula, è possibile fare una storia delle letterature sarda e siciliana come “Letterature nazionali”. Parliamo di valori che possono a lungo affievolirsi, sino a diventare poco più di sussurri nell’anima, ma non muti. E quando magari non te l’aspetti, ti riportano qualcosa di tuo (a proposito: per “letteratura campana” si intende regionale, essendo di grande rilievo quella “napolitana”, che si riferisce a una lingua e a una cultura non cittadina, ma ultraregionale).

La frattura, così, si allarga, fra chi non vuol perdere il vantaggio che pensa di meritare (mentendo su come l’ha raggiunto, o ignorandolo, perché lo si tace: ricordate?, sino al 2050, non saranno accessibili i documenti più imbarazzanti su come è stata fatta la riunificazione tedesca; e di quelli risorgimentali nostri meglio non parlare) e chi non accetta più di essere un tedesco “ma” dell’Est, italiano “ma” del Sud; dove il “ma” è un diminutivo; del regno Sardo, “ma” sardo (!). E accade ben altro, con il dilagare di pubblicistica e movimenti di revisione culturale, a volte con progetti politici: si è voluta operare una distinzione fra “i meridionalisti cattivi” e quelli “buoni” (che non protestano se il governo ruba i soldi delle scuole del Sud e li porta al Nord; se cancella gli autori meridionali dai libri del liceo; se condanna a morte le università dei terroni o un ministro chiama i napoletani “topi da derattizzare”… Mai. Si inalberano solo se altri meridionali lo fanno notare e non dicono che, se questo accade, è “Tutta colpa del Sud”, come gridava a tutta pagina l’edizione del Mezzogiorno del Corriere della sera, citando il libro di un “nativo” che lo “dimostrava”).

Chi tiene altri in stato di subordinazione, ha bisogno di una classe intermedia locale (politica, culturale, imprenditrice) che funga da cuscinetto. E sono proprio queste truppe cammellate, non la Lega Nord, a partorire continuamente nuovi termini che accoppiano l’idea di “negativo” a quella di “Sud”. Per distinguere i meridionalisti acquiescenti da quelli no, quindi sbagliati, li hanno chiamati “neomeridionalisti” (brutta gente, neh?); non bastando, visto che aumentano di numero e pretese, per degradarli ancora di più, sono passati a: “sudisti” (bruttissima gente!); e quando un sudista esagera, diviene addirittura “neoborbonico” (per favore, siamo in fascia protetta, non fate leggere la parola i bambini: il trauma potrebbe bloccarne lo sviluppo. L’umanità ne uscirebbe impoverita per la perdita di un Trota o di un genio che ci spieghi perché è “Tutta colpa del Sud”. E la massoneria potrebbe non perdonarci, i posteri nemmeno).

Così, proprio alcuni meridionali, per far sapere (a chi?) che loro sono evoluti, non come gli altri, moltiplicano le parole che diventano dispregiative perché contengono l’idea di Sud (ai settentrionali basta “terroni”). Domanda: come mai non esiste qualcosa di analogo per il Nord? Forse perché non c’è nulla di sbagliato, sporco, disonesto, deteriore, lì? (Non so rispondere; proverò a fare qualche telefonata alla Parmalat, alla Minetti, alla coppia Berlusconi-Salvini, a Craxi e Mussolini, al Trota e a Cota, a Formigoni, al suo compagno di vacanze Daccò e a quelli di castità e appalti in Comunione e Liberazione. Se la direzione del carcere me li passa, anche a quelli che stanno in galera per gli appalti dell’Expo di Milano o le tangenti del Mose di Venezia: un miliardo di euro, non sarà un record mondiale? Poi vi dico). Chi usa termini che “sanno di Sud” per farne insulti, lo diminuisce, costringendolo alla sudditanza: è con le sue parole che il vincitore incatena il vinto (l’opportunismo non ha latitudine, ma questo sport miserabile praticato da meridionali contro il Meridione è anche un volersi allontanare da qualcosa, per non riconoscerla come propria. Quel qualcosa è nella storia che rese nemici, nel Sud, il popolo e quella che, avendone aspirazione e doti, si proponeva come sua classe dirigente; volendolo essere pur a dispetto del popolo, e persino contro, se non accettata come tale. E diventandola, alla fine, ma conto terzi. E contro, nella giacobina convinzione di essere la guida giusta di un popolo lazzaro e sbagliato).

Sarebbe interessante investigare ancora sui sentimenti che portano a quella (n)ostalgia, ma mi allontanerei troppo dalla ragione di questo libro (già così…). Ci basta sapere che non è il desiderio di tornare al passato, ma di recuperare dal passato le ragioni di una reputazione sminuita per altrui convenienza. Per questo, non è nemmeno importante quanto indietro stia, nel tempo, quel passato, purché offra quelle ragioni. Per i tedeschi orientali bastano 25-30 anni; per gli ex abitanti del Regno delle Due Sicilie, ce ne vogliono più di 150; per i sardi, sono pochi duemila: la loro preistoria e la loro storia sino all’oppressione dei fenici (che li costrinsero a rifugiarsi nell’interno), sono state idealizzate in una sorta di età dell’oro, della libertà fra pari, della giustizia e persino nell’origine del mito di Atlantide (“Epica della Sardegna antica, quindi: mito al posto della storia”, scrive Accardo. Ovviamente, su questo si discute molto, ma sentite quanta fierezza c’è nella sintesi che ne fa il professor Francesco Casula, in Letteratura e civiltà della Sardegna: “Quella nuragica è stata la più grande civiltà della storia di tutto il Mediterraneo centro-occidentale del secondo millennio avanti Cristo. Con migliaia di nuraghi”, le tipiche costruzioni in pietra a tronco di cono. Una Sardegna “con un’economia dell’abbondanza: di carne, pesce, frutti naturali. Che produce oro, argento, rame, formaggi, sale, stoffe, vini (…), combatte alleata con i Popoli del mare contro i potenti eserciti dei faraoni e dei re di Atti che tiranneggiano e opprimono i popoli (…) isola libera, indipendente e senza stato. Organizzata in una confederazione di comunità nuragiche mentre altrove dominano monarchi e faraoni, tiranni e oligarchi. E dunque schiavitù (…) molti si rifugeranno nell’Isola, che accoglierà esuli e fuggitivi” da tutto il Mediterraneo, anche da Troia.

Poi, arrivano i cartaginesi, che seminano distruzione e morte e tutto finisce, con i sardi in fuga negli orridi, le caverne, i boschi dell’interno, come “verso un carcere, quasi verso un enorme campo di concentramento naturale, ma fu anche e soprattutto la capitolazione di una intera civiltà”, scrive Giovanni Lilliu, in La civiltà dei sardi. Che si divisero: “da una parte l’Isola montana dei Sardi ancora liberi, seppur costretti in una sorta di riserva dai conquistatori (…), dall’altra i Sardi più deboli, arresisi agli invasori” (cercate di immaginare quelle fughe e quei luoghi. Anche se non ci siete mai stati, li conoscete, specie l’Ogliastra, la provincia a Nord-Ovest della Sardegna, la più disabitata d’Italia: sterminato paesaggio di canyon, montagne a tronco di piramide, dette “tacchi”, pareti precipiti, anfratti… Ci siamo cresciuti in quei posti, con la fantasia, perché Aurelio Galleppini, detto Galep, e Gian Luigi Bonelli, gli inventori di Tex Willer, si ispirarono a quelli per farne la terra dei Navajos, spogliandola, però, dei boschi, dei pascoli).

Da allora, è un racconto di dominazioni che sostituiscono altre dominazioni e di sardi che si ribellano, indomiti e sempre schiacciati: i romani sterminarono metà della popolazione dell’isola, per piegarli e così tanti ne vennero ridotti in cattività, che i prezzi degli schiavi crollarono in tutto il Mediterraneo. Le insurrezioni continuarono finché i sardi, caduto l’impero di Roma, tornarono liberi, divisi in quattro regni o Giudicati, nei quali, per qualche secolo, specie in quello di Arborea, recuperarono se stessi. Ma ancora oggi, per dire, vuoi il retaggio di quella frattura fra sardi di costa e dell’interno, o la maggiore facilità di collegamenti dei primi con il continente (dopo aver ottenuto tariffe agevolate, in virtù del principio di “continuità territoriale”), si distingue fra una “Sardegna italiana”, che s’affaccia sul mare, più aperta e …contaminata, anche dal turismo internazionale; e quella interna, che maggiormente conserva anima e memoria. Ma anche questa, in qualcosa muta (con fastidio di chi teme che così possa perdersi), nell’incontro con un turismo meno superficiale, che cerca nelle antiche feste, nelle tradizioni, dalla cucina ai mamuthones, le famose maschere del carnevale di Mamoiada, la “vera Sardegna” (ricostruita per l’occasione, a volte).

Quella (n)ostalgia, allora diventa la vera patria, perché ti riporta al tempo in cui non eri figlio di un dio minore, a casa tua. Il ricordo potrà abbellirlo, certo, ma non ne tradisce la sostanza; che altri, invece, nutrendo i loro privilegi con la tua subordinazione, hanno interesse a negare e denigrare, per farti piacere quel che sei più di quello che eri. A questo serve costruire una memoria peggiorativa, che diminuisca te e tutto il tuo passato: “borbonico”, fosse pure un succo d’arancia, non può essere buono; “blocco socialista”, peggio mi sento; degli spagnoli in Sardegna, meglio dimenticarsene! Fortuna che sono arrivati i Savoia e i fratelli dell’Ovest. È l’operazione esattamente inversa a quella compiuta dalla (n)ostalgia: il tuo passato è così brutto (te lo dico io), da diventare la tua colpa; ringraziami per il presente che ti do. Se ti lamenti per il trattamento inferiore, metti in discussione il mio giudizio e il mio racconto sul tuo passato e il tuo miglior presente, e non lo condividi, scelte truppe cammellate indigene di intellettuali da riporto sapranno come squalificarti (che ne dite di “lagna neoborbonica”? Così, negli scritti di Giuseppe Manno, primo storico sardo, “è evidente”, avverte Accardo, “il fastidio per il vittimismo querulo e inconcludente dei sardi, talvolta malamente camuffato da ribellismo” contro gli spagnoli; e “atteggiamenti che gli apparivano velleitariamente lamentosi”, con i Savoia, di cui era intimo e con cui faceva carriera, per meriti). In Germania, sono stati più furbi e pratici: quando hanno visto che, a ogni sondaggio, la percentuale di tedesco orientali che rimpiangono le perdute condizioni (meglio primi nel blocco dell’Est che ultimi nel Paese unificato) era arrivata a due su tre, il governo ha deciso di non fare più sondaggi.

E dopo averti ridotto così, si chiedono perché sei così. Così come? Te lo dicono loro: raccontano quant’è ladro, incivile, incapace, assistito, pigro il Sud, o l’Est o quello a cui tocca, stavolta. Quelli progressisti “e di sinistra”, come la puttana della canzone di Lucio Dalla, spiegano che non tutti i tedesco-orientali o i terroni sono così: alcuni sono attivi, lavoratori, onesti (fanno esempi, nomi, cognomi); e nemmeno i tedesco occidentali o i padano-veneti sono tutti in gamba, intraprendenti, onesti: c’è qualcuno disonesto anche lì (seguono citazioni). Siam mica razzisti, noialtri! Un modo che, persino oltre le reali intenzioni degli autori (non sempre, non tutti), trasmette l’idea che gli onesti siano eccezioni qui e i disonesti, eccezioni lì: il mondo ha le sue imperfezioni… Se chiedi perché del particolare accanimento nel raccontare solo il peggio dei “meno” e solo il meglio dei “più” la risposta è “per dare una salutare scossa” a chi non si muove, insomma una sorta di brutale verità, di schiaffo a fin di bene (tipo L’inferno, di Giorgio Bocca e più recenti tomi di suoi imitatori). È l’unica forma di aiuto che viene profusa con illimitata generosità (fai schifo, te lo dico perché tu possa correggerti). Il seguace di Lombroso, Paolo Orano per amore dei sardi, che lo elessero pure al Parlamento, “dimostrò” che erano arretrati e delinquenti per patrimonio genetico (speriamo in quelli che gli vogliono male…). Mi ricorda una scena del film L’aereo più pazzo del mondo: appresa la notizia che  si rischia di precipitare, un passeggero resta paralizzato dal terrore e tutti gli altri, in fila, a turno, lo prendono a ceffoni e gli urlano: «Ritorni in sé!». Il poveraccio lo farebbe pure, ma non riesce manco dire «Ok!», ché arriva un altro soccorritore a schiantargli due sganassoni sul viso: «Ritorni in sé!». E poi un altro, e un altro, e… Alla fine, le amorevoli cure dei soccorritori brutali solo per necessità rendono il malcapitato catatonico peggio di prima, ma con la mascella a pezzi.

Riconoscete il metodo? Non è quello che l’Europa teutonicamente diretta ha fatto con la Grecia e con altri, Italia inclusa? Così si fece il Regno Sardo, così l’Italia unita, così la riunificazione della Germania, così si pretende, con la moneta unica gestita dai più forti come una clava sui più deboli, di fare dell’Europa una sorta di Stato continentale. Magari fosse! Magari no, se nasce diviso nei fatti e unito a parole, come il Regno sardo, l’Italia, la Germania.

Non chiamate “passatista”, volendo offenderlo, chi stanco di essere “meno” nella stessa casa, comincia a pensare che forse era più rispettato quando se ne stava per i fatti suoi. Nella cosiddetta Marsigliese sarda di Francesco Ignazio Mannu, un paio di secoli fa, di avvertiva: “Su pobulu chi in profundu/ Letargu fi’ sepultatdu/ Finalmente despertadu/ S’abbizza ch’est in cadena/ Ch’ista’ suffrende sa pena/ De s’indolenzia antiga” (Il popolo che in profondo/ Letargo era sepolto/ Finalmente svegliatosi/ S’accorge ch’è in catena/ Che sta soffrendo la conseguenza/ Della sua antica indolenza). “Passatista” è la sciocca condanna di chi volge attenzione al valore del passato, accomunando lui e quel che è stato in una sentenza che non salva nulla dell’uno e dell’altro. Beh, solo questo: se dell’oggi siete così fieri da farne luogo e tempo di ogni bene, contrapposto al passato, luogo e tempo di ogni male, pensate che questo presente non ci sarebbe, senza quel passato. Distinguere è fatica, fra il bene e il male di oggi e il bene e il male di ieri. Ma non conosco altra forma di onestà.

 

LETTERATURA SARDA

LETTERATURA SARDA

 

 

 

Tramas de seda. Trame di s …

Maddalena Frau

 

 

Letteratura e civiltà del …

Francesco Casula

 

 

Antoni Gramsci - Francesco Casula, Matteo Porru, Alfa Editrice (2006)

 

SES PIMPIRIAS DE ISTORIA E CONTR’ISTORIA SARDA de Frantziscu Casula

Ses pimpirias de Istoria (e contr’Istoria) sarda.

Dae sa Fusione perfeta a su Bochidorju de Bugerru; dae sa Poesia a s’Emigratzione; dae s’Iscola a s’Ambiente. 

de Frantziscu Casula

1. SA FUSIONE PERFETA (Intervista Videolina  7-11-2014)

Galu oe mi capitat de leghere in carchi libru chi “Sos sardos in su 1847 renuntziant a s’Autonomia, a su Parlamentu issoro: Faula manna. No est a beru. Sa “perfetta fusione” la pedint a Carlo Alberto unos cantos parlamentares chi moende dae Casteddu, dae S’Alighera e dae Tatari, andant a Torino, sena peruna delega, non naro de su populu sardu ma mancu del sos Istamentos chi mancu benint riunidos. Duncas la pedint a titulu personale. Est istada –at iscritu Sergiu Salvi unu fiorentinu chi connoschet bene sas cosas sardas -, una “rapina giuridica”.
S’isperu fiat chi, cun sa fusione, sa Sardigna diat aere apidu una libertade cumertziale prus manna e duncas prosperidade e isvilupu. Sas cosas sunt andadas in manera diferente: finas sos chi fiant in favore a sa fusione –ammento pro totus Zuanne Siotto Pintor – ant a narrere: “Errammo tutti”, leados dae una “follia collettiva”.
E gasi, dae tando, comente iscriet Tuveri sa Sardigna s’at a cambiare in “una fattoria del Piemonte, misera e affamata da un governo senza cuore e senza cervello”. Sena Autonomia, sena libertade, cun prus tassas, tributos e pagamentos. E prus repressione cun furcas in cada bidda.

2. BOCHIDORGIU DE BUGERRU (Intervista Videolina  14-11-2014)

Una dominiga, su bator de cabudanni de su 1904 in Bugerru s’esertzitu isparat a sos minadores. Tres los ochient (sunt Felice Littera, Salvatore Montixi e Giovanni Pilloni) e medas ateros los ferint: unu de custos, fertu malamente, (Giustino Pittau) at a morrere in s’ospidale carchi die a pustis.
Sa curpa de sos minadores? Protestaiant contra a su direttore de sa mina, Achille Georgiades chi aiat creschidu s’orariu de su traballu. Cando giai sas cunditziones fiant imbeleschidas. Mandigaiant unu biculu de pane tostu e dormiant in barracas frittas in ierru e caentes de morrere in istiu. At a iscriere una Cummissione parlamentare istituida a pustis de su 1906:”Si mangia un tozzo di pane durante il lavoro e per companatico mangeranno polvere di calamina o di minerale”.
E puru, a migias, dae totu sa Sardigna ma mescamente dae sas biddas serentes, pro sa crisi economica manna meda, sos sardos aiant lassadu s’agricultura e su pastoriu cun s’isperu de agatare unu postu de traballu seguru in sas minas. Sa realidade at a essere diferente: isfrutamentu, maladias e repressione.

3. POESIA (Intervista Videolina  21-11-2014)

Su patriota sardu a sos feudatarios de Frantzsicu Innatziu Mannu est de seguru s’Innu poeticu prus famadu chi tenimus. S’intelletuale otieresu in 47 otavas, a sa moda de sos gosos, contat s’opressione feudale e cantat sas rebbellias de su populu sardu, ma mescamente de sos massajos. Rebellias chi pertocant unu trintènniu rivolutzionariu e no unu trienniu ebbia, comente galu acuntesset de leghere in unos cantos libros: ca cumintzant in su 1780 e agabbant cun sa rebbellia, eroica e isfortunada de Palabanda in su 1812 in Casteddu.
Est una poesia de importu, ca dae issa podimus cumprendere unu tretu mannu de s’istoria sarda, in ue s’afortint sas raighinas de sa Sardigna moderna. Su pobulu – iscriet Mannu – chi in profundu/Letargu fit sepultadu/Finalmente despertadu/S’abbizzat ch ‘est in cadena,/Ch’istat suffrende sa pena/De s’indolenzia antiga. E duncas, a pustis de seculos e seculos de acunortadura, artziat s’ischina e ca conca e narat “bastat” a s’opressione e a sa tirannia de sos barones, a sa lege inimiga de su feudalesimu. Ca in base a custa lege su sardu est suggettu/A milli cumandamentos,/Tributos e pagamentos/Chi faghet a su segnore,/In bestiamene et laore/In dinari e in natura,/E pagat pro sa pastura,/E pagat pro laorare.

4. EMIGRATZIONE (Intervista Videolina  28-11-2014)

Sos Sardos comintzant a emigrare a s’acabu de s’Otighentos pro curpa de sa politica de su Guvernu italianu chi in Sardigna (e in totu su Meridione) produit una crisi economica e sotziale meda meda funguda. Sutzedit custu: su capu de su Guvernu Frantziscu Crispi in su 1887 segat sos raportos comerciales cun sa Franza e custa pro vangantzia e ritorsione non comperat prus sos prodotos agricolos e pastorales dae sa Sardigna ( su vinu, su casu, sa petza ecc.). S’economia sarda est a culu in terra ca sa Sardigna non tenet prus su mercau franzesu. Duncas sos pretzios de sos prodotos agricolos rughene semper prus, de su late comente de su binu chi dae 30-35 e finas 40 liras a etolitru rughet a 6-7 liras.

Unu disacatu mannu: massagios e pastores non podent tirare sa bida cun cusssos pretzios e duncas comitzant a emigrare: in prus de chentu migia andant in Europa, finas in Africa ma mescamente in America (Argentina subratotu).

Un’atera unda de emigrazione la tenimus in sos annos chimbanta/sessanta: propriu cando in Italia connoschent su boom economicu in Sardigna, de custu, no intendimus mancu su fragu e sighimus a lassare s’Isula pro su disterru in Germania, Olanda o a sa Fiat in Torinu. Dae su 1954 a su 1970 prus de 400 migia de sardos lassant sa Sardigna. Sa terza emigrazione la semus bivende oe etotu: cun sos giovanos laureados chi non agatant triballu inoghe e si c’andant a foras.

5.S’ISCOLA (Intervista Videolina  5-12-2014)

 S’Iscola italiana in Sardigna cun sos istudentes nostros non b’intrat nudda, ca in s’iscola s’Isula nostra non b’est. In sos libros no est mancu lumenada. S’Istoria cun sa limba, sas traditziones, sa tzivilidade sarda, est istada interrada, tudada. Unu diplomadu e finas unu laureadu podet essire dae custa iscola sena connoschere nudda de sa tzivilidade nuragica, de sa Carta De Logu e de sos Giudicados, de Peppino Mereu, de Gratzia Deledda e de Salvatore Satta. Mancari ant istudiadu a Mucio Scevola o a Pietro Micca ma no ant mai intesu mancu numenende a Amsicora, Lionora de Arborea, Giuanne Maria Angioy, Frantziscu Cilocco e ateros omines e feminas de gabbale.
In custa iscola, cada chida  faghent oras e oras de italianu e ateras limbas europeas e mundiales e est giustu: ma, galu oe, non  faghent unu minutu de limba sarda.
Sende chi  totu sos istudiosos pessent chi unu pitzinnu bilìngue creschet prus abbistu e potzat imparare prus e megius e prus in presse sas limbas e totu sas ateras matèrias.
6. S’AMBIENTE (Intervista Videolina  19-12-2014)

Sa Sardigna in s’edade prenuragica e nuragica fiat unu padente, totu prena de arbores. Fiat s’Isula birde. Teniat unu clima subtropicale. Proiat semper. Finas a cando no arribbant dae su mare sos inimigos: sos Fenitzios e sos Cartaginesos ma mescamente sos Romanos chi cumintzant a distruere sos arbores: ca teniant bisongiu de terrinu liberu pro semenare trigu. Ant a sighire sos ateros dominadores ma mescamente sos Savojas in su Setighentos e in s’Otighentos.

At a iscriere Gramsci in un artìculu del su 1919 in s’Avanti: La Sardegna d’oggi con alternanza di lunghe stagioni aride e di rovesci allivionanti, l’abbiamo ereditata allora. Una categoria de ispogiadores de cadaveres, – los giamat gosi semper Gramsci – sos industriales de su carbone, mescamente toscanos, otenent pro pagos soddos sa possibilidade de segare sos arbores: serviant pro faghere traversinas e pro carbone a sas industrias de s’Italia de su nord. Intre su 1863 e su 1910, cun s’autorizatzione de su Guvernu italianu 586 migia de etaras sunt deforestadas. Unu disacatu ecologicu chi galu oe semus paghende.