Fratelli d’Italia? Che se lo cantino e se lo suonino!

A CHI SERVE

UNA GIORNATA

PER L’INNO.

di Francesco Casula

Mentre Bersani tenta di risolvere il rebus del Governo – peraltro cacciandosi in un vicolo strettissimo e, temo, cieco – una parlamentare del suo Partito, certa Roberta Pinotti, nota al pubblico televisivo perché adusa a partecipare a talkshow, starebbe lavorando per una proposta di legge per istituire “Una giornata nazionale dell’Inno d’Italia”. Dopo la boutade sull’obbligatorietà dell’insegnamento a scuola dello stesso inno – per la verità senza molto seguito – ora la democratica Pinotti vorrebbe addirittura dedicargli una “Giornata speciale”! Ma dove vive? Ma non ha altro cui pensare e dedicarsi? Anche perché, lo diciamo sommessamente, si tratta di un Inno brutto, bolso e retorico, guerresco e militaresco (alla faccia del pacifismo della Costituzione, art.11): nostalgico delle cosiddette “imprese” romane (leggi stragi, distruzioni, rovine) di Scipione e dei suoi compari nei confronti di popoli inermi o comunque non in grado di contrastare le armi degli eserciti romani, decisi a “debellare superbos”: ovvero a sterminare chi aveva l’ardire di opporvisi. Ma l’Inno è soprattutto insopportabilmente ideologico: di una ideologia unitarista e statalista, negatrice delle diversità e specificità presenti nello Stato italiano. Al fine di giustificare “l’Unità” si manomette la storia e la si falsifica. Che c’entra infatti la battaglia di Legnano – ovvero  la vittoria dei comuni lombardi  nei confronti dell’Imperatore Federico Barbarossa  – con l’Italia e la sua Unità? E ancora che c’azzzeccano i Vespri siciliani, Francesco Ferrucci, e Balilla? Assolutamente nulla. Si dirà: l’Autore, Goffredo Mameli era un giovanissimo patriota che nel confezionare l’Inno, si è rifatto al passato ritrovando idealmente in esso le radici e le giustificazioni delle lotte risorgimentali per l’Unità. Bene. Mameli è da assolvere. Non quelli che utilizzano, strumentalmente il suo (ingenuo) inno per giustificare e circuitare una visione dell’Unità dell’Italia da ricondurre alla storia del passato, come se fosse stata voluta dal destino. Fu voluta e realizzata invece dalla Casa savoia, dai suoi ministri – da Cavour in primis – e dal suo esercito in combutta con gli interessi degli industriali del Nord e degli agrari del Sud, il blocco storico gramsciano, contro gli interessi del Meridione e delle Isole e a favore del Nord, contro gli interessi del popolo, segnatamente di quello contadino e del Sud.

Pubblicato su Sardegna Quotidiano del 29-3-2013

 

La lettera di Fulvio Tocco (Presidente della provincia del Medio Campidano) ai Consiglieri regionali

 

ALLE CAMPAGNE

SERVE UN PIANO

STRAORDINARIO

di Francesco Casula

Sono definitivamente fallite ingloriosamente le illusioni e le ipotesi industrialiste, peraltro tutte giocate sulla grande industria, pubblica e privata, estranea alla Sardegna, in quanto senza stimoli per il mercato interno, senza creazione di indotto proprio perché senza alcun rapporto e collegamento con il territorio e le risorse locali. Che dunque non ha creato sviluppo endogeno e autocentrato. Non solo: si è trattato per lo più di industrie nere e inquinanti – quelle petrolchimiche in primo luogo –  che hanno degradato l’ambiente; devastato e depauperato il territorio, la risorsa più pregiata che l’Isola possiede; sconvolto gli equilibri e le vocazioni naturali dell’Isola; distrutto il tessuto economico tradizionale. Senza peraltro creare lavoro: le migliaia di cassintegrati e disoccupati ne sono la testimonianza più drammatica. A fronte di ciò occorre cambiare radicalmente rotta per intraprendere una via locale alla prosperità e al benessere: puntando sulle risorse locali, ad iniziare dall’agro-zootecnia. Si muove in questo orizzonte la proposta del combattivo Presidente della Provincia del Medio Campidano, Fulvio Tocco, che in una Lettera aperta a tutti i Consiglieri regionali chiede che nella Finanziaria del 2013 siano previste sostanziose risorse proprio per le campagne, perché “solo con l’utilizzo produttivo del territorio, con le sue vocazioni e le sue risorse umane si può garantire la ripresa dell’economia isolana in tempi brevi”.

 E aggiunge:”Per far fronte alla precaria condizione sociale ed economica, alla Sardegna a fianco di un progetto organico, occorre un Piano straordinario, di semplice attuazione, che sappia stimolare la ripartenza con la convinzione che nella campagna cresce il futuro sostenibile. Coltivando, si anima il territorio, si mettono in moto le attività artigianali e commerciali, si tutela il suolo e l’ecosistema, si valorizza il paesaggio e si garantisce una sana alimentazione per il consistente patrimonio zootecnico anche per le aree non seminative; s’importerà di meno e si creerà più lavoro diretto ed indiretto”.

E conclude:”Con l’impiego di ragionevoli risorse finanziarie, è possibile rendere produttivi tutti i seminativi della Sardegna e nel contempo dare una prima risposta concreta alla ripresa delle attività produttive, partendo dai comparti strategici del settore primario: cerealicoltura e zootecnia”. Difficile non convenire.

Pubblicato su Sardegna Quotidiano del 27-3-2913

 

 

Incontro sulla figura e le opere di Fra Antonio Maria da Esterzili

L’Unione sarda Edizione di domenica 24 marzo 2013 – Quartu Sant’Elena

Biblioteca di Flumini

I libri religiosi di Fra’ Antonio

L’associazione “Ita mi contas” organizza per martedì alle 17, nella Biblioteca comunale di Flumini, un incontro in preparazione dei riti pasquali. Francesco Casula presenterà la figura e l’opera di Fra’ Antonio Maria da Esterzili, da cui la Chiesa cattolica ha attinto per i riti della Settimana santa. Durante l’incontro Mario Murgia intonerà alcuni canti riguardanti la Passione di Cristo e i riti pasquali.

«Fra’ Antonio Maria da Esterzili», spiega il professor Casula, «era un frate cappuccino, fondatore del teatro sacro in lingua sarda con l’opera “Libro de Comedias” del 1668. Per secoli sarà dimenticato e solo nel 1959 sarà pubblicata “La Passione”, che è solo una parte del suo manoscritto, conservato nella Biblioteca universitaria di Cagliari: contiene anche “La Natività”, e “La Deposizione”. (g. mdn.)

 

Una storia di estorsioni e devastazioni del territorio sardo: prima con i Romani poi con i Piemontesi e Italiani (oggi con Moratti)

GIU’ LE MANI

DALLA TERRA

DI’ELEONORA

di Francesco Casula

Il furto delle risorse e del territorio, da parte degli occupanti e dominatori, è stata una costante nella storia della Sardegna. Iniziarono i Cartaginesi e i Romani: segnatamente questi ultimi furono particolarmente voraci nel depredare il grano: serviva per sfamare gli eserciti e la “plebaglia” dell’Urbe. E con il grano minerali pelli formaggi carne e lana. Pare persino che abbiano fuso i bronzetti, le preziose statuine, per modellare pugnali e corazze, per chiodare giunti metallici nelle volte dei templi, per corazzare i rostri delle navi da guerra.

Continuarono a depredare e fare bardana i successivi dominatori: in particolare i Piemontesi, famelici e spietati nel disboscamento. Fin dal 1740 – ci ricorda Giuseppe Dessì –quando concedono al nobile svedese Carlo Gustavo Mandel non solo il diritto di sfruttare tutte le miniere di Parte d’Ispi (Villacidro) ma di prelevare nelle circostanti foreste il carbone e la legna per le fonderie, costringendo i comuni a delle vere e proprie corvées e distruggendo così il patrimonio forestale sardo.

Sempre i Piemontesi continuarono con l’abbattimento delle foreste con Cavour: i cui amici e parenti – come quel tale conte Beltrami – mandarono in fumo il patrimonio silvano di Fluminimaggiore e dell’Iglesiente. E dopo i Piemontesi gli Italiani, i Francesi e i Belgi che trasformarono intere distese di alberi secolari in traversine per le ferrovie e travature per le miniere. Tanto che lo stato italiano fra il 1863 e il 1910 promosse e autorizzò la distruzione di ben 586.000 ettari di foreste: un quarto dell’intera superficie della Sardegna, città comprese.

E poi insieme all’Italia venne l’America a sequestrarci il territorio: con le basi militari e i poligoni. E gli arabi: ieri con l’Aga Kan ed oggi con gli emiri arabi. Con una classe politica che li accoglie e si genuflette, parlando senza pudore di “valorizzazione dell’Isola”.

Ed oggi Moratti, dopo aver inquinato una delle zone più belle dell’Isola, vorrebbe, nella ricerca del gas, trivellare nell’Oristanese, ad Arborea, dove è presente una delle eccellenze agro-alimentari: assolutamente incompatibili con idrocarburi, per l’impatto ambientale devastante. Le comunità locali hanno capito: di qui l’opposizione e la protesta contro il “ Progetto Eleonora”. Di qui la mobilitazione degli Indipendentisti: con ProgRes in prima fila. Perché questa volta, estorsori e predatori non prevalebunt!

Pubblicato su Sardegna Quotidiano del 20-3-2013

 

 

Grillo, Bersani e la crisi.

GLI OTTO PUNTI DEL PD

E LA GOVERNABILITA’

di Francesco Casula

Prosegue il can can mediatico, guidato dai grandi Quotidiani italiani –  capofila la Repubblica di Scalfari    per cercare di convincere l’opinione pubblica sulla bontà degli otto punti del Pd di Bersani. Cui Grillo non può sottrarsi, salvo esiti inquietanti e apocalittici per l’intero Paese: segnatamente nel campo economico. In soccorso scendono in campo anche un gruppo di intellettuali, usi ad appelli, in genere patetici e comunque, come in questo caso, fuori tempo massimo. Si invita il Movimento 5 Stelle a garantire la “governabilità”, favorendo, attraverso la fiducia a Bersani, di fatto un monocolore Pd.

Ma dove vivono?  Che bizzarra provocazione è mai questa? Si sono già dimenticati che Grillo ha condotto, riferendosi a tutti i vecchi Partiti,  la sua campagna elettorale al grido di “Tutti a casa, siete circondati, arrendetevi?”. Ed ora dovrebbe resuscitarne qualcuno? Per quale motivo, di grazia? Il comico genovese, una volta diventato leader politico, per anni è stato oscurato poi demonizzato, infine dileggiato deriso e insultato con gli epiteti i più svariati: populista – e passi – ma poi anche qualunquista e persino fascista e razzista. E oggi dovrebbe garantire un governo del Pd da cui puntualmente e per anni ha ricevuto quelle piacevolezze? Si dirà: anche lui, in fatto di insulti, provocazioni e dileggi non scherza. E’ vero: ma è coerente. Lui infatti continua a lanciare palle di fuoco contro tutti i partiti della seconda repubblica. E’ il Pd che ha fatto le capriole: facendo retromarcia e considerando oggi i grillini interlocutori preziosi e possibili alleati. Ma passi anche tutto questo: si consideri chiusa la campagna elettorale, con i toni inevitabilmente smodati e sopra le righe e si discuta seriamente su un possibile governo. Bene: che fa il Pd? Presenta otto punti programmatici penosi. Zeppi di fumisterie e genericità. E su questi punti chiede il consenso dei parlamentari di 5 Stelle. Del cui programma non c’è neppure un vago odore. I Grillini hanno posto con forza e nettezza l’abolizione del finanziamento pubblico dei Partiti? Ebbene Bersani risponde che “Occorre una rivisitazione del finanziamento altrimenti la politica la fanno solo i miliardari”. E sugli altri punti qualificanti del programma di 5 Stelle? Su alcuni come le 30 ore lavorative settimanali o la cancellazione delle grandi opere, ad iniziare dalla TAV o la drastica riduzione delle spese militari ad iniziare  dai costosissimi e inutili F35, neppure un cenno. Su altri, come i costi della politica, (finanziamento dei Gruppi consiliari, riduzione degli emolumenti faraonici dei parlamentari) promesse e chiacchiere: senza nessuna precisa quantificazione né, tanto meno, calendarizzazioni.

E allora? Allora ci troviamo in un Paese allo sbando, alla bancarotta. Ingovernabile. Con un bipolarismo finito miseramente, senza alcuna maggioranza politica: con i Partiti italioti contrapposti gli uni agli altri.

E’ il risultato di 20 anni inconcludenti e fallimentari. E ora tutti i nodi vengono al pettine. Ad iniziare dalla impotenza e dalla decrepitezza degli schemi ideali e programmatici delle forze politiche della seconda repubblica. Che hanno causato una vera e propria crisi di sistema. Una crisi drammatica, non solo economica e finanziaria ma anche culturale e antropologica. Ma non da sola la partitocrazia, bensì in combutta e con la complicità del Moloch rappresentato dal potere economico- finanziario-mediatico.  Incapaci di accordarsi al drammatico vissuto della crisi.

Pubblicato su Sardegna Quotidiano del 16-3-2013

 

 

 

Procurade de moderare barones sa tirannia

Università della Terza Età di Quartu sant’Elena

Corso di Letteratura sarda 11° Lezione 20-3-2013

di Francesco Casula

L’Inno di Francesco Ignazio Mannu: Su patriota sardu a sos feudatarios

 

Su patriota sardu contra a sos feudatarios.

 

1.Procurade de moderare,
Barones, sa tirannia,
Chi si no, pro vida mia,
Torrades a pe’ in terra!
Declarada est già sa gherra
Contra de sa prepotenzia,
E cominzat sa passienzia
ln su pobulu a mancare

 

2.Mirade ch’est azzendende
Contra de ‘ois su fogu;
Mirade chi non est giogu
Chi sa cosa andat a veras;
Mirade chi sas aeras
Minettana temporale;
Zente cunsizzada male,
Iscultade sa ‘oghe mia.

 

3.No apprettedas s ‘isprone
A su poveru ronzinu,
Si no in mesu caminu
S’arrempellat appuradu;
Mizzi ch’est tantu cansadu
E non ‘nde podet piusu;
Finalmente a fundu in susu
S’imbastu ‘nd ‘hat a bettare

 

4.Su pobulu chi in profundu
Letargu fit sepultadu
Finalmente despertadu
S’abbizzat ch ‘est in cadena,
Ch’istat suffrende sa pena
De s’indolenzia antiga:
Feudu, legge inimiga
A bona filosofia!

 

5.Che ch’esseret una ‘inza,
Una tanca, unu cunzadu,
Sas biddas hana donadu
De regalu o a bendissione;
Comente unu cumone
De bestias berveghinas
Sos homines et feminas
Han bendidu cun sa cria

 

6.Pro pagas mizzas de liras,
Et tale ‘olta pro niente,
Isclavas eternamente
Tantas pobulassiones,
E migliares de persones
Servint a unu tirannu.
Poveru genere humanu,
Povera sarda zenia!

 

7.Deghe o doighi familias
S’han partidu sa Sardigna,
De una manera indigna
Si ‘nde sunt fattas pobiddas;
Divididu s’hant sas biddas
In sa zega antichidade,
Però sa presente edade
Lu pensat rimediare.

 

8.Naschet su Sardu soggettu
A milli cumandamentos,
Tributos e pagamentos
Chi faghet a su segnore,
In bestiamene et laore
In dinari e in natura,
E pagat pro sa pastura,
E pagat pro laorare.

 

9.Meda innantis de sos feudos
Esistiana sas biddas,
Et issas fìni pobiddas
De saltos e biddattones.
Comente a bois, Barones,
Sa cosa anzena est passada?
Cuddu chi bos l’hat dada
Non bos la podiat dare.

 

10.No est mai presumibile
Chi voluntariamente
Hapat sa povera zente
Zedidu a tale derettu;
Su titulu ergo est infettu
De s’infeudassione
E i sas biddas reione
Tenene de l’impugnare

 

11.Sas tassas in su prinzipiu
Esigiazis limitadas,
Dae pustis sunt istadas
Ogni die aumentende,
A misura chi creschende
Sezis andados in fastu,
A misura chi in su gastu
Lassezis s ‘economia.

 

12.Non bos balet allegare
S’antiga possessione
Cun minettas de presone,
Cun gastigos e cun penas,
Cun zippos e cun cadenas
Sos poveros ignorantes
Derettos esorbitantes
Hazis forzadu a pagare

 

13.A su mancu s ‘impleerent
In mantenner sa giustissia
Castighende sa malissia
De sos malos de su logu,
A su mancu disaogu
Sos bonos poterant tenner,
Poterant andare e benner
Seguros per i sa via.

 

14.Est cussu s’unicu fine
De dogni tassa e derettu,
Chi seguru et chi chiettu
Sutta sa legge si vivat,
De custu fine nos privat
Su barone pro avarissia;
In sos gastos de giustissia
Faghet solu economia

 

15.Su primu chi si presentat
Si nominat offissiale,
Fattat bene o fattat male
Bastat non chirchet salariu,
Procuradore o notariu,
O camareri o lacaju,
Siat murru o siat baju,
Est bonu pro guvernare.

 

16.Bastat chi prestet sa manu
Pro fagher crescher sa rènta,
Bastat si fetat cuntenta
Sa buscia de su Segnore;
Chi aggiuet a su fattore
A crobare prontamente
Missu o attera zente
Chi l’iscat esecutare

 

17.A boltas, de podatariu,
Guvernat su cappellanu,
Sas biddas cun una manu
Cun s’attera sa dispensa.
Feudatariu, pensa, pensa
Chi sos vassallos non tenes
Solu pro crescher sos benes,
Solu pro los iscorzare.

 

18.Su patrimoniu, sa vida
Pro difender su villanu
Cun sas armas a sa manu
Cheret ch ‘istet notte e die;
Già ch ‘hat a esser gasie
Proite tantu tributu?
Si non si nd’hat haer fruttu
Est locura su pagare.

 

19.Si su barone non faghet
S’obbligassione sua,
Vassallu, de parte tua
A nudda ses obbligadu;
Sos derettos ch’hat crobadu
In tantos annos passados
Sunu dinaris furados
Et ti los devet torrare.

 

20.Sas rèntas servini solu
Pro mantenner cicisbeas,
Pro carrozzas e livreas,
Pro inutiles servissios,
Pro alimentare sos vissios,
Pro giogare a sa bassetta,
E pro poder sa braghetta
Fora de domo isfogare,

 

21.Pro poder tenner piattos
Bindighi e vinti in sa mesa,
Pro chi potat sa marchesa
Sempre andare in portantina;
S’iscarpa istrinta mischina,
La faghet andare a toppu,
Sas pedras punghene troppu
E non podet camminare

 

22.Pro una littera solu
Su vassallu, poverinu,
Faghet dies de caminu
A pe’, senz ‘esser pagadu,
Mesu iscurzu e ispozzadu
Espostu a dogni inclemenzia;
Eppuru tenet passienzia,
Eppuru devet cagliare.

 

23.Ecco comente s ‘impleat
De su poveru su suore!
Comente, Eternu Segnore,
Suffrides tanta ingiustissia?
Bois, Divina Giustissia,
Remediade sas cosas,
Bois, da ispinas, rosas
Solu podides bogare.

 

24.Trabagliade trabagliade
O poveros de sas biddas,
Pro mantenner in zittade
Tantos caddos de istalla,
A bois lassant sa palla
Issos regoglint su ranu,
Et pensant sero e manzanu
Solamente a ingrassare.

 

25.Su segnor feudatariu
A sas undighi si pesat.
Dae su lettu a sa mesa,
Dae sa mesa a su giogu.
Et pustis pro disaogu
Andat a cicisbeare;
Giompidu a iscurigare
Teatru, ballu, allegria

 

26.Cantu differentemente,
su vassallu passat s’ora!
Innantis de s’aurora
Già est bessidu in campagna;
Bentu o nie in sa muntagna.
In su paris sole ardente.
Oh! poverittu, comente
Lu podet agguantare!.

 

27.Cun su zappu e cun s’aradu
Penat tota sa die,
A ora de mesudie
Si zibat de solu pane.
Mezzus paschidu est su cane
De su Barone, in zittade,
S’est de cudda calidade
Chi in falda solent portare.

 

28.Timende chi si reforment
Disordines tantu mannos,
Cun manizzos et ingannos
Sas Cortes hant impedidu;
Et isperdere hant cherfidu
Sos patrizios pius zelantes,
Nende chi fint petulantes
Et contra sa monarchia

 

29.Ai caddos ch’in favore
De sa patria han peroradu,
Chi s’ispada hana ogadu
Pro sa causa comune,
O a su tuju sa fune
Cheriant ponner meschinos.
O comente a Giacobinos
Los cheriant massacrare.

 

30.Però su chelu hat difesu
Sos bonos visibilmente,
Aterradu b’at su potente,
Ei s’umile esaltadu,
Deus, chi s’est declaradu
Pro custa patria nostra,
De ogn’insidia bostra
Isse nos hat a salvare.

 

31.Perfidu feudatariu!
Pro interesse privadu
Protettore declaradu
Ses de su piemontesu.
Cun issu ti fist intesu
Cun meda fazilidade:
Isse papada in zittade
E tue in bidda a porfia.

 

32.Fit pro sos piemontesos
Sa Sardigna una cuccagna;
Che in sas Indias s ‘Ispagna
Issos s ‘incontrant inoghe;
Nos alzaiat sa oghe
Finzas unu camareri,
O plebeu o cavaglieri
Si deviat umiliare…

 

33.Issos dae custa terra
Ch’hana ogadu milliones,
Beniant senza calzones
E si nd’handaiant gallonados;
Mai ch’esserent istados
Chi ch’hana postu su fogu
Malaittu cuddu logu
Chi criat tale zenìa

 

34.Issos inoghe incontràna
Vantaggiosos imeneos,
Pro issos fint sos impleos,
Pro issos sint sos onores,
Sas dignidades mazores
De cheia, toga e ispada:
Et a su sardu restada
Una fune a s’impiccare!

 

35.Sos disculos nos mandàna
Pro castigu e curressione,
Cun paga e cun pensione
Cun impleu e cun patente;
In Moscovia tale zente
Si mandat a sa Siberia
Pro chi morzat de miseria,
Però non pro guvernare

 

36.Intantu in s’insula nostra
Numerosa gioventude
De talentu e de virtude
Ozïosa la lassàna:
E si algun ‘nd’impleàna
Chircaiant su pius tontu
Pro chi lis torrat a contu
cun zente zega a trattare.

 

37.Si in impleos subalternos
Algunu sardu avanzàna,
In regalos non bastada
Su mesu de su salariu,
Mandare fit nezessariu
Caddos de casta a Turinu
Et bonas cassas de binu,
Cannonau e malvasia.

 

38.De dare a su piemontesu
Sa prata nostra ei s’oro
Est de su guvernu insoro
Massimu fundamentale,
Su regnu andet bene o male
No l’is importat niente,
Antis creent incumbeniente
Lassarelu prosperare.

 

39.S’isula hat arruinadu
Custa razza de bastardos;
Sos privilegios sardos
Issos nos hana leadu,
Dae sos archivios furadu
Nos hana sas mezzus pezzas
Et che iscritturas bezzas
Las hana fattas bruiare.

 

40.De custu flagellu, in parte,
Deus nos hat liberadu.
Sos sardos ch’hana ogadu
Custu dannosu inimigu,
E tue li ses amigu,
O sardu barone indignu,
E tue ses in s’impignu
De ‘nde lu fagher torrare

 

41.Pro custu, iscaradamente,
Preigas pro su Piemonte,
Falzu chi portas in fronte
Su marcu de traitore;
Fizzas tuas tant’honore
Faghent a su furisteri,
Mancari siat basseri
Bastat chi sardu no siat.

 

42.S’accas ‘andas a Turinu
Inie basare dès
A su minustru sos pes
E a atter su… già m ‘intendes;
Pro ottenner su chi pretendes
Bendes sa patria tua,
E procuras forsis a cua
Sos sardos iscreditare

 

43.Sa buscia lassas inie,
Una rughitta in pettorra
Una giae in su traseri;
Et in premiu ‘nde torras
Pro fagher su quarteri
Sa domo has arruinadu,
E titolu has acchistadu
De traitore e ispia.

 

44.Su chelu non faghet sempre
Sa malissia triunfare,
Su mundu det reformare
Sas cosas ch ‘andana male,
Su sistema feudale
Non podet durare meda?
Custu bender pro moneda
Sos pobulos det sessare.

 

45.S’homine chi s ‘impostura
Haiat già degradadu
Paret chi a s’antigu gradu
Alzare cherfat de nou;
Paret chi su rangu sou
Pretendat s’humanidade;
Sardos mios, ischidade
E sighide custa ghia.

 

46.Custa, pobulos, est s’hora
D’estirpare sos abusos!
A terra sos malos usos,
A terra su dispotismu;
Gherra, gherra a s’egoismu,
Et gherra a sos oppressores;
Custos tirannos minores
Est prezisu humiliare.

 

47.Si no, chalchi die a mossu
Bo ‘nde segade’ su didu.
Como ch’est su filu ordidu
A bois toccat a tèssere,
Mizzi chi poi det essere
Tardu s ‘arrepentimentu;
Cando si tenet su bentu
Est prezisu bentulare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La Questione di Palabanda

PALABANDA: CONGIURA O RIVOLTA RIVOLUZIONARIA?

di Francesco Casula

Di congiure è zeppa la storia. Da sempre. Da Giulio Cesare a John Fitzgerald  Kennedy. Particolarmente popolato e affollato di congiure è il periodo rinascimentale italiano, nonostante gli avvertimenti di Machiavelli secondo cui “le coniurazioni fallite rafforzano lo principe e mandano nella ruina li coniurati”. Ed anche il “Risorgimento”. Esemplare la congiura di Ciro Menotti nel gennaio del 1831 ordita attraverso intrighi con Francesco IV d’Austria d’Este, dal quale sarà poi tradito e mandato al patibolo.

Congiurà che però sarà ribattezzata “rivolta”, “Moto rivoluzionario”. Solo una questione lessicale? No:semplicemente ideologica. Quella congiura, perché di questo si tratta,  viene “recuperata” e inserita come momento di quel processo rivoluzionario, foriero – secondo la versione italico-patriottarda e unitarista –   delle magnifiche e progressive sorti del cosiddetto risorgimento italiano. Così, una “congiura” o complotto che dir si voglia diventa un tassello di un processo rivoluzionario, esclusivamente perché vittorioso. Mentre invece – per venire alla quaestio che ci interessa – la Rivolta di Palabanda viene ridotta e immiserita a “Congiura”. E con essa diventano “Congiure”, ovvero cospirazioni di manipoli di avventurieri che con alleanze  e relazioni oblique con pezzi del potere tramano contro il potere stesso. Questa categoria storiografica, che riduce le sommosse e gli atti rivoluzionari che costelleranno più di un ventennio di rivolte: popolari, antifeudali e nazionali a fine Settecento in Sardegna a semplici congiure è utilizzata non solo da storici reazionari, conservatori e filosavoia come il Manno o l’Angius.

Ad iniziare dalla cacciata dei Piemontesi da Cagliari il 28 aprile 1794: considerata “robetta” e comunque alla stregua di una semplice congiura ordita da un manipolo di borghesi giacobini, illuminati e illuministi, per cacciare qualche centinaio di piemontesi. A questa tesi, ha risposto, con dovizia di dati, documenti e argomentazioni, Girolamo Sotgiu. Il prestigioso storico sardo, gran conoscitore e studioso della Sardegna sabauda e non sospettabile di simpatie sardiste e nazionalitarie, polemizza garbatamente ma decisamente proprio con l’interpretazione data da storici filosavoia come Giuseppe Manno o Vittorio Angius (l’autore dell’Inno Cunservet Deus su re) che avevano considerato la cacciata dei Piemontesi, appunto alla stregua di una congiura.

Simile interpretazione offusca   a parere di Sotgiu le componenti politiche e sociali e, bisogna aggiungere senza temere di usare questa parola «nazionali». Insistere sulla congiura – cito sempre lo storico sardo – potrebbe alimentare l’opinione sbagliata che l’insurrezione sia stato il risultato di un intrigo ordito da un gruppo di ambiziosi, i quali stimolati dagli errori del governo e dalle sollecitazioni che venivano dalla Francia, cercò di trascinare il popolo su un terreno che non era suo naturale, di fedeltà al re e alle istituzioni” 1.

Secondo Sotgiu questo modo di concepire una vicenda complessa e ricca di suggestioni, non consente di cogliere il reale sviluppo dello scontro sociale e politico né di comprendere la carica rivoluzionaria che animava larghi strati della popolazione di Cagliari e dell’Isola nel momento in cui insorge contro coloro che avevano dominato da oltre 70 anni.

Ma veniamo a Palabanda. Si parla di rivalità a corte  fra il re Vittorio Emanuele I sostenuto da don Giacomo Pes di Villamarina, comandante generale delle armi del Regno e il principe Carlo Felice sostenuto invece dall’amico e consigliere Stefano Manca di Villahermosa, che aveva un ruolo di rilievo nella vita di corte.

Ebbene è stata avanzata l’ipotesi che a guidare la cospirazione fossero stati uomini di corte molto vicini a Carlo Felice allo scopo di eliminare definitivamente i cortigiani piemontesi e di destituire il re Vittorio Emanuele I affidando al Principe la corona con un passaggio dei poteri militari dal Villamarina ad altro ufficiale, forse il capitano di reggimento sardo Giuseppe Asquer. Chi poteva incoraggiare e proteggere l’azione in tal senso era Stefano Manca di Villahermosa, per l’ascendenza di cui godeva sia presso il popolo che presso Carlo Felice.

E’ questa l’ipotesi di Giovanni Siotto Pintor che scrive: ”La corte poi di Carlo Felice accresceva il fuoco contro quella di Vittorio Emanuele: fra ambedue era grande rivalità, l’una per sistema discreditava l’altra. Villahermosa era avverso a Roburent, e tanto più dispettoso, che gli stava fitta in cuore la spina di essergli stato anteposto Villamarina nella carica di capitano delle guardie del corpo del re. Destava invero maraviglia che i cortigiani e gli aderenti a Carlo Felice osassero rimproverare i loro rivali degli stessi errori, intrighi ed arbitrij degli ultimi tempi viceragli. Pure i loro biasimi trovavano favore nelle illuse moltitudini, che giunsero a desiderare il passaggio della corona di Vittorio Emanuele a Carlo Felice, e la nuova esaltazione dei cortigiani sardi, poco prima abborriti” 2

Pressoché identica è l’ipotesi di un altro storico sardo, Pietro Martini che scrive: ”Poiché era rivalità tra le corti del re e del principe, signoreggiata l’ultima dal marchese di Villahermosa, l’altra dal conte di Roburent il quale aveva fatto nominare capitano della guardia il Villamarina, di tale discordia si giovassero per intronizzare Carlo Felice” 3 .

Si tratta di ipotesi poco plausibili. Ora occorre infatti ricordare  in primo luogo che il Villahermosa, era anche legato al re tanto che il 7 novembre 1812, pochi giorni dopo i fatti di Palabanda, gli affidò l’attuazione del piano di riforma militare.

In secondo luogo non possiamo dimenticare che Carlo Felice, ottuso crudele e famelico, sia da principe e vice re che da re, era lungi dall’essere  favorevole ai Sardi” come scrive Natale Sanna che poi però aggiunge era all’oscuro di tutto 4 Ricorda infatti Francesco Cesare Casula56. che Carlo felice sarà il più crudele persecutore dei Sardi, che letteralmente odiava e contro cui si scagliò con tribunali speciali, procedure sommarie e misure di polizia, naturalmente con il pretesto di assicurare all’Isola “l’ordine pubblico” e il rispetto dell’Autorità. E comunque non poteva essere l’uomo scelto dai rivoluzionari  persecutore com’era soprattutto dei democratici e dei giacobini.

In terzo luogo che bisogno c’era di una congiura per intronizzare Carlo Felice? In ogni caso a lui la corona sarebbe giunta prima o poi di diritto poiché il re non lasciava eredi maschi ed egli era l’unico fratello vivente. Quando la Quadruplice Alleanza aveva conferito il regno di Sardegna a Vittorio Amedeo II, una clausola prevedeva che il regno sarebbe ritornato alla Spagna nel caso che il re e tutta la Casa Savoia rimanesse senza successione maschile.

Scrive Lorenzo Del Piano a proposito delle ipotesi di legami e rapporti fra “i congiurati” di Palabanda con ambienti di corte e addirittura con l’Inghilterra e con la Francia: “Se dopo un secolo di indagini non è venuto fuori nulla ciò può essere dovuto, oltre che a una insanabile carenza di documentazione, al fatto che non c’era nulla da portare alla luce e che quello della ricerca di legami segreti è un problema inesistente e che comunque perde molto della sua eventuale importanza se invece che a romanzesche manovre di palazzo o a intrighi internazionali si rivolge prevalente attenzione alle forze sociali in gioco e alle persone che le incarnavano e cioè agli esponenti della borghesia cittadina che era riuscita indubbiamente mortificata dalle vicende di fine settecento e che un anno di gravissima crisi economica e sociale quale fu il 1812, può aver cercato di conquistare, sia pure in modo avventuroso e inadeguato il potere politico esercitato nel 1793-96” 6 .

Non di congiura dunque si è trattato ma di ben altro: dell’ultima sfortunata rivolta, che conclude un lungo ciclo di moti e di ribellioni, che assume tratti insieme antifeudali, popolari e nazionali.

Segnatamente la rivolta di Palabanda, per essere compresa, abbisogna di essere situata nella gravissima crisi economica e finanziaria che la Sardegna vive sulla propria pelle: conseguenza di una politica e di un’amministrazione forsennata da parte dei Savoia oltre che delle calamità naturali e delle pestilenze di quegli anni: già nel 1811 forte siccità e un rigido inverno causarono nell‘Isola una sensibile contrazione della produzione di grano, ma è soprattutto nella primavera del 1812 che la carestia e dunque la crisi alimentare si manifestò in tutta la sua drammaticità.

Cosa è stato il dramma de su famini de s’annu dox, sono storici come Pietro Martini, a descriverlo con dovizia di particolari: ”L’animo mi rifugge ora pensando alla desolazione di quell’anno di paurosa ricordanza, il dodicesimo del secolo in cui mancati al tutto i frumenti, con scarsi o niuni mezzi di comunicazione, l’isola fu a tale condotta che peggio non poteva”.

Ricorda quindi che la “strage di fanciulli pel vaiuolo, scarsità d’acqua da bere (ché niente era piovuto), difficoltà di provvisioni per la guerra marittima aggrandivano il male già di per se stesso miserando 7.

Mentre Giovanni Siotto Pintor scrive: ”Durarono lungamente le tracce dell’orribile carestia; crebbe il debito pubblico dello stato; ruinarono le amministrazioni frumentarie dei municipj e specialmente di Cagliari; cadde nell’inopia gran novero di agricoltori; in pochi si concentrarono sterminate proprietà; alcuni villaggi meschini soggiacquero alla padronanza d’uno o più notabili; i piccoli proprietari notevolmente scemarono; si assottigliarono i monti granatici; e perciò decadde l’agricoltura. Ed a tacer d’altro, il sistema tributario vieppiù viziossi, trapassati essendo i beni dalla classi inferiori a preti e a nobili esenti da molti pesi pubblici” 8.

E ancora il Martini descrive in modo particolareggiato chi si arricchisce e chi si impoverisce in quella particolare temperie di crisi economica, di pestilenze e di calamità naturali: ”Oltreché v’erano i baroni e i doviziosi proprietari i quali s’erano del sangue de’ poveri ingrassati e grande parte della ricchezza territoriale avevano in sé concentrato. I quali anziché venire in aiuto delle classi piccole, rincararono la merce e con pochi ettolitri di frumento quello che rimaneva a’ miseri incalzati dalla fame s’appropriavano. Così venne uno spostamento di sostanze rincrescevole: i negozianti fortunati straricchivano, i mediocri proprietari scesero all’ultimo gradino, gli altri d’inedia e di stenti morivano” 9.

Giovanni Siotto Pintor inoltre per spiegare le cagioni del tentativo di rivolgimento politico che meditavasi a Cagliari, allarga la sua analisi rispetto al Martini e scrive che “La Sardegna sia stata la terra delle disavventure negli anni che vi stanziarono i Reali di Savoia. Non mai la natura le fu avara dei suoi doni come nel tempo corso dal 1799 al 1812. Intrecciatisi gli scarsi ai cattivi o pessimi raccolti,impoverì grandemente il popolo ed il tesoro dello stato. A questi disastri, sommi per un paese agricola, si aggiunsero la lunga guerra marittima che fece ristagnare lo scarso commercio; le invasioni dei Barbareschi, produttrici di ingenti spese per lo riscatto degli schiavi e pel mantenimento del navile; le fazioni e i misfatti del capo settentrionale dell’isola, rovinosi per le troncate vite e le proprietà devastate e per le necessità derivatane di una imponente forza pubblica, e quindi di enormi stipendj straordinari, di nuove gravezze, e quindi dell’impiego a favore della truppa dei denari, consacrati agli stipendi dei pubblici officiali…In questa infelicità di tempi declamavano gli impiegati: i maggiori perché ambivano le poche cariche tenute dagli oltremarini; i minori perché sospesi gli stipendj, difettavano di mezzi d’onesto vivere…i commercianti maledivano il governo e gli inglesi, ai quali più che ai tempi attribuivano il ristagno del traffico…Ondechè, scadutu dall’antica agiatezza antica, schiamazzavano, calunniavano, maledivano…Superfluo è il discorrere della plebe…Questa popolare irritazione pigliava speciale alimento dalla presenza degli oltremarini primeggianti nella corte e negli impieghi, e che apertamente o in segreto reggevano le cose dello stato sotto re Vittorio Emanuele. Doleva il vederli nelle alte cariche, ad onta della carta reale del 1799, che ammetteva in esse l’elemento oltremarino, purché il sardo contemporaneamente s’introducesse negli stati continentali. Doleva che il re, limitato alla signoria dell’isola, non di regnicoli ma di uomini di quegli stati si giovasse precipuamente nel pubblico reggimento, come se quelli infidi fossero verso di lui, e non capaci di bene consigliarlo. Soprattutto inacerbiva gli animi quel loro fare altero e oltrecotato, quel mostrarsi incresciosi e malcontenti del paese ove tenevano ospizio e donde molto protraevano, indettati con certi Sardi che turpemente gli adulavano, quel loro contegno insomma da padroni” 10.

E a tutto questo occorre aggiungere le spese esorbitanti della Corte, anzi di due Corti (quella del re e quella del vice re) ambedue fameliche, che, giunte letteralmente in camicia, portarono il deficit di bilancio alla cifra esorbitante di 3 milioni, quasi tre volte l’importo delle entrate ordinarie. Mentre il Re impingua il suo tesoro personale mediante sottrazione di denaro pubblico che investirà nelle banche londinesi.

Di qui il peso delle nuove imposizioni fiscali, che colpivano non soltanto le masse contadine ma anche gli strati intermedi delle città. A tal punto – scrive  Girolamo Sotgiu  che “i villaggi dovevano pagare più del clero e dei feudatari: ben 87.500 lire sarde (75 mila il clero e appena 62 mila i feudatari) mentre sui proprietari delle città, sui creditori di censi, sui titolari d’impieghi civili gravava un onere di ben 125.000 lire sarde e sui commercianti di 37 mila” 11.

 Così succedeva che “Spesso gli impiegati rimanevano senza stipendio, i soldati senza il soldo, mentre ai padroni di casa veniva imposto il blocco degli affitti e ai commercianti veniva fatto pagare il diritto di tratta più di una volta12 .

Questi i corposi motivi, economici, sociali, politici, insieme popolari, antifeudali e nazionali alla base della Rivolta di  Palabanda. Che in qualche modo univano, in quel momento di generale malessere intellettuali, borghesia e popolo, segnatamente la borghesia più aperta alle idee liberali e giacobine, rappresentate esemplarmente dall’esempio di Giovanni Maria Angioy. Borghesia composta da commercianti e piccoli imprenditori che si lamentavano perché “gli incassi erano pochi, la merce non arrivava regolarmente o stava ferma in porto per mesi. Intanto dovevano pagare le tasse e lo spillatico alla regina” 13.

Per non parlare della miseria del popolo: nei quartieri delle città e nei villaggi delle campagne, dove la vita era diventata ancora più dura dopo che la siccità aveva reso i campi secchi, con “contadini e pastori che fuggivano dai loro paesi e si dirigevano verso le città come verso la terra promessa” 14 .

E così “cresceva l’odio popolare contro il governo e si riponeva fiducia in coloro che animavano la speranza di un rinnovamento 15 .

Di qui la rivolta: che non a caso vedrà come organizzatori e protagonisti avvocati (in primis Salvatore Cadeddu, il capo della rivolta. Insieme a lui Efisio, un figlio, Francesco Garau e Antonio Massa Murroni); docenti universitari (come Giuseppe Zedda, professore alla Facoltà di Giurisprudenza di Cagliari); sacerdoti (come Gavino Murroni, fratello di Francesco, il parroco di Semestene, coinvolto nei moti angioyani); ma anche artigiani, operai, e piccoli imprenditori (come il fornaciaio Giacomo Floris, il conciatore Raimondo Sorgia, l’orefice Pasquale Fanni, il sarto Giovanni Putzolo, il pescatore Ignazio Fanni).

Insieme a borghesi e popolani alla rivolta è confermata la partecipazione di molti  studenti e militari : “Tutto il battaglione detto di «Real Marina», formato di poco di gran numero di soldati esteri…dipartita colli suddetti insurressori per aver dedicato il loro spirito 16.

Bene: ridurre questo variegato movimento a una semplice congiura e  a intrighi di corte mi pare una sciocchezza sesquipedale. Una negazione della storia.

 

Note bibliografiche

1. Girolamo Sotgiu, L’Insurrezione a Cagliari del 28 Aprile 1794, AM&D Cagliari, 1995.

2. Giovanni Siotto Pintor, Storia civile de’ popoli sardi dal 1799 al 1848, Libreria F. Casanova, Torino 1887, pagine 233-234.

3. Pietro Martini, Compendio della storia di Sardegna, Ed. A. Timon, Cagliari 1885, pagina 70.

4. Natale Sanna, Il cammino dei Sardi, volume III, Editrice Sardegna, Cagliari 1986, pagina 413.

5.Francesco Cesare Casula, Il Dizionario storico sardo, Carlo Delfino editore,Sassari, 2003 pagina 330.

6. Vittoria Del Piano (a cura di), Giacobini moderati e reazionari in Sardegna, saggio di un dizionario biografico 1973-1812 , Edizioni Castello, Cagliari, 1996, pagina 30.

7. Pietro Martini,Compendio della Storia di Sardegna, op. cit. pagine 60-61

8. Giovanni Siotto Pintor, Storia civile de’ popoli sardi dal 1799 al 1848, Libreria F. Casanova, Torino 1887, op. cit. pagina 222.

9. Pietro Martini, Compendio della Storia di Sardegna, op. cit. pagina 61.

10. Giovanni Siotto Pintor, Storia civile de’ popoli sardi dal 1799 al 1848, Libreria F. Casanova, Torino 1887, pagine 229-230.

11.Girolamo Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda (1720-1847), Edizioni Laterza, Roma-Bari, 1984, pagina 252. 

12, Ibidem, pagine 252-253.

13. Ibidem, pagina 253.

14. Maria Pes, La rivolta tradita,  CUEC,Cagliari 1994, pagina119

15. Ibidem, pagina 120.

16. Ibidem, pagina 151.

Ricordando Lilliu, grande sostenitore del Bilinguismo, a un anno dalla sua scomparsa.

 

 

 

 

LA LEZIONE DI LILLIU E’ ANCORA VIVA

di Francesco Casula

A un anno dalla sua scomparsa l’Associazione culturale Ita mi contas il 14 marzo prossimo (ore 17.30, presso la Biblioteca di Flumini)  rievoca la figura, il pensiero e le opere di Giovanni Lilliu, il grande intellettuale sardo, la voce più importante e prestigiosa nel panorama culturale sardo degli ultimi 50 anni per il suo rigore scientifico di archeologo e storico e per la sua cultura vasta e profonda.

E’ autore delle più importanti opere sull’archeologia della Sardegna e di una copiosissima messe di opere e articoli. Come storico è particolarmente nota la categoria storiografica della «costante resistenziale» che così sintetizza:”Quell’umore esistenziale del proprio essere sardo, come individui e come gruppo che, in ogni momento, nella felicità e nel dolore delle epoche vissute, ha reso i Sardi costantemente resistenti, antagonisti e ribelli, non nel senso di voler fermare, con l’attaccamento spasmodico alla tradizione, il movimento della vita e della loro storia, ma di sprigionarlo il movimento, attivandolo dinamicamente dalle catene imposte dal dominio esterno”.

Unico sardo nell’Accademia dei Lincei, ha sempre condotto la battaglia per il Bilinguismo perfetto, ovvero per la parificazione della Lingua sarda con quella italiana.

Nel 1975, come Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia di Cagliari, chiedeva con una Lettera indirizzata al Presidente della Regione Sarda, un intervento politico presso il Ministero della Pubblica Istruzione, per l’insegnamento della Lingua sarda nella scuole. Tale lettera faceva seguito alla Risoluzione della stessa Facoltà sulla difesa del patrimonio etnolinguistico sardo, su cui Lilliu scrive: ”Il Consiglio ha constatato che gli indifferibili problemi della scuola appaiono oggi non risolvibili in un generico quadro nazionale. Il fatto stesso che la scuola sia diventata scuola di massa, comporta il rifiuto di una didattica assolutamente inadeguata in quanto basata sull’apprendimento concettuale, attraverso una lingua, l’Italiano, per molti aspetti estranea al tessuto culturale sardo. Il Consiglio rilevato che esiste il popolo sardo con una propria lingua dai caratteri diversi e distinti dall’italiano, ha assunto l’iniziativa di proporre alle autorità politiche della Regione e dello Stato il riconoscimento della condizione di minoranza etnico – linguistica per la Sardegna e della Lingua Sarda come lingua “nazionale” della minoranza.

Pubblicato su Sardegna Quotidiano del 13-3-2013

 

 

 

 

Fra Antonio Maria da Esterzili

Università della Terza Età di Quartu 10° Lezione 13-3-2013

di Francesco Casula

FRA ANTONIO MARIA DA ESTERZILI

Il fondatore della sacra rappresentazione in Sardegna (1664-1727)

Tutto ciò che sappiamo dell’autore lo ricaviamo da una annotazione contenuta nel registro dei frati Cappuccini della Provincia di Cagliari, conservato presso l’Archivio della Curia provinciale dei Cappuccini di Cagliari (vol. II, 1695-1802). Da essa risulta che  era presente nel Convento di Sanluri (Cagliari) nel Novembre del 1668 e che morì all’età di 82 anni, il 26 Aprile 1727, dopo averne trascorso 57 di vita religiosa.

Dobbiamo dunque dedurre che nasce nel 1644 e a Esterzili, sulla base della consuetudine vigente soprattutto negli ordini religiosi, secondo i quali quando si entrava in una Congregazione, i novizi abbandonavano il nome secolare e se ne assumevano un altro di devozione, in onore di qualche santo, seguito generalmente dal nome del paese di origine, in questo caso appunto Esterzili.

Da alcuni accenni nelle cronache dell’Ordine dei Cappuccini si desume inoltre che trascorse un periodo della sua vita a Iglesias e che certamente visse anche a Cagliari. Non è improbabile tuttavia –scrive Sergio Bullegas uno dei massimi studiosi di Fra Antonio – che sia stata fatta sparire di proposito ogni traccia del suo cognome secolare e della sua biografia a causa di alcuni fatti imprecisati e incresciosi in cui fu coinvolto. Si parla infatti –nel Registro dei Cappuccini cui si è già fatto cenno- che egli si rese colpevole di seduzione di un crimine turpissimo.

Di qui la dimenticanza, per secoli, dell’Autore e delle sue opere. Solo nel secolo XIX si inizierà a parlare di lui, grazie a Giovanni Siotto Pintor, storico e letterato sardo, che ne scriverà nella sua Storia letteraria di Sardegna (vol.IV), ma tratto in inganno dal frontespizio del manoscritto, cadde in un grossolano errore affermando che si trattava di opere in spagnolo. Nel frontespizio in alto del manoscritto –che si trova attualmente presso la Biblioteca universitaria di Cagliari- è infatti scritto in castigliano, con grossi caratteri: “Libro de Comedias escripto por Fray Antonio Maria de Estercyly sacerdote capuchino en Sellury 9bre a 18 año 1688” (Libro di Commedie scritto da Fra Antonio Maria di Esterzili, sacerdote cappuccino in Sanluri il 18 Novembre 1668).

In  realtà le sue “Comedias” (Commedie, drammi) contenute nel manoscritto sono scritte in lingua sarda-campidanese con le didascalie in castigliano, la lingua dominante e ufficiale dell’epoca, in Sardegna.

Il manoscritto che conserviamo contiene: La Natività, La Passione, La Deposizione, più 550 versi, prevalentemente ottonari ed endecassillabi, strutturati in quartine e ottave, intitolati Versos que se rapresentan el Dia de la Resurrection (Versi che rappresentano il giorno della Resurrezione). Vi è inoltre un frammento, costituito dal Prologo e dall’incipit del primo atto di un’altra rappresentazione intitolata Comedia grande sobre la Assumption de la virgen Maria señora nuestra als çielos (Grande commedia sull’Assunzione di Maria vergine nostra Signora nei cieli).

A questo punto il manoscritto si interrompe –quasi fosse stato smembrato -scrive ancora Sergio Bullegas- e seguono Excomunicationes in diae coenae Domini, (Scomuniche nel giorno della cena del Signore) un compendio di disposizioni ecclesiastiche e canoniche, aggiunte probabilmente durante la rilegatura ottenuta con l’uso della pergamena.

Di tutte le opere di Fra Antonio Maria, contenute nel manoscritto, è stata edita solo la Passione, nel 1959.

 

PROLOGU

 

Morti morti morti,

morti naru e1 morti dura

mi pronosticat custa notti

terribili e tantu oscura2.

 

O’ notti traballosa o’ notti oscura2,

notti tempestosa notti de ierru3;

notti qui fais trèmiri de paura,

su xelu, terra, mari cun su inferru

 

notti chi isbandis sa luxi clara e pura,

e dogna4 gustu mandas in desterru;

notti chi cuddas luxis de su xelu

fais coberri de nieddu velu5.

 

O notti de prantu

Notti chi nos fais ispantari,

attònitus po ‘di pensari

e prenus tottu de ispantu;

 

Notti chi as fattu oscura6 sa bellesa

e condennas a tortu sa innocenzia7;

sa dignidadi rèstada vilipesa8

e reputàda in vanu sa sapienzia9;

 

àndada gettada per terra sa altesa

e fais occultari sa iscienzia10.

Su infinitu fais finitu, e temporali

su sempiternu, e morri su immortali.

[…]

 

 

Traduzione (di Sergio Bullegas, autore del testo “La Spagna, il teatro e la Sardegna, che si riporta sopra).

(Morte, morte morte/morte dico e morte dura/mi pronostica questa notte/tremenda e tanto oscura.)

(O notte travagliata o notte oscura,/notte tempestosa notte d’inverno;/notte che fai tremare di paura/cielo e terra e mare con l’inferno:/notte che scacci la luna chiara e pura,/e mandi in esilio ogni piacere;/notte che le belle luci del cielo/fai ricoprire di un oscuro velo.)

(O notte di pianto/notte che ci rendi sbigottiti,/solo al tuo pensiero siamo sconvolti/e pieni di terrore stupefatto;)

(O notte che hai oscurato la bellezza/e condanni a torto l’innocenza;/per te la dignità resta vilipesa,/superflua è reputata la sapienza;/ed è fatta crollare l’altezza,/Notte tu fai svanir la scienza./L’infinito rendi finito e temporale/il sempiterno, e fai morir l’immortale.)

 

Lettura [Testo con traduzione tratto da Il teatro in Sardegna fra Cinque e Seicento, Sergio Bullegas, Edizioni EDES, Cagliari 1976, pag.136-137]

 

Non bollu prus conçolu de  su prantu

cun prantu apa a’ passari custa dij

populu miu caru nara mi

si in su mundu ses bidu tali ispantu

 

Non fusti tui malu fillu miu

pa daridi una morti tanti dura

o maladicha mia sorti e bintura

biendudi in su modu qui imo ti biu.

 

Portademi una luxi pro mirari

custu qui fuit biancu prus que lillu

ca apenas iddu conoxu si mest fillu

po qui certa e segura potza istari.

 

Ahora S. Juan lleva una candela

encendida y la Virgen reconoce al

Chrisro y dize 

 

Fillu su prus formosu y agraziadu

su prus bellu de cantu inda naxidu

apenas de mamma tua ses conoxidu

cas ses prenu se sanguini e istiguradu.

 

Biancu e’ rubicundu fusti tui

Brundu qui oru fini fusti tui certu

Su corpus tanti bellu hoy es cobertu

De una tenebrosa y obscura nuy.

 

Vida e discansu miu de beche­sa

jay qui mortu a’ ty tor­radu imanti

fuedda a’ mama tua fillu amanti

nara a’ undi esti andada sa belleza.

 

Sa cara tua jucunda de ale­gria

nara su coru miu a’ undi est andada

fuedda a’ mama tua isconsolada

mira ca pen­çu morri de agonia.

 

Undest sa cara tua brunda que oru

is trempas coloradas qui arrosa

undest sa cara tua graziosa

sendu tottu istracha­da in costu modu.

 

Is ogus luminosus as serradu

aberiddus ti pregu e’ mirami

fillu su coru miu conçolami

po su lati qui deu ti apu dadu.

 

Ixida su coru miu si ses dor­midu

no ses dormidu ma pe­rò ses mortu

comenti in cu­sta dy tenju aconortu

candu de conca a’ peis idi miru. […]

 

 

Traduzione

Non voglio più consolazione dal pianto:

con pianto passerò questo giorno;

popolo mio caro dimmi

se nel mondo si è vista tale mostruosità.

 

Non fosti tu cattivo figlio mio,

per darti una morte tanto dura.

O sfortunata mia sorte e ventura

Vedendoti nello stato in cui ora ti vedo.

 

Portatemi una luce per mirare

Questi che fu bianco più che giglio

che appena lo conosco se mi è figlio

perché certa e sicura possa stare.

 

Ora San Giovanni solleva una candela

accesa e la Vergine riconosce Cristo e dice

 

Figlio il più formoso e aggraziato

il più bello di quanti sono nati;

appena da mamma tu sei conosciuto

perché sei pieno di sangue e sfigurato.

 

 

Bianco e vermiglio fosti tu,

biondo che oro fino fosti tu certo

il corpo tanto bello oggi è coperto

da una tenebrosa e oscura nuvola.

 

Vita e sostegno mio di vec­chiaia,

già che morto te rida­to mi hanno,

parla a mamma tua, figlio amante:

dì dov’è andata la bellezza.

 

Il viso tuo giocondo di alle­gria

dì, cuore mio, dov’è an­dato.

Parla a mamma tua sconsolata,

guarda che penso di morire d’agonia.

 

Dove sono i capelli tuoi biondi che l’oro,

le guance colorate che la rosa,

dov’è la faccia tua graziosa

essendo tutta straziata in questo modo.

 

Gli occhi luminosi hai chiuso;

aprìli, ti prego, e guardami:

figlio il cuore mio consola­mi

per il latte che io ti ho dato.

 

Svegliati cuore mio, se sei ad­dormentato:

non sei addor­mentato ma sei morto;

come in questo giorno riesco a ras­segnarmi

quando da testa a piedi ti contemplo. […]

 

(Tratto da Letteratura e civiltà della Sardegna, vol. I di Francesco Casula, Grafica del Parteolla Editore, Dolianova, 2011, pagine 70-76.

Ollolai e la sua storia

Ollolai nel 1490 è composta da “di mil vassallos feudales, y agiados”, pari a circa 5.000 abitanti .

di Francesco Casula

Abbiamo già visto che nel 1464 il marchese Antonio Cubello decise di trasferire l’insediamento francescano di Oristano-Silì, con lo stesso titolo di Santa Maria Maddalena, a Ollolai, per non perdere definitivamente la tanto ambita presenza dei Frati Minori nel loro Marchesato. Con una motivazione ambientale. A Oristano l’insalubrità del luogo, circondato da stagni e paludi, favorendo la malaria, aveva causato la morte dei quattro Frati del Convento di santa Maria Maddalena. Ollolai si presentava come una zona particolarmente benevola dal punto di vista climatico, dall’aere sano, grazie a un contesto boschivo e pieno di acque del suo entroterra, luogo ideale nell’incanto di una natura selvaggia, al primato dello spirito di orazione del carisma francescano.
Ma perché scelgono Ollolai? Solo per motivi di “aere puro”? La Curatoria della Barbagia di Ollolai – che faceva parte del Giudicato d’Arborea – comprendeva, oltre Ollolai stesso, questi comuni: Austis, Fonni, Gavoi, Mamoiada, Olzai, Ovodda Teti, Tiana. Ebbene l’inglese William Henry Smyth (1788-1865) autore di un libro sulla Sardegna: Sketch of the present state of the Island of Sardinia (Abbozzo dello stato presente dell’isola di Sardegna) pubblicato nel 1828 presso l’editore Murray di Londra, (e che in Italiano è stato pubblicato, con il titolo Relazione sull’Isola di Sardegna da Ilisso edizioni, a cura di Manlio Brigaglia, con traduzione di Tiziana Cardone) fra gli altri temi affronta quello del clima, con aggettivi che vanno dall’ottimo, al molto malsano, passando per buono, puro, salubre, temperato, discreto, mediocre, umido, insalubre, malsano. Solo 15 paesi hanno un clima ottimo e sono: Aggius, Aritzo, Bitti, Bortigiadas, Calangianus, Codrongianus, Cuglieri, Fonni, Mamoiada, Oliena, Ollolai, Seulo, Sorgono, Tempio, Villagrande Strisaili. Dunque ancora nell’Ottocento nella Barbagia di Ollolai vi sono ben tre paesi con clima ottimo: Ollolai, appunto, ma anche Mamoiada e Fonni.
La scelta da parte dei Frati non può dunque ricondursi esclusivamente al clima. Vi dovevano essere altre motivazioni, ad iniziare da quelle culturali e religiose. I Francescani “investivano” capitali umani e risorse per l’alfabetizzazione, la cultura e la formazione ed anche – per non dire soprattutto – l’assistenza religiosa e la cura pastorale. Se scelgono Ollolai è perché ritengono che tali “investimenti” riguardino un centro grosso, importante. E non a caso Ollolai era stato capoluogo della “curatoria” Barbagia di Ollolai, nel Giudicato-regno di Arborea.
In esso risiedeva il “curatore”, ufficiale regio e capo della curatoria: “il più alto funzionario amministrativo locale, nominato dal re a tempo indeterminato (ad nutum). Esso sopraintendeva sia all’esazione dei diritti fiscali che alla prestazione dei lavori dovuti al sovrano e ai suoi rappresentanti, come le cacce collettive (silvas) e le operas de curadore; sorvegliava sui beni spettanti al potere pubblico e alle “ville”; esercitava un’autorità di controllo sugli agenti regi della sua “curatoria” (armentarii, maiores de sultus, maiores de kerkitores, maiores de scolca, mandatores de rennu, ecc.); regolava gli esercizi degli usi privati delle terre pubbliche e assisteva alla determinazione dei confini interni (lacanas) dei “salti” assegnati alle “ville” o ai privati; deteneva le funzioni di polizia del distretto e regolava il servizio armato sia per la guardia o scolca capeggiata dal maiore de scolca sia per l’esercito in caso di guerra statale” 1.
In esso inoltre avvenivano le elezioni, da parte di tutti gli uomini liberi delle “ville” che componevano la curatoria, del proprio rappresentante in seno alla Corona de Logu, ovvero il parlamento del regno giudicale.
A questo punto occorre porsi un altro interrogativo: perché Ollolai fu scelta come capoluogo della curatoria ?
L’indimenticato nostro compaesano e maestro, Michele Columbu risponde così:”Non saprei, ma dall’osservazione di una carta politica del tempo appare evidente che Ollolai, per la sua lontananza dalla capitale, ai confini settentrionali del regno, e per la sua posizione elevata, doveva considerarsi un punto strategico di resistenza a eventuali offese esterne”. E ancora :”La villa di Ollolà non può essere mai stata una città, quanto a numero di abitanti, e neppure un grosso villaggio”.
Non sono d’accordo. I capoluoghi delle curatorie erano sempre i centri più grossi e importanti e i Frati mai avrebbero scelto Ollolai, investendo, ripeto, risorse umane e materiali, per la formazione, l’alfabetizzazione e l’assistenza spirituale, in un centro piccolo, soprattutto visto che a livello ambientale, potevano scegliere molte altre località.
Questa mia ipotesi trova conferma nel nuorese Padre Pacifico Guiso Pirella, autore di Chronica Provinciae Sardiniae in cui scrive che Ollolai era ricca “di mil vassallos feudales, y agiados”, pari a circa 5.000 abitanti3.
E’ una cifra esagerata? Può darsi. Ma non si vede il motivo, da parte dello storico francescano di esagerare. Per quale scopo avrebbe dovuto enfatizzare la popolazione?

3- continua

Note bibliografiche
1. Francesco Cesare Casula, La storia di Sardegna, Edizioni ETS- Carlo Delfino editore, Sassari, 1994, pagine 174-175
2. Salvatore Bussu, Ollolai cuore della Sardegna, la capitale dell’antica Barbagia nella storia dell’Isola, Edizioni l’Ortobene, Nuoro, 1995, pagina 11.
3. Padre Guiso Pirella, Chronica Provinciae sardiniae, f. 48r., in AGOFMR.