Italianità e sardità secondo un’indagine di qualche anno fa.

Francesco Casula
Italianità e sardità secondo un’indagine di qualche anno fa.
di Francesco Casula
I sostenitori dell’«Italianità» della Sardegna e dei Sardi hanno di che riflettere: Il 27% si sente sardo e non italiano; il 38% più sardo che italiano; il 31% tanto l’uno che l’altro e solo il 3% più italiano che sardo e l’1% esclusivamente italiano. Emerge da un sondaggio di qualche anno fa curato dall’Università di Cagliari e da quella di Edimburgo e finanziato dalla Regione sarda, circa l’atteggiamento dei Sardi nei confronti della propria identità, dell’Autonomia, delle Istituzioni regionali e del rapporto fra Sardegna, Ue e Italia. Ancor più sorprendenti – ma solo per chi, come i politici, che hanno perso ormai qualsiasi rapporto con la realtà – sono le risposte delle persone interpellate in merito a come vorrebbero la Sardegna: il 10% vorrebbe che l’Isola fosse indipendente sia dall’Italia, sia dalla Ue; il 30% indipendente dall’Italia ma entro la Unione europea; il 48% vorrebbe che la Sardegna continuasse a far parte dell’Italia ma con un Parlamento e uno status di sovranità. Per l’11% la Sardegna dovrebbe avere un Parlamento ma non sovranità e l’1% non dovrebbe avere alcun Parlamento, bastando la appartenenza all’Italia. Un bel colpo ai quei maîtres à penser e intellettuali sardi da sempre fusionisti e italo centristi, cui viene l’orticaria al solo sentire la parola sovranità e indipendenza. Devono rassegnarsi: 150 anni e più (per limitarci al periodo post-unitario) di politiche italiane assimilatrici e omologatrici, a livello culturale e linguistico, ma non solo, non sono riuscite a “snazionalizzare” del tutto i Sardi. In cui rimane vivo – e il sondaggio ne è una testimonianza preziosa – quello che Lilliu chiamava “umore esistenziale”: ovvero l’aspirazione all’autogoverno e all’indipendenza, il senso profondo dell’identità. l’attaccamento alle radici e alle tradizioni non nel senso di voler fermare il movimento della vita e della loro storia, ma di sprigionarlo il movimento, attivandolo dinamicamente dalle catene imposte dal dominio esterno. Si dirà che si tratta di un semplice sondaggio: è vero. Ma esprime comunque con nettezza gli umori e i sentimenti dei Sardi. Anzi: i malumori e i risentimenti. Che Partiti e classi dirigenti nel suo complesso – narcotizzati da un’ inveterata cultura centralistica che impedisce loro di cogliere e di intercettare le profonde mutazioni, nei cuori e nelle menti dei Sardi E di conseguenza di capire e offrire loro soluzioni. Anche perchè oramai dai problemi dei Sardi sono abissalmente distanti e separati. E che nemmeno una crisi terrificante come quella in atto, li spinge a intraprendere rotte nuove, azioni e progetti decolonizzanti, per iniziare a rompere la “dipendenza”.
 
 
 
 
 
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ANNIVERSARI Macomer: la sconfittae la fine di un sogno

ANNIVERSARI
Macomer: la sconfitta e la fine di un sogno

di Francesco Casula

Martedì 20 maggio 1478 l’esercito oristanese fu definitivamente sconfitto nella battaglia di Macomer. Leonardo dìAlagon, prima della disfatta, abbandonò il campo di battaglia e con i fratelli, i figli ed il visconte di Sanluri fuggì a Bosa da dove si imbarcò su una nave con l’intento di raggiungere la Corsica. A causa di un tradimento la nave invertì la rotta verso la Sicilia dove furono consegnati all’ammiraglio Villamarin il quale, anziché consegnarlo al viceré di Sicilia, li condusse a Barcellona. Successivamente Leonardo fu incarcerato nel castello valenzano di Xàtiva ove morì nel 1494.
A descrivere minuziosamente i precedenti della battaglia che segnerà la definitiva e totale sconfitta di Arborea è Proto Arca Sardo (1), che riferisce e racconta l’esecuzione degli ordini (impartiti dal marchese attraverso una lettera) da parte del figlio Artale; il reclutamento di uomini dietro minaccia di morte, la raccolta delle armi, la partenza verso Macomer dove lo attende il padre con il resto della compagnia. Segue inoltre una parte in cui descrive l’arrivo di Artale a Macomer (avvenuto nella tarda sera del 18 di maggio), l’accoglienza affettuosa riservata a lui e ai suoi uomini da parte del marchese, la nottata trascorsa nell’organizzazione della battaglia, l’arrivo dell’alba e la disposizione dell’esercito.
Ecco un passo:”Avevano appena terminato di cenare quando si diffuse la notizia che nei dintorni, in cima a una collina, era stato avvistato uno stendardo viceregio. Il panico prese tutti, ma non il marchese. Costui infatti immemore dell’incostanza della fortuna e convinto che le battaglie sarebbero state a lui sempre propizie, era certo della vittoria. Insieme ai fratelli si mise a studiare un piano per assaltare di notte l’accampamento dei nemici […]. I pareri sul da farsi erano discordi: secondo alcuni bisognava aspettare le mosse del nemico, secondo altri, invece,, aggredirlo di sorpresa. E su questo dibattito, si fece l’alba di quel martedì che decretò la fine della guerra e del marchesato. Ormai il viceré era lì, con l’esercito accampato a ridosso del paese e la battaglia non poteva più essere elusa” (2).

La battaglia di Macomer nella prosa (latina) di Proto Arca Sardo
E battaglia fu: “Fu strage da entrambe le parti e ovunque effusione di sangue, in questo frangente furono proprio i Sardi a dare, da par loro, prova di grande valore in battaglia. Tuonarono terrificanti le urla dei combattenti, volarono saette e sassi, furono scagliate torce infuocate e palle di piombo; accecati ormai dal furore bellico. Non si curavano neanche più di scegliere il proprio bersaglio; tiravano in aria provocando nel cielo una violenta tempesta di dardi che poi precipitavano a pioggia, e ne cadeva una tale miriade che la polvere sollevata da terra a un certo punto oscurò completamente la scena, proprio come se su quella battaglia fossero calate le tenebre; neppure i soldati chiusi nell’ ammorsamento nemico si astenevano dall’usare le armi: con la lotta e col sangue tentavano disperatamente d’aprirsi un varco. Scudi in frantumi, corazze ed elmi passati dalle spade, petti trafitti, volti e membra coperti di sangue, mani e braccia amputate: si può dire, nessuno cadde in battaglia senza aver prima ferito di spada o aver ucciso qualcuno. E così in un sol giorno, i Sardi furono quasi sterminati dagli stessi Sardi: fra loro non vi era nessuno che non avesse la spada grondante di sangue.
Dunque il viceré, per salvare in quel pericolosissimo frangente la sua prima schiera, condusse le altre coorti alle spalle della formazione del marchese e, senza che venisse dato alcun segnale di guerra la chiuse e l’assalì con audacia. Questa azione lasciò tutti sbigottiti, mentre la cavalleria colta di sorpresa, veniva sbaragliata. Quando il marchese si rese conto che la situazione era precipitata, perduta ormai ogni speranza di salvezza, si sottrasse al combattimento insieme ai fratelli, a due figli, don Antonio e don Giovanni, al visconte di Sanluri e a quei pochi che poterono seguirlo; e poiché avevano cavalli velocissimi, fuggirono a spron battuto guadagnando la libertà”(3) .

Il significato storico della sconfitta di Leonardo d’Alagon
La disfatta del marchese Leonardo è considerata come il definitivo fallimento dell’ultimo tentativo di ricostituire in Sardegna un’entità statale e nazionale indipendente. La successione dell’Alagon rappresentava un elemento di continuità del giudicato d’Arborea e questo non era gradito alla corona d’Aragona. Secondo il cronista catalano Geronimo Zurita, infatti, il sovrano aragonese non approvava che alla morte del marchese Salvatore Cubello, privo di eredi diretti, gli subentrasse il nipote, ritenuto dunque responsabile degli eventi bellici che si sarebbero verificati e della conseguente sconfitta(4).
Dunque per riaffermare la propria supremazia nell’isola, alla corona si imponeva un’energica azione politica. “Sullo sfondo della vicenda marchionale appare perciò incontrastabile la volontà del sovrano d’Aragona e la ragion di stato che, con la sconfitta dell’ultimo erede della Casa d’Arborea e la conseguente soppressione degli ideali arborensi, vedeva avviato in Sardegna il proprio programma di assolutismo monarchico” (5)46.
In sintonia del resto con l’accentramento e la centralizzazione del potere politico in atto anche in altri stati – come la Francia o l’Inghilterra – contro la disseminazione del potere feudale.
Il proposito di Giovanni II d’Aragona è infatti quello di abolire ogni forma di politicità alternativa all’interno dei propri domini: specie, quando si tratta, come nel caso del marchese di Leonardo d’Alagon, di una “politicità” evocatrice di antiche libertà, autonomie e ideali indipendentistici di grande suggestione per i Sardi, ancora memori dell’età d’oro di Eleonora d’Arborea. Cui – non a caso – Leonardo d’Alagon, tendeva a ricollegarsi, (non dimentichiamo che era discendente, per parte di madre dai Giudizi d’Arborea), ponendosi non come uno dei tanti feudatari, magari ribelli al sovrano, ma un defensor des Sarts e dunque, un eroe nazionale desideroso di riscattare e liberare il proprio popolo dal dominio aragonese di un potente straniero.
In ballo non vi è dunque l’infinito contenzioso e conflitto fra due feudatari (Alagon e Carroz) l’uno buono pur se incauto e il secondo malvagio ma abile, ma l’esigenza – da parte del sovrano aragonese – di costruire uno “stato moderno” che doveva necessariamente sacrificare ogni sogno autonomistico e ancor più la secolare e tenace speranza dell’indipendenza sarda.

Note Bibliografiche
1. Proto Arca sardo, De bello et interitu marchionis Oristanei, a cura di Maria Teresa Laneri, Ed. Centro di studi filologici sardi/CUEC, Cagliari 2003
2. Ibidem, pagine 68-69.
3. ibidem, pagine 81-83.
4. Mirella Scarpa Senes, La guerra e la disfattta del Marchese di Oristano, Edizioni Castello, Cagliari 1997.
5. Ibidem pagina 66.

LE VEDOVE E I VEDOVI DI FAZIO

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Francesco Casula
LE VEDOVE E I VEDOVI DI FAZIO
di Francesco Casula
Sono in vedovanza. Sconsolate/i e addolorate/i. Soprattutto quelle/i di sinistra (?). O che tali si ritengono. A causa della cacciata di Fazio. Scrive in un post sul suo profilo facebook, a questo proposito, un valente intellettuale sardo, Natalino Piras: “La sinistra si indigna perché è stato mandato via Fabio Fazio e con lui l’odiosa Luciana Littizzetto da “Che tempo che fa”, una autentica galleria del leccaculismo, del buonismo, del ruffianesimo di Stato. A quanto dicono Fazio è stato pagato con 8 milioni di euro. È riuscito a intervistare, alla sua maniera, sempre da ruffiano, anche papa Francesco. Dicono che con Fazio, che non resterà disoccupato nel suo ruolo di ruffiano, a perdere è la cultura. Lo dice gente di sinistra che io non riconosco come tale. Sono un uomo di cultura, la cultura è quella che per circa 40 anni mi ha garantito uno stipendio. Per me l’andata via di Fazio dalla Rai, non so se chiamarla cacciata, non produce alcuna perdita di cultura”. Faccio mie le valutazioni di Natalino e aggiungo: ma per la Sardegna e noi Sardi cambia molto se al posto di Fazio mettono un altro pisciatinteris? E’ stato scritto che Fazio era “pluralista”, dava spazio a posizioni politiche e culturali diverse. Ma quando mai? Mi chiedo: nelle sue tramissioni quante volte ha parlato dei problemi sardi? Per esempio delle basi militari? O delle industrie nere e inquinanti? O delle nefaste Pale eoliche? In 40 anni ha mai dato spazio alle nostre battaglie sul bilinguismo o all’Indipendentismo sardo, invitando qualche esponente? Mai. Altrettanto farà il suo sostituto. E per noi sardi non cambierà niente. L’unica cosa che possimo chiedere è l’abolizione del canone-pizzo. Per il resto andade totus a su corru de sa furca, voi e il baraccone indecoroso della TV di Stato e dei Partiti italioti da cui, sempre la Sardegna è rigorosamente esclusa, se non per qualche notizia di cronaca nera o di folclore.

Traduzione in sardo della ” Voce” su Salvatore Satta pubblicata sulla TRCCANI

Traduzione in sardo della “Voce” su Salvatore Satta. pubblicata sulla TRECCANI.

L’amico Nicola Fressura, bonese, persona coltissima e gran conoscitore della lingua sarda, ha tradotto in sardo la “Voce” su Salvatore Satta, che ho scritto per la TRECCANI
SATTA, Sebastiano. – Est naschidu in Nuoro su 21 de maju de su 1867. Su babbu, nuoresu, Antonio, fit un’avvocadu connotu meda; sa mama, Raimonda Gungui de Mamujada, fit una femina pagu istudiada ma prena de una durchesa addolorida. Unu frade, Giuseppino, fit artu funzionariu in su Ministeriu de Grazia e Giustizia.

Su babbu fit mortu in Livorno, uhe fit andadu pro trabagliu, cando Satta haiat appenas lompidu chimbe annos. Restadu orfanu, haiat connotu su bisonzu e sas humiliaziones de sa povertade e sa mama haiat pesadu isse e su frade minore – haiat iscrittu a cua – «cun su fogu de su foghile chi fit pagu ‘e nudda».

In Nuoro Bastianu, comente lu giamaiant sos cumpanzos, haiat fattu sas elementares e su ginnasiu propiu in cuddu tempus chi fit alimentende sa gana de una vida e unu pensamentu diversos pustis de su tumultu de Su Connotu, capitadu in Nuoro su 26 de abrile de su 1868, cun sos rebelles chi haiant assaltadu su Munizipiu pedende de torrare a s’antigu sistema de gestione comunitaria de sos terrinos, eliminadu da s’edittu chi los haiant tancados a muru (1820) antis de s’abolizione de sos derettos de pasculu a cumone a cua, cun legge de su 23 de abrile de su 1865.

Pustis de custa ribellione, su parlamentare Giorgio Asproni haiat sollizitadu su guvernu italianu a avviare un’indagine subra sas cundiziones soziales e economicas de sa Sardigna, caratterizadas da su problema, torradu a biu, de sos bandidos, da s’emigrazione, da sa miseria e da sa malaria. In custa situazione fint bessidos in Nuoro parizzos poetas, giamados sos poetas de su Connotu, totus amigos corales de Satta.

Inter custos, Giovanni Antonio Murru, Pasquale Dessanai, Salvatore Rubeddu, chi haiant attaccadu, cun sa poesia populare issoro e in sardu, sas legges ingiustas chi haiant permissu a pagos privilegiados de s’impossessare de tancas mannas. In su clima de custu rinaschimentu locale si fint affirmados personazos che a Grazia Deledda e Francesco Ciusa, su menzus iscultore sardu, e cun issos Antonio Ballero e Giacinto Satta, pintores e romanzieris a su matessi tempus.

Finidu su ginnasiu, Satta fit andadu dae Nuoro a Tatari pro faghere su lizzeu, uhe a mastru de italianu teniat Giovanni Marradi, carduzzianu. Leada sa lissensia lizzeale haiat lassadu sos istudios pro faghere su sordadu in Bologna (1887-88). In ihe haiat iscrittu sa prima opera poetica, I versi ribelli, leende a modellu Carducci, pubblicada in Tatari su 1893. Finidu su sordadu fit torradu a Tatari uhe fit restadu finas a su 1894, istudiende in s’Universidade e laureendesi in legge. Sunt istados sos annos pius importantes de sa formazione sua, culturale, litteraria e ideologica, in unu logu briosu comente fit cudda zitade repubblicana e radicale, paris cun operadores culturales de valore che a Salvatore Farina, Enrico Costa, Luigi Falchi, Pompeo Calvia, Salvatore Ruju.

Haiat collaboradu cun su cuotidianu tataresu l’Isola, chi haiat fundadu isse etotu paris cun Gastone Chiesi e chi fit duradu pagu (da nadale de su 1893 a triulas de su 1894), ma haiat iscrittu puru in La Nuova Sardegna, Burchiello (unu settimanale goliardicu), in su periodicu tataresu Sardegna letteraria e in su casteddaiu Vita sarda. Sos iscrittos in prosa pro l’Isola fint firmados cun su pseudonimu Povero Jorik, chi teniat un’origine litteraria crara: infatti Povero Jorik est su buffone de su re in s’Amleto de Shakespeare.

De ammentare, paris cun sos cabucronacas ispidientosos, L’Intervista ai banditi, s’articulu pius connotu de issos, chi nd’haiant contadu ispantos e ch’haiat oltrepassadu sos confines de Sardigna e de Italia fit un’intervista a tres bandidos incainados (Francesco Derosas, Pietro Angius e Luigi Delogu). In summa, segundu una prospettiva culturale chi cheriat faghere connoschere sas cundiziones de sa Sardigna, abberrende s’isula a una visione intelletuale pius manna, collaboraiat a cuotidianos e periodicos, che Nuova Antologia, Giornale d’Italia, Il Resto del Carlino, Tempo e Italia del popolo.

De Satta giornalista hat iscrittu Salvatore Manconi: «Contaiat in manera naturale, coloraiat su pensamentu, fit un’artista de sa peraula. In sos iscrittos suos non s’agatat una volgaridade, finas brighende e beffende, fit unu segnore. Comente cronista no bi nd’haiat ateru. Sa cosigheddas pius de nudda li daiant s’occasione pro unu de cuddos cabucronacas, calchiunu in versos, chi l’aiant fattu connoschere e istimare in totu Tatari» (Albo sattiano, 1924, p. 47).

Su 1893 haiat pubblicadu un’atera silloge poetica, Nella terra dei Nuraghes (firmada cun Luigi Falchi e Pompeo Calvia), chi cunteniat otto liricas, duas in sardu: Su battizu e Sa ferrovia, de pagu valore artisticu, ma utiles pro cumprendere s’itinerariu ispirituale de su poeta. Finalmente, in su 1895 fit torradu a Nuoro, uhe fit istadu cussizeri comunale in su 1900-03. Dae su 1896 a su 1908 aiat trabagliadu comente avvocadu, «boghende fama de penalista mannu e de oradore brillante, benechistionadu, fogosu, timidu pro sas arringas suas, ca finas in sos fattos pius differentes resessiat a agattare sa nota umana» (Bonu, 1961, p. 534).

Su 1905 si fit cojuadu cun Clorinda Pattusi e haiant hapidu una prima fiza, Raimonda, giamada cun teneresa Biblina, morta pizzinnedda in su 1907 e ammentada in sos Canti dell’ombra cun unu lirismu triste e accoradu, moduladu in sas antigas monodias locales. In su 1908 fit naschidu su segundu fizu, chi l’haiat giamadu, a modu de provocazione, Vindice, chi hat passadu totu sa vida arribbende s’eredidade culturale e zivile de su babbu, antis de morrere in su 1984.

Su matessi annu a Satta li fit falada una paresi: “su gigante bonu”, “Pipieddu”, comente lu giamaiat, pro brulla, fit a terra, ma no haiat zessadu pro cussu de cumponnere versos, dittende sas poesias suas pius famosas chi fint intradas antis in Canti barbaricini (1909) e pustis in Canti del salto e della tanca (bessidos postumos in su 1924). Sos Canti barbaricini sunt naschidos cando Satta fit impignadu meda in Nuoro comente penalista. In sa Premessa, isse etotu los presentat gai: «Barbarizinos hapo cherfidu giamare custos cantos ca sunt accordos naschidos in Barbagia de Sardigna; e cando puru non zelebrant ispiritos e formas de cudda terra agreste e antiga, barbarizinos sunt in s’anima e barbarizinas tenent sas formas e sos modos. Le Selvagge, chi sunt su coro nieddu de su libru, ammentant sos urtimos annos de iscunfortu e de iscuru, cando sos cuiles fint boidos e terribiles e tragica sonaiant sas monodias de sas Atitadoras, e s’animu fit disamparadu e tribuladu dae disacatos e odios issellerados. Ah, su poeta hat bidu deabberu cussas mamas rundende peri sos montes, in chirca de sos fizos feridos in mortorzos e istrossas e hat bidu deabberu arende sa terra cun sos fusiles appicados a s’aradu! Ma sa notte si ch’est isparida e si sunt intesos sos cantos de s’albeschida» (Canti, 2003, p. 7).

Sos giudissios subra sas poesias de Satta fint differentes: da chi las dispregiaiat: «francu carchi liniamentu de poesia, su restu est retorica e imitazione» (Momigliano, 1924); a chi fit pius echilibradu: «Si rivelat dignu de rispettu, pro sa passione chi hat postu in s’isforzu sou de una poesia de su totu impignada; pro sa seriedade cun sa cale hat chircadu de risolvere su problema historicu, chi teniat addainnantis, de una litteradura, si poto narrere gai, sardonazionale» (Petronio, 1965, pp. 76 s.).

Pro sa chistione de sa limba sattiana, massimamente pro su chi appartennet a su sardu, est interessante e de cundividire custu giudissiu: «Su rapportu cun su sardu est costituidu da un’opera de adattamentu chi s’iscopu est una mistura espressiva trabagliosa: nde essit a pizu una proposta de limba poetica italiana intro de su cuntestu culturale e limbisticu regionale […]. S’operazione poetica de Satta est duncas pius ambiziosa e impignosa de cantu siat bessidu a pizu in su dibattidu chi s’est isviluppadu subra s’opera sua.

Si faghet rapresentante de una tradizione poetica regionale, siat a sa parte de sa tradizione in sardu, siat a sa parte de sa produzione in italianu, pro torrare a proponnere, cun una cussenzia pius ammaliziada e esperta e aberta e pius pagu suttamittida, un’esperienzia poetica chi ponzat in su matessi pianu sos valores de una realidade locale, discoidada e anzena. E sas ainas espressivas e tecnicas de una tradizione culta, in unu momentu uhe b’est sa tendenzia a dare boghe a sas culturas in creschida chi cumbattint e pretendent de tennere derettu a sa paraula in su cunzertu nazionale». (Canti, a cura de G. Pirodda, 1996, p. 15).

Satta est mortu in Nuoro su 29 de Sant’Andria de su 1914. L’hant interradu senza funerale religiosu ca haiat espressu sa volontade de non tennere nen preideros nen pregadorias cando si che fit mortu. Sas cronacas contant chi una zentamine de massajos, pastores e finas bandidos fit calada dae sos montes pro l’accumpanzare in s’urtimu reposu, ammentende s’amore sou pro s’uguaglianzia e su progressu soziale e sa passione chi teniat pro sa patria sarda. Satta fit connotu e istimadu meda da sa gente sua chi lu bidiat propiu comente unu ‘vate’, cantore de un’identidade sarda mitica e drammatica, fatta zirculare in abbundanzia in Europa da Grazia Deledda.

Sa Sardigna comente mundu primitivu, de incantu e agreste, lontanu in su tempus e in s’ispaziu. Una barbaridade amigale, in su coro incontaminadu de Europa, prena de passione e religiosidade, chi tantu haiat impressionadu David H. Lawrence, chi l’haiat descritta in Mare e Sardegna (Roma 2002). «ateros poetas sunt istados menzus de isse. A neune l’hant prantu de pius. Unu simbolu fit iscumparsu. Naschiat unu mitu» (Cossu, 1974, p. 3408).

Operas. Nella terra dei Nuraghes, Tatari 1893; Versi ribelli, Tatari 1893; Primo Maggio, Tatari 1896; Canti barbaricini, Casteddu 1909; Canti del Salto e della Tanca, Casteddu 1924; Poesie malnote, ignorate e disperse, Casteddu 1932; Canti «Canti barbaricini, Canti del Salto e della Tanca», Nuoro 2003. Fontes e Bibl.: A. Momigliano, Canti barbaricini, in Giornale d’Italia, 7 de austu de su 1924; Albo sattiano, Casteddu 1924; S. Satta, Canti, a cura de M. Ciusa Romagna, Milanu 1955; R. Bonu, Scrittori sardi, II, Tatari 1961, pp. 533-544; S. S. nel 50° anniversario della morte. Raccolta di manoscritti, documenti editi e inediti, Casteddu 1964; G. Petronio, S. S., Casteddu 1965; N. Cossu, in Letteratura italiana (Marzorati), I minori, IV, Milanu 1974, pp. 3403-3408; I Canti e altre poesie, a cura de F. Corda, Casteddu 1983; S. S.: dentro l’opera, dentro i giorni, Atti delle giornate di studio… 1985, a cura de U. Collu – A.M. Quaquhero, Nuoro 1988; A. Luce Lenzi, Canti barbaricini, Modena 1993; Canti, a cura de G. Pirodda, Nuoro 1996; D.H. Lawrence, Mare e Sardegna, Roma 2002; S. S., un canto di risarcimento, a cura de U. Collu, Nuoro 2015.

L’ Editto delle Chiudende irrompe nel romanzo sardo

L’Editto delle Chiudende irrompe nel romanzo sardo.

di Francesco Casula

L’Editto delle Chiudende è senza ombra di dubbio l’evento che maggiormente entra prepotentemente nella poesia e nella tradizione popolare sarda: perché è uno dei più funesti in quanto colpisce a morte non solo l’economia sarda ma il comunitarismo, che in tutta la storia, fin dalla civiltà nuragica, aveva caratterizzato la società sarda.

Contro tale editto per primo lanciò i suoi strali dell’ironia il principe dei poeti satirici in lingua sarda, Diego Mele, soprattutto con “In Olzai non campat pius mazzone” (In Olzai non campat pius mazzone/ca nde l’hana leadu sa pastura,/sa zente ingolumada a sa dulzura/imbentat sapa dae su lidone). La sua critica all’Editto gli varrà la condanna all’esilio, comminatagli dalle autorità politiche e religiose.

La tradizione popolare ci consegna poi la bella quartina (Tancas serradas a muru/fattas a s’afferra afferra/si su chelu fit in terra/l’aiant serradu puru): in quattro brevissimi versi abbiamo la sintesi perfetta di quell’evento. Attribuita a Melchiorre Murenu, in realtà l’Autore è stato un frate cappuccino, Gavino Achena di Ozieri.

Nella seconda metà dell’Ottocento a Nuoro si afferma un cenacolo di poeti (Salvatore Rubeddu, Giovanni Antonio Murru, Pasquale Dessanai ecc) che si scagliarono, con la loro poesia popolare e in lingua sarda, contro le leggi ingiuste che avevano permesso a pochi privilegiati di impossessarsi di vaste tanche. E mi piace ricordare che fu nel clima di questo rinascimento locale che si affermarono personaggi come Grazia Deledda, Sebastiano Satta e Francesco Ciusa, il maggior scultore sardo, e con loro Antonio Ballero e Giacinto Satta, pittori e romanzieri nello stesso tempo.

E proprio in quel momento storico, esattamente il 26 aprile del 1868, una domenica, a Nuoro Paskedda Zau, diede vita a una ribellione, passata alla storia come rivolta di “Su Connotu”, Brevemente: Paskedda Zau, vedova, con 10 figli a carico, in strada, all’uscita della messa, si rivolse alle donne che con lei avevano assistito alla celebrazione. Raggiunta la piazza antistante la chiesa, cominciò a chiamare anche gli altri nuoresi invitandoli alla ribellione. Che si trasforma in vera e propria rivolta con più di 300 persone – soprattutto donne – che assaltano il Municipio, scardinano le porte, asportano i fucili della Guardia nazionale, scaraventano in piazza i mobili e i documenti dello stato civile ma soprattutto i documenti catastali (su papiru bullau) sulle lottizzazioni dei terreni demaniali (dell’Ortobene e di Sa Serra, circa 8 mila ettari), che l’Amministrazione comunale – espressione degli interessi dei printzipales e della borghesia intellettuale e professionale, per lo più massonica – aveva deciso di vendere a famelici possidentes. Sottraendoli all’uso comunitario di pastori e contadini (che consentiva legnatico ghiandatico e pascolo per le pecore), viepiù ridotti alla miseria: uso che costituiva, per le comunità, un sollievo alla povertà, aggravatasi in seguito alla violenta carestia, che, nel 1866, li aveva colpiti duramente, mettendoli in ginocchio e portandoli sull’orlo della catastrofe.

In tempi a noi più vicini, uno scrittore del calibro di Giuseppe Dessì, nel suo capolavoro “Paese d’ombre”, parlando dell’Editto delle Chiudende, lo definisce “Una legge famigerata… che sovvertiva un ordine durato nell’Isola da secoli”

Ed oggi irrompe in uno straordinario romanzo in lingua sarda “Sas primas abbas”, di Giuanne Fiore di Ittiri, valente poeta e ora anche prosatore de giudu.

Ecco che cosa scrive:”A mastru Pitzente li faghiat piaghere a iscultare sos piseddos chistionende in Carrela ‘e Sas mendulas. E b’hait bortas ch’issu puru intraiat in s’arrejonamentu, tzitende s’istoria. Lis ammentaiat s’impreu cumonale chi in s’antighidade si faghiat de sass terras pro su recattu a su bestiamene e pro sa linna, a domos e a cuiles. Usos seculares, arraighinados in sa zente e passados da-i babbu in fizu. Li naraian “Su connottu”. Gai pro tempus longu. Fintzas a cando, inter sa fine de su 1700 e-i sa prima mesania de su 1800, cun disamistades sambenosas in tottu sos biddattones, su podere uffitziale de domo e de foras hat dadu manu franca a sos printzipales. E los han tancados a muru, cussos terrinos, battende a giompimentu l’evento del passaggio dalla utilizzazione collettiva delle terre alla formazione della proprietà privata. Gasichì in su mese de santuaine de su 1820 beniat imbandizadu su “Regio Editto sopra le Chiudende e sopra i terreni comuni…nel Regno di Sardegna”.

Le sei infamie di Sciaboletta ( alias Vittorio Emanuele 3°)


LE SEI INFAMIE DI SCIABOLETTA (alias vittorio emanuele 3°)

di Francesco Casula

1. Repressione poliziesca agli inizi del Novecento in Sardegna:
L’eccidio di Buggerru. La sommossa di Cagliari , Villasalto e Iglesias
Ricollegandosi al clima di repressione di fine secolo in Italia con la strage di Milano, nel romanzo Paese d’ombre Giuseppe Dessì scrive a proposito dell’eccidio di Buggerru: Bava Beccaris era nell’aria e con esso il suo demente insegnamento.
Anche a Buggerru, allora importante centro minerario, l’esercito, come a Milano nel 1898, sparò sulla folla inerme. Il 4 settembre del 1904 nel paese di Buggerru giunsero da Cagliari due compagnie del 42° reggimento di fanteria. La folla che gremiva la strada principale del paese li accolse in un silenzio ostile. Poco dopo i soldati con le baionette già cariche si schierarono in assetto da guerra all’esterno dell’Albergo dove alloggiavano. Le minacce e i tentativi di disperdere con la forza i manifestanti da parte dei soldati non sortirono alcun effetto. Fu allora che i soldati imbracciarono i moschetti e spararono sulla folla inerme. La tragedia si consumò in pochi minuti: sulla terra battuta della piazza giacevano una decina di minatori. Due, Felice Littera di 31 anni, di Masullas, e Giovanni Montixi di 49 anni, di Sardara, erano morti. Un terzo, Giustino Pittau, di Serramanna, colpito alla testa, morì in ospedale. Un mese dopo anche il ferito Giovanni Pilloni perì.
A Cagliari due anni dopo nel 1806, in seguito a una sommossa popolare contro il caro vita ci furono 10 morti.
“Alla notizia dei morti di Cagliari – scrive Natale Sanna – insorsero subito i centri minerari dell’Iglesiente con richieste varie, scioperi, saccheggi, scontri con i soldati, morti (due a Gonnesa e duie a Nebida) e feriti (17 a Gonnesa e quindici a Nebida) fra i dimostranti” (Natale Sanna, Il cammino dei Sardi, volume terzo, Editrice Sardegna, Cagliari, 1986, pagina 472).
Duramente repressi furono anche gli scioperi e le manifestazioni che si innescarono sempre dopo i fatti di Cagliari a Villasimius, San Vito, Muravera, Abbasanta, Escalaplano, Villasalto (con 6 morti e 12 feriti). Mentre a Iglesias nel 1920 i carabinieri sparano su una manifestazione di minatori causando 7 morti.
2. La Prima Guerra mondiale
La decisione di entrare in guerra fu presa esclusivamente dal sovrano, in collaborazione con il primo ministro Salandra, desideroso com’era di completare la cosiddetta “unità nazionale” con la conquista di Trento e Trieste, ancora in mano austriaca. il conflitto fu, come noto, tremendo per le forze armate italiane, che andarono incontro ad una spaventosa carneficina, tra il fango, la neve delle trincee e tra indicibili stragi e sofferenze.
Fu lo stesso Papa Benedetto XV a definire quella guerra una inutile strage. Ma in una enciclica del 1914 Ad Beatissimi Apostolorum Principis lo stesso papa era stato ancora più duro definendola una gigantesca carneficina.
Sarà il sardo Emilio Lussu, in una suggestiva testimonianza storica e letteraria come Un anno sull’altopiano a descrivere gli orrori di quella guerra. Egli infatti al fronte però sperimenterà sulla propria pelle l’assurdità e l’insensatezza della guerra: con la protervia e la stupidità dei generali che mandano al macello sicuro i soldati; con i miliardi di pidocchi, la polvere e il fumo, i tascapani sventrati, i fucili spezzati, i reticolati rotti, i sacrifici inutili.
Una guerra che comportò oltre a immani risorse (e sprechi) economici e finanziari immani lutti, con decine di migliaia di morti, feriti, mutilati e dispersi. A pagare i costi e il fio maggiore fu la Sardegna: “Pro difender sa patria italiana/distrutta s’este sa sardigna intrea, cantavano i mulattieri salendo i difficili sentieri verso le trincee, ha scritto Camillo Bellieni, ufficiale della Brigata” (Brigaglia, Mastino, Ortu, Storia della Sardegna, Editori Laterza, 2002, pagina 9).
Infatti alla fine del conflitto la Sardegna avrebbe contato bel 13.602 morti (più i dispersi nelle giornate di Caporetto, mai tornati nelle loro case). Una media di 138,6 caduti ogni mille chiamati alle armi, contro una media “nazionale” di 104,9.
E a “crepare” saranno migliaia di pastori, contadini, braccianti chiamati alle armi: i figli dei borghesi, proprio quelli che la guerra la propagandavano come “gesto esemplare” alla D’Annunzio o, cinicamente, come “igiene del mondo” alla futurista, alla guerra non ci sono andati.
La retorica patriottarda e nazionalista sulla guerra come avventura e atto eroico, va a pezzi. Abbasso la guerra, “Basta con le menzogne” gridavano, ammutinandosi con Lussu, migliaia di soldati della Brigata Sassari il 17 Gennaio 1916 nelle retrovie carsiche, tanto da far scrivere allo stesso Lussu – in Un anno sull’altopiano – Il piacere che io sentii in quel momento, lo ricordo come uno dei grandi piaceri della mia vita.
In cambio delle migliaia di morti, – per non parlare delle migliaia di mutilati e feriti – ci sarà il retoricume delle medaglie, dei ciondoli, delle patacche. Ma la gloria delle trincee – sosterrà lo storico sardo Carta- Raspi – non sfamava la Sardegna.
Sempre Carta Raspi scrive:”Neppure in seguito fu capito il dramma che in quegli anni aveva vissuto la Sardegna, che aveva dato all’Italia le sue balde generazioni, mentre le popolazioni languivano fra gli stenti e le privazioni. La gloria delle trincee non sfamava la Sardegna, anzi la impoveriva sempre di più, senza valide braccia, senza aiuti, con risorse sempre più ridotte. L’entusiasmo dei suoi fanti non trovava perciò che scarsa eco nell’isola, fiera dei suoi figli ma troppo afflitta per esaltarsi, sempre più conscia per antica esperienza dello sfruttamento e dell’ingratitudine dei governi, quasi presaga dell’inutile sacrificio. Al ritorno della guerra i Sardi non avevano da seminare che le decorazioni:le medaglie d’oro. d’argento e di bronzo e le migliaia di croci di guerra; ma esse non germogliavano, non davano frutto”. (Raimondo Carta Raspi, Storia della Sardegna, Ed. Mursia, Milano, 1971, pagina 904)
3. Il Fascismo.
Una delle massime responsabilità storiche di Vittorio Emanuele III fu l’aver favorito l’avvento e l’affermarsi del Fascismo. In seguito alla cosiddetta Marcia su Roma infatti, incaricò Benito Mussolini di formare il nuovo governo. Avrebbe potuto far intervenire l’esercito per combattere e disperdere gli “insorti”, invece mentre le forze armate si preparavano a fronteggiare “le camicie nere”, – con Badoglio fra i principali esponenti della linea, giustamente dura –, Vittorio Emanuele III si rifiutò di firmare il decreto di stato d’assedio di fatto aprendo la strada al fascismo.
Poco interessa oggi sapere se lo abbia fatto per viltà, opportunismo e calcolo politico: fu comunque il re a nominare Mussolini capo del Governo dando il via alla tragedia ventennale di quel regime.
Non tenendo conto che nelle ultime elezioni politiche del 1919 il movimento fascista, presentatosi nel solo collegio di Milano, con una lista capeggiata da Mussolini e Marinetti, raccolse meno di 5.000 suffragi sui circa 370.000 espressi, non riuscendo a eleggere alcun rappresentante.
Non tenendo conto che i due partiti democratici e di massa nelle stesse elezioni avevano trionfato: il Partito Socialista Italiano con il 32% dei voti e 156 seggi e il neonato Partito Popolare Italiano di don Sturzo con il 20% dei voti e 100 seggi.
Mussolini di fatto esautorerà la stessa monarchia che beata e beota si godeva il suo “impero” di sabbia con le conquiste imperiali, che evidentemente riteneva dessero lustro e prestigio alla stessa monarchia, non comprendendo che invece di volare stava precipitando e con essa l’intero popolo italiano e quello sardo in primis! Abbeverato di olio di ricino, internato nelle galere e esiliato al confino, condannato per ben quattro lustri ad ulteriore sottosviluppo.
Scrive Carta Raspi:”Mussolini più volte aveva fatto grandi promesse alla Sardegna e aveva pure stanziato un miliardo da rateare in dieci anni. Era stato tutto fumo, anche perché né i ras né i gerarchi e i deputati isolani osarono chiedergli fede alle promesse. Già sarebbero state briciole; ormai le aquile imperiali spaziavano nel mediterraneo e oltre tutto veniva inghiottito dalla Libia, poi dalla conquista dell’Abissinia e dalla guerra di Spagna. Solo all’inizio della seconda guerra mondiale Mussolini si ricordò della Sardegna, per attribuirle il ruolo di portaerei al centro del Mediterraneo occidentale”. (Raimondo Carta Raspi, op, cit. pagina 914).
In conclusione Vittorio Emanuele III non separò mai le sorti e le responsabilità della dinastia da quelle del regime: sul piano interno non si oppose alla graduale soppressione delle libertà garantite dallo Statuto e non si oppose neppure all’infamia delle leggi razziali e sul piano estero non si oppose alla seconda guerra mondiale.
4. Le Leggi razziali: Una delle maggiori “infamie” di cui si macchiò Vittorio Emanuele III sono state le leggi razziali emanate dal regime che hanno costituito e costituiscono tuttora la pagina più nera della storia dell’Italia e che recavano la firma di un sovrano che accettava l’antisemitismo e la furia xenofoba dell’alleato tedesco, fiero di un Mussolini che l’aveva fatto re d’Albania ed imperatore d’Etiopia!
4. La seconda guerra mondiale
La seconda guerra mondiale rappresenterà l’evento più drammatico che mai si sia verificato nella storia dell’umanità.
Scrive lo storico Franco della Peruta facendo una analisi complessiva:”Il bilancio del conflitto appariva sconvolgente perché la guerra, l’ecatombe più micidiale degli annali del genere umano, tre volte superiore a quella della grande guerra – aveva fatto 50 milioni di vittime fra militari e civili…Alle perdite umane si sommarono quelle materiali, in seguito ai gravissimi danneggiamenti che colpirono molte città della Cina, del Giappone e della Germania e alle distruzioni subite dall’unione sovietica, dove furono pressoché rase al suolo 1700 città e 70.000 villaggi”. (Franco Della Paruta, Storia del Novecento, Le Monnier, Firenze, 1991, pagine 249-250).
Anche la Sardegna pagò un grande tributo. Scrive a questo proposito lo storico sardo Natale Sanna: ”Durante l’ultima guerra la Sardegna, per la sua posizione strategica, le importanti basi navali e i circa quindici campi di aviazione in essa dislocati attirò l’attenzione dei comandi alleati. Dovette perciò subire, fin dai primi anni del conflitto, numerosi bombardamenti dapprima di lieve entità, ma poi, dopo lo sbarco americano nell’Africa settentrionale, frequentissimi e massicci. Furono danneggiati circa 25 comuni, fra cui Alghero, Carloforte, Carbonia, La Maddalena, Sant’Antioco, Palmas Suergiu, Setzu, Olbia, Oristano, Milis e, più gravemente degli altri, Gonnosfanadiga, dove si ebbero 114 morti e 135 feriti. Presa di mira fu soprattutto Cagliari. Le tristi giornate del 17, 26, 28 febbraio 1943 e quella del 13 maggio (per citare le più terribili) non saranno mai dimenticate dai Cagliaritani, che hanno visto la furia devastatrice venire dal cielo e distruggere la loro città, sventrando interi rioni, sconvolgendo le vie, lasciandosi dietro una scia di cadaveri e di feriti nelle strade e nelle macerie. Migliaia di morti (che alcuni fanno ascendere a 7.00 e il 75% dei fabbricati distrutti o resi inabitabili, furono il tragico bilancio di quei giorni. (Natale Sanna, Il cammino dei Sardi, volume terzo, Editrice Sardegna, Cagliari, 1986, pagine 487-488).
5. La fuga a Brindisi e l’Olocausto sardo.
Persa ormai la guerra e convinto ormai che il disastroso esito del conflitto potesse segnare non solo la fine del regime fascista ma anche quello della monarchia, Vittorio Emanuele arresta Mussolini (25 luglio 1943) e nomina nuovo capo del Governo il maresciallo Badoglio. Il giorno dopo l’Armistizio, il 9 settembre, insieme a Badoglio stesso abbandona Roma e fugge prima a Pescara e poi a Brindisi, nella zona occupata dagli alleati. L’ignominiosa fuga avrà conseguenze devastanti. E la Sardegna pagherà un altissimo tributo a questa fuga: 12.000 mila i soldati sardi IMI (fra i 750-800 mila militari italiani fatti prigionieri dai tedeschi dopo l’armistizio) verranno rinchiusi nei lager nazisti. Per spiegare un numero così alto di militari sardi deportati occorre capire la situazione in cui si trovarono nei fronti di guerra (Grecia, Albania, Slovenia, Dalmazia) dopo l’8 settembre. Con la difficoltà di tornare in Sardegna e sbandati, – non esistendo più una unità di comando e di direzione – essi furono posti di fronte all’alternativa di aderire alla RSI (Repubblica sociale di Salò) o di diventare prigionieri dei tedeschi e dunque di essere imprigionati nei lager. Abbandonati da Badoglio, quasi nessuno aderì alla RSI e dunque il loro destino fu segnato.
L’ignominiosa fuga avrà conseguenze devastanti. E la Sardegna pagherà un altissimo tributo a questa fuga: 12.000 mila i soldati sardi IMI (fra i 750-800 mila militari italiani fatti prigionieri dai tedeschi dopo l’armistizio) verranno rinchiusi nei lager nazisti.
Per spiegare un numero così alto di militari sardi deportati occorre capire la situazione in cui si trovarono nei fronti di guerra (Grecia, Albania, Slovenia, Dalmazia) dopo l’8 settembre. Con la difficoltà di tornare in Sardegna e sbandati, – non esistendo più una unità di comando e di direzione – essi furono posti di fronte all’alternativa di aderire alla RSI (Repubblica sociale di Salò) o di diventare prigionieri dei tedeschi e dunque di essere imprigionati nei lager. Abbandonati da Badoglio, quasi nessuno aderì alla RSI e dunque il loro destino fu segnato.
Ne ricordo uno, il padre del mio carissimo amico Damiano, che ebbe fortuna di rientrare dopo la tragedia dei lager:
-GIUSEPPE SASSU, di Bolotana. Padre dell’amico Damiano. Nato il 6 aprile del 1919 verrà chiamato al servizio militare nel 1939 proprio il giorno del suo ventesimo compleanno.
Nel 1943 (si trovava nel fronte greco) verrà internato nei campi di concentramento.
Fortunatamente, finita la guerra, dopo due anni e mezzo di internamento nei campi di concentramento nazisti,ritornerà in Sardegna e nella sua Bolotana dai lager di a Norimberga, alla fine del 1945: pesava 38 kg , quando partì pesava 60.
Nel novembre del 1946 si arruolò in Polizia e rimase fino all’ età di 58 anni. Morirà a Cagliari il 13 agosto del 1989.

Ma Napoleone per la Sardegna “EI” fu o ancora è?

Ma Napoleone per la Sardegna “EI” fu o ancora è?
di Francesco Casula
Non mi interessa il Napoleone oleografico dei libri scolastici. Ad iniziare dalle elementari: “Era piccolo e magro, resistentissimo alla fatica”. Per proseguire con quello romantico delle scuole medie e superiori: “Generale vittorioso e invincibile”. Né denunciare il despota militaresco e guerresco: seminò la guerra, nell’intera Europa, per un buon ventennio, causando la morte di 1 milione di persone. Né esaltare il suo apprezzabile e intelligente “populismo”: aprì la strada della carriera militare, prima riservata ai ceti nobiliari, anche a soggetti popolari. O le innovazioni contenute nel suo “Codice civile”. E neppure ricordare un evento che lo riguardò – e ci riguardò come Sardi – e che nessun libro scolastico ha mai raccontato. Chissà poi perché. Il fatto è questo. Nel 1793 la giovane Repubblica francese decise di sferrare un duplice attacco militare contro la Sardegna: contemporaneamente al sud e al nord. In su cabu ‘e susu, con il bombardamento de La Maddalena. Alla guida, tra gli altri, vi era un giovanissimo ufficiale, Napoleone Bonaparte. Che fu sconfitto, il 23 febbraio 1793 dal maddalelino Domenico Millelire. Il corso assaggiò così per la prima volta in Sardegna il sapore della sconfitta. Ma non se ne può parlare: il suo mito ne sarebbe in qualche modo sfregiato. Mi interessa invece fare un cenno al suo “capolavoro”, che ancora oggi vive e sostanzialmente, permane in Francia: lo Stato “napoleonico”, appunto. Uno Stato unitario, accentrato, centralista, burocratico. “Governato” (e controllato) attraverso i Prefetti, diretta emanazione del “Centro” e di nomina statal-governativa. Bene: questo mostro di vero e proprio “Leviatano”, malauguratamente è stato copiato e imitato in Italia con l’Unità. Come Sardi, da questa forma di Stato cancellati e oppressi, siamo vittime, a livello culturale e politico oltre che economico e sociale. Nonostante alcune operazioni di cosmesi fra cui la concessione dello Statuto speciale. Che ci serve per amministrare la nostra dipendenza coloniale.
 
 
 
 
 
Visualizzato da Francesco Casula alle 09:53
 
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