Recensione di Efisio Cadoni

Pubblicato il 3° volume della “Letteratura e civiltà della Sardegna” di Francesco Casula - #IndieLibri 
 
EFISIO CADONI di Villacidro, artista poliedrico e versatile (è infatti scrittore, poeta, pittore, scultore, ceramista e caricaturista) recensisce la mia “Letteratura e civiltà della Sardegna”
Le mie considerazioni sulla raccolta antològica della prosa e della poesía degli scrittori sardi, in lingua sarda e in lingua italiana, che è il piú recente lavoro intellettuale di Francesco Casula, verterà sull’individuazione di alcune línee guida che non solo caratterízzano l’òpera nella sua originalità, ma sono dei veri punti chiave che ne àprono le porte a una piú fàcile comprensione.
Colgo direttamente dalla copertina i concetti“essenziali” che ci offre l’autore come argomenti da sviluppare, temi da svòlgere, quelli che egli propone e che costituíscono il motivo ispiratore, esattamente dalle immàgini e dal títolo. Le immàgini ci condúcono immediatamente agliscrittori, ad autori che sono alcuni dei personaggi di cui scrive e che riconosciamo, Deledda, Gramsci, Lussu, Peppino Mereu ( nel primo volume); Lobina, Màsala, Atzeni, Michele Columbu (nel secondo volume) … Le parole del títolo ci dànno chiara chiara la materiache Francesco Casula diligentemente spècula: Letteratura, Civiltà, Sardegna.
La Sardegna è il luogo geogràfico, ma è anche il locus amoenus ac necessarius, il luogo attraente e gradito agli scrittori, ma per loro fortemente indispensàbile, necessario alla loro esistenza speciale; e quindi rappresenta l’estensione, la dilatazione non solo spaziale, ma temporale e di profondo rapimento interiore in cui si gènerano e si fórmano gli scrittori di cui Casula scrive. È il luogo in cui, dunque, nasce e cresce, nel tempo, la letteratura di pari passo con la civiltà da cui essa s’orígina e di cui si nutre, con cui si rinvigorisce e, come si diceva una volta, si reficia, si ristora ricevèndovi l’umífero terreno ove autore e fruitore tròvano giovamento spirituale. E il luogo rappresenta perciò anche il límite che blocca l’interesse crítico e stòrico di Francesco Casula, il confine invalicàbile davanti a cui si ferma, dove c’è Setta e Sibilia, oltre il quale non ha motivo di spíngere la sua “canoscenza”, perché il suo universo da esplorare ed esplorato, oggi, è qui, dentro la nostra ísola, nella nostra terra.
Oggi e qui Francesco Casula illúmina il píccolo grande mondo degli scrittori Sardi, perché non è cosa da poco scrívere un saggio antològico sulla letteratura di un pòpolo e, in un certo senso, farne la storia, fare la storia della civiltà dei Sardi. Ed è questo l’oggetto della sua ricerca, del suo impegno, del suo studio, della sua esplorazione.
Casula ha tracciato la storia della letteratura della Sardegna, anche se, con molta modestia, non la nòmina neppure “la storia”. Eppure, di storia della letteratura si tratta. Storia della letteratura della Sardegna che è anche storia della lingua dei Sardi, fin dalle sue orígini, perché la lingua è il “legame” che unisce in quell’astrattezza vitale, in quella spiritualità affratellante che i filòsofi chiamàvano “identicità”. Nell’identità, appunto, come in una sola natura specificamente individuale dell’umanità, la lingua sarda unisce una gente, una stirpe e un pòpolo che vien fuori dei sècoli di continue “intromissioni”, per non usare altri tèrmini piú aspri e violenti, e nonostante queste.
Letteratura e Civiltà della Sardegna è quindi “storia” della letteratura dei Sardi: un percórrere il tempo per il tràmite delle parole, attraverso le “espressioni” della lingua della Sardegna, della nostra lingua, fin dai primi documenti, dai contratti, dai làsciti, dai condaghi, per giúngere a noi, alla nostra “scrittura” da una scrittura che sa di civiltà preistòrica, sempre “a un passo” dalle nostre case, come direbbe Giuseppe Dessí, che sa di latino, ma anche di asiano, che sa di spagnolo catalano e aragonese, che sa di italiano e di francese, accanto all’altra, alla scrittura “ufficiale” di Italiani con la lingua di Dante. Storia questa, perciò, della letteratura della Sardegna che è anche storia della lingua dei Sardi, della lingua scritta e della lingua parlata; poiché la lingua scritta è la lingua parlata, quella che usiamo per comunicare, per esprímere passioni, sentimenti, decisioni, ragionamenti, volontà, quella che, in sostanza, è sempre la medésima, uguale a sé stessa, quella che ci dà, ecco, l’identicità, l’identità, il nostro id-ioma nazionale di Sardi, nel cui nome stesso troviamo la radice del nostro esser Sardi, l’id, l’idem, il medésimo, la medésima lingua, la peculiarità, l’idioma appunto, la stessa “identità”, una corrispondenza spirituale irrinunciàbile, l’esser una cosa sola, pur con forme diverse e diverse manifestazioni, identidem, sempre.
Io non credo che la “voluta” dimenticanza, il vuoto della parola “storia” sia determinato da un dubbio che ha tolto l’inchiostro dalla penna a Casula, dallo stesso dubbio che ha colto Salvatore Tola, altro studioso appassionato di sardità e di lingua sarda, il quale si è fatto sedurre, ma non convíncere, dal pensiero dell’algherese Pietro Nurra che, autore di “Canti popolari sardi” e di una raccolta antològica di “Poesía popolare in Sardegna”, sosteneva che non si pòssono definire “letteratura” gli scritti dei tantíssimi autori sardi, perché non non hanno “unità di concetto e lingua comune”. E perciò nessuna letteratura e nessuna storia. E non ho dúbbi sul fatto che, sia l’uno sia l’altro, síano o no d’accordo con lui; anzi sono certo che la pènsano diversamente. In ogni caso, la parola “storia” manca, ma la “letteratura” resta.
E che cos’è la letteratura se non la glorificazione delle passioni, dei sentimenti, dei concetti che prèndono forma e manifèstano sostanza dai segni scritti, dalle léttere, dalle parole? Essa, in Sardegna, è l’insieme delle parole e dei pensieri che “costruíscono” storie d’umanità di tutti i Sardi che han voluto, in tutti i tempi, comunicare razionalmente, esteticamente, poeticamente e sensazioni e intuizioni e pensieri. Essa è espressione della poièsis, attività dello spírito, potere dello spírito, in versi e in prosa. E la civiltà da cui si sviluppa è l’intelligenza dello stare bene insieme, del vívere insieme con un senso profondo del dovere e del rispetto dell’uomo verso l’altro uomo, la coscienzadella felicità di stare in pace gli uni con gli altri, scandendo il tempo verso il progresso.
E dunque, tra le cose “essenziali” di questo libro, oltre all’identità come collante che accomuna e come condizione naturale e metafísica insieme, oltre alla linguacome elemento “nazionale” e “vivo” dei Sardi che ci contraddistingue, nostra linfa naturale, oltre alla civiltàche cammina da sècoli con la parola scritta, ci sono i “píccoli spàzi” che Francesco Casula ha predisposto nel suo testo come preziose teche in cui presenta le sue novità, i punti chiave di comprensione.
Novità vuol dire anche originalità. Le novità perciò sono, forse, il maggior “pregio” del libro, nel senso che esse fanno della sua òpera una singolare guida didàttica alla lettura della produzione letteraria in Sardegna.
E vi troviamo la “Presentazione” dei testi, i “Giudízi crítici” arricchiti da quelli di numerosi altri commentatori, il settore ch’egli títola “Analizzare”, in cui affonda la propria capacità interpretativa quasi scomponendo, sezionando ogni composizione scelta e, come ho scritto altrove, quale maestro didatta dei lettori, grande suggeritore e accompagnatore alla conoscenza, quasi interrogando gli autori, in una sorta di escussione risolutiva, perentoria; e vi troviamo, infine, “Flash di storia e civiltà” dove dà il giusto vígore ad ogni autore calàndolo nel proprio ambiente, con la opportuna luce agli scritti, con le informazioni precise sulla sua vita, sulla società in cui vive, sul suo tempo.
Ma la “novità” vera è ancora quella concatenazione di mezzi di conoscenza e comprensione, strumenti pròpri del clàssico “didatta”, cioè di colui che fa coincídere il proprio insegnamento con il conseguente apprendimento da parte di chi ne ha curiosità, di chi vuole assaporare l’arte attraverso la lettura; e perciò ecco gli altri “spàzi”, quelli che ho definito “línee guida” dell’òpera, i settori in cui si fanno precisi suggerimenti :“approfondimenti” intorno ai rapporti esterni, al luogo in cui vive l’autore, alla storia; “confronti”, analogíe differenze con altri autori; “ricerche” tese ad allargare il campo della conoscenza, “spunti vàri”, attraverso un invito a metter a fuoco determinate questioni, precise letture, per una riflessione a voce alta. E qui si appalesa maggiormente la volontà di Francesco Casula d’esser maestro e guida per una “scuola” che riacquista il suo primigenio significato greco di tempo líbero, di “tempo della cultura”, corrispondente all’aurum otium litterarum dei Romani, il riposo, la pace, il tempo dedicato alle léttere.
Òpera per tutti, questa Letteratura e Civiltà di Sardegna, ma particolarmente destinata al mondo della scuola, ai freschi remigini come ai giòvani d’impegno già di salda schiena, un’òpera per tutti degna di un’attenta lettura, grazie alle qualità di scrittura chiara e sémplice di Francesco Casula che, con l’arricchimento culturale, ci dona anche la soddisfazione del godimento spirituale del lèggere, che è grande, talvolta, quanto il piacere dello scrívere.
Efisio Cadoni

GLOBALIZZAZIONE OMOLOGAZIONE e AFASIA

 di Francesco Casula
Verso un solo mondo (One world), e per di più un mondo uniforme, “l’odiosa, omogenea unicità mondiale”, l’aveva chiamata David Herbert Lawrence in “Mare e Sardegna”; anzi una sfera rigida e astratta nell’empireo e non invece tanti mondi, ciascuno col proprio movimento e con un suo essere particolare e inconfondibile. Quella “unità”, di cui parla lo scrittore Eliseo Spiga nel suo suggestivo potente e visionario romanzo, “Capezzoli di pietra” (Zonza Editori): Ormai il mondo era uno. Il mondo degli incubi di Caligola. Un’idea. Una legge. Una lingua. Un’eresia abrasa. Un’umanità indistinta. Una coscienza frollata. Un nuragico bruciato. Un barbaricino atrofizzato. Un’atmosfera lattea. Una natura atterrita. Un paesaggio spianato. Una luce fredda. Città villaggi campagne altipiani nazioni livellati ai miti e agli umori di cosmopolis. Verso un pensiero unico: che abolisce le stagioni, sospende il tempo, rende insignificante il contrasto fra il caldo e il freddo, ammutolisce la politica, mette al bando l’idea stessa del cambiamento. Omologando e annullando progressivamente le specificità; ibernando nella bara della tecnica, del calcolo economico, della mercificazione, della globalizzazione le identità politiche, sociali, etniche. Dimenticando il valore proprio delle riserve della memoria, le consuetudini familiari e municipali, le esperienze di vita, i retroterra arcaici e umorali, le diversità, i vecchi valori e le «piccole patrie»,. In una parola le nostre “radici”. Inaridirle, strapparle, equivarrebbe a staccarci dalla nostra anima e dalla nostra coscienza. Perché certo le radici da sole non bastano. Ma senza le radici non si sta in piedi . Dimenticando, “in un incubo distopico, le differenze tra le persone e gli stati , le sacrosante, ferree differenze storiche, economiche, culturali, religiose, linguistiche fra persone e paesi distanti migliaia di chilometri e figlie di storie e culture completamente diverse”. (Edoardo Nesi vincitore del Premio Strega 2011, con il romanzo Storia della mia gente, – (Bompiani editore) Imboniti dalla televisione, clienti perfetti del paradiso delle multinazionali perché indottrinati ad avere gli stessi gusti, consumatori felici di mangiare ovunque lo stesso hamburger senza sapore, di vedere gli stessi film senza storia e di sentire la stessa musica di plastica, di passare le giornate a chiacchierare di nulla su internet e di non leggere neanche un libro, di mettersi addosso la stessa pallida imitazione di moda e di parlare tutti la stessa lingua senza però avere più nulla da dire. Domani infatti, un domani sempre più vicino, il Pianeta parlerà la stessa lingua, un’unica lingua. Con lo sterminio delle 7.000 lingue oggi presenti sulla Terra. Che bello dirà qualcuno: basta con la Babele linguistica. Così potremmo capirci tutti. Sì, forse. Ma non avremmo più niente da dirci né da comunicare, né da raccontare. Saremmo ridotti all’AFASIA TOTALE.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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IL NATALE NELLA TRADIZIONE SARDA

 Di Francesco Casula
Nella tradizione sarda, quando la civiltà industriale e commerciale ancora non aveva soppiantato quella contadina e agropastorale, il Natale costituiva un importante e significativo momento di aggregazione, ideale per ribadire e talvolta ripristinare la coesione del nucleo familiare temporaneamente incrinata dai vincoli derivanti dal lavoro in campagna. Il Natale basato sul messaggio di fede e speranza, si contrapponeva positivamente alla solitudine degli altri periodi dedicati alla produzione del reddito, quando, per molti mesi all’anno, il capo famiglia era costretto a vivere in freddi ricoveri di montagna, lontano dalla propria casa e dai propri cari. Il momento cardine che sanciva la ricomposizione di ciascuna famiglia e la ripresa dei contatti umani, era proprio la notte della Vigilia, definita dalla tradizione Sa notte ’e xena (notte della cena). In quest’occasione, il caminetto rappresentava il centro delle attività di ciascuna famiglia e, quindi, il punto di emanazione del calore necessario a mitigare le fredde temperature invernali. Per questo motivo, era consuetudine predisporre per le festività natalizie, un grosso ceppo appositamente tagliato e conservato Su truncu ’e xena o cotzina ’e xena. Un’atmosfera descritta in “Miele Amaro”, ripensando alla sua Orotelli, da Salvatore Cambosu: «Certo, ci vuole proprio un villaggio perché un bambino come Gesù possa nascere ogni anno per la prima volta. In città non c’è una stalla vera con l’asino vero e il bue; non si ode belato, e neppure il grido atroce del porco sacrificato, scannato per la ricorrenza. In città è persino tempo perso andar cercando una cucina nel cui cuore nero sbocci il fiore rosso della fiamma del ceppo». Proprio accanto al piacevole tepore emanato dal fuoco l’intero gruppo familiare consumava i prodotti tipici sardi della tradizione pastorale come l’agnello o il capretto arrosto con annesse frattaglie (su trataliu e sa corda), formaggi sardi e salsicce sarde ottenute da su mannale, il maiale allevato in casa. Secondo questa consuetudine i preparativi per la cena iniziavano già nei giorni precedenti la Notte Santa. Al riguardo, la tradizione orale racconta come in quella circostanza il consumo di tutte le pietanze preparate diventasse un obbligo. E proprio per questo motivo, spesso e volentieri, si ammonivano i bambini a mangiare abbondantemente, altrimenti una terribile megera chiamata “Maria Puntaborru” (in alcuni paesi del Campidano) o “Palpaeccia” (in molti paesi dell’interno), avrebbe tastato il loro ventre durante il sonno e se questo fosse risultato vuoto, avrebbe infilzato la loro pancia con uno spiedo appuntito oppure messo sul loro stomaco una grossa pietra per schiacciarlo. Dopo la cena si era soliti intrattenersi ascoltando le storie e gli aneddoti di vita narrati dagli anziani. In alternativa, il momento d’attesa era trascorso facendo ricorso a giochi tradizionali come su barrallicu, arrodedas de conca de fusu, punta o cù, cavalieri in potu, tòmbula, matzetu e set’è mesu in craru. Con l’avvicinarsi della mezzanotte, i rintocchi delle campane avvisavano la popolazione dell’imminente inizio della “Messa di Natale”, Sa Miss ’e puddu, ovvero la “messa del primo canto del gallo”. In tale circostanza tutte le chiese venivano addobbate con una gran quantità di ceri. L’atmosfera natalizia e l’alta concentrazione di gente che assisteva alla solenne funzione (ad eccezione delle donne in lutto che la notte restavano a casa e partecipavano alla prima orazione del giorno dopo) diventavano spesso fonte di baccano durante lo svolgimento delle sacre funzioni religiose e, in alcuni casi, capitava addirittura di udire archibugiate in segno di giubilo provenienti dal portone o, talvolta, dall’interno della chiesa stessa. Ne è testimonianza ciò che accadde in occasione del Natale del 1878, quando, all’ora dell’elevazione dell’ostia, uno dei barracelli presenti al rito sparò una schioppettata nel presbiterio, cosicché il parroco sbigottito dovette affrettarsi a finire le funzioni religiose prima dell’ora stabilita. A tal proposito la Chiesa, già dal lontano passato, aveva sempre lamentato il perpetuarsi di questi inconvenienti, tant’è che i Sinodi di Cagliari degli anni 1651 e 1695, ad esempio, davano indicazioni ben precise al Clero locale, affinché: «… si vietino il chiasso e la gran confusione che si creano in chiesa in occasione delle grandi feste e … le notti di Natale, Giovedì e Venerdì Santo, … non si permetta il lancio di noccioline, nocciuole, dolci, ecc., … né si sparino archibugiate all’interno della chiesa, anche se per festeggiare il Santo. E se sarà necessario si invochi l’aiuto del braccio secolare per scongiurare questi eccessi». In Barbagia non mancano tradizioni specifiche riferibili alle feste natalizie e di fine anno. A Bitti fino all’Epifania Su Nenneddu (un’antica piccola statua di Gesù Bambino) viene accolto di casa in casa (emigrati compresi) con canti e preghiere. Ancora a Bitti il 31 dicembre al termine del Te Deum il parroco si affaccia alla finestra della chiesa per lanciare Sas Bulustrinas, monetine e caramelle che scatenano la caccia dei bambini. Bimbi protagonisti anche a Orgosolo nella mattinata di San Silvestro quando viene ancora riproposta Sa candelarìa: gruppi di bambini girano di casa in casa per ricevere piccoli regali tra cui un pane tipico preparato per l’occasione. La notte tocca poi agli adulti che fanno visita alle coppie che si sono sposate nell’anno moribondo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Sardi pocos, locos y mal unidos?

Sardi pocos, locos y mal unidos?
di Francesco Casula
La definizione dei Sardi pocos, locos y mal unidos, attribuita a Carlo V, ma mai verificato in alcun documento o altra fonte storica, è in realtà di Martin Carrillo, Visitador del Reyno de Cerdeña.
Questi, ambasciatore del re Filippo IV nel 1641, in un resoconto stilato per il sovrano spagnolo in merito alla situazione linguistica e culturale della Sardegna (“Il Catalano e lo Spagnolo vengono utilizzati e capiti nelle città, mentyre il Sardo è la lingua comunemente utilizzata nei villaggi” definirà appunto i Sardi:” pocos, locos y mal unidos”. E si riferiva – sbagliando – alla situazione linguistica.
Ma tant’è: diventerà un becero e trito luogo comune e verrà interiorizzato da molti sardi e ripetuto in modo ossessivo e autoflagellante, con effetti devastanti, specie a livello psicologico e culturale (vergogna di sé, complessi di inferiorità, poca autostima, voglia di autocommiserazione e di lamentazione) ma con riverberi in plurime dimensioni: tra cui quella socio-economica.
Del resto l’imperatore Carlo V, poco doveva conoscere la Sardegna se non dai dispacci “interessati” dei vice re: solo due volte la visitò direttamente e di passaggio. Nel 1535 quando durante la spedizione contro Tunisi e i Barbareschi sbarcò a Cagliari trattenendosi alcune ore e nell’ottobre del 1541; nella seconda spedizione, questa volta contro Algeri, il più attivo nido dei Barbareschi. In questo caso la flotta imperiale sostò in Sardegna: ma non – come ebbe a sostenere Carlo V – per visitare Alghero, dove passò la notte del 7, bensì per esserne abbondantemente approvvigionato, a spese della popolazione della città catalana e dell’intero sassarese.
I Sardi certo sono pocos: e questo di per sé non è necessariamente un fattore negativo. Ma non locos: ovvero stolti, stolidi e men che meno imbecilli.
Mal unidos? Questo, almeno in parte sì: ma più per responsabilità dei Governanti e dei gruppi dirigenti che per colpa del popolo sardo. Ma soprattutto per responsabilità degli ascari locali, un solo esempio: Giovanni Maria Angioy fu sconfitto per una pluralità di motivi, ma uno dei principali è da addebitare e ricondurre certamente a chi lo tradì, ai suoi stessi ex seguaci. E penso ai Cabras, Sulis,Pintor Sirigu e non solo.
Certo le esuberanti creatività e ingegnosità popolari dei Sardi furono represse e strangolate dal genocidio e dal dominio romano. Ma la Sardegna, a dispetto degli otto trionfi celebrati dai consoli romani, fu una delle ultime aree mediterranee a subire la pax romana, afferma lo storico Meloni. E non fu annientata. La resistenza continuò. I Sardi riuscirono a rigenerarsi, oltrepassando le sconfitte e ridiventando indipendenti con i quattro Giudicati: sos rennos sardos (i regni sardi).
Certo con catalani, spagnoli e piemontesi furono di nuovo dominati e repressi: ma dopo secoli di rassegnazione, a fine Settecento furono di nuovo capaci ai alzare la schiena e di ribellarsi dando vita a quella rivoluzione antifeudale, popolare e nazionale che porrà la base della Sardegna moderna.
Certo, si è tentato in ogni modo di scardinare e annientare lo spirito comunitario, la solidarietà popolare, quella pluralità di reti sociali e di relazione che avevano caratterizzato da sempre le Comunità sarde con variegati sistemi e costumi solidaristici e di forte unità: basti pensare a s’ajudu torrau o a sa ponidura: costumanza che colpirà persino un viaggiatore e visitatore come La Marmora che [in Viaggio in Sardegna di Alberto Della Marmora, Gianni Trois editore, Cagliari 1955, Prima Parte, Libro primo, capitolo VII., pagine 207-209] scriverà:”. Fra le usanze dei campagnuoli della Sardegna, alcune sono de¬gne di nota e sembrano risalire all’antichità più remota : citeremo le seguenti.
Ponidura o paradura. – Quando un pastore ha subito qualche perdita e vuol rifare il suo gregge, l’usanza gli dà facoltà di fare quel che si dice la ponidura o paradura. Egli compie nel suo villag¬gio, e magari in quelli vicini, una vera questua. Ogni pastore gli dà almeno una bestia giovane, in modo che il danneggiato mette subito insieme un gregge d’un certo valore, senza contrarre alcun obbligo, all’infuori di quello di rendere lo stesso servizio a chi poi lo reclamasse da lui…”
Così le identità etnico-linguistiche, le specialità territoriali e ambientali, le peculiarità tradizionali, pur operanti in condizioni oggettive di marginalità economica sociale e geopolitica permangono. I Sardi infatti, nonostante le tormentate vicende storiche costellate di invasioni, dominazioni e spoliazioni, hanno avuto la capacità di metabolizzare gli influssi esterni producendo una cultura viva e articolata che ha poche similitudini nel resto del mediterraneo. Basti pensare al patrimonio tecnico-artistico, alla cultura materiale e artigianale, alla tradizione etno-musicale connessa alla costruzione degli strumenti, alla complessa e stratificata realtà dei centri storici e delle sagre, agli studi sulla realtà etno-linguistica, alla straordinaria valenza mondiale del patrimonio archeologico e dei beni culturali, all’arte: da quella dei bronzetti a quella dei retabli medievali; dagli affreschi delle chiese ai murales, sparsi in circa duecento paesi; dalla pittura alla scultura moderna.
Ma soprattutto basti pensare alla lingua, spia dell’Identità e substrato della civiltà sarda. Entrambe non totem immobili (sarebbero state così destinate a una sorte di elementi museali e residuali) ma anzi estremamente dinamiche.
La poesia, la letteratura, l’arte, la musica, pur conservando infatti le loro radici in una tradizione millenaria, non hanno mai cessato di evolversi, aprirsi e contaminarsi, a confronto con le culture altre. Soprattutto questo avviene nei tempi della modernità, a significare che la cultura sarda non è mummificata.Sardi pocos, locos y mal unidos?
di Francesco Casula
La definizione dei Sardi pocos, locos y mal unidos, attribuita a Carlo V, ma mai verificato in alcun documento o altra fonte storica, è in realtà di Martin Carrillo, Visitador del Reyno de Cerdeña.
Questi, ambasciatore del re Filippo IV nel 1641, in un resoconto stilato per il sovrano spagnolo in merito alla situazione linguistica e culturale della Sardegna (“Il Catalano e lo Spagnolo vengono utilizzati e capiti nelle città, mentyre il Sardo è la lingua comunemente utilizzata nei villaggi” definirà appunto i Sardi:” pocos, locos y mal unidos”. E si riferiva – sbagliando – alla situazione linguistica.
Ma tant’è: diventerà un becero e trito luogo comune e verrà interiorizzato da molti sardi e ripetuto in modo ossessivo e autoflagellante, con effetti devastanti, specie a livello psicologico e culturale (vergogna di sé, complessi di inferiorità, poca autostima, voglia di autocommiserazione e di lamentazione) ma con riverberi in plurime dimensioni: tra cui quella socio-economica.
Del resto l’imperatore Carlo V, poco doveva conoscere la Sardegna se non dai dispacci “interessati” dei vice re: solo due volte la visitò direttamente e di passaggio. Nel 1535 quando durante la spedizione contro Tunisi e i Barbareschi sbarcò a Cagliari trattenendosi alcune ore e nell’ottobre del 1541; nella seconda spedizione, questa volta contro Algeri, il più attivo nido dei Barbareschi. In questo caso la flotta imperiale sostò in Sardegna: ma non – come ebbe a sostenere Carlo V – per visitare Alghero, dove passò la notte del 7, bensì per esserne abbondantemente approvvigionato, a spese della popolazione della città catalana e dell’intero sassarese.
I Sardi certo sono pocos: e questo di per sé non è necessariamente un fattore negativo. Ma non locos: ovvero stolti, stolidi e men che meno imbecilli.
Mal unidos? Questo, almeno in parte sì: ma più per responsabilità dei Governanti e dei gruppi dirigenti che per colpa del popolo sardo. Ma soprattutto per responsabilità degli ascari locali, un solo esempio: Giovanni Maria Angioy fu sconfitto per una pluralità di motivi, ma uno dei principali è da addebitare e ricondurre certamente a chi lo tradì, ai suoi stessi ex seguaci. E penso ai Cabras, Sulis,Pintor Sirigu e non solo.
Certo le esuberanti creatività e ingegnosità popolari dei Sardi furono represse e strangolate dal genocidio e dal dominio romano. Ma la Sardegna, a dispetto degli otto trionfi celebrati dai consoli romani, fu una delle ultime aree mediterranee a subire la pax romana, afferma lo storico Meloni. E non fu annientata. La resistenza continuò. I Sardi riuscirono a rigenerarsi, oltrepassando le sconfitte e ridiventando indipendenti con i quattro Giudicati: sos rennos sardos (i regni sardi).
Certo con catalani, spagnoli e piemontesi furono di nuovo dominati e repressi: ma dopo secoli di rassegnazione, a fine Settecento furono di nuovo capaci ai alzare la schiena e di ribellarsi dando vita a quella rivoluzione antifeudale, popolare e nazionale che porrà la base della Sardegna moderna.
Certo, si è tentato in ogni modo di scardinare e annientare lo spirito comunitario, la solidarietà popolare, quella pluralità di reti sociali e di relazione che avevano caratterizzato da sempre le Comunità sarde con variegati sistemi e costumi solidaristici e di forte unità: basti pensare a s’ajudu torrau o a sa ponidura: costumanza che colpirà persino un viaggiatore e visitatore come La Marmora che [in Viaggio in Sardegna di Alberto Della Marmora, Gianni Trois editore, Cagliari 1955, Prima Parte, Libro primo, capitolo VII., pagine 207-209] scriverà:”. Fra le usanze dei campagnuoli della Sardegna, alcune sono de¬gne di nota e sembrano risalire all’antichità più remota : citeremo le seguenti.
Ponidura o paradura. – Quando un pastore ha subito qualche perdita e vuol rifare il suo gregge, l’usanza gli dà facoltà di fare quel che si dice la ponidura o paradura. Egli compie nel suo villag¬gio, e magari in quelli vicini, una vera questua. Ogni pastore gli dà almeno una bestia giovane, in modo che il danneggiato mette subito insieme un gregge d’un certo valore, senza contrarre alcun obbligo, all’infuori di quello di rendere lo stesso servizio a chi poi lo reclamasse da lui…”
Così le identità etnico-linguistiche, le specialità territoriali e ambientali, le peculiarità tradizionali, pur operanti in condizioni oggettive di marginalità economica sociale e geopolitica permangono. I Sardi infatti, nonostante le tormentate vicende storiche costellate di invasioni, dominazioni e spoliazioni, hanno avuto la capacità di metabolizzare gli influssi esterni producendo una cultura viva e articolata che ha poche similitudini nel resto del mediterraneo. Basti pensare al patrimonio tecnico-artistico, alla cultura materiale e artigianale, alla tradizione etno-musicale connessa alla costruzione degli strumenti, alla complessa e stratificata realtà dei centri storici e delle sagre, agli studi sulla realtà etno-linguistica, alla straordinaria valenza mondiale del patrimonio archeologico e dei beni culturali, all’arte: da quella dei bronzetti a quella dei retabli medievali; dagli affreschi delle chiese ai murales, sparsi in circa duecento paesi; dalla pittura alla scultura moderna.
Ma soprattutto basti pensare alla lingua, spia dell’Identità e substrato della civiltà sarda. Entrambe non totem immobili (sarebbero state così destinate a una sorte di elementi museali e residuali) ma anzi estremamente dinamiche.
La poesia, la letteratura, l’arte, la musica, pur conservando infatti le loro radici in una tradizione millenaria, non hanno mai cessato di evolversi, aprirsi e contaminarsi, a confronto con le culture altre. Soprattutto questo avviene nei tempi della modernità, a significare che la cultura sarda non è mummificata.

I Fenici in Sardegna

I FENICI IN SARDEGNA
A cura di Francesco Casula
Quando
Fra il 900/800 a,C., esattamente nel periodo di massimo splendore della civiltà nuragica, la Sardegna è oggetto di attenzione da parte di altre popolazioni mediterranee: da parte dei Fenici (mentre la Sicilia da parte dei Greci).

Chi sono (e nome)
Sono popolazioni semitiche e il nome deriva da phoinix (porpora in greco) con cui coloravano pregiate stoffe di lana e lino di cui avevano il monopolio e che ottenevano da una particolare tipo di conchiglia marina chiamata mùrice (dal latino murex-murici=mollusco).

Da dove vengono
Dal Libano: una striscia di terra fra montagne e Mediterraneo orientale.Una popolazione che dal secondo millennio fino al 1200 è tributaria dei faraoni.

Sono grandi navigatori
Con l’anno mille iniziò il loro periodo d’oro quando da esperti marinai e navigatori affrontano per primi la navigazione notturna in mare aperto orientandosi per mezzo delle stelle.

Le città fenicie
Iniziarono a fondare molte città: Sidone (sud del Libano), Beirut (l’odierna capitale), Tiro, Acco, Biblo. E iniziano a percorrere le vie del Mediterraneo in lungo e in largo per vendere (conoscevano infatti la moneta) il loro fiorente artigianato: ceramiche, vetri, gioielli (in argento e oro), stoffe, unguenti.

Le città mediterranee
Arrivarono a Cipro (città di Kition), Creta (isola greca), a Cadice e Ibiza (Spagna), nell’Africa del Nord a Utica in Tunisia e Lixus o Lisso in Marocco.

900/800
Arrivano in Sardegna, attratti dalla fertilità del suolo e dalle ricchezze minerarie. Inizialmente vista come scalo e porti nei loro viaggi che duravano un anno.

Sardegna del sud
Fondano le città di
Karalis: specie per i rapporti con l’interno in cui confluivano i minerali;
Nora:n dove aveva sede il Governatore militare;
Bithia (Chia-Spartivento)
Sulcis (Sulkis-Sant’Antioco), punto di riferimento per il traffico mediterraneo. Da tener presente che l’impero romano non esiste ancora, Roma sarà fondata il 21 aprile del 753 mentre Cartagine è stata fondata, dai Fenici stessi, nell’840 a. C.
In seguito verranno fondate queste altre città nell’Oristanese:
Tharros (15 Km da Oristano); Othoca (l’odierna Santa Giusta), Cornus (la città di Amsicora).
E ancora Neapolis (Santa Maria di Nabui-Guspini) e persino Bosa.
Occorre però ricordare che sulla fondazione di queste città da parte dei Fenici ci sono dubbi: qualche storico avanza l’ipotesi che fossero preesistenti al loro arrivo.
Per esempio a proposito di Bosa il linguista Massimo Pittau scrive: “L’esistenza di quel nuraghe, assieme con altri tre situati nell’agro di Bosa, chiamati rispettivamente di Albaganes, Furru e Zarra, costituisce una prova chiara e sicura che Bosa, contrariamente a quanto si è pensato e detto finora, non è stata fondata dai Fenici o dai Cartaginesi, bensì è di origine sardiana o nuragica”(Toponimi della Sardegna – Significato e origine – I Macrotoponimi -EDES, Sassari 2011, pag. 790).

Rapporti pacifici? Inizialmente.
Inizialmente, probabilmente, i rapporti fra i Sardi e i Fenici sono stati pacifici e collaborativi. Basati soprattutto sullo scambio di prodotti: i Fenici scambiavano le loro raffinate ceramiche, i vasi di olio profumato, unguenti, porta torce di bronzo. Insieme sollecitano i Sardi a coltivare l’ulivo e la palma, migliorare le tecniche di produzione del sale, sviluppare la pratica della pesca, sfruttare i giacimenti minerari.

Rapporti sempre meno pacifici e dipendenza.
Con il passare del tempo peggiorano: i Fenici si pongono il tramite fra i Sardi e i popoli rivieraschi, trattenendo il surplus creato dal lavoro dei Sardi, sfruttando il sottosuolo (miniere) e soprasuolo (cereali, specie grano), iniziando la deforestazione dell’Isola e “occupando” di fatto il nostro mare.

La talassofobia: la paura e i terrore del mare del mare.
Nasce con l’arrivo dei Fenici la paura, il terrore del mare che caratterizzerà i Sardi storicamente. Recita unu diciu sardu: furat chie benit dae su mare. (Recita un detto sardo: ruba chi viene dal mare). Ma noi sappiamo che non sempre è stato così.
I Sardi durante il periodo nuragico erano “navigatori” in tutto il mediterraneo. Fra gli altri, lo riferisce lo storico e geografo Strabone. Ma a testimoniarlo basterebbero le decine e decine di bronzetti nuragici, che rappresentano navicelle e barche, rinvenuti nei santuari, nelle tombe o nei nuraghi. O gli antichi guerrieri nuragici istoriati sui templi di Karnak e Luxor in Egitto, a testimoniare la partecipazione degli Shardana alla guerra dei Popoli del mare (insieme ai Lidi, Lici, Siculi e Filistei) contro gli Ittiti prima e i faraoni dopo.
L’arrivo dei Fenici prima ma soprattutto – vedremo –dei Cartaginesi e dei Romani dopo, creeranno nei Sardi la talassofobia.

Presenza fenicia dei Tofet (secolo VIII).
A Tharros come a Nora e nel Sulcis (ma anche in Sicilia e Cartagine) ci sono i Tophet fenici: santuarii all’aria aperta dedicati alla dea Astarte (Afrodite). Si tratta di spazi delimitati da un muro dove venivano deposte delle urne che contenevano resti di bambini e animali inceneriti.

Religione fenicia
Dal punto di vista religioso, secondo i Fenici, (ma anche di moltissimi altri popoli, fra questi anche i Sardi) la vita terrena si prolungava all’interno delle tombe. Di qui l’uso di lasciare cibi e bevande. Vi era inoltre l’uso di sacrifici di bambini offerti al dio Baal e alla dea Tanit.

Stele di Nora e scrittura: tradizionalisti e innovatori a confronto.
La stele di Nora è un blocco in pietra arenaria (alto 105 cm, largo 57) recante un’iscrizione che tradizionalmente da molti studiosi è considerata la prima apparizione in Sardegna della scrittura, che si ritiene eseguita in alfabeto fenicio.
Fu rinvenuta nel 1773 inglobata in un muretto a secco di un vigneto in prossimità dell’abside della chiesa di sant’Efisio a Pula,
Il ritrovamento fuori dal suo contesto archeologico originale limita al suo contenuto le informazioni ricavabili dal documento. Conservata nel Museo archeologico nazionale di Cagliari, la stele svelerebbe il primo scritto fenicio mai rintracciato a ovest di Tiro: la sua datazione oscillerebbe tra i secoli IX e VIII a.C. Il documento epigrafico è stato pubblicato all’interno del Corpus Inscriptionum Semiticarum sotto il numero CIS I, 144.
Uno degli studiosi che sostenne che “l’uso della scrittura fu introdotto dai Fenici” è stato l’archeologo inglese Donald Harden nell’opera “The Phoenicians” (pubblicata nella versione italiana nel 1964 dall’Editore Il Saggiatore di Milano, con traduzione di Irene Giorgi Alberti).
Oggi alcuni studiosi mettono in discussione tale tesi: fra l’altro sostenendo che i Nuragici conoscevano la scrittura.
Ad iniziare dal nuorese Aldo Puddu che (in Ulisse e Nausica in sa Cost’Ismeralda,Chimbe iscenas chin Isterrida e Tancada- 5 Atti bilingui, con prologo e Epilogo, Editziones de Sardigna, Nuoro, 2002) contesta l’assunto, più volte ribadito da Harden, che la lingua fenicia abbia dato origine alla scrittura sillabica. Ma la polemica riguarda soprattutto l’affermazione dell’archeologo inglese secondo cui – come risulta dal passo contenuto nel capitolo VIII dell’opera dell’Harden già citata – “In Sardegna, le iscrizioni più antiche sono quelle sulla pie¬tra di Nora”. Iscrizioni che risalirebbero al secolo IX.
In realtà, secondo Puddu, la Stele di Nora risalirebbe al secolo 1300 a.C. e dunque non avrebbe niente a che fare con i Fenici che arriveranno in Sardegna quattro secoli dopo. Non solo: la scrittura sillabica sarebbe stata inventata dai Lidi e non dai Fenici.
Nei testi scolastici ufficiali continuiamo a leggere che “l’uso della scrittura fu introdotto dai Fenici”: esattamente come sostiene Donald Harden.
Da anni però – dicevamo– alcuni studiosi sardi hanno iniziato a mettere in discussione la storiografia ufficiale sostenendo che la scrittura sillabica in Sardegna era nota molti secoli prima: la conoscevano infatti e l’utilizzavano i Nuragici.
A sostenere tale tesi è – oltre ad Aldo Puddu – soprattutto lo studioso oristanese Gigi Sanna che si occupa con una rigorosa e ormai decennale ricerca sull’interpretazione di antichissimi documenti di scrittura rinvenuti in Sardegna e non solo. Egli è così arrivato alla conclusione (documentata in modo particolare nell’opera Sardoa Grammata,Editrice s’Alvure, Oristano, 2004) che i Nuragici conoscessero, utilizzassero e leggessero la scrittura.
“La Stele di Nora – scrive Gigi Sanna – è, insieme alle tavolette di Tzricotu (con le quali condivide chiari identici ‘principii’ e modalità di scrittura), un bellissimo documento attestante il ruolo dell’altissima e raffinatissima scuola scribale nuragica della Sardegna della fine del Secondo Millennio a.C., non di quella “fenicia”. Lo dimostrano, senza margini di dubbio, le recenti scoperte della scrittura e della lingua nuragica; il rinvenimento di testi (come quello dei “cocci” nuragici di Orani) con segni alfabetici e contenuto identici a quelli della stele norense; la rilettura del documento in base a nuove stupefacenti scoperte epigrafiche ( i due “shalam” laterali, individuati dalla dott. Alba Losi dell’Università di Parma nella primavera di quest’anno), scoperte che spingono nella direzione di due letture aggiuntive rispetto alla “normale” lettura retrograda; la conferma dell’esistenza di una scrittura nuragica “numerica” a rebus, che dà un significato eccezionale nella storia della scrittura (anche perché del tutto imprevedibile) al documento; l’inopinata comparsa del nome di un “santo” nuragico, oggi santo celeberrimo cristiano dell’Isola, alla fine della scritta, che fa scendere definitivamente dal piedestallo il falso Pumay”..
Anche Sanna dunque – come Puddu – fa risalire con certezza al periodo nuragico la Stele di Nora: lo confermerebbe in modo incontestabile anche il ritrovamento recente di un documento: un ciondolo scritto, di pietra grigio-scura, di forma ellissoidale (cm.7,5×4,3) contenente dei segni di scrittura graffiti in entrambe le facce.
A conferma della presenza della scrittura nuragica inoltre, da più di un decennio, lo studioso oristanese ha proposto soprattutto le tavolette di Tzricotu di Cabras e il sigillo di S. Imbenia di Alghero oltre i “cocci” nuragici di Orani.
“Eppure c’è da scommettere – scrive Sanna – che da parte dei soliti negazionisti e i feniciomani si cercherà di soffocare il tutto con il più rigoroso silenzio”.
Perché, evidentemente, si tratta di verità “scomode”, che mettono in discussione le vecchie certezze di accademici e sovrintendenti che su di esse hanno costruito le loro carriere e i loro successi. Ad iniziare dall’inglese Donald Harden.

Giganti di Mont’ ‘e Prama
Nella lontana primavera del 1974 un contadino di Cabras nel Sinis, per caso, con l’aratro, mentre lavora il suo terreno, cozza contro una testa di pietra con gli occhi sbarrati. La scoperta viene segnalata alle autorità competenti e fin dal 1974 iniziano gli scavi, condotti da Lilliu e da alcuni docenti e allievi dell’università di Cagliari, che poi verranno proseguiti nel 1979 sotto la direzione di Carlo Tronchetti, portando alla luce i frammenti di 32 statue, oltre 4 mila. Sciaguratamente, per ben 32 anni essi verranno abbandonati, a sgretolarsi, negli scantinati bui e umidi del Museo archeologico di Cagliari. Perché? “Non sembrava un ritrovamento così importante” e “mancavano gli spazi … oltre che i soldi”: fu la risposta ufficiale. Dopo decenni la Sovrintendenza ai beni archeologici di Sassari e Nuoro assegna un appalto da un milione e 6oo mila euro per restauro, ricomposizione e musealizzazione dei reperti a Li Punti a Sassari, dove vengono ricoverati. Oggi, a restauro finito, l’odissea delle 32 statue di pietra arenaria non sembra finita. Non c’è accordo su dove portarli: le si vorrebbe divise fra Cabras e Cagliari. Che si portino subito a Cabras, dove sono state ritrovate. E soprattutto che si inizi a rivedere vecchie certezze storiche e archeologiche “perché – come ha affermato Maria Antonietta Boninu, responsabile del progetto – se tutte le evidenze scientifiche fin qui raccolte verranno finalmente riordinate andrà riscritta la storia dell’arte, perché si dovrà rimettere in discussione il primato della Grecia sulla statuaria del Mediterraneo”.
Le statue sono scolpite in arenaria gessosa del luogo e la loro altezza varia tra i 2 e i 2,5 metri; rappresentano arcieri, spadaccini e lottatori.
Le sculture ricostruite in seguito al restauro sono risultate in totale trentotto: cinque arcieri, quattro non riconosciuti, sedici pugili, tredici modelli di nuraghe; tuttavia le nuove campagne di scavo hanno portato alla scoperta di nuovi esemplari.
A seconda delle ipotesi, la datazione dei Kolossoi – nome con il quale li chiamava l’archeologo Giovanni Lilliu – oscilla dal IX secolo a.C. (900-801 a.C.) o addirittura al XIII secolo a.C. (1300-1201 a.C.), ipotesi che potrebbero farne fra le più antiche statue tridimensionali isolate dallo sfondo del bacino mediterraneo, in quanto antecedenti alle statue della Grecia antica, dopo le sculture egizie.

I FENICI ci rubano il nostro mare *
[…] “Fatto sta che un popolo, quello fenicio, ben più abile astuto scaltro di noi, già efficacemente introdotto nei mercati dell’oriente e dell’occidente, progressivamente ci esautorò nella relazione commerciale diretta e ci sostituì nel commercio dei nostri prodotti destinati agli Etruschi, agli Iberici, berberi, Liby, Greci, Siciliani, Napoletani, gradatamente ma inesorabilmente sottraendoli alla nostra economia in modo prima dolce e indolore, forse anche con la nostra ingenua condivisione, poi in modo sempre più invadente e invasivo, colonizzandoci fino a strangolarci economicamente e a ridurci a mere entità produttive per conto loro, semplici esecutori di ordini e meccanici realizzatori di visioni e programmi a noi estranei.
E’ così che la nostra posizione strategica felicissima, al centro dei flussi di traffico commerciale dell’oriente verso occidente e viceversa, punto di approdo e di riparo delle flotte che navigavano in quel mare per ampi e accoglienti golfi, insenature e spiagge accessibili, adatti a proteggerci dalle burrasche ma anche tappe per riparazioni di naviglio danneggiato e per rifornire le flotte di passaggio di acqua e cibo, non poteva non suscitare gli appetiti di quella gente abile scaltra e cinica e avviarci, anestetizzati, alla resa, alla rinuncia, alla sottomissione e alla dipendenza.
E’ così che quelli antichi navigatori ci presero e ci conquistarono, impadronendosi della fertilità e delle risorse naturali e minerarie di questa nostra terra, adatta per impiantarvi colonie, farne la base per i loro traffici e per fondarvi attività, sfruttandone i sottosuolo e il soprasuolo. E gettarono le basi per opera di altri conquistatori, meno raffinati e gentili e più brutali e sbrigativi di loro” […].
* Tratto da Buongiorno Sardegna:da dove veniamo, di Giuseppi Dei Nur, Ed. La Biblioteca dell’Identità, 2013, pagina 72.

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I FENICI IN SARDEGNA
A cura di Francesco Casula
Quando
Fra il 900/800 a,C., esattamente nel periodo di massimo splendore della civiltà nuragica, la Sardegna è oggetto di attenzione da parte di altre popolazioni mediterranee: da parte dei Fenici (mentre la Sicilia da parte dei Greci).

Chi sono (e nome)
Sono popolazioni semitiche e il nome deriva da phoinix (porpora in greco) con cui coloravano pregiate stoffe di lana e lino di cui avevano il monopolio e che ottenevano da una particolare tipo di conchiglia marina chiamata mùrice (dal latino murex-murici=mollusco).

Da dove vengono
Dal Libano: una striscia di terra fra montagne e Mediterraneo orientale.Una popolazione che dal secondo millennio fino al 1200 è tributaria dei faraoni.

Sono grandi navigatori
Con l’anno mille iniziò il loro periodo d’oro quando da esperti marinai e navigatori affrontano per primi la navigazione notturna in mare aperto orientandosi per mezzo delle stelle.

Le città fenicie
Iniziarono a fondare molte città: Sidone (sud del Libano), Beirut (l’odierna capitale), Tiro, Acco, Biblo. E iniziano a percorrere le vie del Mediterraneo in lungo e in largo per vendere (conoscevano infatti la moneta) il loro fiorente artigianato: ceramiche, vetri, gioielli (in argento e oro), stoffe, unguenti.

Le città mediterranee
Arrivarono a Cipro (città di Kition), Creta (isola greca), a Cadice e Ibiza (Spagna), nell’Africa del Nord a Utica in Tunisia e Lixus o Lisso in Marocco.

900/800
Arrivano in Sardegna, attratti dalla fertilità del suolo e dalle ricchezze minerarie. Inizialmente vista come scalo e porti nei loro viaggi che duravano un anno.

Sardegna del sud
Fondano le città di
Karalis: specie per i rapporti con l’interno in cui confluivano i minerali;
Nora:n dove aveva sede il Governatore militare;
Bithia (Chia-Spartivento)
Sulcis (Sulkis-Sant’Antioco), punto di riferimento per il traffico mediterraneo. Da tener presente che l’impero romano non esiste ancora, Roma sarà fondata il 21 aprile del 753 mentre Cartagine è stata fondata, dai Fenici stessi, nell’840 a. C.
In seguito verranno fondate queste altre città nell’Oristanese:
Tharros (15 Km da Oristano); Othoca (l’odierna Santa Giusta), Cornus (la città di Amsicora).
E ancora Neapolis (Santa Maria di Nabui-Guspini) e persino Bosa.
Occorre però ricordare che sulla fondazione di queste città da parte dei Fenici ci sono dubbi: qualche storico avanza l’ipotesi che fossero preesistenti al loro arrivo.
Per esempio a proposito di Bosa il linguista Massimo Pittau scrive: “L’esistenza di quel nuraghe, assieme con altri tre situati nell’agro di Bosa, chiamati rispettivamente di Albaganes, Furru e Zarra, costituisce una prova chiara e sicura che Bosa, contrariamente a quanto si è pensato e detto finora, non è stata fondata dai Fenici o dai Cartaginesi, bensì è di origine sardiana o nuragica”(Toponimi della Sardegna – Significato e origine – I Macrotoponimi -EDES, Sassari 2011, pag. 790).

Rapporti pacifici? Inizialmente.
Inizialmente, probabilmente, i rapporti fra i Sardi e i Fenici sono stati pacifici e collaborativi. Basati soprattutto sullo scambio di prodotti: i Fenici scambiavano le loro raffinate ceramiche, i vasi di olio profumato, unguenti, porta torce di bronzo. Insieme sollecitano i Sardi a coltivare l’ulivo e la palma, migliorare le tecniche di produzione del sale, sviluppare la pratica della pesca, sfruttare i giacimenti minerari.

Rapporti sempre meno pacifici e dipendenza.
Con il passare del tempo peggiorano: i Fenici si pongono il tramite fra i Sardi e i popoli rivieraschi, trattenendo il surplus creato dal lavoro dei Sardi, sfruttando il sottosuolo (miniere) e soprasuolo (cereali, specie grano), iniziando la deforestazione dell’Isola e “occupando” di fatto il nostro mare.

La talassofobia: la paura e i terrore del mare del mare.
Nasce con l’arrivo dei Fenici la paura, il terrore del mare che caratterizzerà i Sardi storicamente. Recita unu diciu sardu: furat chie benit dae su mare. (Recita un detto sardo: ruba chi viene dal mare). Ma noi sappiamo che non sempre è stato così.
I Sardi durante il periodo nuragico erano “navigatori” in tutto il mediterraneo. Fra gli altri, lo riferisce lo storico e geografo Strabone. Ma a testimoniarlo basterebbero le decine e decine di bronzetti nuragici, che rappresentano navicelle e barche, rinvenuti nei santuari, nelle tombe o nei nuraghi. O gli antichi guerrieri nuragici istoriati sui templi di Karnak e Luxor in Egitto, a testimoniare la partecipazione degli Shardana alla guerra dei Popoli del mare (insieme ai Lidi, Lici, Siculi e Filistei) contro gli Ittiti prima e i faraoni dopo.
L’arrivo dei Fenici prima ma soprattutto – vedremo –dei Cartaginesi e dei Romani dopo, creeranno nei Sardi la talassofobia.

Presenza fenicia dei Tofet (secolo VIII).
A Tharros come a Nora e nel Sulcis (ma anche in Sicilia e Cartagine) ci sono i Tophet fenici: santuarii all’aria aperta dedicati alla dea Astarte (Afrodite). Si tratta di spazi delimitati da un muro dove venivano deposte delle urne che contenevano resti di bambini e animali inceneriti.

Religione fenicia
Dal punto di vista religioso, secondo i Fenici, (ma anche di moltissimi altri popoli, fra questi anche i Sardi) la vita terrena si prolungava all’interno delle tombe. Di qui l’uso di lasciare cibi e bevande. Vi era inoltre l’uso di sacrifici di bambini offerti al dio Baal e alla dea Tanit.

Stele di Nora e scrittura: tradizionalisti e innovatori a confronto.
La stele di Nora è un blocco in pietra arenaria (alto 105 cm, largo 57) recante un’iscrizione che tradizionalmente da molti studiosi è considerata la prima apparizione in Sardegna della scrittura, che si ritiene eseguita in alfabeto fenicio.
Fu rinvenuta nel 1773 inglobata in un muretto a secco di un vigneto in prossimità dell’abside della chiesa di sant’Efisio a Pula,
Il ritrovamento fuori dal suo contesto archeologico originale limita al suo contenuto le informazioni ricavabili dal documento. Conservata nel Museo archeologico nazionale di Cagliari, la stele svelerebbe il primo scritto fenicio mai rintracciato a ovest di Tiro: la sua datazione oscillerebbe tra i secoli IX e VIII a.C. Il documento epigrafico è stato pubblicato all’interno del Corpus Inscriptionum Semiticarum sotto il numero CIS I, 144.
Uno degli studiosi che sostenne che “l’uso della scrittura fu introdotto dai Fenici” è stato l’archeologo inglese Donald Harden nell’opera “The Phoenicians” (pubblicata nella versione italiana nel 1964 dall’Editore Il Saggiatore di Milano, con traduzione di Irene Giorgi Alberti).
Oggi alcuni studiosi mettono in discussione tale tesi: fra l’altro sostenendo che i Nuragici conoscevano la scrittura.
Ad iniziare dal nuorese Aldo Puddu che (in Ulisse e Nausica in sa Cost’Ismeralda,Chimbe iscenas chin Isterrida e Tancada- 5 Atti bilingui, con prologo e Epilogo, Editziones de Sardigna, Nuoro, 2002) contesta l’assunto, più volte ribadito da Harden, che la lingua fenicia abbia dato origine alla scrittura sillabica. Ma la polemica riguarda soprattutto l’affermazione dell’archeologo inglese secondo cui – come risulta dal passo contenuto nel capitolo VIII dell’opera dell’Harden già citata – “In Sardegna, le iscrizioni più antiche sono quelle sulla pie¬tra di Nora”. Iscrizioni che risalirebbero al secolo IX.
In realtà, secondo Puddu, la Stele di Nora risalirebbe al secolo 1300 a.C. e dunque non avrebbe niente a che fare con i Fenici che arriveranno in Sardegna quattro secoli dopo. Non solo: la scrittura sillabica sarebbe stata inventata dai Lidi e non dai Fenici.
Nei testi scolastici ufficiali continuiamo a leggere che “l’uso della scrittura fu introdotto dai Fenici”: esattamente come sostiene Donald Harden.
Da anni però – dicevamo– alcuni studiosi sardi hanno iniziato a mettere in discussione la storiografia ufficiale sostenendo che la scrittura sillabica in Sardegna era nota molti secoli prima: la conoscevano infatti e l’utilizzavano i Nuragici.
A sostenere tale tesi è – oltre ad Aldo Puddu – soprattutto lo studioso oristanese Gigi Sanna che si occupa con una rigorosa e ormai decennale ricerca sull’interpretazione di antichissimi documenti di scrittura rinvenuti in Sardegna e non solo. Egli è così arrivato alla conclusione (documentata in modo particolare nell’opera Sardoa Grammata,Editrice s’Alvure, Oristano, 2004) che i Nuragici conoscessero, utilizzassero e leggessero la scrittura.
“La Stele di Nora – scrive Gigi Sanna – è, insieme alle tavolette di Tzricotu (con le quali condivide chiari identici ‘principii’ e modalità di scrittura), un bellissimo documento attestante il ruolo dell’altissima e raffinatissima scuola scribale nuragica della Sardegna della fine del Secondo Millennio a.C., non di quella “fenicia”. Lo dimostrano, senza margini di dubbio, le recenti scoperte della scrittura e della lingua nuragica; il rinvenimento di testi (come quello dei “cocci” nuragici di Orani) con segni alfabetici e contenuto identici a quelli della stele norense; la rilettura del documento in base a nuove stupefacenti scoperte epigrafiche ( i due “shalam” laterali, individuati dalla dott. Alba Losi dell’Università di Parma nella primavera di quest’anno), scoperte che spingono nella direzione di due letture aggiuntive rispetto alla “normale” lettura retrograda; la conferma dell’esistenza di una scrittura nuragica “numerica” a rebus, che dà un significato eccezionale nella storia della scrittura (anche perché del tutto imprevedibile) al documento; l’inopinata comparsa del nome di un “santo” nuragico, oggi santo celeberrimo cristiano dell’Isola, alla fine della scritta, che fa scendere definitivamente dal piedestallo il falso Pumay”..
Anche Sanna dunque – come Puddu – fa risalire con certezza al periodo nuragico la Stele di Nora: lo confermerebbe in modo incontestabile anche il ritrovamento recente di un documento: un ciondolo scritto, di pietra grigio-scura, di forma ellissoidale (cm.7,5×4,3) contenente dei segni di scrittura graffiti in entrambe le facce.
A conferma della presenza della scrittura nuragica inoltre, da più di un decennio, lo studioso oristanese ha proposto soprattutto le tavolette di Tzricotu di Cabras e il sigillo di S. Imbenia di Alghero oltre i “cocci” nuragici di Orani.
“Eppure c’è da scommettere – scrive Sanna – che da parte dei soliti negazionisti e i feniciomani si cercherà di soffocare il tutto con il più rigoroso silenzio”.
Perché, evidentemente, si tratta di verità “scomode”, che mettono in discussione le vecchie certezze di accademici e sovrintendenti che su di esse hanno costruito le loro carriere e i loro successi. Ad iniziare dall’inglese Donald Harden.

Giganti di Mont’ ‘e Prama
Nella lontana primavera del 1974 un contadino di Cabras nel Sinis, per caso, con l’aratro, mentre lavora il suo terreno, cozza contro una testa di pietra con gli occhi sbarrati. La scoperta viene segnalata alle autorità competenti e fin dal 1974 iniziano gli scavi, condotti da Lilliu e da alcuni docenti e allievi dell’università di Cagliari, che poi verranno proseguiti nel 1979 sotto la direzione di Carlo Tronchetti, portando alla luce i frammenti di 32 statue, oltre 4 mila. Sciaguratamente, per ben 32 anni essi verranno abbandonati, a sgretolarsi, negli scantinati bui e umidi del Museo archeologico di Cagliari. Perché? “Non sembrava un ritrovamento così importante” e “mancavano gli spazi … oltre che i soldi”: fu la risposta ufficiale. Dopo decenni la Sovrintendenza ai beni archeologici di Sassari e Nuoro assegna un appalto da un milione e 6oo mila euro per restauro, ricomposizione e musealizzazione dei reperti a Li Punti a Sassari, dove vengono ricoverati. Oggi, a restauro finito, l’odissea delle 32 statue di pietra arenaria non sembra finita. Non c’è accordo su dove portarli: le si vorrebbe divise fra Cabras e Cagliari. Che si portino subito a Cabras, dove sono state ritrovate. E soprattutto che si inizi a rivedere vecchie certezze storiche e archeologiche “perché – come ha affermato Maria Antonietta Boninu, responsabile del progetto – se tutte le evidenze scientifiche fin qui raccolte verranno finalmente riordinate andrà riscritta la storia dell’arte, perché si dovrà rimettere in discussione il primato della Grecia sulla statuaria del Mediterraneo”.
Le statue sono scolpite in arenaria gessosa del luogo e la loro altezza varia tra i 2 e i 2,5 metri; rappresentano arcieri, spadaccini e lottatori.
Le sculture ricostruite in seguito al restauro sono risultate in totale trentotto: cinque arcieri, quattro non riconosciuti, sedici pugili, tredici modelli di nuraghe; tuttavia le nuove campagne di scavo hanno portato alla scoperta di nuovi esemplari.
A seconda delle ipotesi, la datazione dei Kolossoi – nome con il quale li chiamava l’archeologo Giovanni Lilliu – oscilla dal IX secolo a.C. (900-801 a.C.) o addirittura al XIII secolo a.C. (1300-1201 a.C.), ipotesi che potrebbero farne fra le più antiche statue tridimensionali isolate dallo sfondo del bacino mediterraneo, in quanto antecedenti alle statue della Grecia antica, dopo le sculture egizie.

I FENICI ci rubano il nostro mare *
[…] “Fatto sta che un popolo, quello fenicio, ben più abile astuto scaltro di noi, già efficacemente introdotto nei mercati dell’oriente e dell’occidente, progressivamente ci esautorò nella relazione commerciale diretta e ci sostituì nel commercio dei nostri prodotti destinati agli Etruschi, agli Iberici, berberi, Liby, Greci, Siciliani, Napoletani, gradatamente ma inesorabilmente sottraendoli alla nostra economia in modo prima dolce e indolore, forse anche con la nostra ingenua condivisione, poi in modo sempre più invadente e invasivo, colonizzandoci fino a strangolarci economicamente e a ridurci a mere entità produttive per conto loro, semplici esecutori di ordini e meccanici realizzatori di visioni e programmi a noi estranei.
E’ così che la nostra posizione strategica felicissima, al centro dei flussi di traffico commerciale dell’oriente verso occidente e viceversa, punto di approdo e di riparo delle flotte che navigavano in quel mare per ampi e accoglienti golfi, insenature e spiagge accessibili, adatti a proteggerci dalle burrasche ma anche tappe per riparazioni di naviglio danneggiato e per rifornire le flotte di passaggio di acqua e cibo, non poteva non suscitare gli appetiti di quella gente abile scaltra e cinica e avviarci, anestetizzati, alla resa, alla rinuncia, alla sottomissione e alla dipendenza.
E’ così che quelli antichi navigatori ci presero e ci conquistarono, impadronendosi della fertilità e delle risorse naturali e minerarie di questa nostra terra, adatta per impiantarvi colonie, farne la base per i loro traffici e per fondarvi attività, sfruttandone i sottosuolo e il soprasuolo. E gettarono le basi per opera di altri conquistatori, meno raffinati e gentili e più brutali e sbrigativi di loro” […].
* Tratto da Buongiorno Sardegna:da dove veniamo, di Giuseppi Dei Nur, Ed. La Biblioteca dell’Identità, 2013, pagina 72.

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Ecco chi sono i sabaudi!

Ecco chi sono i sabaudi che l’Amministrazione comunale di Nuragus vuole “sfrattare”, opportunamente e giustamente, dalle vie del paese.:
1.Umberto I
Umberto I di Savoia, re d’Italia dal 1878 al 1900 fu responsabile (o comunque corresponsabile in quanto capo dello stato) delle scelte più devastanti e perniciose, che furono prese dai Governi, che operarono durante il suo regno, nei confronti della Sardegna. In modo particolare nel campo economico e fiscale, nel campo ambientale (con la deforestazione selvaggia), nel campo delle libertà civili e della democrazia, con leggi liberticide e una repressione feroce: Mi limito in questa sede a ricordare la sua politica repressiva e sanguinaria .
Umberto I non fu solo connivente con la politica coloniale, autoritaria, repressiva e liberticida dei Governi di fine Ottocento, da Crispi in poi, ma un entusiasta sostenitore: appoggiò le infauste “imprese” in Africa (con l’occupazione dell’Eritrea (1885-1896) e della Somalia (1889-1905), che tanti lutti e spreco di risorse finanziarie comportò: ben 6.000 uomini (morirono nella sola battaglia e sconfitta di Adua nel 1896 e 3.000 caddero prigionieri).
Fu altrettanto sostenitore del tentativo, di imporre leggi liberticide da parte del governo del generale Pelloux nel 1898, tendenti a restringere le libertà (di associazione , riunione ecc) garantite dallo Statuto. Sempre nel 1898 (8 e 9 maggio), le truppe del generale Fiorenzo Bava Beccaris spararono sulla folla inerme uccidendo circa 80 dimostranti e ferendone più di 400.
Ebbene il re Umberto, ribattezzato dagli anarchici Re mitraglia, forse per premiare il generale stragista per la portentosa “impresa” non solo lo insignì della croce dell’Ordine militare di savoia ma in seguito lo nominerà senatore!
Questo in Italia. In Sardegna l’anno seguente nel 1899 assisteremo alla “Caccia grossa”! Il capo del governo, il generale Pelloux – quello delle leggi liberticide che non passeranno solo per l’ostruzionismo parlamentare della Sinistra – invierà in Sardegna un vero e proprio esercito che, con il pretesto di combattere il banditismo, nella notte fra il 14 e il 15 maggio arrestò migliaia di persone.
Ecco come descrive la Caccia grossa Eliseo Spiga ”Lo stato rispondeva la banditismo cingendo il Nuorese con un vero e proprio stato d’assedio, senza preoccuparsi,,,di un’intera società che si vedeva invasa e tenuta in cattività come un popolo conquistato…Ed ecco gli arresti, a migliaia donne, vecchi e ragazzi…sequestrate tutte le mandrie e marchiate col fatidico GS, sequestro giudiziario…venduti in aste punitive tutti i beni degli arrestati e dei perseguiti…Gli arrestati furono avviati a piedi, in catene, ai luoghi di raccolta, Un sequestro di persona in grande, per fare scuola”8 .
Ma la Sardegna, la repressione poliziesca durante il regno di Umberto I l’aveva conosciuta anche prima del 1899, in particolare a Sanluri. In questo grosso centro del Campidano, in un clima di povertà, di incertezza e disperazione, il 7 agosto 1881, scoppiò una sommossa popolare contro il carovita e gli abusi fiscali, (Su trumbullu de Seddori), sommossa repressa violentemente: ci furono 6 morti.
Il fatto suscitò notevole apprensione in tutta l’Isola. e in gran parte della terra ferma, per i morti e per le gravi conseguenze giudiziarie. .
L’8 novembre 1882 ebbe inizio il “Processo” giustamente chiamato della fame, perché venivano processati dei poveracci morti di fame: Tale processo per il numero degli imputati e per la sua durata, (terminò il 26 febbraio 1883) fu ritenuto uno dei più importanti dell’isola.
La sentenza fu molto pesante, soprattutto verso alcuni imputati giovanissimi: Venne condannato a 10 anni di reclusione Franceschino Garau Manca, detto “Burrullu” di anni 16, mentre Giuseppe Sanna Murgano di anni 19 ed Antonio Marras Ledda di anni 18 furono condannati a 16 anni di Lavori Forzati.
2. Regina Margherita (la moglie di Umberto I)
La storia ci dice che fu un personaggio nefasto per la Sardegna (e l’Italia tutta): profondamente reazionaria, fu una nazionalista convinta e sostenne la politica imperialista e coloniale delirante di Francesco Crispi. Come sostenne la repressione delle rivolte popolari, specie quelle avvenute nei moti di Milano del 1898 (8 e 9 maggio), quando le truppe del generale Fiorenzo Bava Beccaris, con i cannoni, spararono sulla folla inerme uccidendo 80 dimostranti e ferendone più di 400.
Ma non basta. Sosterrà le scelte più nefaste e infami del figlio Sciaboletta (alias Vittorio Emanuele III) e fu una convinta sostenitrice del Fascismo.Ecco chi sono i sabaudi che l’Amministrazione comunale di Nuragus vuole “sfrattare”, opportunamente e giustamente, dalle vie del paese.:
1.Umberto I
Umberto I di Savoia, re d’Italia dal 1878 al 1900 fu responsabile (o comunque corresponsabile in quanto capo dello stato) delle scelte più devastanti e perniciose, che furono prese dai Governi, che operarono durante il suo regno, nei confronti della Sardegna. In modo particolare nel campo economico e fiscale, nel campo ambientale (con la deforestazione selvaggia), nel campo delle libertà civili e della democrazia, con leggi liberticide e una repressione feroce: Mi limito in questa sede a ricordare la sua politica repressiva e sanguinaria .
Umberto I non fu solo connivente con la politica coloniale, autoritaria, repressiva e liberticida dei Governi di fine Ottocento, da Crispi in poi, ma un entusiasta sostenitore: appoggiò le infauste “imprese” in Africa (con l’occupazione dell’Eritrea (1885-1896) e della Somalia (1889-1905), che tanti lutti e spreco di risorse finanziarie comportò: ben 6.000 uomini (morirono nella sola battaglia e sconfitta di Adua nel 1896 e 3.000 caddero prigionieri).
Fu altrettanto sostenitore del tentativo, di imporre leggi liberticide da parte del governo del generale Pelloux nel 1898, tendenti a restringere le libertà (di associazione , riunione ecc) garantite dallo Statuto. Sempre nel 1898 (8 e 9 maggio), le truppe del generale Fiorenzo Bava Beccaris spararono sulla folla inerme uccidendo circa 80 dimostranti e ferendone più di 400.
Ebbene il re Umberto, ribattezzato dagli anarchici Re mitraglia, forse per premiare il generale stragista per la portentosa “impresa” non solo lo insignì della croce dell’Ordine militare di savoia ma in seguito lo nominerà senatore!
Questo in Italia. In Sardegna l’anno seguente nel 1899 assisteremo alla “Caccia grossa”! Il capo del governo, il generale Pelloux – quello delle leggi liberticide che non passeranno solo per l’ostruzionismo parlamentare della Sinistra – invierà in Sardegna un vero e proprio esercito che, con il pretesto di combattere il banditismo, nella notte fra il 14 e il 15 maggio arrestò migliaia di persone.
Ecco come descrive la Caccia grossa Eliseo Spiga ”Lo stato rispondeva la banditismo cingendo il Nuorese con un vero e proprio stato d’assedio, senza preoccuparsi,,,di un’intera società che si vedeva invasa e tenuta in cattività come un popolo conquistato…Ed ecco gli arresti, a migliaia donne, vecchi e ragazzi…sequestrate tutte le mandrie e marchiate col fatidico GS, sequestro giudiziario…venduti in aste punitive tutti i beni degli arrestati e dei perseguiti…Gli arrestati furono avviati a piedi, in catene, ai luoghi di raccolta, Un sequestro di persona in grande, per fare scuola”8 .
Ma la Sardegna, la repressione poliziesca durante il regno di Umberto I l’aveva conosciuta anche prima del 1899, in particolare a Sanluri. In questo grosso centro del Campidano, in un clima di povertà, di incertezza e disperazione, il 7 agosto 1881, scoppiò una sommossa popolare contro il carovita e gli abusi fiscali, (Su trumbullu de Seddori), sommossa repressa violentemente: ci furono 6 morti.
Il fatto suscitò notevole apprensione in tutta l’Isola. e in gran parte della terra ferma, per i morti e per le gravi conseguenze giudiziarie. .
L’8 novembre 1882 ebbe inizio il “Processo” giustamente chiamato della fame, perché venivano processati dei poveracci morti di fame: Tale processo per il numero degli imputati e per la sua durata, (terminò il 26 febbraio 1883) fu ritenuto uno dei più importanti dell’isola.
La sentenza fu molto pesante, soprattutto verso alcuni imputati giovanissimi: Venne condannato a 10 anni di reclusione Franceschino Garau Manca, detto “Burrullu” di anni 16, mentre Giuseppe Sanna Murgano di anni 19 ed Antonio Marras Ledda di anni 18 furono condannati a 16 anni di Lavori Forzati.
2. Regina Margherita (la moglie di Umberto I)
La storia ci dice che fu un personaggio nefasto per la Sardegna (e l’Italia tutta): profondamente reazionaria, fu una nazionalista convinta e sostenne la politica imperialista e coloniale delirante di Francesco Crispi. Come sostenne la repressione delle rivolte popolari, specie quelle avvenute nei moti di Milano del 1898 (8 e 9 maggio), quando le truppe del generale Fiorenzo Bava Beccaris, con i cannoni, spararono sulla folla inerme uccidendo 80 dimostranti e ferendone più di 400.
Ma non basta. Sosterrà le scelte più nefaste e infami del figlio Sciaboletta (alias Vittorio Emanuele III) e fu una convinta sostenitrice del Fascismo.

SCHEDA SULLA CIVILTA’ NURAGICA

A cura di

FRANCESCO CASULA

PREMESSA GENERALE
La Biblioteca del Quotidiano Repubblica, nel 2005 ha pubblicato e diffuso a migliaia di copie un volume di 800 pagine sulla preistoria nel quale nuraghi e Sardegna non vengono citati, neppure per errore.
Un’occasione mancata per la cultura italiana che pur pretende, – e con quale spocchia –  di dominare sull’Isola. Per contro, uno dei redattori più influenti del quotidiano romano, Sergio Frau, da tempo sostiene, producendo una grande messe di indizi e di prove, che al tempo dei nuraghi la Sardegna altro non era se non Atlantide. La tesi, se verificata fino in fondo, sconvolgerebbe la storia del Mediterraneo così come la conosciamo; anche per questo è avversata con veemenza da accademici, sovrintendenti, geologi e antropologi poco disposti a mettere in discussione se stessi e le certezze su cui hanno fondato carriere e fortune. E’ la stessa veemenza usata nel passato contro il dilettante scopritore di Troia, anch’essa come Atlantide considerata un semplice “mito”. 
 Se il Quotidiano “La Repubblica” ha compiuto un semplice peccato di omissione, qualcuno ha fatto di peggio: certo Gustavo Jourdan, uomo d‘affari francese, deluso per non essere riuscito dopo un anno di soggiorno in Sardegna, a coltivare gli asfodeli per ottenerne alcool, in Ile de Sardaigne (1861) parla della Sardegna “rimasta ribelle alla legge del progresso”, “terra di barbarie in seno alla civiltà che non ha assimilato dai suoi dominatori altro che i loro vizi”.
Mentre l’inglese Donald Harden, archeologo, filologo e storiografo di fama, dopo aver visitato molte contrade della Sardegna, agli inizi del Novecento, tra gli anni ’20 e ‘30, espresse giudizi poco lusinghieri sulla tradizionale cultura del popolo sardo che lo aveva ospitato e in una sua opera The Fhoenician” parlerà della Sardegna come “regione sempre retrograda”.
Ma tant’è: accecati dall’eurocentrismo, evidentemente costoro dimenticano che quella nuragica è stata la più grande civiltà della storia di tutto il mediterraneo centro-occidentale del secondo millennio avanti Cristo. Con migliaia di nuraghi (8.000 secondo le fonti ufficiali: l’Istituto geografico militare, che però li censisce secondo modalità militari e non archeologiche; 20.000 secondo Sergio Salvi e 25–30.000 secondo altre fonti non ufficiali) costruzioni megalitiche tronco-coniche dalle volte ogivali con scale elicoidali; pozzi sacri, betili mammellari, terrazze pensili, androni ad arco acuto, innumerevoli dolmen e menhir, migliaia di statuette e di navicelle di bronzo.
Con un’economia “dell’abbondanza”: di carne, pesce, frutti naturali. Che produce oro, argento, rame, formaggi, sale, stoffe, vini. Ma anche la musica delle launeddas
 Quella Sardegna, (per Omero la Scherìa, la terra dei Feaci, abitanti di un’Isola su tutte felice), posta a Occidente nel mezzo del Mediterraneo, aperta al mondo, che combatte, alleata con i Popoli del mare contro i potenti eserciti dei Faraoni e dei re di Atti che tiranneggiano e opprimono i popoli.
La Sardegna, l’Isola sacra in fondo al mare di Esiodo, l’Isola dalle vene d’argento (Argyròflebs) di Platone poi Ichnusa Sandalia ecc. oltre che Isola felice è infatti Isola libera, indipendente e senza stato. Organizzata in una confederazione di comunità nuragiche mentre altrove dominano monarchi e faraoni, tiranni e oligarchi. E dunque schiavitù. Non a caso le comunità nuragiche costruiscono nuraghi, monumenti alla libertà, all’egualitarismo e all’autonomia; mentre centinaia di migliaia di schiavi, sotto il controllo e la frusta delle guardie, sono costretti a erigere decine di piramidi, vere e proprie tombe di cadaveri di faraoni divinizzati.
Per sfuggire alle carestie, alla fame e alla miseria ma anche alle tirannidi e alla schiavitù molti si rifugeranno nell’Isola, che accoglierà esuli e fuggitivi. Venti mila – secondo il linguista sardo Massimo Pittau – scampati alla distruzione della città-stato di Sardeis in Anatolia, da parte degli invasori Hittiti. Altri arriveranno dalla stessa Troia.
Finché i Cartaginesi non invasero la Sardegna, per fare bardana, depredare e dominare l’Isola. Ma con il dominio romano fu ancora peggio. Fu un etnocidio spaventoso. La nostra comunità etnica fu inghiottita dal baratro. Almeno metà della popolazione fu annientata, ammazzata e ridotta in schiavitù. 
Chi scampò al massacro fuggì e si rinchiuse nelle montagne, diventando dunque “barbara” e barbaricina, perché rifiutava la civiltà romana: ovvero di arrendersi e sottomettersi. Quattro-cinque mila nuraghi furono distrutti, le loro pietre disperse o usate per fortilizi, strade cloache o teatri; pare persino che abbiano fuso i bronzetti, le preziose statuine, per modellare pugnali e corazze, per chiodare giunti metallici nelle volte dei templi, per corazzare i rostri delle navi da guerra.
La lingua nuragica, la primigenia lingua sarda del ceppo basco-caucasico, fu sostanzialmente cancellata: di essa a noi oggi sono pervenuti qualche migliaio di toponimi: nomi di fiumi e di monti, di paesi, di animali e di piante.
Le esuberanti creatività e ingegnosità popolari furono represse e strangolate. La gestione comunitaria delle risorse, terre foreste e acque, fu disfatta e sostituita dal latifondo, dalle piantagioni di grano lavorate da schiere di schiavi incatenati, dalle acque privatizzate, dai boschi inceneriti. La Sardegna fu divisa in Romanìa e in Barbarìa. Reclusa entro la cinta confinaria dell’impero romano e isolata dal mondo. E’ da qui che nascono l’isolamento e la divisione dei sardi, non dall’insularità o da una presunta asocialità.
 A questo flagello i Sardi opposero seicento anni di guerriglie e insurrezioni, rivolte e bardane. La lotta fu epica, anche perché l’intento del nuovo dominatore era quello di operare una trasformazione radicale di struttura “civile e morale”, cosa che non avevano fatto i Cartaginesi. La reazione degli indigeni fu fatta di battaglie aperte e di insidie nascoste, con mezzi chiari e nella clandestinità. “La lunga guerra di libertà dei Sardi – è Lilliu a scriverlo –  ebbe fasi di intensa drammaticità ed episodi di grande valore, sebbene sfortunata: le campagne in Gallura e nella Barbagia nel 231, la grande insurrezione nel 215, guidata da Amsicora, la strage di 12.000 iliensi e balari nel 177 e di altri 15.000 nel 176, le ultime resistenze organizzate nel 111 a.c., sono testimonianza di un eroismo sardo senza retorica (sottolineato al contrario dalla retorica dei roghi votivi, delle tabulae pictae, dei trionfi dei vincitori)”.
La Sardegna, a dispetto degli otto trionfi celebrati dai consoli romani, fu una delle ultime aree mediterranee a subire la pax romana, afferma lo storico  Piero Meloni. Ma non fu annientata. La resistenza continuò. I sardi riuscirono a rigenerarsi, oltrepassando le sconfitte e ridiventando indipendenti con i quattro Giudicati: sos rennos sardos.  
(Tratto dalla Introduzione di Letteratura e civiltà della Sardegna, Editrice Grafica del Parteolla, Dolianova, 2011, Euro 20)

1. Età Nuragica
La civiltà nuragica, che ha inizio nella metà del secondo millennio a.C., si può dividere in tre periodi: Antico(1600 – 500 a.C.), Medio (900 – 500 a.C.) e Recente (500 – 200 a.C.) e nacque dall’incontro di genti mediterranee di culture diverse, sul suolo del piccolo continente sardo.
La civiltà nuragica, è nota sopratutto per le caratteristiche costruzioni, i nuraghi, da cui appunto prende nome.
La società nuragica era essenzialmente egualitaria: nella civiltà nuragica non esistevano gli schiavi né mai esisteranno in Sardegna. La popolazione era distribuita in moltissimi villaggi, autonomi e indipendenti fra loro.

2. I villaggi:
Quanti erano? Secondo l’archeologo Giovanni Ugas da 2500 a 3000 con una popolazione da 500.000 a 700.000 (molto di più di quella che aveva ipotizzato Giovanni Lilliu: 2000.000)
Il capo del villaggio era scelto in base alle sue capacità, soprattutto morali, I sudditi vivevano in villaggi fatti di piccole capanne a pianta circolare con alla base un muro in pietra a secco e una copertura a cono di legno raggruppate presso i nuraghi. L’interno di ogni capanna era costituito da una sola camera: al centro stava il focolare, lungo le pareti erano ricavate delle panche per sedersi e delle nicchie per gli oggetti d’uso.
Ancora oggi, anche se sempre di meno, i pastori costruiscono questo tipo di capanne; in sardo si chiamano pinnetas .
Si dormiva stesi a terra su strame e pelli. La vita era estremamente semplice: gli uomini si dedicavano soprattutto alla pesca e alla caccia: erano numerosissimi i cervi e i cinghiali, i daini e i falchi, i colombi e le pernici ma soprattutto le mufle e i mufloni, le lepri, i conigli e le galline prataiole.
I nuragici si dedicavano anche alla coltivazione agricola e alla pastorizia: ammansivano qualche mufla per il latte e il formaggio che serviva alla famiglia ma non allevavano grossi greggi di animali come saranno poi costretti a fare con le varie dominazioni, soprattutto quella romana né coltivavano grossi appezzamenti di terreno ma solo quanto serviva per l’autoconsumo.
Le donne tessevano, intrecciavano cesti e stuoie, preparavano i cibi. Tra gli oggetti ritrovati, il bronzo e il rame erano usati sopratutto per armi, accette, coltelli, mentre si faceva ancora impiego della pietra, dell’ossidiana, dell’osso e della ceramica.

3. I Nuraghi
I nuraghi sono grandiose costruzioni ricavate con massi enormi sovrapposti a secco e tenuti insieme dal loro peso. Essi venivano generalmente costruiti sulla cima delle colline:
I nuraghi sardi sono migliaia (8.000 secondo le fonti ufficiali: l’Istituto geografico militare, che però li censisce secondo modalità militari e non archeologiche; 20.000 secondo Sergio Salvi e 25–30.000 secondo altre fonti non ufficiali). Essi sono costruzioni megalitiche tronco-coniche dalle volte ogivali con scale elicoidali; pozzi sacri, betili mammellari, terrazze pensili, androni ad arco acuto, innumerevoli dolmen e menhir, migliaia di statuette e di navicelle di bronzo.
Tra i nuraghi esistenti in Sardegna, la maggior parte sono semplici, formati soltanto da una torre con un ingresso alla base, un unico grande vano interno, alcune nicchie scavate nell’intercapedine e una scala, anche lei scavata nell’intercapedine, che porta alla sommità della torre.
Ci sono anche molti nuraghi più complessi formati da più torri
raccordate a una torre centrale; hanno molte stanze, possono avere più di un piano e poi corridoi, scale e camminamenti coperti: sono le “fortezze” nuragiche, di arcaica bellezza e maestosa complessità come il nuraghe Losa presso Abbasanta (NU), il nuraghe Santu Antine di Torralba (SS) e il complesso Su Nuraxi di Barumini (CA) dichiarato patrimonio dell’umanità dall’UNESCO.

4. Funzione dei Nuraghi
Sulla funzione dei nuraghi non si può dare una risposta definitiva a tutti gli interrogativi che li riguardano. Alcuni storici ritengono che fossero destinati alla vigilanza e alla difesa, soprattutto quelli più complessi, che per la loro struttura e la posizione che occupano confermerebbero l’uso dei nuraghi come fortezze.
Altri che in queste case fortificate abitassero i capi tribù con la loro famiglia e la loro guarnigione: qualcosa di simile ai castelli medievali. Non è escluso che qualche nuraghe fra i più piccoli fosse semplicemente un’abitazione di pastori e che qualcuno più complesso sia stato usato per una destinazione diversa.
Un’altra ipotesi invece sostiene che i nuraghi fossero inabitabili per mancanza d’aria e di luce oltre che per il freddo e l’umidità e che erano incapaci ad assolvere le funzioni militari proprie dei castelli per gli spazi ridotti al loro interno; da ciò dovrebbe conseguire che avessero esclusivamente destinazione religiosa e funeraria: ovvero che i nuraghi semplici fossero usati come templi da singolo gruppi familiari. Queste le ipotesi sostenute nel passato: oggi molti archeologi e storici tendono sempre più a sostenere che i nuraghi fossero semplicemente dei Monumenti, senza alcuna funzione e utilizzo particolare, monumenti che ciascun villaggio costruiva per affermare la propria autonomia e indipendenza; altri, ancor più numerosi, che avessero una funzione astronomica.

5.Nuraghi come osservatori astronomici?
Un’altra ipotesi presa in considerazione dei ricercatori è quella che vede nei nuraghi una funzione prevalentemente astronomica descrivendoli come dei veri e propri osservatori fissi della volta celeste, disposti sul territorio secondo precisi allineamenti con gli astri, e abitati da sacerdoti astronomi. Secondo lo studioso Mauro Peppino Zedda i nuraghi furono edificati come osservatori astronomici e le torri sarebbero state disposte secondo precise regole astronomiche e sarebbero state utilizzate per la misura del tempo e per l’osservazione della volta celeste avvalorando l’ipotesi della funzione sacra di questi edifici i quali sarebbero viste come templi custoditi da sacerdoti astronomi.https://it.wikipedia.org/wiki/Nuraghe – cite_note-33.
Lo studioso sostiene che le torri del nuraghe trilobato Santu Antine siano state dei punti di osservazione per mezzo dei quali era possibile osservare il sorgere del sole sia al solstizio invernale sia al solstizio estivo, e dalle stesse si poteva osservare – sempre ai solstizi – il tramonto del sole. Secondo lo studioso il nuraghe Santu Antine è “l’apparecchio realizzato a secco tecnicamente più sofisticato di tutta la superficie terrestre”. Grazie alla loro posizione – sostiene lo studioso – “gli antichi Sardi erano in grado di stabilire la scansione temporale delle stagioni e avevano riferimenti spaziali sulla terra”.
La tesi di Mauro Zedda pare essere confermata da un grande archeoastronomo, Arnold Lebeuf, che a Cagliari il 4 maggio 2011 ha sostenuto: “Il pozzo nuragico di Santa Cristina? Un osservatorio astronomico perfetto. Un sistema raffinato per calcolare un fenomeno di grande complessità come quello delle fasi lunari e prevedere le eclissi”.
Sembra dunque non avere dubbi Arnold Lebeuf, francese archeoastronomo, docente di storia delle religioni presso l’università di Cracovia che scoprì per caso l’esistenza del pozzo sacro nel 1973, in un convegno in Bulgaria, grazie a un articolo di Carlo Maxia ed Edoardo Proverbio.
Molti anni dopo, nel 2005, approdò nell’isola per compiere ricognizioni e studi approfonditi ora raccolti nel volume, Il pozzo di Santa Cristina, un osservatorio lunare (edizioni Tlilan Tlaplan).Oltre duecento pagine, tra testi, calcoli scientifici, splendide foto (in parte realizzate dal fratello Guillaume e Tomas Stanco) che raccontano una tesi sbalorditiva. Tremila anni fa su quell’altopiano a due passi dalla Statale 131, i nuragici edificarono, nell’arco di diversi anni, una elaboratissimo osservatorio. Tale da suggerire conoscenze astronomiche e scientifiche avanzatissime in un’epoca così lontana. Un fatto probabilmente unico nella nostra geografia occidentale.
E così sul sito archeologico improvvisamente sembrerebbe accendersi una luce e allo stesso tempo aprirsi un enigma. Perché di quel raffinato sapere nuragico non è rimasta traccia? Si deve forse rivedere la tesi il pozzo fosse dedicato al culto delle acque?
“L’uno non esclude l’altro – risponde Lebeuf – Era un tempio delle acque come tantissimi altri nell’Isola. Qui, come citavano già Maxia e Proverbio nel loro articolo, la luna si rispecchia nel fondo del pozzo ogni 18,6 anni. Si chiama il ciclo del drago. Quando lo vidi nel 2005, costruito con le pietre e i gradini a degradare restai impressionato. E mi chiesi: se davvero si può verificare che la luce della luna ogni 18 anni giunge nel fondo del pozzo vuol dire che negli altri anni arriverà ad altri livelli. E questo significa che il sito non è più solo un luogo rituale, ma forse, un autentico strumento scientifico. Cioè un osservatorio. Non ha nulla a vedere con l’orientamento dei templi o delle chiese. A Santa Cristina è qualcosa di diverso e straordinario. Soprattutto per l’epoca: mille anni prima della nostra era. Qualcosa da far venire il mal di testa agli storici della scienza”.
Sulla stessa linea di Zedda e Labeuf si muove l’ingegner Paolo Littarru, studioso di archeoastronomia che in un’intervista dell’8 Giugno 2020 a Michela Girardi di Vistanet.it afferma: “Sì. il titolo (parla del suo libro Il contadino che indicava la luna) è volutamente provocatorio e allude al proverbio cinese secondo il quale “quando il saggio indica la luna, lo stolto si sofferma il dito”. Ho raccolto in un libro la vicenda scientifica di cui, per certi aspetti sono testimone oculare diretto. Tento di raccontare come per primo il linguista Massimo Pittau, recentemente scomparso, abbia demolito, fin dal 1979 il paradigma militarista di Antoniom Taramelli – Lilliu e successivamente l’architetto Franco Laner (che nel libro definisco “L’accabadore” del paradigma), abbia dato il colpo di grazia all’interpretazione militare del nuraghe, evidenziandone l’afferenza alla sfera del sacro”.
Littarru allude all’interpretazione del nuraghe come fortezza.
“L’archeoastronomia – prosegue Littarru –completa la demolizione del paradigma, ci conferma e ci rivela una destinazione “sacra” e “simbolica” dei nuraghi che per nulla si concilia con le interpretazioni attuali e mondane dei nuraghe come magazzini, case o, peggio ancora “centri polifunzionali”. Tali interpretazioni ritengo siano del tutto infondate.
Ho scritto questo libro per  la necessità di raccontare questa piccola rivoluzione scientifica, seppure in salsa locale, perchè nessuno possa dire “Non c’ero” o non sapevo. Ritengo di poter affermare che l’astronomia sta allo studio dei nuraghe come il Cristianesimo sta alla civiltà europea medioevale o l’Islam a quella Araba. Come felicemente sintetizza l’epistemologo Silvano Tagliagambe, che mi ha onorato con la postfazione del libro, “l’astronomia costituisce la chiave interpretativa imprescindibile per la comprensione della civiltà nuragica”.

6. Nuraghi semplici
Tra le migliaia di nuraghi esistenti in Sardegna, la maggior parte sono semplici, formati soltanto da una torre con un ingresso alla base, un unico grande vano interno, alcune nicchie scavate nell’intercapedine e una scala, anche lei scavata nell’intercapedine, che porta alla sommità della torre.
Un esempio di come doveva essere un villaggio nuragico è visibile a Barumini (CA) dove intorno alla maestosa “reggia nuragica”, si sviluppa un complesso agglomerato di capanne, recinti e costruzioni di vario tipo.

7. Il clima dell’età nuragica.
Secondo i paleoclimatologi (studiosi del clima antico) nell’epoca nuragica il clima era caldo umido con “ampio sviluppo di flora lussureggiante di tipo tropicale e habitat favorevole alle specie animali. Il nuraghe si sviluppò soprattutto in questo momento climatico, forse anche a seguito di una maggiore spinta demografica derivata dalle migliorate condizioni di vita e di alimentazione proprio per effetto del clima e degli animali selvatici che fornivano cibo facile e abbondante per tutti”.(Franco Serra)
La maggior parte del clima del periodo nuragico era quello oggi classificabile come atlantico caldo-umido, proprio delle attuali fasce intertropicali, caratterizzato da temperature piuttosto elevate, moderata escursione termica, piovosità abbondante.
La temperatura atmosferica media durante il mese più freddo dell’anno non era inferiore ai 18° centigradi per cui l’inverno era praticamente inesistente. Il numero dei giorni piovosi variava in rapporto alle diverse zone dell’Isola dai novanta ai centocinquanta l’anno. Insomma c’erano ogni anno dai 3 ai 5 mesi di pioggia. Le medie annue delle precipitazioni atmosferiche erano intorno ai 1500-2000 (oggi oscilla fra i 400/500 millimetri).
Un altro studioso, Francesco Fedele, confermando le osservazioni del paleo climatologo Franco Serra ribadisce che: “una vegetazione ricca copriva il suolo dell’Isola e lo sviluppo delle specie selvatiche era proporzionato a questa ricchezza. L’alimentazione degli abitanti della Sardegna poteva dunque essere completa:frutti della terra, cereali, latte e derivati,, grassi uova, miele, pesci e molluschi.
Numerosi prodotti spontanei forniscono sostanze per uso quotidiani:corna e palchi di erbivori per gli arnesi; lana per le vesti;legna da ardere e ramaglie per la costruzione delle pareti; legno scelto per ciotole e sughero per recipienti; frutti del lentisco e dell’olivastro, pestati, per olio da illuminazione e da condimento, orzo e frumento per farina”.

8. L’economia della Sardegna nuragica.
In ragione di questo clima molti storici parlano perciò di un’economia della Sardegna come economia dell’abbondanza: di carne, pesce, frutti naturali. Che produce, formaggi, sale, stoffe, vini. Oltre che oro, argento, rame E anche la musica delle launeddas.
9. I Nuragici conoscevano la vite e il vino?
Semi di vernaccia e malvasia risalenti a circa tremila anni fa sono stati ritrovati nel pozzo che faceva da ‘frigorifero’ a un nuraghe nelle vicinanze di Cabras. La prova del carbonio 14 effettuata dal Centro conservazione biodiversità dell’Università di Cagliari conferma la datazione e fa ritenere che la coltura della vite nell’Isola fosse conosciuta sin dall’età del bronzo.

Riporto integralmente un articolo apparso su “Il Sole 24ore di Maria Teresa Manuelli  del 28 gennaio 2015
I vitigni più antichi del Mediterraneo occidentale si trovano in Sardegna e appartengono al cultivar della vernaccia e della malvasia. E’ la recentissima scoperta dell’équipe del Centro per la Conservazione Biodiversità dell’Università degli Studi di Cagliari. Sino ad oggi, i dati archeobotanici e storici attribuivano ai Fenici e successivamente ai Romani il merito di aver introdotto la vite domestica in questa parte del Mare Nostrum, ma la scoperta di un vitigno coltivato dalla civiltà nuragica riscrive, non solo la storia della viticoltura in Sardegna, ma dell’intero Mediterraneo occidentale.
Entrano in azione i paleobotanici
Tutto ha inizio una decina d’anni fa, quando gli scavi per la costruzione di una strada provinciale nella provincia di Oristano, a Sa Osa (Cabras), portano alla luce un sito archeologico risalente all’epoca nuragica. Le diverse strutture restituite alla luce nascondevano un tesoro biologico, ovvero dei pozzi scavati nella roccia dagli abitanti preistorici per conservare gli alimenti. Di altezza tra i 4,5 e i 6 metri, erano dei veri e propri ‘protofrigoriferi’ che hanno trasmesso integri fino a noi diversi materiali organici, vegetali e animali, destinati all’alimentazione: non solo i semi di vite, ma anche noci, nocciole, semi di fico, pigne da pinoli, leguminose, carne di cervo, pesce… Da questa scoperta è partito il lavoro dei paleobotanici del Centro per la Conservazione Biodiversità e solo un lungo e paziente lavoro di ricerca ha portato ai risultati pubblicati pochi giorni fa.

Semi perfetti dopo millenni
“L’eccezionalità di questa scoperta – dichiara Gianluigi Bacchetta, direttore scientifico del Centro Conservazione Biodiversità – è anche lo stato di conservazione di questi prodotti: praticamente perfetti, grazie all’assenza di ossigeno e alla forte umidità. I semi sono arrivati a noi così come sono stati posti nei pozzi”.
In collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici per le province di Cagliari e Oristano, gli oltre 15mila semi di vite ritrovati nel sito nuragico, sono stati poi datati al Carbonio14 come risalenti a circa 3.000 anni fa, periodo di massimo splendore della civiltà nuragica, scoprendo così che la viticoltura come la conosciamo noi oggi era già nota ai nostri antenati ben prima dell’arrivo di Romani e Fenici.

Antenati della Vernaccia
“Non solo – continua Bacchetta. Grazie alla perfetta conservazione si è potuto risalire anche alle varietà. In alcuni pozzi i semi appartenevano alla vite silvestre, pianta autoctona attualmente presente in Sardegna, mentre altri portavano già caratteri intermedi tra questa e le moderne cultivar di vitis vinifera. In particolare questi sembrano appartenere alle cultivar a bacca bianca, mostrando forti relazioni con le varietà di vernacce e malvasia coltivate ancora oggi proprio nelle aree della Sardegna centro-occidentale, nell’oristanese”.
Gli antichi sardi quindi conoscevano la domesticazione della vite e la viticoltura, resta da stabile se conoscessero anche la vinificazione. “La nostra ricerca prosegue in questa direzione. Vicino a Monastir, in provincia di Cagliari, è stato trovato un antico torchio nuragico, età del bronzo quindi, probabilmente utilizzato per fare il vino. Ma bisogna essere cauti. In Sardegna abbiamo un enorme patrimonio archeologico accumulato nelle strutture museali, ancora da studiare per capire la paleodieta, le coltivazioni, le conoscenze dell’epoca che erano molto avanzate rispetto a quello che pensiamo noi. Non dimentichiamo che la Sardegna era al centro di una grande rete di traffici che portava il vino sardo, e non solo quello, da una parte all’altra del Mediterraneo tra il primo e il secondo millennio prima di Cristo”. Un’attività vitivinicola fiorente testimoniata dal ritrovamento di anfore vinarie da trasporto provenienti dalla Sardegna, le cosiddette «zit a», un po’ dappertutto nel Mediterraneo occidentale, fino a Cartagine.
Prossimo passo consisterà quindi nel mettere in connessione l’enorme patrimonio archeologico sardo per approfondire usi e costumi alimentari di questa antica popolazione e stabilire le relazioni con quelli attuali, in sinergia con la Banca del Germoplasma che raccoglie, studia e classifica tutti i taxa vegetali endemici, rari, minacciati della Sardegna

10. La Sardegna Isola felice.
La Sardegna l’Isola vasta e feconda per Apollonio (II secolo a.c., libro IV Argonautiche); con un popolo prospero e felice per Diodoro Siculo (I secolo a.c., autore della monumentale storia universale la Biblioteca storica); poi Ichnusa Sandalia ecc. oltre che Isola felice è Isola libera, indipendente e senza stato: acefala la definirà Lilliu.

11. La religione nuragica.
I nuragici avevano una religiosità di tipo naturalistico fondata sull’adorazione degli elementi della Natura, considerati come contenenti lo spirito divino: erano oggetto di culto le pietre, gli alberi e particolarmente radicato era il culto dell’acqua, piovana o sorgiva, considerata preziosa.
Esisteva anche il culto dell’acqua che era considerata un dono dato alla terra dalla Dea Madre. Il culto dell’acqua è strettamente legato al tipo di economia agro-pastorale dei nuragici. Dall’acqua infatti dipendevano l’agricoltura e il bestiame e di conseguenza la sopravivenza dei nuragici.
Per questo furono costruiti dei templi a pozzo dove l”acqua sorgiva veniva talvolta raccolta in templi sotterranei a pozzo e ad essa si chiedeva la fertilità dei campi e dove si svolgevano le cerimonie legate al culto delle acque.

13. I pozzi sacri
I templi a pozzo hanno una struttura composta di tre parti essenziali: il vano di ingresso, al livello del suolo, la scala che scende nel terreno e il vano interrato, con la volta a falsa cupola. Sul fondo del vano interrato, ai piedi della scala c’è la fonte sacra. In superficie un recinto di pietre delimita l’area sacra.
In Sardegna esistono circa 40 templi a pozzo.
Oltre al culto delle acque, i nuragici continuarono a praticare il culto della Dea Madre e del Dio Toro, potente coppia divina già oggetto di adorazione in età prenuragica.

14.La sepoltura
Anche i morti erano oggetto di culto. Essi venivano sepolti nelle Tombe dei Giganti che avevano la forma della testa del toro. Davanti alla Tomba dei Giganti si svolgeva il rito dell’incubazione: chi aveva bisogno di consigli o di cure li riceveva nel sogno, dormendo nello spiazzo davanti alla tomba anche per parecchi giorni. Nelle tombe dei giganti si seppellivano intere tribù.

15.betili
Spesso di fronte alla facciata della tomba dei giganti è presente un piccolo menhir, chiamato in sardo betile.
I nuragici comunque continuarono anche ad usare gli antichi tipi di sepolture come le domus de janas

16. I Nuragici conoscevano la scrittura?
Nei testi scolastici ufficiali continuiamo a leggere che l’uso della scrittura fu introdotto dai Fenici e dunque i Nuragici non la conoscevano. Da anni però alcuni studiosi sardi hanno iniziato a mettere in discussione la storiografia ufficiale sostenendo che la scrittura sillabica in Sardegna era nota molti secoli prima: la conoscevano e l’utilizzavano.
A sostenere tale tesi vi è soprattutto lo studioso oristanese Gigi Sanna che si occupa con una rigorosa e ormai decennale ricerca sull’interpretazione di antichissimi documenti di scrittura rinvenuti in Sardegna e non solo. Egli è così arrivato alla conclusione (documentata in modo particolare nell’opera Sardoa Grammata,Editrice s’Alvure, Oristano, 2004) che i Nuragici conoscessero, utilizzassero e leggessero la scrittura.
“La Stele di Nora – scrive Gigi Sanna – è, insieme alle tavolette di Tzricotu (con le quali condivide chiari identici ‘principii’ e modalità di scrittura), un bellissimo documento attestante il ruolo dell’altissima e raffinatissima scuola scribale nuragica della Sardegna della fine del Secondo Millennio a.C., non di quella “fenicia”. Lo dimostrano, senza margini di dubbio, le recenti scoperte della scrittura e della lingua nuragica; il rinvenimento di testi (come quello dei “cocci” nuragici di Orani) con segni alfabetici e contenuto identici a quelli della stele norense; la rilettura del documento in base a nuove stupefacenti scoperte epigrafiche (i due “shalam” laterali, individuati dalla dott. Alba Losi dell’Università di Parma nella primavera di quest’anno), scoperte che spingono nella direzione di due letture aggiuntive rispetto alla “normale” lettura retrograda; la conferma dell’esistenza di una scrittura nuragica “numerica” a rebus, che dà un significato eccezionale nella storia della scrittura (anche perché del tutto imprevedibile) al documento; l’inopinata comparsa del nome di un “santo” nuragico, oggi santo celeberrimo cristiano dell’Isola, alla fine della scritta, che fa scendere definitivamente dal piedestallo il falso Pumay”.
A conferma della presenza della scrittura nuragica inoltre, da più di un decennio, lo studioso oristanese ha proposto soprattutto le tavolette di Tzricotu di Cabras e il sigillo di S. Imbenia di Alghero oltre i “cocci” nuragici di Orani.
Eppure c’è da scommettere – scrive Sanna – che da parte dei soliti negazionisti e i feniciomani si cercherà di soffocare il tutto con il più rigoroso silenzio. Perché, evidentemente, si tratta di verità “scomode”, che mettono in discussione le vecchie certezze di accademici e sovrintendenti che su di esse hanno costruito le loro carriere e i loro successi.

17. L’arte nuragica
a. I bronzetti
Anche a prescindere dalla conoscenza o meno della scrittura, dalle testimonianze dell’architettura e dell’artigianato possiamo ricostruire il modo di vivere, le abitudini e la cultura delle genti nuragiche.
I bronzetti, che furono eseguiti tra il VIII e il III secolo a.c: sono piccole statuine di bronzo che rappresentano uomini, animali, navicelle votive, (a conferma che i Nuragici erano grandi navigatori in tutto il Mar Mediterraneo e anche oltre), oggetti e avevano sia funzione di ex-voto che venivano offerti in dono alla divinità, ma anche pratica e ornamentale.
I bronzetti rivelano, infatti, molti aspetti della vita sociale delle genti nuragiche e dell’ambiente naturale nel quale vivevano: riproducono infatti strumenti di lavoro o di trasporto, come i carri e le navicelle; uomini di diverso rango sociale: capi, sacerdoti, guerrieri, pastori, suonatori, pugilatori, madri col proprio figlio; esseri soprannaturali dotati di molti occhi e di molte braccia, legati ad un mondo religioso del quale non riusciamo a capire pienamente i valori; animali domestici e non come buoi, pecore, mufloni, cinghiali, cervi, colombe, cani. Solo il cavallo non viene riprodotto, segno che i nuragici non lo conoscevano.

b. La scultura
Gli scultori nuragici rappresentavano spesso nelle loro opere gli stessi nuraghi: ci sono pervenuti numerosi esemplari di nuraghe in pietra, argilla e anche in bronzo, provenienti dai santuari.

c. L’architettura
L’architettura nuragica è scritta nelle rocce e con le pietre, con l’invenzione della volta ogivale, dell’arco acuto, del tempio tronco conico in pietra grezza, delle scale elicoidali entro coni di pietra, dei circoli megalitici, delle esedre, stele, absidi, ellissi, tombe di giganti, dolmens, betili mammellati.

c. La ceramica
la produzione ceramica si caratterizza per la presenza di vasi, spesso a pasta grigia, di varie forme con decorazioni geometriche e con motivi impressi o incisi: cerchielli concentrici, zig-zag, semplici linee e grossi punti.

d. I Giganti di Mont’ ‘e Prama
Nella lontana primavera del 1974 un contadino di Cabras nel Sinis, per caso, con l’aratro, mentre lavora il suo terreno, cozza contro una testa di pietra con gli occhi sbarrati. La scoperta viene segnalata alle autorità competenti e fin dal 1974 iniziano gli scavi, condotti da Lilliu e da alcuni docenti e allievi dell’università di Cagliari, che poi verranno proseguiti nel 1979 sotto la direzione di Carlo Tronchetti, portando alla luce i frammenti di 32 statue, oltre 4 mila. Sciaguratamente, per ben 32 anni essi verranno abbandonati, a sgretolarsi, negli scantinati bui e umidi del Museo archeologico di Cagliari. Perché? “Non sembrava un ritrovamento così importante” e “mancavano gli spazi … oltre che i soldi”: fu la risposta ufficiale. Dopo decenni la Sovrintendenza ai beni archeologici di Sassari e Nuoro assegna un appalto da un milione e 6oo mila euro per restauro, ricomposizione e musealizzazione dei reperti a Li Punti a Sassari, dove vengono ricoverati. Oggi, a restauro finito, l’odissea delle 32 statue di pietra arenaria non sembra finita. Non c’è accordo su dove portarli: le si vorrebbe divise fra Cabras e Cagliari. Che si portino subito a Cabras, dove sono state ritrovate. E soprattutto che si inizi a rivedere vecchie certezze storiche e archeologiche “perché – come ha affermato Maria Antonietta Boninu, responsabile del progetto – se tutte le evidenze scientifiche fin qui raccolte verranno finalmente riordinate andrà riscritta la storia dell’arte, perché si dovrà rimettere in discussione il primato della Grecia sulla statuaria del Mediterraneo”.
Le statue sono scolpite in arenaria gessosa del luogo e la loro altezza varia tra i 2 e i 2,5 metri; rappresentano arcieri, spadaccini e lottatori.
Le sculture ricostruite in seguito al restauro sono risultate in totale trentotto: cinque arcieri, quattro non riconosciuti, sedici pugili, tredici modelli di nuraghe; tuttavia le nuove campagne di scavo hanno portato alla scoperta di nuovi esemplari.
A seconda delle ipotesi, la datazione dei Kolossoi – nome con il quale li chiamava l’archeologo Giovanni Lilliu – oscilla dal IX secolo a.C. (900-801 a.C.) o addirittura al XIII secolo a.C. (1300-1201 a.C.), ipotesi che potrebbero farne fra le più antiche statue tridimensionali isolate dallo sfondo del bacino mediterraneo, in quanto antecedenti alle statue della Grecia antica, dopo le sculture egizie.

18. I Nuragici erano immuni dalla malaria.
In età nuragica la Sardegna era immune dalla malaria mentre la presenza dell’antico flagello è accertata per l’età cartaginese. È il risultato di uno studio storico-paleoimmunologico condotto nel 2013 dal dipartimento di Scienze Biomediche dell’università di Sassari, da quello di Scienze della Salute Pubblica e Pediatriche dell’ateneo di Torino e dalla divisione di Paleopatologia dell’università di Pisa. È stata inoltre verificata la presenza della leishmaniosi umana (un’antropo-zoonosi) nella forma viscerale, da mettere verosimilmente in relazione con il ravvicinato contatto degli allevatori-cacciatori raccoglitori con i cani.Lo studio «Approccio paleobiologico alla storia della malaria e della leishmaniosi in Sardegna dall’età Prenuragica al Medioevo» è stato condotto da un gruppo di ricerca su materiali osteoarcheologici forniti dalle Soprintendenze alle antichità di Cagliari e di Sassari, con fondi della Fondazione del Banco di Sardegna. Sulla base di una cartografia della malaria (collegata ai dati paleoclimatici), il gruppo di ricercatori ha impostato il lavoro con screening di ampia portata sulle collezioni osteoarcheologiche, capaci di accertare la presenza del patogeno. Nel caso della malaria, l’utilizzo di questi test, la cui sensibilità e specificità su materiale antico è già stata confermata in studi precedenti, permette di identificare le proteine delle diverse specie del genere Plasmodium (falciparum, vivax, ovale, malariae). Le indagini paleo immunologiche sono state effettuate su campioni di siti di varie aree geografiche, corrispondenti a diverse epoche storiche e datati con il metodo del radiocarbonio: età nuragica; età fenicia ; età romana; prima età moderna. Non sono stati identificati casi di malaria, nè di leishmaniosi umana nei reperti osteologici provenienti dai siti di età nuragica. Sono invece risultati positivi alla malaria due campioni esumati da siti come quello di Sa Figu (600 – 560 a.C., periodo Cartaginese). Qui è stato rilevato anche un possibile caso di co-infezione malaria-leishmaniosi.
Secondo molti studiosi sarebbe stata portata attraverso le truppe puniche guidate dal generale Malco e sbarcate in Saregna nel 540 a.C.
Pare, fra l’altro, che la malaria sia all’origine della bassa statura dei sardi, diminuendola, mediamente di 5/7 centimetri.
Le zanzare anofele rappresenteranno nell’Isola – per due millenni e mezzo – un vero e proprio flagello. Fino al 1946-50 quando saranno sterminate da industriali dosi di DDT con la Rockefeller Foundation.

Come vedono la civiltà nuragica due scrittori sardi: Sergio Atzeni e Eliseo Spiga e il più grande archeologo della Sardegna Giovanni Lilliu-

1. SERGIO ATZENI
“Non so definire la parola felicità. Ovvero non so che sia la felicità. Credo di aver sperimentato momenti di gioia intensa, da battermi i pugni sul petto, al sole, alla pioggia o al coperto, urlando (a volte vorrei farlo e non si può) o da credere di camminare sulle nuvole o da sentire l’anima farsi leggera e volare alta fino a Dio (è capitato di rado). E’ la felicità? Così breve? Così poca?
Se esiste una parola per dire i sentimenti dei sardi nei millenni di isolamento fra nuraghe e bronzetti forse è la felicità.
Passavamo leggeri come acqua, disse Antonio Setzu, come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci, fino alle radici delle sughere e dei mandorli o scende scivolando sulle pietre, per i monti e i colli fino al piano, dai torrenti al fiume, a farsi lenta verso le paludi nel mare, chiamata in vapore dal sole a diventare nube dominata dai venti e pioggia benedetta.
A parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti, eravamo felici. Le piane e le paludi erano fertili, i monti ricchi di pascoli e fonti. Il cibo non mancava neppure negli anni di carestia. Facevamo un vino colore del sangue, dolce al palato e portatore di sogni allegri. Nel settimo giorno del mese del vento che piega le querce incontravamo tutte le genti attorno alla fonte sacra e per sette giorni e sette notti mangiavamo,bevevamo, cantavamo e danzavamo in onore di Is. Cantare, suonare, danzare, coltivare, raccogliere, mungere, intagliare, fondere, uccidere, morire, cantare, suonare, danzare era la nostra vita. Eravamo felici, a parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti[…]”
[Sergio Atzeni, Passavamo sulla terra leggeri, Ed. Mondadori, Milano 1996, pagine 28-29]

2. ELISEO SPIGA
”Anche il giardino che avevano esplorato i suoi antenati era certamente un paradiso terrestre dove c’era tutto quanto gli uomini avessero potuto desiderare per condurre una esistenza non ricurva. In questo non vigevano divieti o avvertimenti minacciosi e tutto vi avrebbero potuto conoscere. Non c’erano lupi, draghi o demoni. Non vi si nascondeva il serpente che avrebbe tentato le donne che andavano a cogliere le pere, i fichi, le bacche di corbezzolo, le erbe aromatiche o a prendere il miele dalle cavità delle querce o i cristalli di sale lavorati dal sole nelle buche calcaree o che scendevano nelle acque smeraldine racchiuse fra gli scogli a lavarsi delle dolci fatiche notturne.
Tra le garighe di timo odoroso e le steppe di sparto crescevano gli iris azzurri, le margherite a foglia grassa, i narcisi canicolari, i cespugli giallo-oro del tagete, le rose, la scrofularia a tre foglie, e le altre ortiche meno mansuete, e più in basso, verso gli stagni listati dalla salicornia purpurea, le foreste di pini, i canneti ondeggianti, le tife-fieno di stuoia, i tamerici e mille altri fiori arbusti e piante.
Sotto quell’eterno verde variamente sfumato e enfatizzato dalle punte bianche delle rocce e dalle macchie fiorite, tra il lentischio il rovo lo spinacristi e il ginestrone, schizzavano i prolaghi e chiocciavano le pernici, incuranti di volpi gatti e donnole, mentre tutt’intorno era un continuo aleggiare di uccelli di ogni specie: germani e anatre di tutte le forme e colori, oche, folaghe, gabbiani,piccioni, stornelli, gruccioni, aquile di mare e di monte; e un discreto passeggiare di gallinelle, di sontuosi polli-sultano dall’incredibile livrea turchina e dalle zampe rosso-corallo; e un frusciare di fenicotteri, che a migliaia in formazioni a cuneo, attraversavano il primo e l’ultimo sole della giornata. E cervi daini mufloni e cinghiali, distrattamente vagabondando, si fermavano per cibarsi di carrube e ghiande, abbondanti nella laguna di monte […]”.
[Eliseo Spiga, Capezzoli di pietra, Zonza editore, Cagliari 1998, pagina 50]

3. GIOVANNI LILLIU
Il 23 Novembre 2009 ha fatto una lectio magistralis sui «Contadini e i pastori nella Sardegna neolitica e dei primi metalli» la settimana di studi su «La preistoria e la Protostoria della Sardegna», convegno promosso annualmente dall’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria e quest’anno dedicato all’isola, con appuntamenti a Cagliari, Barumini e Sassari.
 Lilliu ha novantaquattro anni ed è l’archeologo che ha gettato le basi per le moderne conoscenze sul passato della Sardegna, combinando uno studio analitico fondato su scavi e dati concreti a intuizioni geniali, come ad esempio la scoperta della reggia nuragica di Barumini, uno dei più significativi siti archeologici dell’isola, sicuramente il più conosciuto al mondo per quanto riguarda l’era nuragica. Dalla sua ricostruzione socio-economica degli antichi sardi è emersa l’idea di un momento aureo del passato isoano. Infatti:
1.Nella Sardegna preistorica ci fu un’età aurea in cui gli abitanti vivevano di agricoltura e caccia ed erano un popolo pacifico di laboriosi artigiani. Producevano in abbondanza e si dedicavano ai commerci, spingendosi in ogni angolo dell’isola e anche oltre il mare, tanto che tracce della loro cultura si sono ritrovate in Francia e in Spagna.
2.Ma soprattutto era un popolo libero e indipendente, prima che dal mare arrivassero colonizzatori portatori di nuove culture, spesso imposte con le armi e la guerra.
3.le raffinate opere di architettura sacra (ad esempio l’altare di Monte d’Accoddi-Sassari) e funeraria (le grotticelle ipogeiche di Sant’Andrea Priu-Bonorva, di Mandra Antine-Thiesi, di Montessu-Villaperuccio)
4.le eleganti ceramiche con le decorazioni tipiche di quel periodo, i gioielli e gli ornamenti rinvenuti nelle sepolture, utilizzati come corredo e protezione magica dei defunti.
5.In esse già si coglieva una certa aspirazione democratica, dove anche il singolo partecipava attivamente alla crescita della comunità.
6.Ecco, in estrema sintesi, il quadro della civiltà che gli studiosi definiscono di “Ozieri o San Michele” e fanno risalire al Neolitico recente (tra il 3500 e il 2500 a. C.). Un’età mitica, forse ineguagliata nella preistoria della Sardegna, che si anima come un paradiso perduto nelle parole di Lilliu.
Conclusioni
La Proposta di includere la Civiltà nuragica nel Patrimonio culturale dell’Umanità*.

“L’idea di proporre l’inclusione dei monumenti della Civiltà nuragica nel Patrimonio culturale dell’Umanità dell’Unesco, nasce dalla presa di coscienza dell’importanza che negli ultimi decenni essi hanno assunto per i Sardi, quali segni fondamentali della loro identità a fianco degli altri grandi valori culturali e naturali posseduti. La Sardegna appare come un Museo aperto, con innumerevoli beni culturali e paesaggisti, spesso poco conosciuti agli stessi Sardi nonostante la loro importanza scientifica e bellezza. A questo sentire, corrisponde l’azione di salvaguardia da parte delle Istituzioni attraverso le norme di tutela statali, regionali e comunali, ma è necessario un ulteriore sviluppo di questa sensibilità generale per tutelare e fruire, attraverso un’attenta gestione dello straordinario patrimonio culturale, con il concorso di tutta la comunità isolana ma anche con il fondamentale supporto dello Stato italiano e dell’Unesco. L’istanza presentata alla Commissione Nazionale Italiana Unesco lo scorso 30 settembre deve dimostrare L’Eccezionale Valore Universale e l’Autenticità e Integrità dei Monumenti nuragici. Per la sua strategica posizione insulare, il suo clima mite, la fertilità dei suoli, la bellezza e le notevoli risorse naturali, celebrate già dagli scrittori classici, la Sardegna attrasse a più riprese i gruppi umani e divenne un crocevia di genti, provenienti da vari angoli del Mediterraneo e d’Europa per commercio o per emigrazione, che hanno forgiato le sue radici culturali e ad un tempo influito sui cambiamenti e sulla particolare conservazione del suo straordinario aspetto naturale, plasmandone l’identità. L’antico ruolo centrale dell’isola emerge particolarmente dalle innumerevoli testimonianze dell’architettura della pietra che, integrandosi armoniosamente con la natura dei luoghi, originano uno straordinario paesaggio culturale, segnato da due fenomeni eclatanti, talora intersecantisi: il megalitismo, inteso nella sua accezione più ampia, vale a dire l’architettura sopra suolo della (grande) pietra; l’ipogeismo, vale a dire l’architettura ctonia, sotterranea. Il megalitismo isolano trova il suo culmine nell’età del Bronzo, con il diffondersi su tutta l’isola dell’edificio turrito noto come nuraghe, un’opera così mirabile da essere ritenuto dagli antichi autori greci una geniale creatura di Dedalo. La grandiosità e la straordinaria diffusione dei monumenti nuragici (oltre sei mila i siti già censiti), dando un’impronta indelebile al paesaggio sardo, fanno emergere una civiltà di grandi architetti e scultori. Nel dettaglio la Civiltà nuragica, che fiorì per un millennio di anni tra il Bronzo Medio e il I Ferro (circa 1600- 510 a.C.), ci ha lasciato, oltre che numerosi e importanti reperti mobili, i seguenti monumenti, il cui numero è ancora in evoluzione con le nuove ricerche: •
-Nuraghi arcaici (protonuraghi), tipo Front’e Mola di Thiesi, Su Mulinu di Villanovafranca, Is Fogaias di Siddi;
-protonuraghi con cinte megalitiche prive di torri, tipo Frenergazu di Bortigali, Monte Sara di Macomer;
-nuraghi evoluti (castelli e torri) del Bronzo recente e finale, suddivisi in: torri singole o monotorri (es. Nuraxi di Goni); castelli senza cinta esterna (es. Santu Antine di Torralba, e castelli con cinta esterna (es. Nuraghe Arrubiu di Orroli, Domu Beccia di Uras e Casteddu de Fanari di Decimoputzu,;
-nuraghi trasformati in tempio (es. Su Mulinu di Villanovafranca; Nurdole di Oliena);
-nuraghi con villaggi (es. Palmavera di Alghero, La Prisciona di Arzachena; Genna Maria di Villanovaforru e Su Nuraxi di Barumini già inserito nel Patrimonio Culturale dell’Unesco);
-monumenti dei villaggi nuragici (abitazioni, templi dell’acqua, templi “a megaron”, rotonde del consiglio e altri edifici pubblici e privati (es. Santa Vittoria di Serri, Su Romanzesu di Bitti, Sant’Anastasia di Sardara, Sa Carcaredda di Villagrande);
-templi dell’acqua isolati (Su Tempiesu di Orune);
– grotte ad uso santuariale (Grotta Pirosu di Su Benatzu in Santadi) e ad uso funerario (es. Dom’e s’Orcu di Urzulei) dell’età nuragica;
-tombe collettive a corridoio e absidate (“tombe di giganti”): con emiciclo (esedra) di lastre ortostatiche sulla fronte attorno alla grande stele centinata dell’ingresso (es. Li Lolghi di Arzachena); con emiciclo in muratura (San Cosimo di Gonnosfanadiga); senza emiciclo senza fronte e seminterrate (es, su Fraigu di San Sperate);
-tombe ipogeiche con grande stele centinata scolpita sulla fronte (es. Sos Furrighesos di Anela);
-tombe in anfratti (tafoni) nuragiche della Gallura;
-aree funerarie (con tombe a pozzetto, a fossa, a circolo etc.) talora monumentalizzate con betili (es. Monte Prama di Cabras), cippi a forma di nuraghe e grandi statue (Monte Prama di Cabras”.
*di Antonello Gregorini