CICERONE E I SARDI

 

CICERONE (106-43 a.c.)*

 

I giudizi e le valutazioni degli scrittori classici latini nei confronti della Sardegna e dei Sardi non sono benevoli: sia quelli di Orazio che di Livio. Quelli di Cicerone sono anzi infamanti e insultanti.

 

Orazio (65-8 a.c.), il poeta latino famoso soprattutto per le Satire, parlando di Tigellio – musico e cantore sardo, amico di Cesare e di Ottaviano  – nella Satira 1.3 scrive che tutti i cantanti hanno questo difetto: che se sono pregati non cantano ma quando cominciano spontaneamente non la smettono più. E questo è il difetto che aveva il sardo Tigellio che non riusciva a far cantare neppure Cesare….

 

In un’altra satira 1.2 dice che per la morte di Tigellio Le suonatrici di flauto, i ciarlatani che vendono rimedi, i mendicanti, le ballerine e i buffoni, tutta questa gente è mesta e addolorata per la morte del cantante Tigellio; e ciò è naturale poiché egli fu generoso.

 

A significare che il musico sardo era esagerato e stravagante.

 

 

 

Livio (59 a.c.-17 d. c.) autore della monumentale Storia di Roma Ab urbe condita libri parlando dei sardi sostiene che erano facile vinci (avvezzi ad essere battuti  facilmente). Un giudizio senza alcun fondamento storico e anzi contraddetto dallo stesso Livio, in un altro passo della sua storia, in cui parla di gente ne nunc quidem omni parte pacata  (popolazione non ancora del tutto pacificata). E siamo alla fine del 1° secolo a. c.! Dopo l’arrivo infatti delle legioni romane in Sardegna nel 237 a.c. la resistenza alla dominazione romana sarà lunghissima e dura. E’ lo stesso Livio – insieme ad altri storici – a scandire decine e decine di guerre contro la popolazione sarda da parte dei consoli romani: fin dal 236 un anno dopo la conquista da parte romana del centro sardo-punico della Sardegna, i Romani condussero operazioni contro i Sardi che rifiutavano di sottomettersi. Per continuare nel 235, quando i Sardi si ribellano e vengono repressi nel sangue  da Manlio Torquato, lo stesso console che sarà scelto per combattere Amsicora e che celebrerà il trionfo sui Sardi, il 10 Marzo del 234, come attesteranno i Fasti trionfali capitolini. Nel 233 ulteriori rivolte saranno represse dal Console Carvilio Massimo, che celebrerà il trionfo il Primo Aprile del 233. Nel 232 sarà il console Manio Pomponio a sconfiggere i Sardi e a meritarsi il trionfo celebrandolo il 15 Marzo. Nel 231 vengono addirittura inviati due eserciti consolari, data la grave situazione di pericolo, uno contro i Corsi, comandato da Papirio Masone e uno, guidato da Marco Pomponio Matone, contro i Sardi. I consoli non otterranno il trionfo, a conferma che i risultati per i Romani furono fallimentari. E a poco varrà a Papirio Masone celebrare di sua iniziativa il trionfo negatogli dal senato, sul monte Albano anzichè sul Campidoglio e con una corona di mirto anzichè di alloro. In questa circostanza il console Matone – la testimonianza è sempre dello storico Zonara – chiederà segugi addestrati nella caccia e adatti nella ricerca dell’uomo per scovare i sardi barbaricini che, nascosti in zone scoscese e difficilmente accessibili, infliggevano dure perdite ai Romani.

 

Nel 226 e 225 si verificherà una recrudescenza dei moti, ma ormai – come sottolinea lo storico sardo PietroMeloni (in La Sardegna romana ,Chiarelli editore) Roma è intenzionata fortemente al dominio del Mediterraneo e dunque al possesso della Sardegna che continua ad essere di decisiva importanza e l’Isola unita con la Corsica – come la Sicilia – dopo il 227 ha avuto la forma giuridica di Provincia con l’invio di due pretori per governarla.

 

Ci saranno infatti rivolte ancora nel 181 che nel 178 a.c: gli Iliesi con l’aiuto dei Balari avevano attaccato la Provincia, la zona controllata da Roma e i Romani non potevano opporre resistenza perché le truppe erano colpite da una grave epidemia, forse la malaria.

 

Nel 177 e 176 nuove e potenti sommosse costringeranno il Senato romano ad arruolare sotto il comando del console Tiberio Sempronio Gracco – lo stesso console della conquista romana del 238-237 due legioni di 5.200 fanti ciascuna, più di 300 cavalieri, 10 quinquiremi cui si associeranno altri 12.000 fanti e 600 cavalieri fra alleati e latini.

 

Commenta (in Barbaricini e la Barbagia nella storia della Sardegna)) lo storico sardo Salvatore Merche: La grandezza di questa spedizione militare e lo sgomento prodotto nell’urbe dal solo accenno a una sollevazione dei popoli della montagna, dimostra quanto questi fossero terribili e temuti, anche dalla potenza romana, quando si sollevavano in armi. Evidentemente poi, perdurava in Roma la terribile impressione e i ricordi delle guerre precedenti con i Pelliti di Amsicora e di Iosto, nelle quali i Romani avevano dovuto constatare d’aver combattuto con un popolo d’eroi, disposti a farsi ammazzare ma non a cedere. Altro che Sardi facile vinci!

 

Alla fine dei due anni di guerra – ne furono uccisi 12 mila nel 177 e 15 mila nel 176 nel tempio della Dea Mater Matuta a Roma fu posta dai vincitori questa lapide celebrativa, riportata da Livio: Sotto il comando e gli auspici del console Tiberio Sempronio Gracco la legione e l’esercito del popolo romano sottomisero la Sardegna. In questa Provincia furono uccisi o catturati più di 80.000 nemici. Condotte le cose nel modo più felice per lo Stato romano, liberati gli amici, restaurate le rendite, egli riportò indietro l’esercito sano e salvo e ricco di bottino, per la seconda volta entrò a Roma trionfando. In ricordo di questi avvenimenti ha dedicato questa tavola a Giove.

 

      Gli schiavi condotti a Roma furono così numerosi che “turbarono“  il mercato degli stessi nell’intero mediterraneo, facendo crollare il prezzo tanto da far dire a Livio Sardi venales : da vendere a basso prezzo. 

 

           Ma le rivolte non sono finite neppure dopo il genocidio del 176 da parte di Sempronio Gracco. Altre ne scoppiano nel 163 e 162. Non possediamo informazioni – perché andate perse le Deche di Tito Livio successive al 167 – sappiamo però da altre fonti che le rivolte continueranno: sempre causate dalla fiscalità esosa dei pretori romani e sempre represse brutalmente nel sangue. Così ci saranno ulteriori guerre nel 126 e 122: tanto che l’8 Dicembre di quest’anno viene celebrato a Roma il trionfo ex Sardinia di Lucio Aurelio; nel 115-111, con il trionfo il 15 Luglio di quest’anno di Marco Cecilio Metello ben annotato nei Fasti Trionfali, e infine nel 104 con la vittoria di Tito Albucio, l’ultima ribellione organizzata che le fonti ci tramandano, ma non sicuramente l’ultima resistenza che i Sardi opposero ai Romani.

 

 

 

Ma è Cicerone lo scrittore latino più malevolo nei confronti dei Sardi e della Sardegna, di cui parla soprattutto in  Pro M. Aemilio Scauro oratio.

 

L’orazione, dell’anno 54 a.c. è in difesa di Emilio Scauro ex governatore della Sardegna. Questi è accusato di tre “crimini”: aver avvelenato nel corso di un banchetto Bostare, ricco cittadino di Nora, per impossessarsi del suo patrimonio; aver insistentemente insidiato la moglie di tal Arine, tanto che essa si sarebbe uccisa piuttosto che divenirne l’amante: i due reati (veneficio il primo e intemperanza sessuale il secondo, sottolinea lo storico sardo Raimondo Carta-Raspi (in Storia della Sardegna, Mursia editore) non erano tali da preoccupare un avvocato dell’abilità di Cicerone e infatti egli riuscì a confutare queste accuse volgendole anzi al ridicolo. Insieme a lui difendevano Scauro altri 5 avvocati di grido, tra i quali Ortensio e il tribuno Clodio e ben nove consolari come testimoni – laudatores a difesa dell’imputato, uno era addirittura Pompeo. Oltre agli avvocati infatti l’imputato poteva avvalersi di laudatores appunto, che ne facevano l’apologia con argomenti che talora erano semplici sviluppi di testimonianze in stile ornato.

 

Cicerone sosterrà infatti che Scauro non aveva alcun interesse a fare avvelenare Bostare, perché non era il suo erede e non aveva nessun motivo di odio personale, mentre trova alla madre di quest’ultimo un movente che giustificherebbe l’avvelenamento del figlio; per quanto attiene alla seconda imputazione, sostiene che la moglie di Arine era vecchia e brutta quindi non si vedeva la smania di sedurla da parte di Scauro.

 

Di ben altra importanza era invece il terzo reato addebitato all’ex propretore, accusato di malversazione nella sua amministrazione della Sardegna, con l’esazione di tre decime: oltre a una decima normale e a una seconda straordinaria ma ugualmente legale, Scauro infatti ne impose una terza a suo esclusivo beneficio. Peccato che la confutazione dell’accusa più grave per i romani, quella appunto di aver ordinato le illegali esazioni di frumento, non ci sia pervenuta.

 

Ci è però pervenuta la parte in cui Cicerone si impegna com’è suo stile a lodare la specchiata onestà di Scauro (figlio di Cecilia Metella, moglie di Silla) e a insultare i suoi accusatori. Essi sono venuti dalla Sardegna convinti di intimorire e persuadere con il loro numero, ma non sanno neppure parlare la lingua latina e sono vestiti con le pelli (pelliti testes). 

 

Ma c’è di più: per screditare i 120 testimoni sardi non esita a dipingerli come ladroni con la mastruca (mastrucati latrunculi), inaffidabili e disonesti, la cui vanità è così grande da indurli a credere che la libertà si distingua dalla servitù solo per la possibilità di mentire: la loro inaffidabilità viene da lontano, dalle loro stesse radici che sono rappresentate dai fenici e dai cartaginesi, guarda caso nemici storici dei Romani. Di qui l’accusa più grave e insultante, oggi diremmo “razzistica”: Qua re cum integri nihil fuerit in hac gente piena, quam ualde eam putamus tot transfusionibus coacuisse? (E allora, dal momento che nulla di puro c’è stato in questa gentenemmeno all’o­rigine, quanto dobbiamo pensare che si sia inacetita per tanti travasi?)

 

Proprio per questo motivo l’appellativo afer è più volte usato come equivalente di sardus e l’espressione Africa ipsa parens illa Sardiniae viene adottata dall’oratore romano per affermare che dai fenici sono discesi i Sardi, formati da elementi africani misti, razza che non aveva niente di puro e dopo tante ibridazioni si era ulteriormente guastata, rendendo i sardi ancor più selvaggi e ostili verso Roma tanto che i sardi mescolati con sangue africano non strinsero mai con i Romani rapporti di amicizia né patti d’alleanza e che la Sardegna era l’unica provincia priva di città amiche del popolo romano e libere.

 

A questo proposito però Cicerone innanzitutto dovrebbe mettersi d’accordo con il suo “compare” Tito Livio che nelle sue storie (XXIII,40) ricorda città sarde socie di Roma devastate da Amsicora; in secondo luogo l’oratore romano ignora evidentemente che i Fenici arrivano in Sardegna intorno al IX secolo e che le popolazioni nuragiche nel mediterraneo occidentale erano giunte duemila anni prima della fondazione di Cartagine. Ma si tratta si chiede lo storico Carta-Raspi nell’opera già citata di artificio oratorio o ignoranza?

 

Probabilmente dell’uno e della’altra insieme.

 

Fatto sta che Scauro fu assolto con 62 voti a favore e con soli 8 voti contrari, furono screditati i testimoni sardi, fu infangata la memoria di Bostare e Arine, fu razzisticamente insultato l’intero popolo sardo e la sua “origine”.

 

Scauro fu assolto nonostante le accuse gravissime e  Cicerone considererà questa una delle sue più belle orazioni, tanto che più volte nelle lettere ne cita delle parti con compiacimento. Pare comunque che non sia stata l’orazione di Cicerone ad assolvere Scauro: protetto da Pompeo potè corrompere i giudici che lo mandarono assolto.

 

Ma uno degli accusatori, Publio ValerioTriario, non si dà per vinto e riuscì a fare condannare Scauro costringendolo a prendere la via dell’esilio, in seguito ai brogli che commise nelle elezioni per console, nonostante fosse ancora difeso da Cicerone,

 

E pochi anni dopo, come ricorda nella tragedia Ulisse e Nausica in sa Cost’Ismeralda, (Editziones de Sardigna) il poeta e studioso di cose sarde Aldo Puddu, Cicerone viene decapitato dal centurione di Marc’Antonio mentre cerca di sfuggire alla proscrizione e come estremo sfregio la nobile Fulvia infilza la sua esanime lingua con uno spillo da fermaglio: ut sementem feceris ita metes: mieterai a seconda di ciò che avrai seminato, ipse dixit.

 

Su Cicerone e la sua difesa di Scauro scrive parole molto severe Filippo Vivanet: “Pagato da Emilio Scauro,egli impiegò la sua magnifica quanto venale eloquenza a dipingere coi più neri colori chi voleva colpire onde rinfrancare le parti del suo cliente. La sua foga oratoria non trovò limiti allora nella impudenza e nella falsità delle accuse; i suoi periodi sonanti, la sua parola meravigliosa bastarono a tergere d’ogni imputazione un concussionario esecrato dalla Sardegna, e la posterità senza indagare la giustizia dei suoi giudizi imparava a ripetere per strascico di erudizione una triste calunnia dacché essa era vestita del più sonoro ed abbagliante latino che labbro romano avesse fatto echeggiare dai rostri”.

 

Difficile dare torto a Vivanet.

 

 

 

Lettura: Testo tratto da [PRO M. AEMILIO SCAURO ORATIO di M. Tulli Ciceronis, introduzione, testo critico, traduzione, note a cura di Alfredo Ghiselli, seconda edizione riveduta, Casa editrice Prof. Riccardo Pàtron, Bologna, pagine 82-85]

 

“…At creditum est aliquando Sardis. Et fortasse credetur aliquando, si integri uene­rint, si incorrupti, si sua sponte, si non alicuius impul­su, si soluti, si liberi. Quae si erunt, tamen sibi credi gaudeant et mirentur. Cum uero omnia absint, tamen se non respicient, non gentis suae famam perhorrescent?

 

Fallacissimum genus esse Phoenicum omnia monu­menta uetustatis atque omnes historiae nobis prodi­derunt. Ab his orti Poeni multis Carthaginiensium re­bellionibus, multis uiolatis fractisque foederibus nihil se degenerasse docuerunt. A Poenis admixto Afrorum genere Sardi non deducti in Sardiniam atque ibi consti­tuti, sed amandati et repudiati coloni. Qua re cum integri nihil fuerit in hac gente piena, quam ualde eam putamus tot transfusionibus coacuisse? Hic mihi ignos­cet Cn. Domitius Sincaius, uir ornatissimus, hospes et familiaris meus, ignoscent de(nique omn)es ab eo­dem Cn. Pompeio ciuitate donati, quorum tamen om­nium laudatione utimur, ignoscent alii uiri boni ex Sar­dinia; credo enim esse quosdam. Neque ego, cum de uitiis gentis loquor, neminem excipio; sed a me est de uniuerso genere dicendum, in quo fortasse aliqui suis moribus et humanitate stirpis ipsius et gentis uitia uicerunt. Magnam quidem esse partem sine fide, sine societate et coniunctione nominis nostri re(s) ipsa declarat. Quae est enim praeter Sardiniam prouincia quae nullam habeat amica(m) populo Romano ac libe­ram ciuitatem? Africa ipsa parens illa Sardiniae, quae plurima et acerbissima cum maioribus nostris bella ges­sit, non solum fidelissimis regnis sed etiam in ipsa pro­uincia se a societate Punicorum bellorum Vtica teste defendit. Hispania ulterior Scipionum int(eritu) ***…”.

 

 

 

Traduzione

 

 “…«Qualche volta – si dirà – si è pur voluto credere ai Sardi73 ».E forse qualche altra volta si crederà, se verranno qui da perso­ne oneste, incorrotte, di loro iniziativa, non spinti da qualcuno, indipendenti, liberi. Se così sarà, potrebbero alla fine gioire della nostra fiducia e restarne ammirati. Ma siccome tutto ciò è lungi dall’essere, non vorranno una buona volta rivolgere gli occhi su se stessi, sentire orrore per la cattiva fama della loro gente?

 

La stirpe più falsa è quella dei Fenici: tutti i docu­menti dell’antichità, tutta la storia ce lo tramanda. Di­scesi da questi, i Punici, per le molte insurrezioni dei Cartaginesi, per i patti tante volte violati e infranti, ci hanno mostrato che non sono affatto degeneri. Dai Punici, ai quali si è mescolato un ramo degli Africani, i Sardi non furono regolarmente mandati in Sardegna per fondare città e fissarvisi stabilmente, ma in qualità di coloni relegati ed esiliati. E allora, dal momento che nulla di puro c’è stato in questa gente74 nemmeno all’o­rigine75, quanto dobbiamo pensare che si sia inacetita per tanti travasi?Qui vorrà perdonarmi Gn. Domizio Singaio, persona degnissima, ospite e amico mio; lo vorranno coloro (tutti) che come lui, da Gn. Pompeo so­no stati gratificati della cittadinanza romana, gli elogi unanimi dei quali tornano a nostro favore; vorranno perdonarmi gli altri galantuomini della Sardegna; io cre­do che alcuni ve ne siano. E del resto, quando parlo dei difetti di un popolo, non è già che io non eccettui nes­suno; ma io debbo parlare di una nazione in generale, ed è verosimile che in essa alcuni, in virtù dei loro costu­mi e della loro umanità, siano riusciti a trionfare dei di­fetti della gente e della stessa origine. Ma è evidente che la maggior parte è senza lealtà, senza possibilità di associarsi e di congiungersi col nostro popolo. Quale provincia c’è, eccetto la Sardegna, che non abbia nes­suna città amica del popolo romano e libera76? La stes­sa Africa, la madre della Sardegna, quella che condusse contro i nostri avi moltissime e accanitissime guerre, si è ben guardata dal partecipare, non solo coi regni più fedeli, ma nell’ambito della provincia stessa, alle guerre puniche, e Utica ne è testimone. La Spagna Ul­teriore (alla morte) degli Scipioni ***…”

 

 

 

Note (presenti nel testo)

 

73. tipica occupatio introdotta da at

 

74. Gens ha qui il valore di «popolo barbaro», che ri­corre già in Nevio: cfr. M. BARCHIESI, Nevio epico, Padova 1962 p. 458.

 

75. Plana: la correzione Poena del Francken ha avuto un certo credito, ma Celso I 6 ha uinum plenum, onde plenus viene a quadrare perfettamente con transfusionibus e con coa­cuisse, nella metafora del vino schietto che si fa aceto attra­verso molteplici trasfusioni.

 

76. “Talune città poste fuori dall’Italia «si legarono a Ro­ma con foedera, costituendo quella categoria di alleati che si dissero socii exterarum nationum; altre, pur senza foedus, per atto unilaterale del popolo vincitore furono dichiarate li­berae, conservando così anch’esse la loro autonomia nel diritto privato, nonché le loro magistrature ed assemblee: la qualifica di ciuitates liberae non escludeva che potessero essere obbligate al pagamento di un tributo (ciuitates stipendiariae) ma vi fu­rono ciuitates liberae et immunes (ad es., fra le siciliane, Pa­lermo e Segesta) che dal tributo furono esenti » (ARANGIO-RUIZ, St. del Dir. Rom., p. 115 s.). L’intero territorio della Sardegna era soggetto fin dalla conquista al pagamento della decima e dello stipendium, mentre nessuna città sarda godette di auto­nomia comunale.

 

 

 

*Tratto da Viaggiatori italiani e stranieri in Sardegna di Francesco Casula (di imminente pubblicazione)

 

 

 

 

 

 

 

Garibaldi

SI PUO’ PARLAR MALE DI GARIBALDI?                                     

di Francesco Casula

Di Garibaldi non si può che parlar bene. Egli è l’eroe e il combattente della libertà, in Italia ma anche in Francia e in Sudamerica. E’ il protagonista nella lotta per il suffragio universale, per l’emancipazione femminile, per la diffusione dell’istruzione obbligatoria, laica e gratuita. Bene.

Ma facciamo qualche passo indietro: durante il “ventennio” Garibaldi fu santificato ed eletto “naturalmente” come padre putativo di Mussolini e del regime e dunque fu “fascista”. Come fu santificato il Risorgimento, cui il Fascismo si collegava strettamente perché visto “come il periodo di maturazione del senso dello Stato, uno Stato forte, realtà <etica> e non naturale, che subordina a sé ogni esistenza e interesse individuale”.

Dopo il fascismo, nel ’48, alle elezioni politiche, la sua icona fu scelta come simbolo elettorale  del Fronte popolare e dunque divenne socialcomunista. Negli anni ‘80 fu osannato da Spadolini –e dunque divenne repubblicano– “come il generale vittorioso, l‘eroico comandante, l’ammiraglio delle flotte corsare e l’interprete di un movimento di liberazione e di redenzione per i popoli oppressi”. Ma soprattutto  fu celebrato da Craxi – e dunque divenne socialista – “come il difensore della libertà e dell’emancipazione sociale che univa l’amore per la nazione con l’internazionalismo in difesa di tutti i popoli e di tutte le nazioni offese”. Infine fu persino rivendicato da Piccoli che lo fece dunque diventare  democristiano.

 Ecco, è proprio questo unanimismo, questa unione sacra –fra destra, sinistra e centro-  intorno a Garibaldi, al Risorgimento e ai suoi personaggi simbolo, che non convince. E’ questa  intercambiabilità ideologica dei suoi “eroi” che rende sospetti. E non basta sostenere, come già fece ben cento anni fa l’allora sindaco di Roma, Ernesto Nathan, in occasione del centenario, che occorreva sottrarre Garibaldi “a ogni incameramento negli angusti confini di persone, di partiti o di scuole”.

Quello che occorre è invece iniziare a fare le bucce al Risorgimento, sottoponendo a critica rigorosa e puntuale  tutta la pubblicistica tradizionale – ad iniziare dunque dai testi di storia – intorno a Garibaldi, come a Mazzini- per liquidare una buona volta la retorica celebrativa del Risorgimento. Per ristabilire, con un minimo di decenza un pò di verità storica occorrerebbe infatti, messa da parte l’agiografia patriottarda, andare a spulciare fatti ed episodi che hanno contrassegnato, corposamente e non episodicamente, il Risorgimento e Garibaldi stesso: Bronte e Francavilla per esempio. Che non sono, si badi bene, episodi né atipici né unici né lacerazioni fuggevoli di un processo più avanzato. Ebbene, a Bronte come a Francavilla vi fu un massacro, fu condotta una dura e spietata repressione nei confronti di contadini e artigiani, rei di aver creduto agli Editti Garibaldini del 17 Maggio e del 2 Giugno 1860 che avevano decretato la restituzione delle terre demaniali usurpate dai baroni, a chi avesse combattuto per l’Unità d’Italia. Così le carceri di Franceschiello, appena svuotate, si riempirono in breve e assai più di prima. La grande speranza meridionale ottocentesca, quella di avere da parte dei contadini una porzione di terra, fu soffocata nel sangue e nella galera. E la loro atavica, antica e spaventosa miseria continuò. Anzi: aumentò a dismisura. I mille andarono nel Sud semplicemente per “traslocare”, manu militari, il popolo meridionale dai Borboni ai Piemontesi. Altro che liberazione!

Così l’Unità d’Italia si risolverà sostanzialmente nella piemontesizzazione” della Penisola e fu realizzata dalla Casa Savoia, dai suoi Ministri –da Cavour in primis- dal suo esercito in combutta con gli interessi degli industriali del Nord e degli agrari del Sud -il blocco storico gramsciano– contro gli interessi del Meridione e delle Isole e a favore del Nord; contro gli interessi del popolo, segnatamente del popolo-contadino del Sud;  contro i paesi e a vantaggio delle città, contro l’agricoltura e a favore dell’industria.

   C’è di più: si realizzerà un’unità centralista e accentrata, tutta giocata contro gli interessi delle periferie e delle mille città e paesi che storicamente avevano fatto la storia e la civiltà italiana. E a dispetto della gran parte degli intellettuali che erano allora federalisti e non unitaristi.

AMSICORA

 

LA FIGURA DI AMSICORA

 

di Francesco Casula .

 

La fonte fondamentale della storia e della figura di Amsicora, è costituita in buona sostanza dall’opera dello storico romano “Ab urbe condida, XXIII, 40”.

 

Ebbene il più grande latinista italiano, Ettore Paratore, nella sua monumentale <Storia della Letteratura latina> (1) scrive, in modo impietoso, che “chi volesse farsi un’idea precisa delle campagne militari romane attraverso Livio, finirebbe per non capire nulla”. Perché?

 

Perché Livio intende la storia come diletto e ammaestramento che lo portano ad alterare le vicende storiche: di qui –per esempio- il prevalere degli interessi letterari e morali su quelli storici, soprattutto nella narrazione del periodo più arcaico.

 

Livio è persuaso che quella di Roma fosse una storia provvidenziale, una specie di <storia sacra>, quella del popolo eletto dagli dei.

 

Deriva da questa convinzione la più attenta cura a far risaltare tutti gli atti e tutte le circostanze in cui la virtus romana abbia rifulso. Tutto ciò è chiaramente adombrato anche nel proemio dell’opera “Ab urbe condita” dove si insiste sul carattere tutto speciale del dominio romano, provvidenziale e benefico anche per i popoli soggetti: “Se a qualche popolo è opportuno permettere che circondi le proprie origini col fascino della sacralità e le attribuisca agli dei, è anche da rilevare che la maggior gloria del popolo romano in guerra è che, sebbene esso vanti particolarmente Marte come primogenitore suo e del suo fondatore Romolo, le nazioni della terra sopportino questo vanto con la medesima buona disposizione con cui si assoggettano al suo dominio”.

 

Di qui l’impegno politico che porta Livio ad esaltare i grandi valori etici, religiosi e patriottici dell’antica Roma sulla base del “Tu regere imperio populos, Romane, memento” (Ricordati, Romano, che tu devi dominare gli altri popoli) e del “Parcere subiectis et debellare superbis” (Occorre perdonare chi si sottomette e distruggere chi osa resistere).

 

Livio scrive dunque una storia “ideologica”, senza alcun rigore storico, con svarioni colossali e immani contraddizioni: Eccone alcune:

 

1) Iosto, figlio di Amsicora, mentre il padre si trovava presso i Sardi Pelliti, preso dalla baldanza giovanile avrebbe attaccato sconsideratamente i Romani e sarebbe stato sconfitto e ucciso,volto in fuga l’esercito dei Sardi con 3.000 morti e 1.300 prigionieri.

 

Dopo tale colossale disfatta inflitta ai Sardi il console Tito Manlio Torquato invece di inseguire il resto dell’esercito e occupare Cornus – aveva ben quattro legioni! – volge le spalle al nemico e si trincera a Cagliari. A questo proposito c’è da chiedersi – come si domanda il Carta Raspi (2) in <Storia della Sardegna>: “Perchè Manlio non attacca i Cartaginesi che sbarcavano non lontano dagli accampamenti romani con circa 10.000 fanti e alcune centinaia di cavalieri mentre il console romano aveva il doppio di effettivi 22.000 fanti e 1.200 cavalieri?”

 

2) Nella seconda battaglia, svoltasi pare, nei pressi di Assemini, dopo la morte di Iosto, i Sardi e i Cartaginesi ebbero 12.000 morti, persero 27 insegne e circa 3.700 prigionieri.

 

Sempre, naturalmente secondo Livio o meglio – in questo caso – secondo Valerio Anziate, (3) da cui pare, abbia attinto i dati. E Amsicora, quando seppe della morte del figlio si sarebbe ucciso.

 

Dopo tale vittoria Manlio Torquato – che a parere di Teodor Mommsen (4) in < Storia di Roma antica>: “ distrusse interamente l’esercito sbarcato dei Cartaginesi e conservò di nuovo ai Romani l’incontrastato possesso dell’Isola – trionfante, parte per Roma a portarvi il lieto annuncio della Sardegna “ vinta e domata per sempre”.

 

Dopo poco più di 30 anni – è lo stesso Livio a dircelo – questa Sardegna vinta e domata per sempre insorge di nuovo: “ In Sardinia magnum tumultum esse cognitum est….Ilienses adiunctis Balanorum auxiliis pacatam provinciam invaserant…”.

 

Evidentemente era stata “conquistata ma non convinta nè domata” – intendendo per Sardegna, la regione della montagna, “perché questa fu la ribelle…con i fierissimi Iliesi e Balari” almeno secondo Salvatore Merche,(5) storico sardo dell’inizio del ‘900.

 

Ci saranno infatti rivolte sia nel 181 che nel 178 a.c: gli Iliesi con l’aiuto dei Balari avevano attaccato la Provincia, la zona controllata da Roma e i Romani non potevano opporre resistenza perchè le truppe erano colpite da una grave epidemia, forse la malaria.

 

Nel 177 e 176 nuove e potenti sommosse costringeranno il Senato romano ad arruolare sotto il comando del console Tiberio Sempronio Gracco – lo stesso console della conquista romana del 238-237 – due legioni di 5.200 fanti ciascuna, più di 300 cavalieri, 10 quinquiremi cui si associeranno altri 12.000 fanti e 600 cavalieri fra alleati e latini.

 

Commenta Salvatore Merche nell’opera citata (6): “La grandezza di questa spedizione militare e lo sgomento prodotto nell’urbe dal solo accenno a una sollevazione dei popoli della montagna, dimostra quanto questi fossero terribili e temuti, anche dalla potenza romana, quando si sollevavano in armi. Evidentemente poi, perdurava in Roma la terribile impressione e i ricordi delle guerre precedenti con i Pelliti di Amsicora e di Iosto, nelle quali i Romani avevano dovuto constatare d’aver combattuto con un popolo d’eroi, disposti a farsi ammazzare ma non a cedere”.

 

Alla fine dei due anni di guerra – ne furono uccisi 12 mila nel 177 e 15 mila nel 176- nel tempio della Dea Mater Matuta a Roma fu posta dai vincitori questa lapide celebrativa, riportata da Livio: “Sotto il comando e gli auspici del console Tiberio Sempronio Gracco la legione e l’esercito del popolo romano sottomisero la Sardegna. In questa Provincia furono uccisi o catturati più di 80.000 nemici. Condotte le cose nel modo più felice per lo Stato romano, liberati gli amici, restaurate le rendite, egli riportò indietro l’esercito sano e salvo e ricco di bottino, per la seconda volta entrò a Roma trionfando. In ricordo di questi avvenimenti ha dedicato questa tavola a Giove”.

 

Gli schiavi condotti a Roma furono così numerosi che “turbarono“ il mercato degli stessi nell’intero mediterraneo, facendo crollare il prezzo tanto da far dire a Livio “Sardi venales “: da vendere a basso prezzo.

 

   Ma le rivolte non sono finite neppure dopo il genocidio del 176 da parte di Sempronio Gracco. Altre ne scoppiano nel 163 e 162. Non possediamo – perchè andate perse le Deche di Tito Livio successive al 167 – sappiamo però da altre fonti che le rivolte continueranno: sempre causate dalla fiscalità esosa dei pretori romani e sempre represse brutalmente nel sangue. Così ci saranno ulteriori guerre nel 126 e 122: tanto che l’8 Dicembre di quest’anno viene celebrato a Roma il trionfo “ex Sardinia“ di Lucio Aurelio; nel 115-111, con il trionfo il 15 Luglio di quest’anno di Marco Cecilio Metello ben annotato nei Fasti Trionfali, e infine nel 104 con la vittoria di Tito Albucio, l’ultima ribellione organizzata che le fonti ci tramandano, ma non sicuramente l’ultima resistenza che i Sardi opposero ai Romani.

 

Lo stesso Livio, che scriveva alla fine del I secolo a.c., affermerà – soprattutto a proposito degli Iliesi – che si tratta di “gente ne nunc quidem omni parte pacata “. Il che trova conferma in un passo di Diodoro Siculo (7), da riportarsi a questo stesso periodo, secondo il quale gli abitanti delle zone montuose sarde, ai suoi tempi :”Ancora hanno mantenuto la libertà”.

 

Altro che Sardegna pacificata o Sardi “avvezzi ad essere battuti facilmente”! (facile vinci) come sostiene Livio e di cui ora parlerò.

 

3) I Sardi dunque – secondo Livio – erano avvezzi ad essere facilmente battuti. Ma come fa a sostenere ciò? A parte quanto succederà dopo il 215 – e che ho testè documentato – non conosce forse lo storico romano quanto è successo prima, dal 238 almeno?

 

Fin dal 236 infatti, due anni dopo la conquista da parte romana del centro sardo-punico della Sardegna, i Romani – come annota brevemente Giovanni Zonara (8), risalendo a Dione Cassio (9) – condussero operazioni contro i Sardi che rifiutavano di sottomettersi.

 

Nel 235, sobillati –a parere di Zonara– dai Cartaginesi che “agivano segretamente“ i Sardi si ribellano e vengono repressi nel sangue da Manlio Torquato – lo stesso console che sarà scelto per combattere Amsicora – che celebrerà il trionfo sui Sardi, il 10 Marzo del 234, come attesteranno i Fasti trionfali capitolini.

 

Nel 233 ulteriori rivolte saranno represse dal Console Carvilio Massimo, che celebrerà il trionfo il Primo Aprile del 233.

 

Nel 232 sarà il console Manio Pomponioa sconfiggere i Sardi e a meritarsi il trionfocelebrandolo il 15 Marzo.

 

Nel 231 vengono addirittura inviati due eserciti consolari, data la grave situazione di pericolo, uno contro i Corsi, comandato da Papirio Masone e uno, guidato da Marco Pomponio Matone, contro i Sardi. I consoli non otterranno il trionfo, a conferma che i risultati per i Romani furono fallimentari. E a poco varrà a Papirio Masone celebrare di sua iniziativa il trionfo negatogli dal senato, sul monte Albano anzichè sul Campidoglio e con una corona di mirto anzichè di alloro. In questa circostanza il console Matone –la testimonianza è sempre di Zonara– chiederà segugi addestrati nella caccia e adatti nella ricerca dell’uomo per scovare i sardi barbaricini che, nascosti in zone scoscese e difficilmente accessibili, infliggevano dure perdite ai Romani.

 

Nel 226 e 225 si verificherà una recrudescenza dei moti, ma ormai – come sottolinea Piero Meloni (10) “ Roma è intenzionata fortemente al dominio del Mediterraneo e dunque al possesso della Sardegna che continua ad essere di decisiva importanza” e l’Isola unita con la Corsica – come la Sicilia – dopo il 227 ha avuto la forma giuridica di Provincia con l’invio di due pretori per governarla.

 

4) Livio parla di “Sociorum populi romani“ (alleati di Roma) e in un’altro passo di “Comunità sarde, amiche di Roma che contribuirono <benigne> con tributi e con la decima, visto che non si poteva pagare il soldo ai militari nè distribuire viveri”. Ma a chi allude? Ma non è lui stesso, in altri passi delle sue “Storie“ a sostenere che le popolazioni vennero multate per aver partecipato al conflitto? Obbligate a pagare gravi tributi in denaro e frumento? E non in base alle possibilità contributive ma semplicemente per aver partecipato alla rivolta a fianco di Iosto e Amsicora? La verità è che in Sardegna non esistevano popolazioni amiche dei Romani: del resto è lo stesso Cicerone (11)a confermarlo nell’Orazione “Pro Scauro“ in cui afferma che non vi era fino a quel tempo <215> in Sardegna neppure una città amica dei Romani:” …quae est enim praeter Sardiniam provinciam, quae nullam habeat amicam populo romano ac liberam civitatem?

 

5) Livio parla di Iosto ucciso in battaglia, Silio Italico (12) scrive che fu ucciso dal poeta latino Ennio (13). Questi nella sua opera “ Annales “ non fa cenno di questo episodio.

 

6) Livio scrive di Amsicora come di un sardo-cartaginese per i suoi interessi di grande latifondista, integrato nell’aristocrazia punicizzata. Insomma una sorta di ascaro. Ma come spiegare in questo caso la sua “auctoritate“, il suo prestigio persino presso le popolazioni delle tribù nuragiche dell’interno, tanto da recarsi presso di loro per chiedere e sollecitare il loro aiuto nella guerra contro Roma? Non si tratta forse degli stessi sardi che intorno alla metà del VI secolo avevano lanciato una grande offensiva contro i Cartaginesi, fino a distruggere la fortezza di Monte Sirai?

E allora?

Allora bisogna concludere che la versione Liviana non è assolutamente credibile e la storia di Amsicora occorre riscriverla, partendo a mio parere da un’ipotesi fondamentale: che esso era non solo un sardo verace ma addirittura un barbaricino, come ci testimonia Silio Italico secondo cui Amsicora si gloriava di essere iliense, discendente dei coloni venuti da Troia e quindi un montanaro del più nobile sangue e assai coraggioso e fiero.Versione questa di Silio Italico, fatta propria da uno storico sardo del 1600, Giovanni Proto Arca di Bitti (14) che chiama Amsicora “dux barbaricinorum”: “erat dux Barbaricinorum Hampsagoras et eius filius Oscus”.

 

Del resto, Amsicora, fin dal tempo di Cicerone non è stato sempre raffigurato con tanto di barba, pugnale e mastruca, tipico dei Sardi Pelliti?

 

Ed è un caso che nell’immaginario collettivo, soprattutto degli artisti e dei poeti Sardi, venga considerato come un eroe sardo che difende la Sardegna contro il romano invasore e non un ascaro? Si tratta solo di fantasie e sogni?

 

Può darsi.

 

Ma forse che l’Amsicora liviano non è ugualmente costruito e disegnato sulle fantasie dello storico latino tutto proteso a magnificare la stirpe romana, piegando a tale filosofia dati, date e avvenimenti come ormai ci risulta con certezza?

 

Riferimenti bibliografici

 

1) Ettore Paratore, Storia della Letteratura latina, Sansoni editore, pag.455

 

2) Raimondo Carta-Raspi, Storia della Sardegna, ed. Mursia, pag.212.3) Valerio Anziate, storiografo romano vissuto nell’Età di Silla (1° secolo a.c.) Scrisse 75 libri di “Annales”, quasi completamente perduti. Godeva già presso gli storici antichi e ancor più ne gode oggi presso gli storici moderni fama di grande falsario o comunque di faciloneria, mancanza di scrupoli ed esagerazioni.

 

4) Theodor Mommsen, Storia di Roma antica, vol.I, tomo I, pag.143.

 

5) Salvatore Merche, Barbaricini e la Barbagia nella storia della Sardegna pag.26 segg.

 

6) Salvatore Merche,op. cit. pag. 28.7) Diodoro Siculo (90 a.c.- 20 d.c.) Vive ai tempi di Cesare e nei primi anni di Augusto. Storico greco scrive in 40 libri la “Biblioteca storica”.

 

8) Giovanni Zonara (1080-1118) storico e scrittore ecclesiastico bizantino, autore di un’opera “Epitome storica” che tratta dalle Origini alla morte di Alessio Commeno.

 

9) Dione Cassio, storico greco. Autore di “La storia di Roma” dalle origini al 229 d.c. in 80 libri.

 

10) Piero Meloni, “La Sardegna romana”, Chiarelli editore.

 

11) Cicerone (106-43 a.c.) Parla della Sardegna – sempre in termini dispregiativi – in più opere, fra l’altro nell’orazione “ Pro Scauro”. Diventerà per altri scrittori e storici che parleranno successivamente della Sardegna, la principale fonte.

 

12) Silio Italico, (25-101 d.c.) Poeta latino. La sua opera principale è il poema epico “Punica” in 17 libri e 12.200 versi.Tratta della 2° Guerra Punica: dall’assedio di Sagunto fino a Zama. Fu lui che attribuì al poeta Ennio la morte in duello di Iosto, il figlio di Amsicora.

 

13) Ennio (239-169 a.c.) poeta latino, autore degli “ Annales”, poema epico in 18 libri e in 30.0 00 versi, per la gran parte andati persi in cui celebra la Storia di Roma dalle Origini ai suoi giorni, ispirati ad entusiastica ammirazione per l’espansionismo romano, tanto da essere ammiratissimo da Cicerone.

 

14) G. Proto Arca, “Barbaricinorum libri”, Ed. Sarda Fossataro

 

 

 

Questo breve saggio storico è stato pubblicato nella Rivista “L’Obiettivo” ed è la base su cui è stato costruito la monografia in lingua sarda della Collana “Omines e feminas de gabbale”:

 

Amsicora, Frantziscu Casula-Amos Cardia (Alfa editrice, Quartu, 2007)

 

Ora anche in Italiano, inserita nel volume (pagine 9-30):

 

Uomini e donne di Sardegna, Francesco Casula, 2° Edizione, Alfa editrice, Quartu, 2010)

 

 

 

Grazia Deledda

 

Il 15 agosto scorso ricorreva il 77° anniversario della morte di Grazia Deledda

1. Grazia Deledda e il suo linguaggio*.

Per comprendere bene la lingua che utilizza la Deledda nei suoi scritti occorre partire da questa premessa: La lingua sarda non è un dialetto italiano –come purtoppo ancora molti affermano e pensano, in genere per ignoranza- ma una vera e propria lingua. Noi sardi dunque, siamo bilingui perché parliamo contemporaneamente il Sardo e l’Italiano. Anche la Deledda era bilingue. Era una parlante sarda e i suoi testi in Italiano rispecchiano, quale più quale meno le strutture linguistiche del sardo, non tanto o non solo in senso tecnico quanto nei contenuti valoriali, nei giudizi, nei significati esistenziali, nelle struttura di senso inespresse ma presenti nel corso della narrazione.

A parere di uno dei più grandi linguisti sardi, Massimo Pittau, la povertà nel lessico italiano della Deledda, è determinato da un fatto psichico: la paura di sbagliare. Dunque noi bsardi non adoperiamo –come la Deledda- mai vocaboli come: arena, brocca, chicchera, fontana, padella, pigliare, rammentare, tappo, tornare etc. etc. perché pensiamo che siano altrettanti “sardismi”, quando invece non lo sono e utilizziamo solo sinonimi: sabbia, anfora, tazzina, fonte, pentola prendere, ricordare, turacciolo, restituire etc.etc.

Per colpa di questa paura –almeno, ripeto, a parere di Pittau- il lessico degli scrittori sardi come la Deledda, risulta impoverito, soprattutto nei suoi scritti giovanili, perché in quelli della maturità risulta più ricco.

L’altro elemento che occorre ricordare è che il più delle volte la Deledda –ma succede anche a molti sardi, pure grandi scrittori- pensa in sardo e traduce meccanicamente in italiano, soprattutto “nel parlare dialogico” –è sempre Pittau a sostenerlo e io sono d’accordo_ come in :”Venuto sei? –che traduce il sardo:Bennidu ses?; o “Trovato fatto l’hai?-Accatadu fattu l’as?: o ancora “A Luigi visto l’hai? –A Luisu bidu l’as?; o “Quando è così, andiamo –Cando est gai, andamus.

Gli scritti della Deledda sono zeppi di queste frasi.

Infine vi sono innumerevoli vocaboli tipicamente sardi e solamente sardi che Deledda inserisce nelle sue opere quando attengono all’ambiente sardo: pensiamo a tanca (terreno di campagna chiuso da un recinto fatto in genere di sassi), socronza- usatissima in Elias Portolu (consuocera), corbula (cesta), bertula (bisaccia), tasca (tascapane), leppa (coltello a serramanico), leonedda /zufolo), cumbessias o muristenes (stanzette tipiche delle chiese di campagna un tempo utilizzate per chi dormiva là per le novene della Madonna o di Santi), domos de janas (tombe rupestri e letteralmente “case delle fate”).

Vi sono inoltre intere frasi in sardo come: frate meu (fratello mio), Santu Franziscu bellu (San Francesco bello), su bellu mannu (il bellissimo, letteralmente il bello grande), su cusinu mizadu (il borghese con calze), a ti paret? (ti sembra?), corfu ‘e mazza a conca (colpo di mazza in testa), ancu non ch’essas prus (che tu non ne esca più :è un’imprecazione).

Per non parlare dei nomi che risultano tronchi nella sillaba finale quando è  “complemento vocativo”, tipico modo di dire sardo ma soprattutto nuorese e barbaricino: Antò (Antonio), Colù (Colomba), Zosè= Zoseppe (Giuseppe), Zuamprè=Zuampredu (Giampietro), pride Defrà= pride Defraia (prete Defraia).

Qualche volta Deledda ricorre a frasi italiane storpiate in sardo o frasi sarde storpiate in italiano, quelle minsomma che noi barba ricini chiamiamo italiano “porcheddino”: ”Come ho ammaccato questo cristiano così ammaccherò te (…) Avete compriso?”.

Pro finire ricordo anche che la Deledda traduce vocaboli sardi o espressioni tipicamente sarde, quando non mesiste il corrispondente in italiano: Perdonate= perdonae in nugoresu (voce verbale con cui ci si scusa con un accattone quando non gli si può o non gli si vuole fare l’elemosina); botteghiere= buttegheri in nugoresu (invece di bottegaio); male donne= malas feminas in nugoresu (invece di donnacce); maestra di parto= mastra ‘e partu in nugoresu (invece di levatrice); maestro di muri, maestro di legno, maestro di ferro= mastru ‘e muru, mastru ‘e linna, mastru ‘e ferru (invece di muratore, falegname, fabbro)

Occorre però chiarire che i sardismi linguistici della Deledda non derivano dalla sua incapacità di utilizzare correttamente la lingua italiana ma da una scelta voluta e consapevole.

L’influsso della Sardegna e della lingua sarda nelle opere della Deledda non riguarda solo le forme sintattiche o il lessico ma anche –per non dire principalmente- le tematiche, i costumi, le immagini, i detti, i proverbi: per dirlo con una sola parola: l’intera civiltà sarda.

Ma sui “Sardismi” della Deledda ecco cosa scrive una critica sarda, Paola Pittalis [in Il ritorno alla Deledda, <Ichnusa>, rivista della Sardegna, anno 5, n.1 Luglio-Dicembre 1986, pag.81]: “La Deledda utilizza costantemente “Zio” –e più spesso ziu– per indicare “signore”. Si tratta di uno dei tanti “sardismi” presenti nella sua opera insieme a numerosi vocaboli tipicamente ed esclusivamente sardi (socronza:consuecera; bertula:bisaccia, leppa:coltello); o a calchi sintattici (come venuto sei? Traduzione letterale del sardo bennidu ses?).

L’uso dei “sardismi” linguistici da parte della Deledda anche nelle opere della maturità –è il caso di Elias Portolu– è consapevole e voluto. Rappresenta anzi una chiara e decisa scelta di linguaggio letterario, di canone stilistico e fa parte del suo essere “bilingue”. Ciò non significa che in questa scelta non sia stata condizionata da fenomeni letterari e culturali esterni, -come il verismo- che prevedevano la raffigurazione oggettiva della realtà da parte dello scrittore che doveva riportare fedelmente il linguaggio popolare e “dialettale” dei personaggi.

A questo proposito occorre secondo molti critici liquidare risolutamente il luogo comune della “cattiva lingua” e della “mancanza di stile” appoggiato alla valutazione di intellettuali di prestigio da Dessì (le “sgrammaticature” di Deledda) a Cecchi (la sua lingua “spampanata”). Si tratta invece –secondo Paola Pitzalis- “di forme nate dall’incontro fra dialetto e italiano nel momento di formazione delle varietà designate oggi come <italiani regionali>. L’uso di vocaboli dialettali, sardismi sintattici e atti linguistici frequenti in Sardegna è intenzionale, tanto è vero che scompaiono quando l’interesse di Deledda si sposta dal romanzo <verista> e <regionale> al romanzo <psicologico> e <simbolico> (dopo il 1920). La sintassi prevalentemente paratattica, non equivale alla mancanza di stile; deriva dal trasferimento nella scrittura di modalità anche linguistiche di costruzione del racconto orale (è questo un percorso suggestivo sul quale da tempo lavora con esiti personali Sole). Ed è il contributo modernizzante di Deledda allo snellimento della lingua letteraria italiana costruita sul modello della frase manzoniana…” [Paola Pittalis, Il ritorno alla Deledda, <Ichnusa>, rivista della Sardegna, anno 5, n.1 Luglio-Dicembre 1986, pag.81].

 

2. Una poesia di Deledda in lingua sarda. 

Massimo Pittau, -che ho già nominato parlando del linguaggio della Deledda- il  19-2-1993 ha ritrovato una sua poesiola in lingua sarda. E’ lui stesso a riferirci come l’la “scoperta”: “Ebbene, uno di questi librai, sotto la firma di LIM Antiquaria sas – Studio Bibliografico, via di Arsina 216/A, 55100 Lucca, nel suo catalogo 35 intitolato “Autografi”, pagg. 25, 26, mette in vendita un autografo di Grazia Deledda ventunenne, che riporta una poesiola scritta in lingua sarda, ma con la traduzione italiana, intitolata “America e Sardigna”. Io ritengo che si tratti di un componimento inedito e per questo mi piace darne comunicazione con questo mio breve scritto”.

 

La poesia s’intitola

America e Sardigna

– O limbazu chi ammentas su romanu

durche faeddu de sa patria mea,

tristu comente cantu ‘e filumena

chi in sas rosas si dormit a manzanu,

– cola su mare, e cando in sa fiorida

America nche ses a tottus nara

chi s’isula ‘e Sardigna isettat galu

de esser iscoperta e connoschida…

 

Certo, scrive Pittau, è una poesiola di poco valore poetico, però è importante perché segna l’attività letteraria della scrittrice sarda ma soprattutto è un documento da cui si evince  il desiderio e l’apirazione della poetessa nuorese a far conoscere la Sardegna che aspettava, ai suoi tempi, e ancora aspetta, di essere scoperta e conosciuta.

 

*Tratto da Uomini e donne di Sardegna, di Francesco Casula, Alfa editrice, Quartu Sant’Elena, seconda edizione, 2010. (pagg.133-135)

Nanneddu meu di Peppino Mereu

 

 

PEPPINO MEREU

Il poeta “maledetto”, il poeta socialista (1872-1901)

Nasce a Tonara (Nuoro) il 14 Gennaio 1872. Il padre, medico condotto del paese muore accidentalmente nel 1889 bevendo del veleno che aveva scambiato per liquore. Interrompe gli studi dopo la terza elementare –a Tonara non esistevano altre scuole e per proseguire gli studi avrebbe dovuto recarsi fuori dal paese- e diventa sostanzialmente un autodidatta: non si spiega diversamente la sua conoscenza del latino e della mitologia classica cui fa riferimento in alcune sue poesie.

Da giovanissimo inizia a cantare e a scrivere poesie frequentando i poeti tonaresi più noti: Bachis Sulis e altri. A 19 anni e precisamente il 7 Aprile 1891 si arruola volontario carabiniere: durante i cinque anni della vita militare in vari paesi dell’Isola, visse fra Nuoro e Cagliari, Osilo, Sassari, –i cui nomi figurano nelle date di alcune poesie-  dove conosce alcuni poeti sardi. Canta le sue poesie nelle feste e nelle sagre paesane dimostrando grandi capacità poetiche e di improvvisazione. Questi anni (1891-1895) segnano profondamente la sua formazione: prende coscienza delle ingiustizie e degli abusi di potere, tipici del sistema militare. Di qui la sua critica spietata al ruolo dei carabinieri, che invece di essere difensori della giustizia sono spesso alleati degli stessi trasgressori della legge. Significativi a questo proposito i versi diventati a livello popolare famosissimi, soprattutto nel Nuorese: Deo no isco sos carabinerisi/in logu nostru proite bi suni/e non arrestan sos bangarutteris. (Io non capisco perché/da noi ci sono i carabinieri/e non arrestano i bancarottieri).

Proprio in questi anni prende consapevolezza dei problemi socio-economici-culturali della Sardegna e aderisce alle idee socialiste del tempo, un socialismo utopistico in cui il poeta individua la soluzione per i problemi delle classi lavoratrici e oppresse. Idee e valori socialisti che Mereu  diffonde affidandosi alle sue poesie per sostenere con nettezza, prima di tutto la libertà e l’uguaglianza: Senza distinziones curiales/devimus esser, fizos de un’insigna/liberos, rispettados, uguales (Senza distinzioni curiali/ dobbiamo essere figli di una stessa bandiera/:liberi, uguali, rispettati). Per continuare con la rivendicazione del suffragio elettorale che i Socialisti propugnavano con forza e che il poeta di Tonara così canterà, -proprio nel 1892, anno della nascita del Partito socialista- Si s’avverat cuddu terremotu/su chi Giacu Siotto est preighende/puru sa poveres’ hat haer votu/happ’a bider dolentes esclamende/<mea culpa> sos viles prinzipales/palattos e terrinos dividende/. (Se si avvera quel terremoto/per cui sta pregando Giago Siotto/che anche i poveri potranno votare/potrò vedere, addolorati, gridare/<mea culpa>i vili printzipali/a dividere palazzi e terreni/).

Oltre a denunciare le ingiustizie sociali e i soprusi subiti dal popolo -che in A Genesio Lamberti, invita alla ribellione- Mereu mette a nudo la “colonizzazione” operata dal regno piemontese e dai continentali, cui è sottoposta la Sardegna: Sos vandalos chi cun briga e cuntierra/benint dae lontanu a si partire/sos fruttos da chi si brujant sa terra, (I vandali con liti e contese/ vengono da lontano/a spartirsi i frutti/dopo aver bruciato la terra). E ancora: Vile su chi sas jannas hat apertu/a s’istranzu pro benner cun sa serra/a fagher de custu logu unu desertu (Vile chi ha aperto la porta al forestiero /perché venisse con la sega/e facesse di questo posto un deserto).

Il poeta il 6 Dicembre 1895 per motivi di salute viene congedato: ritorna così a Tonara. La sua produzione poetica se da una parte è pervasa da motivi melanconici, dall’altra accentua la critica ai rappresentanti della Chiesa e del potere locale; se da una parte srotola poesie “della morte”, dall’altra dipana componimenti scherzosi e allegri, brevi ritratti schizzati in punta di penna di figure e fatti di paese, irridente e maledicente come quando in Su Testamentu, sentendo ormai prossima la morte, nel confessarsi accusa e maledice, cantando con tutta l’amarezza di un cuore esacerbato, che raggiunge toni epici di violenza espressiva: pro ch’imbolare unu frastimu ebbia/a chie m’hat causadu custa rutta/vivat chent’annos ma paralizzadu/dae male caducu e dae gutta (per lanciare una sola maledizione/colui che è stato causa di questa mia disgrazia/viva cent’anni ma paralizzato/dall’epilessia e dalla gotta).

Consumato dalla tisi, che candela de chera (come una candela di cera) muore l’11 marzo 1901 a soli 29 anni.

A NANNI SULIS

 1.

NANNEDDU meu,

su mund’est gai,

a sicut erat1

non torrat mai.

2.

Semus in tempos

de tirannias,

infamidades

e carestias.

3.

Como sos populos

cascant che cane,

gridende forte

«Cherimus pane».

4.

Famidos, nois

semus pappande

pane e castanza,

terra cun lande.

5.

Terra c’a fangu

Torrat su poveru

senz’alimentu,

senza ricoveru.

6.

B’est sa fillossera2,

impostas, tinzas,

chi non distruint

campos e binzas

7. .

Undas chi falant

in Campidanu

trazan3 tesoros

a s’oceanu.

8.

Cixerr’in Uda,

Sumasu, Assemene,

domos e binzas

torrant a tremene.

9.

E non est semper

ch’in iras malas

intrat in cheja

Dionis’Iscalas.

10.

Terra si pappat,

pro cumpanaticu

bi sunt sas ratas

de su focaticu.

11.

Cuddas banderas

numeru trinta,

de binu onu,

mudad’hant tinta.

12.

Appenas mortas

cussas banderas

non piùs s’osservant

imbreagheras.

13.

Amig’ a tottus

fit su Milesu,

como lu timent,

che passant tesu.

14.

Santulussurzu

cun Solarussa

non sunt amigos

piùs de sa bussa.

15.

Semus sididos

in sas funtanas,

pretende sabba

parimus ranas.

16.

Peus su famene

chi, forte, sonat

sa janna a tottus

e non perdonat.

17.

Avvocadeddos,

laureados,

bussacas buidas,

ispiantados

18.

in sas campagnas

pappana4 mura,

che crabas lanzas

in sa cresura.

19.

Cand’est famida

s’avvocazia,

cheres chi penset

in Beccaria? 5

20.

Mancu pro sognu,

su quisitu

est de cumbincher

tant’appetitu.

21.

Poi, abolidu

pabillu e lapis

intrat in ballu

su rapio rapis6.

22.

Mudant sas tintas

de su quadru,

s’omin’ onestu

diventat ladru.

23.

Sos tristos corvos

a chie los lassas?

Pienos de tirrias

e malas trassas.

24.

Canaglia infame

piena de braga,

cherent siscettru

cherent sa daga!7

25.

Ma non bi torrant

a sos antigos

tempos de infamias

e de intrigos

26.

Pretant a Roma

Mannu est sostaculu ;

Ferru est sispada

Linna est su baculu

27.

S’intulzu apostolu

De su segnore

Si finghet santu

Ite impostore!

28.

Sos corvos suos

Tristos, molestos

Sunt sa discordia

De sos onestos

29.

E gai chi tottus

Faghimus gherra

Pro pagas dies

De vida in terra

30.

Dae sinistra

Oltad’a destra,

e semper bides

una minestra.

31.

Maccos, famidos,

ladros, baccanu

faghimus, nemos

halzet sa manu

32.

Adiosu, Vanni,

tenedi contu,

faghe su surdu,

ettad’a tontu.

33.

A tantu, l’ides,

su mund’est gai

a sicut erat

non torrat mai.

 

Tra i componimenti che conosciamo è uno di quelli in cui sono maggiormente presenti finalità satiriche e politiche, civili e sociali, con una netta e precisa presa di posizione del poeta contro la malasorte, le ingiustizie del suo tempo e indirettamente contro la politica nordista e colonialista del governo sabaudo che sarà più esplicita in altri componimenti. Ricordiamo infatti che siamo alla fine dell’Ottocento, quando il nuovo stato unitario, nel tentativo di omogeneizzare gli “Italiani” emargina e penalizza –dal punto di vista economico e sociale ma anche culturale e linguistico- la Sardegna e il meridione, favorendo invece il Nord del paese. Soprattutto in seguito alla rottura dei Trattati doganali con la Francia (1887) e al protezionismo tutto a beneficio delle industrie del Nord e a danno del commercio dei prodotti agro-pastorali dell’Isola.

Il quadro che emerge da Nanneddu meu è quello di un’Isola dominata da tempos de tirannias; assediata da carestias che producono fame, costringendo il popolo a nutrirsi cun pane, castanza e lande; devastata da catastrofi naturali che distruint campos e binzas con sa filossera e sas tinzas; popolata da avvocadeddos ispiantados e quindi facilmente ricattabili; da preti avidi, tristos corvos/ pienos de tirrias/ e malas trassas.

Dal punto di vista formale in “Nanneddu meu” Mereu introduce nel già ricco sistema metrico sardo la quartina di quinari (con lo schema metrico ABCB, con il secondo verso che fa la rima sempre con il quarto). A proposito della quartina introdotta nel sistema metrico sardo qualche critico ha evocato il Giusti, di cui non a caso Mereu pone in apertura di Galusè, una sua un’epigrafe.

Il tono è ora di denuncia, aspro, acre e amaro; ora disincantato malinconico e perfino tenero.

Leonardo Sole scrive che “A Nanni Sulis offre un bell’esempio di poesia sociale, aspra e pungente contro gli sfruttatori continentali che hanno disboscato l’isola e continuano a spogliarla con l’aiuto dei prinzipales sardi”.

DAE UNA LOSA ISMENTIGADA

1.

Non sias ingrata, no, para sos passos,

o giovana ch’ in vid’ happ’istimadu.

Lassa sas allegrias e ispassos

e pensa chi so inoghe sepultadu.

Vermes ischivos si sunt fattos rassos

de cuddos ojos chi tantu has miradu.

Para, par’ un’istante, e tene cura

de cust’ ismentigada sepoltura.

2.

A ti nd’ammentas, cando chi vivia

passaimis ridend’oras interas?

Como happ’ una trista cumpagnia

de ossos e de testas cadaveras,

fin’ a mortu mi faghent pauria

su tremendu silenziu ‘e sas osseras.

E tue non ti dignas un’istante

de pensare ch’ inog’ has un amante!

3.

Ben’ a’ custas osseras, cun anneos,

si non est falsu su chi mi giuraist,

e pensa chi bi sunt sos ossos meos,

sos ossos de su corpus ch’istimaist;

fattos in pruer, non pius intreos

coment’ e cand’ a biu l’abbrazzaist.

Non pius agattas sas formas antigas,

ca so pastu de vermes e formigas.

4.

Bae, ma cando ses dormind’ a lettu

una oghe ti dèt benner in su bentu,

su coro t’hat a tremer’ in su pettu

a’ cussa trista boghe de lamentu

chi t’hat a narrar : custo fit s’affettu,

custu fit su solenne jurasnentu?

Inoghe non ti firmas, lestra passas,

e a’ custa trista rughe non t’abbassas.

5.

Cando passas inoghe pass’umìle ;

t’imponzat custa pedra su rispettu,

ca so mortu pro te anima vile,

privu de isperanz’ e de affettu.

Dae custa fritta losa unu gentile

fiore sega e ponedil’ in pettu,

pro ‘ammentes comente t’happ’amadu,

già chi tue ti l’has ismentigadu.


 

 

 

 

Franciscu Carlini ha recentemente pubblicato per Edes (Editrice democratica sarda) una nuova silloge poetica:SA TERRA PROMITTIA. Funge da introduzione questa mia Intervista all’Autore.

INTERVISTA CON L’AUTORE

a cura di Francesco Casula

 

Franciscu Carlini ci spiega il come e il perché della sua passione letteraria per il bilinguismo ma anche il permanere

di una costante, la sua passione civile, che connota ora in modo mediato, altre volte esplicitamente, la sua produzione poetica con un pessimismo che caratterizza le sue ultime poesie, che non è assoluto, come sembrerebbe a tutta prima, ma frutto dell’amara costatazione della mancanza di referenti politico-culturali che caratterizza la nostra epoca.

Carlini ha esordito come poeta bilingue nell’88 con Biddaloca, (Paese Stolto), Edes,in cui bonariamente metteva alla berlina l’arroganza, la saccenteria, la stupidità umana, ricorrendo a uno stile spassoso e a moduli espressivi mutuati dalla tradizione popolare e dalla poesia sarda con filastrocche, ninne-nanne, fiabe. Con Murupintu a me pare che Carlini abbia continuato il “viaggio” intrapreso con Biddaloca, confermando una cifra espressiva intensa e un messaggio altamente civile, che poi prosegue con le opere successive in versi e in prosa, sia in lingua sarda sia in lingua italiana.

Ma ecco l’intervista fatta per Sardegna Oltre nel lontano 1992, che sarà integrata da quanto pensa oggi l’autore a distanza di tanto tempo.

 

D. Perché dopo l’esordio hai continuato a scrivere testi bilingui?

 

R. Scrivere poesie – ma non solo – è diventato una sorta di vizio che non mi ha mai abbandonato da quando, quattordicenne, me ne ritrovai tra le mani,  una scritta da me, che  riecheggiava in  qualche  modo, se  non  ricordo male, La chiesa di Polenta  del  Carducci. Una  volta  arrivato,  molto   tardi, purtroppo, alla prima  pubblicazione di una raccolta, non potevano mancarne altre.

In tanto tempo, uno come me, non poteva rimanere inerte, trascurando di coltivare il suo vizio. Una spiegazione, la mia, apparentemente di carattere personale, dunque, che non tiene conto dell’ultima parte della tua domanda.

Allora il perché di testi bilingui. Dovevo di punto in bianco scrivere in italiano, così, senza una giustificazione?

Non ho avuto motivi per cambiare: una volta trovata una strada ho deciso di percorrerla fino in fondo, non certo per il gusto di farmi dare del “separatista” da qualcuno in vena di facezie.

 

D. Murupintu è una continuazione ideale di Biddaloca?

 

R. Alcuni amici che stimo, dopo aver letto il manoscritto, hanno visto effettivamente in Murupintu una “continuazione” di Biddaloca e me ne hanno parlato con qualche preoccupazione. I temi, grosso modo, sono gli stessi, l’ambiente è lo stesso, immutato, mi pare, lo stile. Eppure c’è una differenza di non poco conto tra le due sillogi. In Murupintu il rapporto con la cultura popolare è più mediato, non è stato usato materiale di riporto, è più evidente l’elaborazione letteraria o, quanto meno, c’è stato da parte mia un maggiore impegno per una poesia d’autore che potesse vivere senza il supporto di modelli, che pure esistono, ma che sono meno scoperti, come in Biddaloca.

    

D. Perché scrivi? Per divertirti o per comunicare qualcosa?

     

R. Chi scrive non si diverte quasi mai, perché scrivere è lavoro, fatica che può dare soddisfazione solo quando credi di essere riuscito a mettere tutte le parole necessarie al posto giusto, ma escludo il puro e semplice divertimento, anche se, di primo acchito, a chi legge può sembrare il contrario. In ogni caso non mi  diverto a  parlare  di  stupidità o  di follia,  di   morti    di fame o di morti ammazzati,

dell’arroganza e della prepotenza del potere, della saccenteria dei piccoli e dei grandi intellettuali. Le filastrocche possono divertire i bambini non necessariamente l’autore.

Allora scrivo per comunicare qualcosa? Nessuno pubblica ignorando il destinatario. Chi afferma il contrario non sempre è in buona fede. Detto questo, però, devo aggiungere che, prima di tutto scrivo per me stesso, perché scrivendo  riesco  a  concentrarmi  meglio  su  cose  che  mi

riguardano e che in larga misura riguardano anche altri.

 

D. Da quando e perché usi il sardo?

 

R. Il mio avvicinamento all’area neosardista nella seconda metà degli Anni Settanta mi riportò alla riscoperta della cultura, della lingua sarda e a un modo diverso di concepire e fare poesia.

Uso il sardo perché, essendo la mia prima lingua, lo sento più congeniale rispetto all’italiano che ho appreso a scuola a suon di scapaccioni, per effetto della derisione di cartelli infamanti appesi alla schiena, dei castighi dietro la lavagna e delle dolorosissime bacchettate sullemani.

È stata una scelta quasi necessaria più che politica o ideologica: riesco a esprimermi con più naturalezza, so trovare le parole e i modi di dire più adatti, quelli che mi permettono di comunicare meglio ciò che voglio (senza correre rischi eccessivi di fraintendimenti), di far risuonare echi in interlocutori lontani. E poi che cosa c’è di tanto strano che un sardo usi la sua lingua per fare poesia? Forse c’è qualcuno che abbia motivo di stupirsi se un francese scrive le sue poesie in francese?

 

D. Non è un surplus la traduzione a fronte?

 

R. Un surplus per chi? Forse per i sardi che sanno cogliere anche le più piccole sfumature di una parola, di una frase idiomatica. Non certo per un pubblico più vasto  che  posso raggiungere, data la mia condizione di poeta bilingue, con la traduzione a fronte. Solo un autolesionista o un invasato di estremismo infantile può pensare di precludersi la possibilità di un rapporto comunicativo ad ampio raggio. Questo modo di vedere le cose potrebbe sembrar dettato dall’ambizione di chi, per un verso o per l’altro, scrive un “diario in pubblico” e dal pubblico si attende una risposta, tanto più gratificante quanto maggiore è il numero delle persone che lo compongono. È anche questo, perché negarlo? Ma c’è dell’altro.

Come in economia, anche nella scrittura noi sardi subiamo un rapporto di scambio ineguale che vede gli altri armati del diritto di imporci un volume impressionante di prodotti senza che noi riusciamo a fermarne o limitarne la portata: ci troviamo davanti a un’autentica valanga di macigni e detriti di ogni genere contro cui non riusciamo a trovare un riparo.

Ebbene, la traduzione a fronte in italiano, o in qualsiasi altra lingua, è un tentativo di aprire canali di ritorno che diano il segno d’una volontà di un’inversione di tendenza che a parole, ma solo a parole, è sulla bocca di noi tutti.

 

D. Dì la verità: scrivi per il lettore medio o soprattutto per le scuole e per gli studenti?

 

R. Ti confesso che non ho chiaro il concetto di lettore medio. Medio in che cosa? Socialmente? Culturalmente? In questo caso il lettore medio è la copia esatta della media borghesia esposta a tutte le suggestioni dei condizionamenti pubblicitari dell’industria culturale.

Ma allora non posso scrivere pensando al lettore medio perché ho motivo di pensare che il lettore medio mi rifiuti non essendo la mia immagine costruita dai mezzi di comu-nicazione di massa, ed io non posso tentare una comunicazione con chi me la nega a priori. Non è per un caso che volumi come Biddaloca, Murupintu,trovino lettori socialmente agli antipodi: da una parte persone umili che si riconoscono nei  valori  culturali  ed  etici  che quelli esprimono e dall’altra intellettuali che hanno gli strumenti per una lettura critica di quanto scrivo.

Quanto alle scuole e agli studenti, se scrivessi per loro, la mia sarebbe una scelta politica consapevole e farei della poesia uno strumento per l’affermazione di progetti e ideali propri di chi si batte per la difesa di un’etnia minacciata di estinzione.

     È così? In parte è così, anche perché parecchie poesie di Biddaloca sono nate all’interno di una scuola media di villaggio per superare le difficoltà di trovare un repertorio poetico in lingua sarda adeguato all’ambiente dei ragazzi.

Le filastrocche, gli scioglilingua difficilmente possono essere apprezzati da adulti che non siano insegnanti. In questo senso fornisco materiale utile anche a loro. Le raccolte, però, contengono anche altro, utilizzabile sì dalla scuola, ma non solo dalla scuola: è un “altro” che ci riguarda tutti.

E poi, diciamolo chiaramente: una poesia, quando è riuscita, ha un ampio spettro di possibilità che vanifica ogni tentativo di diversificare aprioristicamente i settori di fruizione. Allora potrebbe anche accadere che persino il “lettore medio” possa apprezzare certe mie poesie quando s’imbatta accidentalmente in esse.

 

D. A questo punto finisce l’intervista del 1992. ui finisce l’intervista delQÈ cambiato qualcosa rispetto a questa intervista di circa vent’anni fa?

 

R. Tutto. È cambiato tutto. Siamo cambiati noi perché è cambiato il mondo. Con il muro di Berlino sono crollate le ideologie contrapposte che hanno caratterizzato un lungo periodo del secondo dopoguerra. La globalizzazione, poi, con il definitivo trionfo delle multinazionali delle finanze e delle merci, e un altro crollo, quelle delle torri gemelle. E prima ancora Internet; inoltre il lessico che esprimeva i rapporti di classe: i padroni non sono più padroni ma datori di lavoro senza che per questo i lavoratori siano diventati datori di profitto.

 

D. Capisco, molta acqua è passata sotto i ponti. E intanto tu

hai pubblicato altre sillogi poetiche come Sa luna Inciusta, ben quattro raccolte di poesie in italiano, favole moderne in versi e in prosa (Marxani Ghiani e altras Fàulas). Quest’opera segna in modo evidente una rottura con il passato. È così?

 

R. Il periodo delle speranze nonostante tutto, della possibilità della giocosa irrisione di tutto e di tutti, è tramontato. Ne ho preso atto e ne ho tratto le conclusioni. Ho cominciato a guardare il mondo per quello che è (per come io lo vedo), e da qui la rottura con il mio consolidato modo di far poesia. L’altro volume è Dialogo a una voce, del 2007, due anni dopo Marxani Ghiani. Se in questo ultimo qualcuno ha visto, non senza una ragione, “un mondo cupo, guardato con pessimismo impietoso e corrucciato” (Vindice Ribichesu), nell’altro sono arrivato alla conclusione di uno smarrimento pressoché totale che è quello della generazione cui appartengo, e non solo.   

 

D. Su questo ritorneremo più avanti. Per adesso soffermiamoci sulle tue opere in prosa. Hai scritto una raccolta bilingue di racconti, S’Òmini chi bendìat su tempus e un romanzo, solo in sardo, Basilisa, che ha vinto il Premio Grazia Deledda 2002. Pone problemi per un poeta il passaggio a una scrittura in prosa?

 

R. È pacifico che insorgano problemi per chi ha scritto per lungo tempo in versi.  Meglio, per me è accaduto di averne, e si capisce. La poesia è sintesi, è un togliere continuo per dire più cose possibili con il minor numero di parole, con un’attenta sorveglianza perché una sola parola non rompa l’equilibrio faticosamente raggiunto.

 Molte volte mi è accaduto di sentir dire che la mia prosa non è lussureggiante, che è asciutta, icastica. Anche tu, mi pare, ne hai scritto. Può darsi che le cose stiano in questi termini, e allora viene da pensare che all’origine  ci  sia  la mia  lunga frequentazione della poesia. È qualcosa che accade spesso nel  passaggio  dall’esperienza  poetica  a  quella  in   prosa.

Dico di più, le eccezioni sono talmente rare che si possono contare sulle dita di una mano. Si vada a esaminare la prosa di Francesco Masala. L’origine poetica del suo autore balza evidente a chi si avvicini per la prima volta a Quelli dalle labbra bianche. Questo in origine era un romanzo di parecchie centinaia di pagine. Se Masala l’ha ridotto a un romanzo breve, o a un racconto lungo, vedi un po’ tu, significa che il poeta non poteva sentirsi tranquillo in un oceano di parole in cui rischiava di rimanere sommerso. E, in preda allo smarrimento, ha tagliato, ridotto, sintetizzato, fino a quando non si è sentito al sicuro, nella consapevolezza di un dominio totale sul contenuto della sua terribile esperienza in Russia e, più ancora, fino a quando non è riuscito a dipingere un quadro-metafora di un’umanità contadina vinta, umiliata, mandata allo sbaraglio. 

 

D. Come mai, dopo anni in cui sembrava, almeno per la tua produzione in versi, che ti fossi rifugiato in un genere di poesia che aveva la sua forza nella forma, molto innovativa nel panorama della letteratura in lingua sarda, ma non solo, ora pubblichi questo libro in cui s’impongono in modo dominante, (prepotente, oserei dire), tematiche squisitamente sociali?

 

R. Ripeto, questo libro non nasce dal nulla, ha i due antefatti di cui ho appena parlato. Ma davvero ho abbandonato una letteratura che in altri tempi si definiva impegnata? Tu stesso hai parlato di “messaggio altamente civile” come connotazione della mia produzione poetica degli anni passati. D’altra parte hai sicuramente notato che in questa silloge sono presenti poesie provenienti da Biddaloca, Murupintu e dalla stessa Luna inciusta. Altre, precedenti queste  tre  antologie,  e  altre  ancora  posteriori, rivelano una continuità di impegno che rimanda a una mia visione del  mondo.  Nelle  ultime,  pubblicate  in  riviste  o

inedite, il rimando è palese, il tono è duro, perché è dura la realtà che abbiamo tutti sotto gli occhi.

 

D. Un impegno dunque…

 

R. … un impegno del dire senza un supporto politico o la presunzione di messaggi da lanciare.

 

D. Ed è anche una polemica amara.

 

R. Poteva essere diversamente? Marxani Ghiani avvertiva me, come qualcuno dei miei pochi lettori, che la temperie culturale era mutata, e la fiducia nella ragione, quella politica innanzi tutto, era venuta meno. Indursi all’ottimismo della volontà è un esercizio duro, e per molti una comoda scappatoia, che mette in crisi il titanismo gramsciano.

Tu da qualche parte hai scritto che mi ero incattivito. È così. Un tempo c’era la percezione di echi lontani, spesso filtrati dall’ideologia dominante o da quella alternativa al sistema. Oggi conosciamo del mondo molte cose. I mezzi di comunicazione di massa, soprattutto Internet, ma gli stessi telegiornali, di sfacciata ispirazione governativa o addirittura del padrone del vapore e quelli che in qualche modo si rifanno all’opposizione, ci sbattono davanti agli occhi cose che vorremmo pensare inesistenti, frutto di un giornalismo grottesco. Le guerre, poi, le viviamo in presa diretta, come i massacri in varie parti del mondo e altre cose che ci fanno inorridire. Almeno a me accade di inorridire. E di gridare il mio sdegno come avessi davanti, in carne e ossa, il responsabile di tante nefandezze.

 E poi una volta c’era l’ideologia “buona” che innervava le nostre scelte e ci garantiva le condizioni per schierarci senza riserva, o quasi. Adesso, invece? Cambiare si può, cambiare  si  deve,  si  continua  a   ripetere, e  tutto  rimane fermo. Hai una bussola che ti guidi come 20-25 anni fa? Io se ce l’ho, deve essere andata a finire in qualche angolo buio di un ripostiglio con  l’ago  impazzito, e  non  mi  fido.

Non ho fiducia nelle parole, e i fatti sono ben miseri, se scopri senza molto affanno i rimandi a interessi particolari, personali o di classe (ahi la parolaccia!), nazionali o sovrannazionali.

 

D. Eppure continui a scrivere… Non sarà che sei d’accordo

con il grande poeta italiano Franco Fortini secondo cui  La poesia non cambia nulla. Nulla è certo, Ma tu scrivi.  Ovvero che la poesia – la scrittura in genere – è uno stru-mento necessario e utile proprio per la sua inutilità: uno spazio di libertà che consente di immaginare mondi diversi da quello insoddisfacente, quotidiano, ingiusto e massificato in cui si vive.

 

R. Già, continuo a scrivere, anche se so che le parole, tanto meno quelle del poeta, non possono cambiare il mondo. E sarebbe il meno, se ci fossero quelle di intellettuali e di politici capaci di disegnare una prospettiva appena credibile. Continuo a scrivere senza illusioni per dire quanto vedono i miei occhi, quanto odono le mie orecchie. Dire, non denunciare. Denunciare a chi, poi? Tutti sanno, ormai, ed è invalsa l’assuefazione al peggio che non ha più limiti: quando credi di averne visto il fondo, ti accorgi che il peggio sprofonda ancora più sotto. Tu stai lì, poeta e non, stupito, esterrefatto, a dispetto dell’età che avrebbe dovuto renderti saggio, mettendoti al di sopra delle cose del mondo.

 

D. In questa situazione qual è il ruolo del poeta, se un suo ruolo esiste ancora?

 

R. Un ruolo del poeta esiste, ma è del tutto marginale, tanto più se vive in provincia e si ostini a scrivere in sardo. I lettori-interlocutori  sarebbero  comunque  pochi,  anche  se avesse la possibilità di raggiungerne un numero maggiore oltre Tirreno. La poesia è diventata merce elitaria e sopravvive grazie alla scuola che la impone a bambini e ragazzi  i quali  la   subiscono,  colpa di   un   insegnamento

inadeguato. I veri poeti oggi sono i cantautori, quelli seguiti da centinaia di migliaia di giovani che conoscono a memoria i loro testi e la musica, li cantano insieme ai loro idoli in vasti campi sportivi e si muovono all’unisono al ritmo di note apprese dai CD. Si  è  detto e  ripetuto  che  la

poesia è un’arte da fruire in  solitudine, un modo  silenzioso

di ascoltare parole silenziose. Balle. Oggi è tutto il contrario. Le parole diventano messaggi da godere in sterminate compagnie, urlati, amplificati da potentissimi impianti stereofonici. Coinvolgono masse in cui i singoli si perdono. E se sono formalmente belli, magari poetici, colgono di solito nel segno, diventano un modo comune di sentire, andando a comporre le pagine di una pedagogia giovanile viva, a suo modo alternativa a quella scolastica.

 

D. Solo buio, dunque, per te e per chi come te continua a coltivare la poesia tradizionale?

 

R. Buio profondo, verrebbe da dire. E non solo per la poesia o per l’età con la mia vista malferma. Magari fossero i miei molti anni, con i loro inciampi quotidiani a condizionare le mie poche idee. Almeno conoscerei una causa per farmi una ragione di ciò che mi gira intorno.

 

D. Un’ultima curiosità. Come mai un titolo così promettente, dopo quanto hai appena detto?

 

R. La terra promessa era l’età dell’oro del futuro, quella che abbiamo immaginato fosse dietro l’angolo di una strada lunghissima. Ma non siamo riusciti a raggiungerla. La manna che pioveva dal cielo dell’ideologia e che ci aveva nutrito nel deserto di una realtà che volevamo attraversare a  tutti i costi è finita. La divinità ha esaurito le scorte. Li senti i balbettii di chi vorrebbe nutrirci con promesse di mirabolanti ma già annose convergenze al centro? Qui in Italia, per dire, abbiamo avuto ideologi del nulla, rivoluzionari da operetta. E ora ne paghiamo le conseguenze. Quella che era definita la sinistra radicale  non  ha  neppure un rappresentante in parlamento, fatta fuori dal perbenismo del cosiddetto riformismo.

 

D. Ma non stavamo parlando di poesia?

 

R. A quanto pare no. Sempre che non si voglia tener conto

dei contenuti della produzione poetica degli ultimi anni.

 

D. Allora è inutile chiederti che cosa riserva per noi il tuo futuro.

 

R. A voi, ai pochi amici che ho, il mio futuro, non so quanto prossimo, riserva una sola cosa. E sai benissimo quale. Quanto al futuro di noi tutti, non ci riserva niente di nuovo, sarà (è) la perpetuazione del presente.

 

D. Nessuna speranza, proprio nessuna?

 

R. Se esiste, la speranza è un sentimento confuso, legato all’istinto di sopravvivenza. Molti hanno voluto sperare nel movimento Occupiamo Wall Street, in quello mondiale degli indignados, ma intorno a loro non si è coagulato un disegno politico alternativo al sistema dei vari paesi. Perché senza un progetto, sottratto ai professionisti della politica vista come esercizio a vita del potere, si può essere indignati quanto si vuole che non si va da nessuna parte. Così le loro sacrosante proteste sono scomparse finanche dalle pagine della cronaca politica. Si sono nutrite grandi speranze sulla primavera araba, e sappiamo come è andata a finire.

 

D. E il passato?

 

R. Vuoi dire le idee politiche di una volta? Le mie non sono cambiate. Sono altri che hanno cambiato le loro, deludendo le aspettative di una massa sterminata di uomini.

 

 

Lingue povere e lingue ricche*

“Le lingue sono strumenti di comunicazione. Come ogni strumento possono essere usate bene oppure male. Ciò dipende dal grado di conoscenza che iparlanti, o scriventi, hanno della lingua; ma dipende anche dalla loro cultura e dalla loro fantasia, ovvero da quella capacità individuale di comunicare ef­ficacemente ogni cognizione e ogni pensiero, che i grammatici chiamano arte del dire (ars dicendi dei latini, rhetorica dei greci). La quale arte del dire è stata anche codificata in tutti i tempi, dai greci fino a noi, ma in realtà non si può codificare, perché la fantasia non conosce limiti regole.

E bastas, che razza di noioso discorso è questo? Sì, avete proprio ragione; me ne rendo conto dal fatto che mi sto annoiando anch’io.

Volevo parlare di lingue “ricche” e di lingue “povere”, e soprattutto del­la lingua sarda – un tema piuttosto attuale e appassionante – ma è chiaro che non sono riuscito a comunicare il mio pensiero.

Ci riprovo saltando qualche passaggio che l’intelligente lettore saprà col­mare da sé. Ecco, si afferma polemicamente che la lingua sarda è una lingua povera, e si sottintende, in un confronto immediato, che la lingua italiana è ricca.

Davanti a questi giudizi mi domando con quale criterio possa venire ac­certata la ricchezza o la povertà di una lingua; mi domando se, per esempio, sia accettabile un metodo aritmetico come contare le parole del suo vocabolario. Se un tale metro fosse buono sarebbe possibile stabilire persino l’esatto rap­porto, o differenza, di ricchezza – povertà fra due lingue, così come si può stabilire il rapporto, supponiamo, fra  due greggi di pecore e fra due conti in banca. Pertanto, sulla base del numero delle parole, sipotrebbe dire (e qui invento i dati) che la lingua italiana, rispetto alla lingua sarda, è il 35 per cento più ricca (o il 50, o il 70 per cento).

Senonché, a parte il fatto che non è stato ancora convenuto quante pa­role siano necessarie a una lingua perché si possa definirla ricca, a me pare di dover respingere il metodo aritmetico di valutazione.

Nessun dizionario infatti, per sterminato che sia, può considerarsi una lingua. Il vocabolario della lingua italiana non è la lingua italiana; il voca­bolario della lingua sarda non è la lingua sarda. Che altro è dunque una lin­gua? Forse la grammatica, la stilistica? No, neppure i migliori trattati di grammatica e di stilistica sono una lingua.

A voler tentare una temeraria definizione – necessariamente incompleta e provvisoria – direi che una lingua è la cultura stessa del popolo che la parla (e la scrive, se la scrive). Per questa ragione a me pare che, in assoluto non vi siano e non possano esservi lingue povere né lingue ricche, ma soltanto lingue in quanto sufficienti e in grado di esprimere tutta la cultura di cui sono appunto l’espressione. Un contadino bolotanese capace di comunicare le proprie cognizioni relative all’agricoltura, capace di esprimere le sue sensazioni di stanchezza, di scoramento, di preoccupazione, di gioia, di soddisfazione, di orgoglio, come pure le sue riflessioni sui rapporti col mondo che lo circonda, la sua filosofia politica e sociale; ricchezza e povertà, oppressione e libertà, giusto e ingiusto, amore e odio, e via via il vasto bagaglio della sua cultura bolotanese, parlerà certo una lingua sufficiente, ma se è fornito di intelligenza e di fantasia parlerà forse una ricchissima lingua bolotanese, molto più ricca di quella italiana che si legge nel cinquecentesco poema L’Italia liberata dai Goti, il cui autore era colto e intelligente ma aveva scarsa fantasia.

Si potrà obiettare che il mio fantasioso contadino non è in grado di par­lare di sant’ Agostino nédi Dante né di psicanalisi, né di processi chimici nédi missilistica; è vero, ma su questi temi non avrebbe potuto aprir bocca neppure Marco Tullio Cicerone, un oratore senza dubbio intelligente e fantasioso.

Del resto, se andiamo a verificare come se la cavano, in lingua italiana, i cittadini italiani del nostro tempo, scopriremo che la maggior parte di essi, intorno ai temi sopraenunciati, o non sono in grado di parlare o diranno un mucchio di sciocchezze.

Si potrà ancora obiettare che il nostro bravo contadino, nel caso in cui seguisse un regolare corso di studi in Italia fino a conseguire il titolo di dot­tore e venisse a conoscenza di sant’ Agostino, di Dante, della psicanalisi, eccetera, volendone parlare abbandonerebbe la lingua sarda e si esprimerebbe in italia­no, così come fanno tutti gli intellettuali sardi che pur conoscono la lingua sarda.

Benissimo, qui vi aspettavo per potervi concedere che anche questo è vero, ma soltanto perchélo avrete obbligato a seguire il regolare corso di studi in lingua italiana con rigorosa esclusione della lingua sarda.

La questione della povertà, o insufficienza, del sardo come lingua colta (o dotta) è tutta qui. Se la storia avesse marciato in direzione opposta, se nel quinto secolo avanti Cristo i Greci – poeti epici, poeti lirici, poeti tragici, oratori, storici, matematici, filosofi, astronomi, navigatori, architetti, pittori, scultori e via dicendo – avessero conquistato Roma ancora tutta contadina o pressappoco, e le avessero imposto la lingua greca col dileggio continuato del latino e a forza di colpi di bacchetta sulle mani degli scolaretti, la grande lingua di Cicerone e di Virgilio sarebbe rimasta dentro le capanne dei pastori laziali. Seneca e Plinio avrebbero scritto in greco, e cosìpure Agostino e Tomaso, Lattanzio e Tertulliano, come ancora tutti i papi; el’italiano, lo spa­gnolo, il francese dei giorni nostri non sarebbero lingue neolatine bensì neo­greche o, chissà, neocartaginesi.

Dunque. Vogliamo restituire al Sardo la libertà e la dignità di lingua, anche illustre, che ebbe nel medioevo e fino al giudicato di Eleonora; consen­tiamole di colmare come può alcuni secoli di esclusione (un vero bando) dal processo culturale europeo e concediamole di partecipare – come l’italiano – ­al cammino della cultura che suole autodefinirsi “grande” e “alta” (ma chis­sà!), e vedrete che il Sardo non sarà soltanto la lingua umiliata dei contadini e dei pastori.

Per finire, ai Quaderni Bolotanesi vorrei consigliare di indire un concorso istruttivo e divertente, magari nel quadro delle annuali celebrazioni di Santu Bachis, un concorso che potrebbe dimostrare la ricchezza o la povertà delle lingue, non tanto in relazione al numero delle parole quanto in relazione alla fantasia espressiva dei concorrenti.

Si tratta di concorrere alla elaborazione di un breve componimento, in italiano e in sardo, che non superi le 150 battute dattiloscritte. Salvo il libero uso di articoli, preposizioni, congiunzioni, eccetera e la libera declinazione – o flessione – delle parole date, il dizionario a disposizione è il medesimo per l’una e per l’altra lingua:

 

ITALIANO                  SARDO

ragazzo                         piseddu

essere                            essere

cadere                           rùere

mano                             manu

Gesù                             Zesu

Avere                            àere

testa (nuca)                   cuccuru

gettare                           bettare

terra                              terra

cavallo                          caddu 

vedere                           bìere

cosa                              cosa

Maria                            Maria

nero                                 nieddu

ficcare                             ficchire

 

Conosco già il risultato e ve lo dico. A parere della giuria, i due migliori componimenti, uno in italiano e uno in sardo, sarebbero questi:

ITALIANO = Maria, vedendo che Gesù aveva la mano sulla nuca, per non cadere gettò un cavallo nero al ragazzo ma la cosa ficcava la testa nella terra (concorrente: Gimaro Lo Giusto, professore universitario di storia sacra, raccomandatissimo da influenti personaggi politici).

 

SARDO = Dae caddu nd’est rutta sa pisedda a manu in terra e a cuccuru ficchidu, zesumaria ite ch’appo idu betto sa manu … una cosa niedda .. ‘. (concorrente: Luca Cubeddu, sconosciuto alla Giuria).

 

Ora giudicate voi, gentili lettori, quale dei due componimenti sia più me­ritevole della benedizione di Santu Bachis!”.

[Michele Columbu, Lingue povere e lingue ricche, in Quaderni bolotanesi: appunti sulla storia, la geografia, le tradizioni, le arti, la lingua di Bolotana”, Vol. 4 Anno. 1978 , n. 4].

 

*Tratto da La Lingua sarda e l’insegnamento a scuola di Francesco Casula, Alfa editrice, Quartu sant’Elena, 2010.

    Ora anche in Letteratura e civiltà della Sardegna di Francesco Casula,  vo II, Grafica del Parteolla Editore, Dolianova, 2011.

 

 

Scalepranu: Premiati i vincitori del Concorso “Poetendi e contendi”.

Quinto concorso di poesia, riconoscimenti per i vincitori

La Nuova Sardegna 20 agosto 2013 — pagina 21

ESCALAPLANO Sono stati premiati i vincitori del quinto concorso letterario “Escalaplano e la poesia. Poetendi e contendi Scalepranu in poesia” organizzato dal comune, con la collaborazione della biblioteca comunale e del sistema bibliotecario del Sarcidano. Tutte le opere presentate sono state raccolte in un volume che è stato stampato grazie al contributo della legge regionale sulla tutela e valorizzazione della lingua e della cultura sarda . «Il concorso si è rilevato un successo – sottolinea il sindaco Marco Lampis – la quantità ma soprattutto la qualità delle opere presentate non hanno niente da invidiare a quelle di altri premi di poesia sarda che hanno ben diversa tradizione, storia, risorse finanziarie e visibilità sui media». La giuria presieduta dal professor Francesco Casula ha assegnato il primo posto per la sezione poesia a “In su trelaxu” di Dante Erriu, originario di Silius. Per la sezione prosa ha vinto “Pantaleo e Perdulariu in su padente Pramattu” di Gonario Carta Brocca di Dorgali. Per la sezione poesia riservata agli studenti di Escalaplano ha vinto “Unu sonnu girendi” di Alessandro Aresu e Nicola Usala. Per la sezione prosa “Is biddas” di Andrea Prasciolu.(j.b.)

Scalepranu: Premiati i vincitori della Quinta edizione del Concorso “Poetendi e contendi”o

Quinto concorso di poesia, riconoscimenti per i vincitori

La Nuova Sardegna 20 agosto 2013 — pagina 21

ESCALAPLANO Sono stati premiati i vincitori del quinto concorso letterario “Escalaplano e la poesia. Poetendi e contendi Scalepranu in poesia” organizzato dal comune, con la collaborazione della biblioteca comunale e del sistema bibliotecario del Sarcidano. Tutte le opere presentate sono state raccolte in un volume che è stato stampato grazie al contributo della legge regionale sulla tutela e valorizzazione della lingua e della cultura sarda . «Il concorso si è rilevato un successo – sottolinea il sindaco Marco Lampis – la quantità ma soprattutto la qualità delle opere presentate non hanno niente da invidiare a quelle di altri premi di poesia sarda che hanno ben diversa tradizione, storia, risorse finanziarie e visibilità sui media». La giuria presieduta dal professor Francesco Casula ha assegnato il primo posto per la sezione poesia a “In su trelaxu” di Dante Erriu, originario di Silius. Per la sezione prosa ha vinto “Pantaleo e Perdulariu in su padente Pramattu” di Gonario Carta Brocca di Dorgali. Per la sezione poesia riservata agli studenti di Escalaplano ha vinto “Unu sonnu girendi” di Alessandro Aresu e Nicola Usala. Per la sezione prosa “Is biddas” di Andrea Prasciolu.(j.b.)

CUADDEDDU CUADDEDDU di Benvenuto Lobina

BENVENUTO LOBINA.

Il poeta e il romanziere bilingue che ha nobilitato la lingua sarda.(1914-1993)

CUADDEDDU, CUADDEDDU

Nebodeddu cantatori,

nebodeddu meda abbistu,

ti ddu paghit Gesu Cristu,

in salludi e in liori

po mi dd’ai spiegau,

nebodeddu car’’nonnu,

poita, apust’ ’e custu sonnu

chi xent’annus è durau,

iscidau mindad custu

malladittu fragu mallu

chi si furriat su callu

in gennarxu e in austu.

I atras cosas a muntonis,

nebodeddu, m’as cantau

chi su coru m’ant’unfrau

su xrobeddu e is callonis.

E immoi lassamì stai

no mi neristi pru’ nudda

ma asta a biri ca ’n sa udda

ci ddus appa a fai entrai.

I mi bastat su chi sciu,

ma una cosa ti dimandu

donamidda e i minn’andu

bollu su cuaddu miu.

Cuaddeddu, cuaddeddu,

curri senz’ ’e ti firmai

ca depeus arrivai

in tres oras a Casteddu.

A Casteddu ad pinnigau

gent’ ’i onnia manera:

sa pillandra furistera

su furoni, s’abogau.

Pinnigau ad gent’ ’e trassas

spilligambas e dottoris,

deputaus traittoris,

munzennoris e bagassas.

I a tottu custa genti

dd’anti posta a comandai

e po paga ant’a pigai

s’arretrangh’ ’e su molenti.

Frimadì: Santu Francau,

cuaddeddu, si bid giai.

Su chi seu andendi a fai

non ti dd’appu ancora nau..

Scurta: a fai un’abisitta

a is chi anti fattu troga

seu annundu cun sa soga

e i sa leppa in sa berritta.

Su chi primu appa a cassai

cun sa bella cambarada,

cuaddeddu, è su chi nada

ca ad donau a traballai

a su popullu famiu

in Sarroccu e in Portuturri

e chi si pònidi a curri

faid mort’’e pibizziu.

Poita ad crup’ ’e cuddu fragu

chi mind’ ad fattu scidai

prima dd’appu a istrumpai

e apustisi ddu cagu.

Sigomenti anch’è parenti

de i cuddu imbrollioni

chi ad redusiu a carboni

sa foresta e i su padenti,

ci ddu portu a unu logu

pren’ ’e spina, sperrumau

i ddu lassu accappiau

i agoa ddi pongiu fogu.

No a biu, cuaddeddu,

cantu montis abruxaus,

cantu spina in is cungiaus

a infora de Casteddu?

Anti venas i arrius

alluau tottu impari

alluau anti su mari

e is tanas e is nius.

Bidda’ mes’abbandonadas

a i’ beccius mesu bius

a su prant’ ’e is pippius

a pobiddas annugiadas.

Oh, sa mellu gioventudi

sprazzinada in mesi mundu

scarescendu ballu tundu

scarescendu su chi fudi.

Cuaddeddu, sigomenti

de su dannu chi eu’ biu

e di aturus chi sciu

tenid curpa meda genti,

a accantu si pinniganta

i mi bollu accostai

e i ddus appa a ispettai

asta a biri chi no triganta.

Ddusu bisi: allepuccius

a ingiri’ ’e sa mesa

faccis prena’ de malesa

omineddus abramius.

Ma appenas a bessiri

nd’ant ’e s’enna ’e s’apposentu

donniunu ad essi tentu

e tandu eus a arriri.

O su meri chi scurtai

su chi nada unu cuaddu

oi ollidi – e chi faddu

gei m’ada a perdonai –

i ddi nau ca cussa genti

pinnigada in su corrazzu

non cumanda d’unu cazzu

funti conca’ de mollenti.

Chi cumandada est’attesu

custus funti srebidoris

mancai sianta dottoris

funti genti senz’ ’e pesu.

Fueddendu in cudda cosa

no adi intendiu fustei

nendu “yes” e nendu “okei”

cun sa oxi pibiosa?

Bruttu strunzu, arrogh’ ’e merda,

cussa conca in d’unu saccu

illuegu ticci zaccu

ti dda scudu a una perda.

De is cosa de sa genti,

o cuaddu manniosu,

maccu, zoppu i arrungiosu

no as cumprendiu niente.

No as cumprendiu, po nai,

chi su bruttu fragu mallu

chi ddis furriad su callu

ndiddus podisi scidai?

E a candu tottu impari,

meris, predis, srebidoris,

ciacciarronis, traittoris,

ci ddus anta a iscudi a mari?

Su srobeddu dd’asi in brenti

Tprrù, cuaddu, tprrù, mollenti.