Ma esiste ed è esistita una letteratura sarda?

 di Francesco Casula
Ma è esistita ed esiste una letteratura sarda? C’è chi lo nega. Alcuni dubitano perfino che la Sardegna abbia avuto una storia tout court. Emilio Lussu ha scritto che noi non abbiamo avuto una storia. La nostra storia è quella di Roma, di Aragona ecc. Lo storico francese Le Roy Ladurie ha sostenuto che la Sardegna giace in un angolo morto della storia. Francesco Masala, il nostro più grande poeta etnico, parla di storia dei vinti perché i vinti non hanno storia. Fernand Braudel, il grande storico francese, direttore della rivista “Annales” che rivoluzionerà la storiografia contemporanea, alludendo ad alcuni popoli mediterranei, fors’anche all’Isola, ammette che la loro storia sta nel non averne e non si discosta molto da questa linea raccontando che viaggiare nel mediterraneo significa incontrare il mondo romano nel Libano e la preistoria in Sardegna. Il mestiere dello storico di cose sarde, diventa difficile senza dubbio. Anche a proposito della nostra letteratura. A meno che non la si voglia ridurre a una sezione o, peggio, a un’appendice di quella italiana: magari gerarchicamente inferiore e comunque da confinare nella letteratura “dialettale”. Occorre infatti affermare che oggi come ieri, l’intera letteratura sarda risulta autonoma, distinta e diversa dalle altre letterature. L’intero sistema linguistico e letterario sardo infatti, come sistema altro rispetto a quello italiano, è sempre stato indipendente pur se contiguo ai vari sistemi linguistici e letterari che storicamente si sono avvicendati nell’Isola, da quello latino a quello catalano e castigliano e, per ultimo, a quello italiano, con tutte le interferenze e le contaminazioni che una simile condizione storica comporta. Una situazione ricca e complessa, propria di una regione-nazione dell’Europa e del mediterraneo. Nasce anche da qui l’esigenza di un’autonoma trattazione delle vicende letterarie sarde: ad iniziare da quelle scritte in lingua sarda. Da considerare non “dialettali” ma autonome, nazionali sarde, vale a dire. A questa stessa conclusione arriva, del resto, un valente critico letterario (e cinematografico) italiano come Goffredo Fofi, (fondatore e redattore di prestigiose riviste come Quaderni Piacentini, Ombre rosse, Linea d’ombra) che nell’Introduzione a Bellas Mariposas di Sergio Atzeni scrive:”E’ possibile fare una storia della letteratura siciliana o una storia della letteratura sarda, mentre, per restare in area centro-meridionale non ha senso pensare a una storia della letteratura campana, o pugliese, o calabrese, o marchigiana, o laziale…La letteratura siciliana e la letteratura sarda possono essere come “Letterature nazionali”. Con un loro percorso, una loro ragione, loro caratteri e segni”. Per quanto attiene alla Sardegna ciò è dovuto a causa della sua posizione decentrata e della sua peculiarissima storia, specifica e dissonante rispetto alla coeva storia europea, segnata com’è dall’incontro con diverse culture, può essere integrata in un discorso di storia italiana. Da una analisi attenta della letteratura sarda potremmo comunque vedere che dalle origini del volgare sardo fino ad oggi, non vi è stato periodo nel quale la lingua sarda non abbia avuto una produzione letteraria. Del resto a riconoscere una letteratura sarda è persino un viaggiatore francese dell’800, il barone e deputato Eugene Roissard De Bellet che dopo un viaggio nell’Isola, in La Sardaigne à vol d’oiseau nel 1882 scriverà :”Si è diffusa una letteratura sarda, esattamente come è avvenuto in Francia del provenzale, che si è conservato con una propria tradizione linguistica” Certo, qualcuno potrebbe obiettare, che essa, rispetto ad altre lingue romanze, ha prodotto pochi frutti. E’ questa –- per esempio – la posizione dello stesso Gramsci, che dopo aver detto una sacrosanta verità “il sardo non è un dialetto, ma una lingua a sé”, afferma che esso non ha prodotto “una grande letteratura”. In realtà Gramsci non conosce la letteratura sarda: e per molti versi, non poteva neppure conoscerla, dati i tempi e le condizioni storiche. E non la conosciamo appieno neppure oggi tanto che è urgente una grande operazione di scavo e di recupero del nostro patrimonio letterario, molto del quale è ancora inedito, numerosissimi testi sono ancora ignorati dagli stessi critici o sepolti in biblioteche e in archivi privati e pubblici. E occorre tener conto non solo dei testi scritti ma anche di quelli orali – abbondantissimi – quando ne siano recuperate le testimonianze. Faccio solo un esempio : abbiamo potuto conoscere Giovanni Matteo Garipa, solo recentemente, grazie alla ripubblicazione della sua opera su Legendariu de Santas Virgines et Martires de Jesu Cristu (1627) da parte dalla casa editrice Papiros di Nuoro nel 1998 con l’introduzione di Diego Corraine e la presentazione di Heinz Jürgen Wolf e Pasquale Zucca. Eppure si tratta del più grande scrittore in lingua sarda del secolo XVII. Eppure molti motivi avrebbero dovuto spingere gli studiosi a conoscere e valorizzare il Garipa, ma soprattutto due: 1.la tesi del sacerdote orgolese, oggi quanto mai attuale, della necessità dell’insegnamento della lingua sarda – definita “limba latina sarda” – come prerequisito per il corretto apprendimento, da parte degli studenti, anche delle altre lingue; 2.la sua convinzione che fosse urgente dotare la Sardegna di una tradizione letteraria «nazionale» sarda, ossia, come si direbbe oggi, di una lingua letteraria uniformemente usata in tutto il territorio dell’Isola e sorretta da un repertorio di testi in grado di competere con quelli delle altre lingue europee. Ma anche dato e non concesso che la lingua sarda abbia prodotto poco, si poteva pensare che un cavallo per troppo tempo tenuto a freno, legato imbrigliato e impastoiato potesse correre e correre velocemente? La lingua sarda, certo, deve crescere, e sta crescendo: ha soltanto bisogno che le vengano riconosciuti i suoi diritti, che le venga proprio riconosciuto il suo “status” di lingua, e dunque le opportunità per potersi esprimere, oralmente e per iscritto, come avviene per la lingua italiana.
 

La storia ufficiale? Falsa o mistificata

 di Francesco Casula
Ci voleva uno straordinario divulgatore scientifico come Mario Tozzi, in una trasmissione della TV di Stato, a risvegliare i Sardi dall’autodileggio. Tozzi ci ha infatti ricordato che la Sardegna nel periodo nuragico ha espresso la più alta civiltà in Italia (e, occorre aggiungere, nell’intero Mediterraneo occidentale). Un Isola ricoperta di foreste. Con moltissime risorse: ad iniziare da quelle minerali (argento, rame, zinco). Con un clima mite. Con tre raccolti all’anno. Peraltro assolutamente in sintonia e in linea con gli studi dei paleoclimatologi secondo cui nell’poca nuragica il clima era caldo umido con ampio sviluppo di flora lussureggiante di tipo tropicale e habitat favorevole alle specie animali. Bene a fronte di tale “narrazione”, contro Tozzi, nei Media e nei Social, da parte di molti, sono state rivolte insolenze, improperi e contumelie. Quando non veri e propri insulti; reo di aver fatto “mitopoiesi” e non informazione storica. A parer mio, tali “critici”, più opportunamente, avrebbero potuto (e dovuto) indirizzare i loro strali, verso ben altri obiettivi: nei confronti della storia “ufficiale”, quella sì mitizzata e, più spesso, falsa o comunque mistificata. Penso solo a come viene narrata la storia romana nei testi scolastici. E non mi riferisco alle fole sulla “fondazione” dell’Urbe, con le lupe, Romolo e Remo, Muzio Scevola e via via fantasticando. Mi riferisco ai Romani apportatori (ed esportatori) di civiltà e di progresso, sempre vincenti vittoriosi ed eroici. Come e da dove nasce tale “mitizzazione”? In modo particolare da Tito Livio, la principale “fonte” storica per secoli e secoli, ma ohimè, ancora per l’oggi. Livio intende la storia come diletto e ammaestramento che lo portano ad alterare le vicende storiche: di qui – per esempio – il prevalere degli interessi letterari e morali su quelli storici, soprattutto nella narrazione del periodo più arcaico. Livio è persuaso che quella di Roma fosse una storia provvidenziale, una specie di «storia sacra», quella del popolo eletto dagli dei. Deriva da questa convinzione la più attenta cura a far risaltare tutti gli atti e tutte le circostanze in cui la virtus romana abbia rifulso. Tutto ciò è chiaramente adombrato anche nel proemio della sua monumentale opera “Ab urbe condita” dove si insiste sul carattere tutto speciale del dominio romano, provvidenziale e benefico anche per i popoli soggetti: “Se a qualche popolo è opportuno permettere che circondi le proprie origini col fascino della sacralità e le attribuisca agli dei, è anche da rilevare che la maggior gloria del popolo romano in guerra è che, sebbene esso vanti particolarmente Marte come primogenitore suo e del suo fondatore Romolo, le nazioni della terra sopportino questo vanto con la medesima buona disposizione con cui si assoggettano al suo dominio”. Di qui l’impegno politico che porta Livio ad esaltare i grandi valori etici, religiosi e patriottici dell’antica Roma sulla base del “Tu regere imperio populos, Romane, memento” (Ricordati, Romano, che tu devi dominare gli altri popoli) e del “Parcere subiectis et debellare superbis” (Occorre perdonare chi si sottomette e sterminare chi osa resistere). Livio scrive dunque una storia “ideologica”, senza alcun rigore storico, con svarioni colossali e immani contraddizioni. Ci penserà lo storico Santo Mazzarino in tre monumentali volumi sul “Pensiero storico classico” (Ed. Laterza) a demitizzare tale storia “sacra”, sostenendo, alla luce di un enorme cumulo di documenti, di scoperte e di ritrovamenti archeologici che buona parte della storia romana – quella insomma che si studia a scuola – è stata inventata spesso di sana pianta, dagli storici latini e dai cronachisti di quel periodo. E ci penserà Ettore Paratore, che nella sua monumentale “Storia della Letteratura latina”,(Sansoni editore) scrive, in modo impietoso, che “chi volesse farsi un’idea precisa delle campagne militari romane attraverso Livio, finirebbe per non capire nulla” ( pagina 455). Ma tant’è: dalle scuole elementari alle superiori continuiamo a studiare favole e fole ma polemizziamo con Tozzi perché ha raccontato una civiltà nuragica ricca avanzata e prospera: che evidentemente entra in rotta di collisione con la Sardegna nuragica, povera e arretrata dei Sardi autodileggiatori. E autolesionisti.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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Carlo Felice

Carlo Felice? Per uno storico sardo ha fatto anche cose buone

16 Novembre 2020

[Francesco Casula]

Sulla Nuova Sardegna del 9 novembre scorso, il valente storico cagliaritano Gian Giacomo Ortu polemizza con i promotori del Comitato “Spostiamo la statua di Carlo Felice” con qualche sciocchezza.

Segno che non conosce l’iniziativa né i protagonisti. L’iniziativa sarebbe una “parodia di manifestazione iconoclasta”. In realtà non è né parodia e tanto meno iconoclasta. I protagonisti di tale proposta sarebbero “militanti di area sardista”. Di grazia, tale informazione, da quale archivio storico l’ha tratta? Non interessa probabilmente a nessuno, ma perché l’esimio accademico non ripeta simili sciollorius deve sapere che i promotori del Comitato appartengono a varie aree politico-culturali: liberaldemocratica, sinistra (segnatamente quella radicale) e indipendentista. Manca solo l’area politica di destra e quella neosabauda (magari mascherata di progressismo). E’ quella di Ortu? Ma veniamo al merito dell’articolo. Bontà sua, prof. Ortu scrive che i sovrani sabaudi non sono stati per la verità “mai eccelsi”. Caspita che valutazione! A mio parere invece furono proprio “eccelsi”: ma solo nelle malefatte. Penso a Umberto I, ribattezzato dagli anarchici Re mitraglia. Tale figuro premiò il generale stragista Fiorenzo Bava Beccaris non solo insignendolo della croce dell’Ordine militare dei savoia ma anche nominandolo senatore, in virtù di una portentosa impresa: nel 1898 (8 e 9 maggio), le sue truppe “spararono sulla folla inerme uccidendo circa 80 dimostranti e ferendone più di 400” (Franco della Paruta, Storia dell’Ottocento, Ed. Le Monnier, Firenze, 1992, pagina 461). E fu altresì eccelso, per i disacatos (misfatti) e le titulias (infamie) di cui si macchiò un altro tiranno sabaudo: Sciaboletta, (alias Vittorio Emanuele III): prima e seconda guerra mondiale, fascismo e leggi razziali: basta? Ma veniamo a Carlo Felice: Ortu scrive che non fu il peggiore. Avrebbe fatto anche cose positive: ”a lui si deve la Fondazione della Reale Società: Agraria ed Economica”. Perdinci! Si dimentica però il noto accademico di raccontarci quali magnifiche e progressive sorti di prosperità e sviluppo nell’Isola avrebbe apportato tale “reale Società”! E il Carlo Felice tiranno ottuso, feroce,ultrareazionario e famelico? Nella sua furia staoiatrica e fusionista, lo storico Ortu, è silente su tale tiranno: invece questo è il problema! Hic Rhodus, hic salta! Come tace sui misfatti dei Savoia. Perché? Ma perché hanno fatto l’Italia unita! Di qui gli improperi contro i promotori dello spostamento della statua il cui scopo sarebbe “non di fare i conti con la storia ma di alimentare spiriti e umori scissionisti nei confronti della nostra difettosa ma irrinunciabile Repubblica”! Continui pure Ortu nelle sue contumelie: noi continueremo a batterci perché la statua venga rimossa: per motivi culturali, etici, civili. Le statue si dedicano a sas feminas e a sos omines de gabbale che hanno fatto il bene del proprio popolo, non si dedicano ai propri carnefici. Non si dedicano a uno come Carlo Felice che è stato, fra tutti i dieci re sabaudi, che hanno sgovernato la Sardegna dal 1720 al 1946, il più ottuso, il più reazionario, il più famelico, il più sanguinario. Ottuso, non è solo il giudizio di Raimondo Carta Raspi (Storia della Sardegna): ma anche quello di Pietro Martini (filomonarchico e filosabaudo), che scriverà testualmente: “Era alieno dalle lettere e da ogni attività che gli ingombrasse la mente” (Storia di Sardegna dall’anno 1799 al 1816). Carlo Felice è fra tutti i re sabaudi il più reazionario. Lo scrive il già citato Carta-Raspi: ”Più ottuso e reazionario d’ogni altro principe, oltre che dappocco, gaudente parassita, gretto come la sua amministrazione”. E lo sostiene anche Martini “Non sì tosto il governo passò in mani del duca del Genevese (Leggi Carlo Felice, nda), la reazione levò più che per lo innanzi la testa; co¬sicché i mesi che seguirono furono tempo di diffidenza, di allarme, di terrore pubblico”. Ancora sulla stessa linea il Carta-Raspi :”Nei consigli del principe prevaleva il principio del terrore e dell’arbitrio senza limiti”. Terrore pubblico dunque riuscì a creare Carlo Felice agendo sempre con arbitrio senza limiti: da re come da viceré. Si deve a lui la repressione violenta, con l’assassinio di Francesco Cilocco e Francesco Sanna-Corda o l’impiccagione dei martiri e patrioti di Palabanda. Ma secondo me la cosa peggiore persino della sua ferocia è un’altra: la famelicità. I Savoia, cacciati da Napoleone, come esuli arrivano in Sardegna nel 1799, senza mutande, dicono gli storici. La prima operazione che fanno è di triplicare il donativo, le tasse regie, che passano da 200.000 lire sarde a 600.000 lire sarde: scuoiando ancor più ferocemente i Sardi. In un momento storico in cui, siamo all’inizio dell’800, le annate di siccità, si aggiungono a crisi agrarie e si sommano a malattie di ogni tipo e alle invasioni barbaresche. La popolazione muore letteralmente di fame e di sete e decine di migliaia di bambini muoiono di vaiolo. Carlo Felice si becca 40.000 lire sarde, il fratello, il Duca di Moriana altrettante. Morto giovane, le sue 40.000 lire se le prende Carlo Felice, quando quei soldi sarebbero dovuti ritornare alla tesoreria regia. Bene: per questi suoi comportamenti, per le sue scelte e azioni: insomma per le infamie consumate ai danni dei Sardi, la statua a lui dedicata ed eretta nella Piazza Yenne a Cagliari, deve essere dunque spostata. Da più parti mi è stato obiettato che spostare la statua significherebbe “abolire la storia”. Risponde a questa obiezione, con competenza e saggezza una ricercatrice di storia dell’Università di Cagliari, Valeria Deplano:” Le statue, come i monumenti commemorativi, o la toponomastica, non sono “la storia”, ma uno strumento attraverso cui specifici personaggi o eventi storici, accuratamente selezionati, vengono celebrati; nella maggior parte dei casi – non sempre – sono le istituzioni, in particolare quelle statali, a scegliere chi o che cosa sia degno di essere ricordato e celebrato. Si tratta di un’operazione centrale per la costruzione di una narrativa nazionale funzionale alla visione del potere stesso: il modo con cui si sceglie di ricordare il passato e di celebrarlo infatti influisce sul modo con cui gli individui e le comunità guardano il mondo, sé stessi e gli altri. Questo vale ovunque, e in qualunque epoca”. Occorre dunque distinguere fra la storia e gli spazi che, a futura memoria, i tiranni sabaudi si sono riservati per continuare ad affermare il loro dominio, almeno simbolicamente. Quella statua sta lì a “segnare” e “marchiare” il territorio, a dirti, dall’alto, che lui è il regnante e tu sardo, sei ancora suddito, unu tzeracu. Dunque devi continuare a omaggiarlo, a riconoscerlo come tale. Egli simboleggia ancora il potere, il dominio, come simboleggiano il potere e il dominio le vie dedicate ai Savoia. Ecco perché, insieme alla statua devono essere rimosse anche le Vie. Con buona pace di Ortu.