PER RICORDARE LA RIVOLTA DI PALABANDA

PALABANDA:CONGIURA O RIVOLTA RIVOLUZIONARIA?

di FRANCESCO CASULA

Di congiure è zeppa la storia. Da sempre. Da Giulio Cesare a John Fitzgerald Kennedy. Particolarmente popolato e affollato di congiure è il periodo rinascimentale italiano, nonostante gli avvertimenti di Machiavelli secondo cui “le coniurazioni fallite rafforzano lo principe e mandano nella ruina li coniurati”. Ed anche il “Risorgimento”. Esemplare la congiura di Ciro Menotti nel gennaio del 1831 ordita attraverso intrighi con Francesco IV d’Austria d’Este, dal quale sarà poi tradito e mandato al patibolo.

Congiurà che però sarà ribattezzata “rivolta”, “Moto rivoluzionario”. Solo una questione lessicale? No:semplicemente ideologica. Quella congiura, perché di questo si tratta, viene “recuperata” e inserita come momento di quel processo rivoluzionario, foriero – secondo la versione italico-patriottarda e unitarista – delle magnifiche e progressive sorti del cosiddetto risorgimento italiano. Così, una “congiura” o complotto che dir si voglia diventa un tassello di un processo rivoluzionario, esclusivamente perché vittorioso. Mentre invece – per venire alla quaestio che ci interessa – la Rivolta di Palabanda viene ridotta e immiserita a “Congiura”. E con essa diventano “Congiure”, ovvero cospirazioni di manipoli di avventurieri che con alleanze e relazioni oblique con pezzi del potere tramano contro il potere stesso. Questa categoria storiografica, che riduce le sommosse e gli atti rivoluzionari che costelleranno più di un ventennio di rivolte: popolari, antifeudali e nazionali a fine Settecento in Sardegna a semplici congiure è utilizzata non solo da storici reazionari, conservatori e filosavoia come il Manno o l’Angius

Ad iniziare dalla cacciata dei Piemontesi da Cagliari il 28 aprile 1794: considerata “robetta” e comunque alla stregua di una semplice congiura ordita da un manipolo di borghesi giacobini, illuminati e illuministi, per cacciare qualche centinaio di piemontesi. A questa tesi, ha risposto, con dovizia di dati, documenti e argomentazioni, Girolamo Sotgiu. Il prestigioso storico sardo, gran conoscitore e studioso della Sardegna sabauda e non sospettabile di simpatie sardiste e nazionalitarie, polemizza garbatamente ma decisamente proprio con l’interpretazione data da storici filosavoia come Giuseppe Manno o Vittorio Angius (l’autore dell’Inno Cunservet Deus su re) che avevano considerato la cacciata dei Piemontesi, appunto alla stregua di una congiura.

Simile interpretazione offusca – a parere di Sotgiu – le componenti politiche e sociali e, bisogna aggiungere senza temere di usare questa parola «nazionali». Insistere sulla congiura – cito sempre lo storico sardo – potrebbe alimentare l’opinione sbagliata che l’insurrezione sia stato il risultato di un intrigo ordito da un gruppo di ambiziosi, i quali stimolati dagli errori del governo e dalle sollecitazioni che venivano dalla Francia, cercò di trascinare il popolo su un terreno che non era suo naturale, di fedeltà al re e alle istituzioni” 1.

Secondo Sotgiu questo modo di concepire una vicenda complessa e ricca di suggestioni, non consente di cogliere il reale sviluppo dello scontro sociale e politico né di comprendere la carica rivoluzionaria che animava larghi strati della popolazione di Cagliari e dell’Isola nel momento in cui insorge contro coloro che avevano dominato da oltre 70 anni.

Ma veniamo a Palabanda. Si parla di rivalità a corte fra il re Vittorio Emanuele I sostenuto da don Giacomo Pes di Villamarina, comandante generale delle armi del Regno e il principe Carlo Felice sostenuto invece dall’amico e consigliere Stefano Manca di Villahermosa, che aveva un ruolo di rilievo nella vita di corte.

Ebbene è stata avanzata l’ipotesi che a guidare la cospirazione fossero stati uomini di corte molto vicini a Carlo Felice allo scopo di eliminare definitivamente i cortigiani piemontesi e di destituire il re Vittorio Emanuele I affidando al Principe la corona con un passaggio dei poteri militari dal Villamarina ad altro ufficiale, forse il capitano di reggimento sardo Giuseppe Asquer. Chi poteva incoraggiare e proteggere l’azione in tal senso era Stefano Manca di Villahermosa, per l’ascendenza di cui godeva sia presso il popolo che presso Carlo Felice.

E’ questa l’ipotesi di Giovanni Siotto Pintor che scrive: ”La corte poi di Carlo Felice accresceva il fuoco contro quella di Vittorio Emanuele: fra ambedue era grande rivalità, l’una per sistema discreditava l’altra. Villahermosa era avverso a Roburent, e tanto più dispettoso, che gli stava fitta in cuore la spina di essergli stato anteposto Villamarina nella carica di capitano delle guardie del corpo del re. Destava invero maraviglia che i cortigiani e gli aderenti a Carlo Felice osassero rimproverare i loro rivali degli stessi errori, intrighi ed arbitrij degli ultimi tempi viceragli. Pure i loro biasimi trovavano favore nelle illuse moltitudini, che giunsero a desiderare il passaggio della corona di Vittorio Emanuele a Carlo Felice, e la nuova esaltazione dei cortigiani sardi, poco prima abborriti” 2

Pressoché identica è l’ipotesi di un altro storico sardo, Pietro Martini che scrive: ”Poiché era rivalità tra le corti del re e del principe, signoreggiata l’ultima dal marchese di Villahermosa, l’altra dal conte di Roburent il quale aveva fatto nominare capitano della guardia il Villamarina, di tale discordia si giovassero per intronizzare Carlo Felice” 3 .

Si tratta di ipotesi poco plausibili. Ora occorre infatti ricordare in primo luogo che il Villahermosa, era anche legato al re tanto che il 7 novembre 1812, pochi giorni dopo i fatti di Palabanda, gli affidò l’attuazione del piano di riforma militare.

In secondo luogo non possiamo dimenticare che Carlo Felice, ottuso crudele e famelico, sia da principe e vice re che da re, era lungi dall’essere “favorevole ai Sardi” come scrive Natale Sanna che poi però aggiunge era all’oscuro di tutto 4 Ricorda infatti Francesco Cesare Casula56. che Carlo felice sarà il più crudele persecutore dei Sardi, che letteralmente odiava e contro cui si scagliò con tribunali speciali, procedure sommarie e misure di polizia, naturalmente con il pretesto di assicurare all’Isola “l’ordine pubblico” e il rispetto dell’Autorità. E comunque non poteva essere l’uomo scelto dai rivoluzionari persecutore com’era soprattutto dei democratici e dei giacobini.

In terzo luogo che bisogno c’era di una congiura per intronizzare Carlo Felice? In ogni caso a lui la corona sarebbe giunta prima o poi di diritto poiché il re non lasciava eredi maschi ed egli era l’unico fratello vivente. Quando la Quadruplice Alleanza aveva conferito il regno di Sardegna a Vittorio Amedeo II, una clausola prevedeva che il regno sarebbe ritornato alla Spagna nel caso che il re e tutta la Casa Savoia rimanesse senza successione maschile.

Scrive Lorenzo Del Piano a proposito delle ipotesi di legami e rapporti fra “i congiurati” di Palabanda con ambienti di corte e addirittura con l’Inghilterra e con la Francia: “Se dopo un secolo di indagini non è venuto fuori nulla ciò può essere dovuto, oltre che a una insanabile carenza di documentazione, al fatto che non c’era nulla da portare alla luce e che quello della ricerca di legami segreti è un problema inesistente e che comunque perde molto della sua eventuale importanza se invece che a romanzesche manovre di palazzo o a intrighi internazionali si rivolge prevalente attenzione alle forze sociali in gioco e alle persone che le incarnavano e cioè agli esponenti della borghesia cittadina che era riuscita indubbiamente mortificata dalle vicende di fine settecento e che un anno di gravissima crisi economica e sociale quale fu il 1812, può aver cercato di conquistare, sia pure in modo avventuroso e inadeguato il potere politico esercitato nel 1793-96” 6 .

Non di congiura dunque si è trattato ma di ben altro: dell’ultima sfortunata rivolta, che conclude un lungo ciclo di moti e di ribellioni, che assume tratti insieme antifeudali, popolari e nazionali.

Segnatamente la rivolta di Palabanda, per essere compresa, abbisogna di essere situata nella gravissima crisi economica e finanziaria che la Sardegna vive sulla propria pelle: conseguenza di una politica e di un’amministrazione forsennata da parte dei Savoia oltre che delle calamità naturali e delle pestilenze di quegli anni: già nel 1811 forte siccità e un rigido inverno causarono nell‘Isola una sensibile contrazione della produzione di grano, ma è soprattutto nella primavera del 1812 che la carestia e dunque la crisi alimentare si manifestò in tutta la sua drammaticità.

Cosa è stato il dramma de su famini de s’annu dox, sono storici come Pietro Martini, a descriverlo con dovizia di particolari: ”L’animo mi rifugge ora pensando alla desolazione di quell’anno di paurosa ricordanza, il dodicesimo del secolo in cui mancati al tutto i frumenti, con scarsi o niuni mezzi di comunicazione, l’isola fu a tale condotta che peggio non poteva”.

Ricorda quindi che la “strage di fanciulli pel vaiuolo, scarsità d’acqua da bere (ché niente era piovuto), difficoltà di provvisioni per la guerra marittima aggrandivano il male già di per se stesso miserando 7.

Mentre Giovanni Siotto Pintor scrive: ”Durarono lungamente le tracce dell’orribile carestia; crebbe il debito pubblico dello stato; ruinarono le amministrazioni frumentarie dei municipj e specialmente di Cagliari; cadde nell’inopia gran novero di agricoltori; in pochi si concentrarono sterminate proprietà; alcuni villaggi meschini soggiacquero alla padronanza d’uno o più notabili; i piccoli proprietari notevolmente scemarono; si assottigliarono i monti granatici; e perciò decadde l’agricoltura. Ed a tacer d’altro, il sistema tributario vieppiù viziossi, trapassati essendo i beni dalla classi inferiori a preti e a nobili esenti da molti pesi pubblici” 8.

E ancora il Martini descrive in modo particolareggiato chi si arricchisce e chi si impoverisce in quella particolare temperie di crisi economica, di pestilenze e di calamità naturali: ”Oltreché v’erano i baroni e i doviziosi proprietari i quali s’erano del sangue de’ poveri ingrassati e grande parte della ricchezza territoriale avevano in sé concentrato. I quali anziché venire in aiuto delle classi piccole, rincararono la merce e con pochi ettolitri di frumento quello che rimaneva a’ miseri incalzati dalla fame s’appropriavano. Così venne uno spostamento di sostanze rincrescevole: i negozianti fortunati straricchivano, i mediocri proprietari scesero all’ultimo gradino, gli altri d’inedia e di stenti morivano” 9.

Giovanni Siotto Pintor inoltre per spiegare le cagioni del tentativo di rivolgimento politico che meditavasi a Cagliari, allarga la sua analisi rispetto al Martini e scrive che “La Sardegna sia stata la terra delle disavventure negli anni che vi stanziarono i Reali di Savoia. Non mai la natura le fu avara dei suoi doni come nel tempo corso dal 1799 al 1812. Intrecciatisi gli scarsi ai cattivi o pessimi raccolti,impoverì grandemente il popolo ed il tesoro dello stato. A questi disastri, sommi per un paese agricola, si aggiunsero la lunga guerra marittima che fece ristagnare lo scarso commercio; le invasioni dei Barbareschi, produttrici di ingenti spese per lo riscatto degli schiavi e pel mantenimento del navile; le fazioni e i misfatti del capo settentrionale dell’isola, rovinosi per le troncate vite e le proprietà devastate e per le necessità derivatane di una imponente forza pubblica, e quindi di enormi stipendj straordinari, di nuove gravezze, e quindi dell’impiego a favore della truppa dei denari, consacrati agli stipendi dei pubblici officiali…In questa infelicità di tempi declamavano gli impiegati: i maggiori perché ambivano le poche cariche tenute dagli oltremarini; i minori perché sospesi gli stipendj, difettavano di mezzi d’onesto vivere…i commercianti maledivano il governo e gli inglesi, ai quali più che ai tempi attribuivano il ristagno del traffico…Ondechè, scadutu dall’antica agiatezza antica, schiamazzavano, calunniavano, maledivano…Superfluo è il discorrere della plebe…Questa popolare irritazione pigliava speciale alimento dalla presenza degli oltremarini primeggianti nella corte e negli impieghi, e che apertamente o in segreto reggevano le cose dello stato sotto re Vittorio Emanuele. Doleva il vederli nelle alte cariche, ad onta della carta reale del 1799, che ammetteva in esse l’elemento oltremarino, purché il sardo contemporaneamente s’introducesse negli stati continentali. Doleva che il re, limitato alla signoria dell’isola, non di regnicoli ma di uomini di quegli stati si giovasse precipuamente nel pubblico reggimento, come se quelli infidi fossero verso di lui, e non capaci di bene consigliarlo. Soprattutto inacerbiva gli animi quel loro fare altero e oltrecotato, quel mostrarsi incresciosi e malcontenti del paese ove tenevano ospizio e donde molto protraevano, indettati con certi Sardi che turpemente gli adulavano, quel loro contegno insomma da padroni” 10.

E a tutto questo occorre aggiungere le spese esorbitanti della Corte, anzi di due Corti (quella del re e quella del vice re) ambedue fameliche, che, giunte letteralmente in camicia, portarono il deficit di bilancio alla cifra esorbitante di 3 milioni, quasi tre volte l’importo delle entrate ordinarie. Mentre il Re impingua il suo tesoro personale mediante sottrazione di denaro pubblico che investirà nelle banche londinesi.

Di qui il peso delle nuove imposizioni fiscali, che colpivano non soltanto le masse contadine ma anche gli strati intermedi delle città. A tal punto – scrive Girolamo Sotgiu – che “i villaggi dovevano pagare più del clero e dei feudatari: ben 87.500 lire sarde (75 mila il clero e appena 62 mila i feudatari) mentre sui proprietari delle città, sui creditori di censi, sui titolari d’impieghi civili gravava un onere di ben 125.000 lire sarde e sui commercianti di 37 mila” 11.

Così succedeva che “Spesso gli impiegati rimanevano senza stipendio, i soldati senza il soldo, mentre ai padroni di casa veniva imposto il blocco degli affitti e ai commercianti veniva fatto pagare il diritto di tratta più di una volta12 .

Questi i corposi motivi, economici, sociali, politici, insieme popolari, antifeudali e nazionali alla base della Rivolta di Palabanda. Che in qualche modo univano, in quel momento di generale malessere intellettuali, borghesia e popolo, segnatamente la borghesia più aperta alle idee liberali e giacobine, rappresentate esemplarmente dall’esempio di Giovanni Maria Angioy. Borghesia composta da commercianti e piccoli imprenditori che si lamentavano perché “gli incassi erano pochi, la merce non arrivava regolarmente o stava ferma in porto per mesi. Intanto dovevano pagare le tasse e lo spillatico alla regina” 13.

Per non parlare della miseria del popolo: nei quartieri delle città e nei villaggi delle campagne, dove la vita era diventata ancora più dura dopo che la siccità aveva reso i campi secchi, con “contadini e pastori che fuggivano dai loro paesi e si dirigevano verso le città come verso la terra promessa” 14 .

E così “cresceva l’odio popolare contro il governo e si riponeva fiducia in coloro che animavano la speranza di un rinnovamento 15 .

Di qui la rivolta: che non a caso vedrà come organizzatori e protagonisti avvocati (in primis Salvatore Cadeddu, il capo della rivolta. Insieme a lui Efisio, un figlio, Francesco Garau e Antonio Massa Murroni); docenti universitari (come Giuseppe Zedda, professore alla Facoltà di Giurisprudenza di Cagliari); sacerdoti (come Gavino Murroni, fratello di Francesco, il parroco di Semestene, coinvolto nei moti angioyani); ma anche artigiani, operai, e piccoli imprenditori (come il fornaciaio Giacomo Floris, il conciatore Raimondo Sorgia, l’orefice Pasquale Fanni, il sarto Giovanni Putzolo, il pescatore Ignazio Fanni).

Insieme a borghesi e popolani alla rivolta è confermata la partecipazione di molti studenti e militari : “Tutto il battaglione detto di «Real Marina», formato di poco di gran numero di soldati esteri…dipartita colli suddetti insurressori per aver dedicato il loro spirito 16.

Bene: ridurre questo variegato movimento a una semplice congiura e a intrighi di corte mi pare una sciocchezza sesquipedale. Una negazione della storia.

Note bibliografiche

1. Girolamo Sotgiu, L’Insurrezione a Cagliari del 28 Aprile 1794, AM&D Cagliari, 1995.

2. Giovanni Siotto Pintor, Storia civile de’ popoli sardi dal 1799 al 1848, Libreria F. Casanova, Torino 1887, pagine 233-234.

3. Pietro Martini, Compendio della storia di Sardegna, Ed. A. Timon, Cagliari 1885, pagina 70.

4. Natale Sanna, Il cammino dei Sardi, volume III, Editrice Sardegna, Cagliari 1986, pagina 413.

5.Francesco Cesare Casula, Il Dizionario storico sardo, Carlo Delfino editore,Sassari, 2003 pagina 330.

6. Vittoria Del Piano (a cura di), Giacobini moderati e reazionari in Sardegna, saggio di un dizionario biografico 1973-1812 , Edizioni Castello, Cagliari, 1996, pagina 30.

7. Pietro Martini,Compendio della Storia di Sardegna, op. cit. pagine 60-61

8. Giovanni Siotto Pintor, Storia civile de’ popoli sardi dal 1799 al 1848, Libreria F. Casanova, Torino 1887, op. cit. pagina 222.

9. Pietro Martini, Compendio della Storia di Sardegna, op. cit. pagina 61.

10. Giovanni Siotto Pintor, Storia civile de’ popoli sardi dal 1799 al 1848, Libreria F. Casanova, Torino 1887, pagine 229-230.

11.Girolamo Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda (1720-1847), Edizioni Laterza, Roma-Bari, 1984, pagina 252.

12, Ibidem, pagine 252-253.

13. Ibidem, pagina 253.

14. Maria Pes, La rivolta tradita, CUEC,Cagliari 1994, pagina119

15. Ibidem, pagina 120.

16. Ibidem, pagina 151.

PER RICORDARE LA RIVOLTA DI PALABANDA

PALABANDA:CONGIURA O RIVOLTA RIVOLUZIONARIA?

di FRANCESCO CASULA

Di congiure è zeppa la storia. Da sempre. Da Giulio Cesare a John Fitzgerald Kennedy. Particolarmente popolato e affollato di congiure è il periodo rinascimentale italiano, nonostante gli avvertimenti di Machiavelli secondo cui “le coniurazioni fallite rafforzano lo principe e mandano nella ruina li coniurati”. Ed anche il “Risorgimento”. Esemplare la congiura di Ciro Menotti nel gennaio del 1831 ordita attraverso intrighi con Francesco IV d’Austria d’Este, dal quale sarà poi tradito e mandato al patibolo.

Congiurà che però sarà ribattezzata “rivolta”, “Moto rivoluzionario”. Solo una questione lessicale? No:semplicemente ideologica. Quella congiura, perché di questo si tratta, viene “recuperata” e inserita come momento di quel processo rivoluzionario, foriero – secondo la versione italico-patriottarda e unitarista – delle magnifiche e progressive sorti del cosiddetto risorgimento italiano. Così, una “congiura” o complotto che dir si voglia diventa un tassello di un processo rivoluzionario, esclusivamente perché vittorioso. Mentre invece – per venire alla quaestio che ci interessa – la Rivolta di Palabanda viene ridotta e immiserita a “Congiura”. E con essa diventano “Congiure”, ovvero cospirazioni di manipoli di avventurieri che con alleanze e relazioni oblique con pezzi del potere tramano contro il potere stesso. Questa categoria storiografica, che riduce le sommosse e gli atti rivoluzionari che costelleranno più di un ventennio di rivolte: popolari, antifeudali e nazionali a fine Settecento in Sardegna a semplici congiure è utilizzata non solo da storici reazionari, conservatori e filosavoia come il Manno o l’Angius

Ad iniziare dalla cacciata dei Piemontesi da Cagliari il 28 aprile 1794: considerata “robetta” e comunque alla stregua di una semplice congiura ordita da un manipolo di borghesi giacobini, illuminati e illuministi, per cacciare qualche centinaio di piemontesi. A questa tesi, ha risposto, con dovizia di dati, documenti e argomentazioni, Girolamo Sotgiu. Il prestigioso storico sardo, gran conoscitore e studioso della Sardegna sabauda e non sospettabile di simpatie sardiste e nazionalitarie, polemizza garbatamente ma decisamente proprio con l’interpretazione data da storici filosavoia come Giuseppe Manno o Vittorio Angius (l’autore dell’Inno Cunservet Deus su re) che avevano considerato la cacciata dei Piemontesi, appunto alla stregua di una congiura.

Simile interpretazione offusca – a parere di Sotgiu – le componenti politiche e sociali e, bisogna aggiungere senza temere di usare questa parola «nazionali». Insistere sulla congiura – cito sempre lo storico sardo – potrebbe alimentare l’opinione sbagliata che l’insurrezione sia stato il risultato di un intrigo ordito da un gruppo di ambiziosi, i quali stimolati dagli errori del governo e dalle sollecitazioni che venivano dalla Francia, cercò di trascinare il popolo su un terreno che non era suo naturale, di fedeltà al re e alle istituzioni” 1.

Secondo Sotgiu questo modo di concepire una vicenda complessa e ricca di suggestioni, non consente di cogliere il reale sviluppo dello scontro sociale e politico né di comprendere la carica rivoluzionaria che animava larghi strati della popolazione di Cagliari e dell’Isola nel momento in cui insorge contro coloro che avevano dominato da oltre 70 anni.

Ma veniamo a Palabanda. Si parla di rivalità a corte fra il re Vittorio Emanuele I sostenuto da don Giacomo Pes di Villamarina, comandante generale delle armi del Regno e il principe Carlo Felice sostenuto invece dall’amico e consigliere Stefano Manca di Villahermosa, che aveva un ruolo di rilievo nella vita di corte.

Ebbene è stata avanzata l’ipotesi che a guidare la cospirazione fossero stati uomini di corte molto vicini a Carlo Felice allo scopo di eliminare definitivamente i cortigiani piemontesi e di destituire il re Vittorio Emanuele I affidando al Principe la corona con un passaggio dei poteri militari dal Villamarina ad altro ufficiale, forse il capitano di reggimento sardo Giuseppe Asquer. Chi poteva incoraggiare e proteggere l’azione in tal senso era Stefano Manca di Villahermosa, per l’ascendenza di cui godeva sia presso il popolo che presso Carlo Felice.

E’ questa l’ipotesi di Giovanni Siotto Pintor che scrive: ”La corte poi di Carlo Felice accresceva il fuoco contro quella di Vittorio Emanuele: fra ambedue era grande rivalità, l’una per sistema discreditava l’altra. Villahermosa era avverso a Roburent, e tanto più dispettoso, che gli stava fitta in cuore la spina di essergli stato anteposto Villamarina nella carica di capitano delle guardie del corpo del re. Destava invero maraviglia che i cortigiani e gli aderenti a Carlo Felice osassero rimproverare i loro rivali degli stessi errori, intrighi ed arbitrij degli ultimi tempi viceragli. Pure i loro biasimi trovavano favore nelle illuse moltitudini, che giunsero a desiderare il passaggio della corona di Vittorio Emanuele a Carlo Felice, e la nuova esaltazione dei cortigiani sardi, poco prima abborriti” 2

Pressoché identica è l’ipotesi di un altro storico sardo, Pietro Martini che scrive: ”Poiché era rivalità tra le corti del re e del principe, signoreggiata l’ultima dal marchese di Villahermosa, l’altra dal conte di Roburent il quale aveva fatto nominare capitano della guardia il Villamarina, di tale discordia si giovassero per intronizzare Carlo Felice” 3 .

Si tratta di ipotesi poco plausibili. Ora occorre infatti ricordare in primo luogo che il Villahermosa, era anche legato al re tanto che il 7 novembre 1812, pochi giorni dopo i fatti di Palabanda, gli affidò l’attuazione del piano di riforma militare.

In secondo luogo non possiamo dimenticare che Carlo Felice, ottuso crudele e famelico, sia da principe e vice re che da re, era lungi dall’essere “favorevole ai Sardi” come scrive Natale Sanna che poi però aggiunge era all’oscuro di tutto 4 Ricorda infatti Francesco Cesare Casula56. che Carlo felice sarà il più crudele persecutore dei Sardi, che letteralmente odiava e contro cui si scagliò con tribunali speciali, procedure sommarie e misure di polizia, naturalmente con il pretesto di assicurare all’Isola “l’ordine pubblico” e il rispetto dell’Autorità. E comunque non poteva essere l’uomo scelto dai rivoluzionari persecutore com’era soprattutto dei democratici e dei giacobini.

In terzo luogo che bisogno c’era di una congiura per intronizzare Carlo Felice? In ogni caso a lui la corona sarebbe giunta prima o poi di diritto poiché il re non lasciava eredi maschi ed egli era l’unico fratello vivente. Quando la Quadruplice Alleanza aveva conferito il regno di Sardegna a Vittorio Amedeo II, una clausola prevedeva che il regno sarebbe ritornato alla Spagna nel caso che il re e tutta la Casa Savoia rimanesse senza successione maschile.

Scrive Lorenzo Del Piano a proposito delle ipotesi di legami e rapporti fra “i congiurati” di Palabanda con ambienti di corte e addirittura con l’Inghilterra e con la Francia: “Se dopo un secolo di indagini non è venuto fuori nulla ciò può essere dovuto, oltre che a una insanabile carenza di documentazione, al fatto che non c’era nulla da portare alla luce e che quello della ricerca di legami segreti è un problema inesistente e che comunque perde molto della sua eventuale importanza se invece che a romanzesche manovre di palazzo o a intrighi internazionali si rivolge prevalente attenzione alle forze sociali in gioco e alle persone che le incarnavano e cioè agli esponenti della borghesia cittadina che era riuscita indubbiamente mortificata dalle vicende di fine settecento e che un anno di gravissima crisi economica e sociale quale fu il 1812, può aver cercato di conquistare, sia pure in modo avventuroso e inadeguato il potere politico esercitato nel 1793-96” 6 .

Non di congiura dunque si è trattato ma di ben altro: dell’ultima sfortunata rivolta, che conclude un lungo ciclo di moti e di ribellioni, che assume tratti insieme antifeudali, popolari e nazionali.

Segnatamente la rivolta di Palabanda, per essere compresa, abbisogna di essere situata nella gravissima crisi economica e finanziaria che la Sardegna vive sulla propria pelle: conseguenza di una politica e di un’amministrazione forsennata da parte dei Savoia oltre che delle calamità naturali e delle pestilenze di quegli anni: già nel 1811 forte siccità e un rigido inverno causarono nell‘Isola una sensibile contrazione della produzione di grano, ma è soprattutto nella primavera del 1812 che la carestia e dunque la crisi alimentare si manifestò in tutta la sua drammaticità.

Cosa è stato il dramma de su famini de s’annu dox, sono storici come Pietro Martini, a descriverlo con dovizia di particolari: ”L’animo mi rifugge ora pensando alla desolazione di quell’anno di paurosa ricordanza, il dodicesimo del secolo in cui mancati al tutto i frumenti, con scarsi o niuni mezzi di comunicazione, l’isola fu a tale condotta che peggio non poteva”.

Ricorda quindi che la “strage di fanciulli pel vaiuolo, scarsità d’acqua da bere (ché niente era piovuto), difficoltà di provvisioni per la guerra marittima aggrandivano il male già di per se stesso miserando 7.

Mentre Giovanni Siotto Pintor scrive: ”Durarono lungamente le tracce dell’orribile carestia; crebbe il debito pubblico dello stato; ruinarono le amministrazioni frumentarie dei municipj e specialmente di Cagliari; cadde nell’inopia gran novero di agricoltori; in pochi si concentrarono sterminate proprietà; alcuni villaggi meschini soggiacquero alla padronanza d’uno o più notabili; i piccoli proprietari notevolmente scemarono; si assottigliarono i monti granatici; e perciò decadde l’agricoltura. Ed a tacer d’altro, il sistema tributario vieppiù viziossi, trapassati essendo i beni dalla classi inferiori a preti e a nobili esenti da molti pesi pubblici” 8.

E ancora il Martini descrive in modo particolareggiato chi si arricchisce e chi si impoverisce in quella particolare temperie di crisi economica, di pestilenze e di calamità naturali: ”Oltreché v’erano i baroni e i doviziosi proprietari i quali s’erano del sangue de’ poveri ingrassati e grande parte della ricchezza territoriale avevano in sé concentrato. I quali anziché venire in aiuto delle classi piccole, rincararono la merce e con pochi ettolitri di frumento quello che rimaneva a’ miseri incalzati dalla fame s’appropriavano. Così venne uno spostamento di sostanze rincrescevole: i negozianti fortunati straricchivano, i mediocri proprietari scesero all’ultimo gradino, gli altri d’inedia e di stenti morivano” 9.

Giovanni Siotto Pintor inoltre per spiegare le cagioni del tentativo di rivolgimento politico che meditavasi a Cagliari, allarga la sua analisi rispetto al Martini e scrive che “La Sardegna sia stata la terra delle disavventure negli anni che vi stanziarono i Reali di Savoia. Non mai la natura le fu avara dei suoi doni come nel tempo corso dal 1799 al 1812. Intrecciatisi gli scarsi ai cattivi o pessimi raccolti,impoverì grandemente il popolo ed il tesoro dello stato. A questi disastri, sommi per un paese agricola, si aggiunsero la lunga guerra marittima che fece ristagnare lo scarso commercio; le invasioni dei Barbareschi, produttrici di ingenti spese per lo riscatto degli schiavi e pel mantenimento del navile; le fazioni e i misfatti del capo settentrionale dell’isola, rovinosi per le troncate vite e le proprietà devastate e per le necessità derivatane di una imponente forza pubblica, e quindi di enormi stipendj straordinari, di nuove gravezze, e quindi dell’impiego a favore della truppa dei denari, consacrati agli stipendi dei pubblici officiali…In questa infelicità di tempi declamavano gli impiegati: i maggiori perché ambivano le poche cariche tenute dagli oltremarini; i minori perché sospesi gli stipendj, difettavano di mezzi d’onesto vivere…i commercianti maledivano il governo e gli inglesi, ai quali più che ai tempi attribuivano il ristagno del traffico…Ondechè, scadutu dall’antica agiatezza antica, schiamazzavano, calunniavano, maledivano…Superfluo è il discorrere della plebe…Questa popolare irritazione pigliava speciale alimento dalla presenza degli oltremarini primeggianti nella corte e negli impieghi, e che apertamente o in segreto reggevano le cose dello stato sotto re Vittorio Emanuele. Doleva il vederli nelle alte cariche, ad onta della carta reale del 1799, che ammetteva in esse l’elemento oltremarino, purché il sardo contemporaneamente s’introducesse negli stati continentali. Doleva che il re, limitato alla signoria dell’isola, non di regnicoli ma di uomini di quegli stati si giovasse precipuamente nel pubblico reggimento, come se quelli infidi fossero verso di lui, e non capaci di bene consigliarlo. Soprattutto inacerbiva gli animi quel loro fare altero e oltrecotato, quel mostrarsi incresciosi e malcontenti del paese ove tenevano ospizio e donde molto protraevano, indettati con certi Sardi che turpemente gli adulavano, quel loro contegno insomma da padroni” 10.

E a tutto questo occorre aggiungere le spese esorbitanti della Corte, anzi di due Corti (quella del re e quella del vice re) ambedue fameliche, che, giunte letteralmente in camicia, portarono il deficit di bilancio alla cifra esorbitante di 3 milioni, quasi tre volte l’importo delle entrate ordinarie. Mentre il Re impingua il suo tesoro personale mediante sottrazione di denaro pubblico che investirà nelle banche londinesi.

Di qui il peso delle nuove imposizioni fiscali, che colpivano non soltanto le masse contadine ma anche gli strati intermedi delle città. A tal punto – scrive Girolamo Sotgiu – che “i villaggi dovevano pagare più del clero e dei feudatari: ben 87.500 lire sarde (75 mila il clero e appena 62 mila i feudatari) mentre sui proprietari delle città, sui creditori di censi, sui titolari d’impieghi civili gravava un onere di ben 125.000 lire sarde e sui commercianti di 37 mila” 11.

Così succedeva che “Spesso gli impiegati rimanevano senza stipendio, i soldati senza il soldo, mentre ai padroni di casa veniva imposto il blocco degli affitti e ai commercianti veniva fatto pagare il diritto di tratta più di una volta12 .

Questi i corposi motivi, economici, sociali, politici, insieme popolari, antifeudali e nazionali alla base della Rivolta di Palabanda. Che in qualche modo univano, in quel momento di generale malessere intellettuali, borghesia e popolo, segnatamente la borghesia più aperta alle idee liberali e giacobine, rappresentate esemplarmente dall’esempio di Giovanni Maria Angioy. Borghesia composta da commercianti e piccoli imprenditori che si lamentavano perché “gli incassi erano pochi, la merce non arrivava regolarmente o stava ferma in porto per mesi. Intanto dovevano pagare le tasse e lo spillatico alla regina” 13.

Per non parlare della miseria del popolo: nei quartieri delle città e nei villaggi delle campagne, dove la vita era diventata ancora più dura dopo che la siccità aveva reso i campi secchi, con “contadini e pastori che fuggivano dai loro paesi e si dirigevano verso le città come verso la terra promessa” 14 .

E così “cresceva l’odio popolare contro il governo e si riponeva fiducia in coloro che animavano la speranza di un rinnovamento 15 .

Di qui la rivolta: che non a caso vedrà come organizzatori e protagonisti avvocati (in primis Salvatore Cadeddu, il capo della rivolta. Insieme a lui Efisio, un figlio, Francesco Garau e Antonio Massa Murroni); docenti universitari (come Giuseppe Zedda, professore alla Facoltà di Giurisprudenza di Cagliari); sacerdoti (come Gavino Murroni, fratello di Francesco, il parroco di Semestene, coinvolto nei moti angioyani); ma anche artigiani, operai, e piccoli imprenditori (come il fornaciaio Giacomo Floris, il conciatore Raimondo Sorgia, l’orefice Pasquale Fanni, il sarto Giovanni Putzolo, il pescatore Ignazio Fanni).

Insieme a borghesi e popolani alla rivolta è confermata la partecipazione di molti studenti e militari : “Tutto il battaglione detto di «Real Marina», formato di poco di gran numero di soldati esteri…dipartita colli suddetti insurressori per aver dedicato il loro spirito 16.

Bene: ridurre questo variegato movimento a una semplice congiura e a intrighi di corte mi pare una sciocchezza sesquipedale. Una negazione della storia.

Note bibliografiche

1. Girolamo Sotgiu, L’Insurrezione a Cagliari del 28 Aprile 1794, AM&D Cagliari, 1995.

2. Giovanni Siotto Pintor, Storia civile de’ popoli sardi dal 1799 al 1848, Libreria F. Casanova, Torino 1887, pagine 233-234.

3. Pietro Martini, Compendio della storia di Sardegna, Ed. A. Timon, Cagliari 1885, pagina 70.

4. Natale Sanna, Il cammino dei Sardi, volume III, Editrice Sardegna, Cagliari 1986, pagina 413.

5.Francesco Cesare Casula, Il Dizionario storico sardo, Carlo Delfino editore,Sassari, 2003 pagina 330.

6. Vittoria Del Piano (a cura di), Giacobini moderati e reazionari in Sardegna, saggio di un dizionario biografico 1973-1812 , Edizioni Castello, Cagliari, 1996, pagina 30.

7. Pietro Martini,Compendio della Storia di Sardegna, op. cit. pagine 60-61

8. Giovanni Siotto Pintor, Storia civile de’ popoli sardi dal 1799 al 1848, Libreria F. Casanova, Torino 1887, op. cit. pagina 222.

9. Pietro Martini, Compendio della Storia di Sardegna, op. cit. pagina 61.

10. Giovanni Siotto Pintor, Storia civile de’ popoli sardi dal 1799 al 1848, Libreria F. Casanova, Torino 1887, pagine 229-230.

11.Girolamo Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda (1720-1847), Edizioni Laterza, Roma-Bari, 1984, pagina 252.

12, Ibidem, pagine 252-253.

13. Ibidem, pagina 253.

14. Maria Pes, La rivolta tradita, CUEC,Cagliari 1994, pagina119

15. Ibidem, pagina 120.

16. Ibidem, pagina 151.

 

 

EFISIO CADONI recensisce la “Letteratura e civiltà della Sardegna” di Francesco Casula (2 volumi, Edizioni Grafica del Parteolla)

EFISIO CADONI di Villacidro, artista poliedrico e versatile (è infatti scrittore, poeta, pittore, scultore, ceramista e caricaturista) presenta a Iglesias la “Letteratura e civiltà della Sardegna” di Francesco Casula,

Una magistrale, colta e acuta recensione.

Il giorno 24 d’ottobre 2014 si è presentata l’ òpera di Francesco Casula in due volumi “Letteratura e Civiltà della Sardegna”, alla presenza dell’autore, nella sala Remo Branca del palazzo comunale di Iglesias. I relatori Franco Carlini e Efisio Cadoni sono stati preceduti dall’introduzione della poetessa Alessandra Porru e da un excursus letterario della giornalista Ilaria Muggianu Scano.

Intervento di Efisio Cadoni

Le mie considerazioni sulla raccolta antològica della prosa e della poesía degli scrittori sardi, in lingua sarda e in lingua italiana, che è il piú recente lavoro intellettuale di Francesco Casula, verterà sull’individuazione di alcune línee guida che non solo caratterízzano l’òpera nella sua originalità, ma sono dei veri punti chiave che ne àprono le porte a una piú fàcile comprensione.

Colgo direttamente dalla copertina i concetti “essenziali” che ci offre l’autore come argomenti da sviluppare, temi da svòlgere, quelli che egli propone e che costituíscono il motivo ispiratore, esattamente dalle immàgini e dal títolo. Le immàgini ci condúcono immediatamente agli scrittori, ad autori che sono alcuni dei personaggi di cui scrive e che riconosciamo, Deledda, Gramsci, Lussu, Peppino Mereu ( nel primo volume); Lobina, Màsala, Atzeni, Michele Columbu (nel secondo volume) … Le parole del títolo ci dànno chiara chiara la materia che Francesco Casula diligentemente spècula: Letteratura, Civiltà, Sardegna.

La Sardegna è il luogo geogràfico, ma è anche il locus amoenus ac necessarius, il luogo attraente e gradito agli scrittori, ma per loro fortemente indispensàbile, necessario alla loro esistenza speciale; e quindi rappresenta l’estensione, la dilatazione non solo spaziale, ma temporale e di profondo rapimento interiore in cui si gènerano e si fórmano gli scrittori di cui Casula scrive. È il luogo in cui, dunque, nasce e cresce, nel tempo,  la letteratura di pari passo con la civiltà da cui essa s’orígina e  di cui si nutre, con cui si rinvigorisce e, come si diceva una volta, si reficia, si ristora ricevèndovi l’umífero terreno ove autore e fruitore tròvano giovamento spirituale. E il luogo rappresenta perciò anche il límite che blocca l’interesse crítico e stòrico di Francesco Casula, il confine invalicàbile davanti a cui si ferma, dove c’è Setta e Sibilia, oltre il quale non ha motivo di spíngere la sua “canoscenza”, perché il suo universo da esplorare ed esplorato, oggi, è qui, dentro la nostra ísola, nella nostra terra.

Oggi e qui Francesco Casula illúmina il píccolo grande mondo degli scrittori Sardi, perché non è cosa da poco scrívere un saggio antològico sulla letteratura di un pòpolo e, in un certo senso, farne la storia, fare la storia della civiltà dei Sardi. Ed è questo l’oggetto della sua ricerca, del suo impegno, del suo studio, della sua esplorazione.

Casula ha tracciato la storia della letteratura della Sardegna, anche se, con molta modestia, non la nòmina neppure “la storia”. Eppure, di storia della letteratura si tratta. Storia della letteratura della Sardegna che è anche storia della lingua dei Sardi, fin dalle sue orígini, perché la lingua è il “legame” che unisce in quell’astrattezza vitale, in quella spiritualità affratellante che i filòsofi chiamàvano “identicità”. Nell’identità, appunto, come in una sola natura specificamente individuale dell’umanità, la lingua sarda unisce una gente, una stirpe e un pòpolo che vien fuori dei sècoli di continue “intromissioni”, per non usare altri tèrmini piú aspri e violenti, e nonostante queste.

Letteratura e Civiltà della Sardegna è quindi “storia” della letteratura dei Sardi: un percórrere il tempo per il tràmite delle parole, attraverso le “espressioni” della lingua della Sardegna, della nostra lingua, fin dai primi documenti, dai contratti, dai làsciti, dai condaghi, per giúngere a noi, alla nostra “scrittura” da una scrittura che sa di civiltà preistòrica, sempre “a un passo” dalle nostre case, come direbbe Giuseppe Dessí, che sa di latino, ma anche di asiano, che sa di spagnolo catalano e aragonese, che sa di italiano e di francese, accanto all’altra, alla scrittura “ufficiale” di Italiani con la lingua di Dante. Storia questa, perciò, della letteratura della Sardegna che è anche storia della lingua dei Sardi, della lingua scritta e della lingua parlata; poiché la lingua scritta è la lingua parlata, quella che usiamo per comunicare, per esprímere passioni, sentimenti, decisioni, ragionamenti, volontà, quella che, in sostanza, è sempre la medésima, uguale a sé stessa, quella che ci dà, ecco, l’identicità, l’identità, il nostro id-ioma nazionale di Sardi, nel cui nome stesso troviamo la radice del nostro esser Sardi, l’id, l’idem, il medésimo, la medésima lingua, la peculiarità, l’idioma appunto, la stessa “identità”, una corrispondenza spirituale irrinunciàbile, l’esser una cosa sola, pur con forme diverse e diverse manifestazioni, identidem, sempre.

Io non credo che la “voluta” dimenticanza, il vuoto della parola “storia” sia determinato da un dubbio che ha tolto l’inchiostro dalla penna a Casula, dallo stesso dubbio che ha colto Salvatore Tola, altro studioso appassionato di sardità e di lingua sarda, il quale si è fatto sedurre, ma non convíncere, dal pensiero dell’algherese Pietro Nurra che, autore di “Canti popolari sardi” e di una raccolta antològica di “Poesía popolare in Sardegna”, sosteneva che non si pòssono definire “letteratura” gli scritti dei tantíssimi autori sardi, perché non non hanno “unità di concetto e lingua comune”. E perciò nessuna letteratura e nessuna storia. E non ho dúbbi sul fatto che, sia l’uno sia l’altro, síano o no d’accordo con lui; anzi sono certo che la pènsano diversamente. In ogni caso, la parola “storia” manca, ma la “letteratura” resta.

E che cos’è la letteratura se non la glorificazione delle passioni, dei sentimenti, dei concetti che prèndono forma e manifèstano sostanza dai segni scritti, dalle léttere, dalle parole? Essa, in Sardegna,  è l’insieme delle parole e dei pensieri che “costruíscono” storie d’umanità di tutti i Sardi che han voluto, in tutti i tempi, comunicare razionalmente, esteticamente, poeticamente e sensazioni e intuizioni e pensieri. Essa è espressione della poièsis, attività dello spírito, potere dello spírito, in versi e in prosa. E la civiltà da cui si sviluppa è l’intelligenza dello stare bene insieme, del vívere insieme con un senso profondo del dovere e del rispetto dell’uomo verso l’altro uomo, la coscienza della felicità di stare in pace gli uni con gli altri, scandendo il tempo verso il progresso.

E dunque, tra le cose “essenziali” di questo libro, oltre all’identità come collante che accomuna e come condizione naturale e metafísica insieme, oltre alla lingua come elemento “nazionale” e “vivo” dei Sardi che ci contraddistingue, nostra linfa naturale, oltre alla civiltà che cammina da sècoli con la parola scritta, ci sono i “píccoli spàzi” che Francesco Casula ha predisposto nel suo testo come preziose teche in cui presenta le sue novità, i  punti chiave di comprensione.

   Novità vuol dire anche originalità. Le novità perciò sono, forse, il maggior “pregio” del libro, nel senso che esse fanno della sua òpera una singolare guida didàttica alla lettura della produzione letteraria in Sardegna.

E vi troviamo la “Presentazione” dei testi, i “Giudízi crítici” arricchiti da quelli di numerosi altri commentatori, il settore ch’egli títola “Analizzare”, in cui affonda la propria capacità interpretativa quasi scomponendo, sezionando ogni composizione scelta e, come ho scritto altrove, quale maestro didatta dei lettori, grande suggeritore e accompagnatore alla conoscenza, quasi interrogando gli autori, in una sorta di escussione risolutiva, perentoria; e vi troviamo, infine, “Flash di storia e civiltà” dove dà il giusto vígore ad ogni autore calàndolo nel proprio ambiente, con la opportuna luce agli scritti, con le informazioni precise sulla sua vita, sulla società in cui vive, sul suo tempo.

Ma la “novità” vera è ancora quella concatenazione di mezzi di conoscenza e comprensione, strumenti pròpri del clàssico “didatta”, cioè di colui che fa coincídere il proprio insegnamento con il conseguente apprendimento da parte di chi ne ha curiosità, di chi vuole assaporare l’arte attraverso la lettura; e perciò ecco gli altri “spàzi”, quelli che ho definito “línee guida” dell’òpera, i settori in cui si fanno precisi suggerimenti :“approfondimenti” intorno ai rapporti esterni, al luogo in cui vive l’autore, alla storia; “confronti”, analogíe differenze con altri autori; “ricerche” tese ad allargare il campo della conoscenza, “spunti vàri”, attraverso un invito a metter a fuoco determinate questioni, precise letture, per una riflessione a voce alta. E qui si appalesa maggiormente la volontà di Francesco Casula d’esser maestro e guida per una “scuola” che riacquista il suo primigenio significato greco di tempo líbero, di “tempo della cultura”, corrispondente all’aurum otium litterarum dei Romani, il riposo, la pace, il tempo dedicato alle léttere.

Òpera per tutti, questa Letteratura e Civiltà di Sardegna, ma particolarmente destinata al mondo della scuola, ai freschi remigini come ai giòvani d’impegno già di salda schiena, un’òpera per tutti degna di un’attenta lettura, grazie alle qualità di scrittura chiara e sémplice di Francesco Casula che, con l’arricchimento culturale, ci dona anche la soddisfazione del godimento spirituale del lèggere, che è grande, talvolta, quanto il piacere dello scrívere.

Iglesias, 24 de mes’‘e ladàminis,  2014

  Efisio Cadoni

De Poesiā sarda

De Poesiā sarda

di Francesco Casula

1. la poesia orale, come canto.

La lingua sarda, la nostra lingua materna, è  soprattutto senso, suoni, musica. Lingua di vocali. Dunque corporale e fisica e insieme aerea, leggera e impalpabile. E le vocali sono per il poeta l’anima della lingua, sono il nesso fra la lingua e il canto; fra la poesia, i numeri della musica, il ritmo e il ballo.Tanto che, storicamente, i confini fra poesia e musica e danza, sono sempre stati labili e sfumati a tal punto che gli antichi poeti – gli aedi greci per esempio – non scrivevano poesie ma le cantavano, accompagnandosi con la lira: non a caso nasce il termine “lirica” e aoidòs in greco significa “cantore”.

Ma “cantano” anche Dante e Petrarca, Ariosto e Tasso e Leopardi. E i “cantadores” sardi, soprattutto gli improvvisatori.  Anzi questi cantano e basta:non scrivono la poesia. E non solo perché spesso non sanno scrivere ma perché la poesia nasce come canto, come musica non come testo scritto da leggere. E’ curioso l’esempio di Diego Mele, uno dei più grandi e significativi poeti satirici in lingua sarda, le cui canzoni popolari, erano, come lo sono ora in bocca di tutti  – annoterà Giovanni Spano, archeologo nonché storico e studioso della lingua –  ma non erano ancora scritte. Anzi le sue oesie per decenni circolano solo oralmente e solo un anno prima della morte accetta di dettarle al figlioccio, Pietro Meloni Satta nel 1860.

2. la poesia come canto e musica. Per ballare.

I grandi poeti in limba sarda i versi sembrano carezzarli e coccolare tessendoli così abilmente, che spesso essi si risolvono nel terso nitore della parola, nel giro musicale della frase, nella misura metrica di ritmi sapientemente scanditi e guidati da un orecchio musicale che riesce a ordire, con acuta selezione di lessemi, aggettivi e fonemi, fini ricami di immagini potenti e di metafore ardite.

Essi cantano con quella lingua materna che riassume la fisionomia, il timbro, l’energia inventiva, la cultura, la civiltà peculiare del nostro popolo. Una lingua – il Sardo – che è insieme memoria e universo di saperi e di suoni. Che sottende – talvolta in modo nascosto e subliminale – senso e insieme oltresenso, musica, ritmo e ballo. Segnatamente il ballo tondo: momento magico in cui l’intera comunità, tott’umpare, si pesat a ballare, si muove in cerchio. E con questo esprime una molteplicità di segni, significati, simboli e riti: l’armonia dell’universo, il movimento dell’acqua e del fuoco, il Nuraghe. E con esso tutta la civiltà e la cultura nuragica che evoca e richiama: la democrazia federalista e comunitaria, il rifiuto del capo, del gerarca, del sovrano – la Sardegna è sempre stata acefala – la difesa intransigente dell’autonomia e dell’indipendenza di ogni singola comunità, di ogni singolo villaggio.

3. la lingua  materna ricca, libera  e pregante,

Quella lingua che è soprattutto espressione della nostra civiltà e della nostra storia dunque ma nel contempo, strumento per difendere e sviluppare la nostra identità e la nostra coscienza di popolo e di nazione. Una lingua, i cui lemmi che la compongono, infatti, prima di essere un suono sono stati oggetti, oggetti che hanno creato una civiltà, oggetti che hanno creato storia, lavoro, tradizioni, letteratura, cultura. E la cultura è data dal battesimo dell’oggetto.

Quella lingua che è ancora libera, popolana, vera, indipendente, ricca: istinto e fantasia, passione e sentimento. A fronte delle lingue imperiali, viepiù fredde, commerciali e burocratiche, viepiù liquide e gergali,invertebrate e povere, al limite dell’afasia: certo indossano cravatta e livrea ma rischiano di essere solo dei manichini. Come la stessa lingua italiana “senza i calli dei dialetti di origine. Perché essa certo deriva dal latino ma soprattutto da un’Amazzonia di dialetti, da un bacino alluvionale di parlate locali arroccate in centinaia di borghi, suddivise in millesimi di sfumature, dialetti rimasti inespugnabili per secoli. L’Italiano sta a valle di innumerevoli affluenti, indipendenti e fieri del loro vocabolario, dell’accento irrepetibile da chi non ci è nato” (Erri De Luca). Senza questa ricchezza l’Italiano si estingue o comunque deperisce.

Una lingua, quella sarda che – se insegnata con intelligenza nelle Scuole di ogni ordine e grado – potrebbe servire persino per migliorare e favorire, soprattutto a fronte del nuovo “analfabetismo di ritorno“, viepiù trionfante, a livello comunicativo e lessicale, lo “status linguistico”. Che oggi risulta essere, in modo particolare nei giovani e negli stessi studenti, povero e banale. Tanto che qualche studioso sostiene la tesi dei giovani “semiparlanti”: che non conoscono più la lingua sarda  e parlano (e scrivono) un italiano frammentario, disorganizzato, improprio, gergale; la cui parola dice di sé solo le accezioni selezionate dal Piccolo Palazzi: senza metafore, senza natura,senza storia, senza vita.

4. la lingua sarda: segno e simbolo dell’appartenenza e dell’identità

Quella lingua che è soprattutto valore simbolico di autocoscienza storica e di forza unificante, il segno più evidente dell’appartenenza e delle radici che dominatori di ogni risma e zenìa hanno cercato di recidere.

Ma nessun ripiegamento nostalgico o risentito verso il passato: ma il passato sepolto, nascosto, rimosso, censurato e falsificato, si tratta prima di tutto di ricostruirlo, di dissotterrarlo, di conoscerlo e in qualche modo, anche di inverarlo, perché diventi fatto nuovo che interroga l’esperienza del tempo attuale, per affrontare il presente nella sua drammatica attualità, per definire un orizzonte di senso, per situarci e per abitare, aperti al suo respiro, il mondo, lottando contro il tempo della dimenticanza e della smemoratezza.

5. Cos’è la poesia per Montanaru 

It’est sa poesia?… Est sa lontana

bell’immagine bida e non toccada,

unu vanu disizu, una mirada,

unu ragiu ’e sole a sa fentana,

………………………………….

Unu sonu improvisu de campana,

sas armonias d’una serenada

o sa oghe penosa e disperada

de su entu tirende a tramuntana.

……………………………….

It’est sa poesia?… Su dolore,

sa gioia, su tribagliu, s’isperu,

sa oghe de su entu e de su mare.

………………………………..

Sa poesia est tottu, si s’amore

nos animat cudd’impetu sinceru,

e nos faghet cun s’anima cantare.    (Montanaru)

 

 

 

 

 

 

La drammatica vicenda dei Kurdi di Francesco Casula

Lo strano e drammatico destino dei Kurdi.

di Francesco Casula

I Curdi sono sottoposti ad uno strano e drammatico destino: fino a ieri senza diritti, deportati, incorporati coattivamente in una miriade di Stati stranieri: Iraq, Iran, Siria, Turchia e persino Libano e in alcune regioni asiatiche dell’ex URSS. Ed oggi armati, corteggiati, vezzeggiati: dall’Europa e dagli Stati Uniti. Ovvero dalla Realpolitik dell’Occidente e da chi fin’ora ha negato loro uno Stato. E, temo, continuerà a negarglielo, dopo averli utilizzati per i propri interessi geopolitici ed economici: oggi, in particolare, contro l’Isis e il delirio criminale e fanatico jihadista. Forse non è un caso che, anche oggi. la Turchia li abbandoni, lasciandoli soli a combattere eroicamente contro i terroristi jihadisti e per la difesa di Kobane..

Senza Stato, il popolo kurdo, con più di 30 milioni di abitanti, dal lontano 1924 ha subito una politica di discriminazione razziale che non ha esempi né precedenti in nessuna altra parte del mondo.

Gli Stati che opprimono il popolo kurdo, con tutti i mezzi a loro disposizione, come la Stampa, La Radio-TV, l’esercito, la polizia, la Scuola, L’Università, hanno condotto e continuano a condurre una politica mirante non solo a negare i loro diritti inalienabili, sanciti da tutte le Convenzioni internazionali e dell’ONU, ma a eliminare la loro stessa esistenza fisica.

Per quasi un secolo i kurdi non esistono: né come popolo, né come etnia, né come lingua, né come cultura.

In modo particolare in Turchia – ma anche gli altri Stati che li hanno incorporati non sono da meno, pensiamo solo ai massacri da parte del dittatore criminale Saddam Hussein – il popolo kurdo è soggetto a distruzione sistematica da parte di tutti i governi che si sono succeduti dal 1924.

Secondo alcuni storici dal 1924 al 1941 la politica kurda è stata nei confronti dei kurdi di vero e proprio “etnocidio”: penso in modo particolare a J. P. Derriennic (Le moyen Orient au XX siecle,  pag.68).

Ma non basta. Il dramma dei Kurdi è certamente quello di essere martoriati e “negati” negli Stati in cui sono attualmente incorporati  ma anche quello di essere cancellati dall’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, dai media, dalla scuola.

A questo proposito mi sono preso la briga di analizzare e visionare, in modo rigoroso e puntuale ben 32 testi scolastici di storia estremamente rappresentativi e attualmente in adozione nelle Scuole italiane, rivolti ai trienni delle scuole superiori (Licei, Magistrali, Istituti tecnici e professionali). Alcuni sono particolarmente noti, di storici di vaglia (G. Candeloro e R. Villari, F. Della Peruta e G. De Rosa, A. Desideri e M. Themelly, A. Giardina e G. Sabbatucci, A. Brancati e T. Pagliarani, A. Camera e R. Fabietti, A. Lepre e M. Bontempelli, C. Cartiglia e M. Matteini, F. Gaeta, P. Villani, G. De Luna).

E case editrici prestigiose (Laterza, Mondadori, Cappelli, Sei, Le Monnier, Bulgarini, Zanichelli, La Nuova Italia, Bulgarini etc. etc.) e che comunque vanno per la maggiore. Ebbene, dal mio studio e dalla mia indagine risulta che su 32 testi – che diventano 96 perché ogni pomo contiene tre volumi, uno per ciascuna classe del triennio –  ben trenta non dedicano neppure una riga al problema kurdo: di più, il termine kurdo non viene neppure nominato! Eppure si tratta di storici non solo noti e prestigiosi ma di ispirazione e orientamento prevalentemente cattolica, liberale, progressista ma soprattutto di sinistra. Ahi, ahi, che brutti scherzi combinano ai “nostri” le categorie storiche statoiatriche, centralistiche, eurocentriche e occidentalizzanti!.

Solo un testo (volume 3°, rivolto dunque alle Quinte superiori o alla Terza classe del Liceo classico) di Alberto De Bernardi-Scipione Guarraccino, accenna ai Kurdi indirettamente, quando parla di Kemal Ataturk. Ecco il riferimento testuale: ”Nel 1925 represse nel sangue la rivolta dei Kurdi che chiedevano l’applicazione dell’Autonomia in base al trattato di Sevres” (La Conoscenza storica, Il Novecento, Edizioni scolastiche Mondadori, Milano 2000, pag.73.

Chi invece  dedica un lunga e pregevole nota è un testo firmato a più mani (il volume 3/1, Geografia della Storia – lo scontro per la supremazia mondiale – di Aruffo-Adagio-Marri-Ostoni-Pirola-Urso, ed. Capelli).

Mi piace riportare testualmente qualche stralcio della nota titolata:” I Kurdi e il Kurdistan”. Eccola.

“Il Kurdistan è un territorio di frontiera, che si estende dal mare nero alla Mesopotamia, all’altopiano iranico e all’Anti Tauro. Esso è ai margini di quattro emisferi culturali, etnici e politici (arabo, persiano, turco, russo). E’ territorialmente diviso fra Turchia, Iran, Iraq e Siria. Il Kurdistan settentrionale comprende 18 delle 67 province turche. Quello meridionale comprende 4 delle 18 province iraqene. Ad oriente il territorio kurdo copre 4 delle 24 province iraniane mentre il Kurdistan siriano costituito da 3 enclaves, è considerato propaggine di quello turco.

I Kurdi sono un popolo indoeuropeo la cui lingua ne qualifica l’identità nazionale, più della religione musulmano-sunnita. Sottoposti alla disintegrazione etnica-culturale (minoranze curde esistono in Libano e nelle regioni asiatiche dell’ex URSS), alla deportazione di massa da parte turca e iraqena, alla colonizzazione, i Kurdi sono stati costretti ad emigrare per evitare persecuzioni e disoccupazione. Alla loro storia nuoce non poco il fatto di abitare territori ricchi di petrolio e divenuti centro di contese regionali e internazionali. Col trattato di Sèvres fra l’impero ottomano e le potenze vincitrici della Prima guerra mondiale (1918-1920), la Turchia si impegnò a favorire la formazione di un Kurdistan autonomo nella parte orientale dell’Anatolia e nella provincia di Mossul, presupposto dell’indipendenza. Il disegno delle potenze imperialistiche  mirava a farne uno stato cuscinetto fra Russia e Turchia. Ma la vittoria della rivoluzione Kemalista e il trattato di Losanna cancellarono i diritti del popolo kurdo”.

Ricordo che tale rivoluzione fu guidata da Ataturk, celebrato dai “nostri” storici e dall’Occidente in modo entusiastico, quando in realtà fu il più grande persecutore e massacratore del popolo kurdo.

 

 

 

MONTANARU E LA LINGUA SARDA di Francesco Casula

 

MONTANARU E LA LINGUA SARDA

di Francesco Casula

Sabato 11 ottobre prossimo a Norbello (ore 18, Sala del Consiglio comunale) organizzato da Comune, dall’Ufficio della lingua sarda e dalla Biblioteca comunale si terrà il Convegno:

Una die pro amentare a Montanaru.

Una parte della mia relazione la dedicherò a “Montanaru e la lingua sarda”

 

Antioco Casula-Montanaru, al di là della sua funzione letteraria e poetica vede, nella lingua sarda, anche una funzione civile, educativa e didattica. Ecco cosa scrive nel suo Diario: “…il diffondere l’uso della lingua sarda in tutte le scuole di ogni ordine e grado non è per gli educatori sardi soltanto una necessità psicologica alla quale nessuno può sottrarsi, ma è il solo modo di essere Sardi, di essere cioè quello che veramente siamo per conservare e difendere la personalità del nostro popolo. E se tutti fossimo in questa disposizione di idee e di propositi ci faremmo rispettare più di quanto non ci rispettino”.

E ancora: “Spetta a noi maestri in primo luogo di richiamare gli scolari alla conoscenza del mondo che li circonda usando la lingua materna”.

Si tratta – come ognuno può vedere – di una posizione avveduta, sul piano didattico, culturale ed educativo e moderna. Oggi infatti  linguisti e glottologi come tutti gli studiosi delle scienze sociali: psicologi e pedagogisti, antropologi e psicanalisti e persino psichiatri sono unanimemente concordi nel sostenere l’importanza della lingua materna: per intanto per lo sviluppo equilibrato dei bambini. Secondo gli studiosi infatti il Bilinguismo, praticato fin da bambini, sviluppa l’intelligenza e costituisce un vantaggio intellettuale non sostituibile con l’insegnamento in età scolare di una seconda lingua, ad esempio l’inglese. Nell’apprendimento bilingue entrano in gioco fattori di carattere psico- linguistico di grande portata formativa, messi in evidenza da appropriati e rigorosi studi e ricerche. Tutto ciò, soprattutto con il Bilinguismo a base etnica.

Lingua materna che significa identità, e l’Identità come lingua si fa parola e la parola si fa scrittura che chiama i sardi all’unione, non solo con il sentimento ma con l’autocoscienza:quello di appartenere alla stessa terra-madre. “Per difendere – dice Montanaru –  la personalità del nostro popolo”

Un’identità mai del tutto compiuta e conclusa, ma da completare in continuum, attingendo alle peculiari risorse spirituali, morali e materiali della tradizione, purgandole delle scorie inutili o addirittura maligne: e ciò non può però significare un incantamento romantico del passato, una sterile contemplazione per ridursi e rispecchiarsi in se stessi o per chiudersi nelle riserve

Una lingua che non resta dunque immobile – come del resto l’identità di un popolo – come fosse un fossile o un bronzetto nuragico, ma si “costruisce“ e si “ricostruisce” dinamicamente nel tempo, si confronta e interagisce, entrando nel circuito della innovazione linguistica, stabilendo rapporti di interscambio con le altre lingue. Per questo concresce all’agglutinarsi della vita culturale e sociale: come già sosteneva Gramsci.

In tal modo la lingua, non è solo mezzo di comunicazione fra individui, ma è il modo di essere e di vivere di un popolo, il modo in cui tramanda la cultura, la storia, le tradizioni.

E comunque in quanto strumento di comunicazione è capace di esprimere tutto l’universo culturale, compreso il messaggio politico, scientifico, e non solo dunque – come purtroppo ancora  oggi molti pensano e sostengono – contos de foghile!

Ma la posizione di Montanaru in merito alla lingua sarda emerge ancor più nella polemica che ebbe con tale Anchisi. Nel 1933 il poeta desulese pubblicò Sos cantos de sa solitudine che riscosse un buon successo. Nacque ben presto una pesante polemica con Gino Anchisi, giornalista collaboratore dell’Unione Sarda, il quale dopo aver sostenuto che, bravo com’era, Casula doveva scrivere in italiano anziché in sardo, al mancato assenso del poeta richiese il rispetto della legge che imponeva l’uso esclusivo della lingua italiana; Anchisi ottenne perciò la censura di Casula dai giornali isolani, lasciando peraltro apparire che il poeta non avesse risposto. Aveva invece risposto, sostenendo che il risveglio culturale della Sardegna poteva nascere solo dal recupero della madre lingua.

Nella replica Montanaru farà infatti, in merito al Sardo, una serie di osservazioni estremamente interessanti e in qualche modo profetiche: ricorderà infatti che “la lingua dei padri” sarebbe diventata la “lingua nazionale dei Sardi” perché “non si spegnerà mai nella nostra coscienza il convincimento che ci vuole appartenere a una etnia auctotona”. L’interesse di queste affermazioni è duplice: da una parte auspica, prevede e desidera una sorta di “lingua sarda nazionale unitaria”, dall’altra ancòra la stessa all’etnia auctotona sarda. Si tratta di posizioni, culturali, linguistiche e politiche estremamente attuali che saranno sviluppate negli anni ’70 dall’algherese Antonio Simon Mossa, il teorico dell’indipendentismo-federalismo moderno.

 

MA MONTANARU ERA FASCISTA? di Francesco Casula

MA MONTANARU ERA FASCISTA?

di Francesco Casula

 Sabato 11 ottobre prossimo a Norbello (ore 18, Sala del Consiglio comunale) organizzato da Comune, dall’Ufficio della lingua sarda e dalla Biblioteca comunale si terrà il Convegno:

Una die pro amentare a Montanaru.

Una parte della mia relazione la dedicherò per chiarire la vexata Quaestio sul “Fascismo” di Montanaru. 

I denigratori e i malevoli accusano Montanaru di essere stato fascista. A parte che uno scrittore o un poeta deve essere valutato per le sue qualità letterarie ed estetiche e non la sua appartenenza politica: altrimenti dovremmo – ma è solo un esempio – sottovalutare Pirandello che aderì e si iscrisse al fascismo e proprio nel momento (19 settembre 1924) in cui il regime iniziava a mostrare il suo volto più odioso (con l’assassinio di Matteotti). E non mi consta che nessuno dei critici di Montanaru si scagli contro Pirandello. A parte questa osservazione dunque occorre chiarire fino in fondo il “fascismo” di Antioco Casula.

E’ vero nei primi anni del fascismo vi aderì. Occorre però conoscere il clima, la temperie culturale e politica di quegli anni in Sardegna in cui il fascismo tentò di presentarsi con un suo volto “sardista” tanto che corteggiò insistentemente il Movimento dei combattenti e lo stesso Partito sardo e una parte del suo gruppo dirigente vi aderì: ad iniziare da Egidio Pilia, che diventò l’uomo forte del fascismo nell’Isola e la cui ambizione fu quella, neanche tanto nascosta, di sardizzare il Fascismo: attuare attraverso la copertura fascista, i programmi del Sardismo. I sardo-fascisti (espressione ironica che i fascisti della prima ora affibbiarono ai nuovi fascisti di estrazione sardista) ripresero alcuni cardini di politica economica che il Sardismo aveva ereditato soprattutto da Attilio Deffenu: la formazione di cooperative di produttori del settore caseario che mise fine al monopolio degli industriali del settore (provenienti per la quasi totalità dalla penisola) e così, nelle intenzioni del Pili, sarebbero dovute realizzarsi le cooperative agricole, col supporto di Casse Comunali di Credito Agrario, che sarebbero dovute nascere e svilupparsi in modo capillare in ogni centro dell’isola. L’apice del successo del cosiddetto sardo-fascismo si ebbe con lo stanziamento da parte del governo, di un miliardo di lire da spendere in opere pubbliche.

A ciò occorre aggiungere che proprio nel periodo iniziale del Fascismo (negli anni 19221924 in cui Montanaru aderì) il pedagogista Giuseppe Lombardo Radice, alle dirette dipendenze dell’allora ministro della Pubblica Istruzione Giovanni Gentile, come direttore generale dell’Istruzione primaria e popolare, provvide alla stesura dei programmi ministeriali per le scuole elementari o primarie, prevedendo fra le altre anche l’uso delle lingue regionali nei testi didattici per le scuole con il programma Dal dialetto alla lingua, nel rispetto delle differenze storiche degli italiani e per facilitare l’apprendimento e lo sviluppo intellettuale degli scolari, partendo dalla lingua viva. L’inserimento del sardo a scuola era proprio l’obiettivo per cui il maestro Montanaru di batteva, essendo convinto assertore del valore della lingua sarda e dell’importanza del suo insegnamento nelle scuole.

Questa ventata liberalizzatrice di lingua e cultura locale durò pochissimo: con il consolidarsi del regime fascista nel 1924, specie dopo l’assassinio di Matteotti, prevalse l’enfasi unificatrice, omologatrice e livellatrice tanto che fu avviata un’azione repressiva nei confronti degli alloglotti e, per quanto ci riguarda, della lingua e cultura sarda: fu vietato non solo  l’uso della lingua sarda ma le stesse gare poetiche estemporanee. Anzi, il Fascismo ben presto, ad iniziare dagli anni trenta, imboccata la strada dell’imperialismo e dell’autarchia, tenterà di cancellare il concetto stesso di civiltà regionale e di regione e abolirà l’uso del Sardo, in nome dell’italianità, minacciata a suo dire da tutto quanto era “locale”.

Così Montanaru non solo si allontana ma inizia ad essere perseguitato e finirà addirittura in prigione. E’ lui stesso a descriverlo nel suo Diario:

”La sera del giorno 16 dicembre 1927, uscito da scuola, mi avviai lungo la strada a fare due passi nonostante il tempo fosse pessimo: Mi venne incontro un appuntato dei carabinieri che mi pregò di avvicinarmi in caserma, dove io andai tranquillo come chi ha la coscienza a posto. Oltre al commissario sunnominato ci trovai un delegato di pubblica sicurezza, venuto da Nuoro, circondato dai carabinieri e agenti in borghese. Mi venne dato il fermo per ordine del Prefetto e fui tradotto a Nuoro senza che i miei sapessero nulla. Ero già proposto per il confino e sarei dovuto andare a Lampedusa. Ma questo sembrò poco ai miei persecutori che pensarono di intentarmi un processo con ben quaranta capi di accusa. Questo gesto criminoso fu la mia salvezza. Affidato ai magistrati ordinari, dopo un’istruttoria minuziosa ma sollecita, fui prosciolto da ogni accusa con una luminosa sentenza affermante che i fatti non sussistevano. Ben novanta giorni durò questa mia odissea. Che produsse dolorose rime che uscirono a brani come singhiozzi”.

Fra i capi d’accusa quello che sarebbe amico di latitanti e banditi del Gennargentu. Il motivo vero era che il regime non poteva sopportare uno spirito libero come Montanaru, impegnato per di più nella battaglia per la lingua e la cultura sarda, assolutamente osteggiate dal regime. E così continuerà a perseguitarlo e penderà su di lui, per anni e anni, la minaccia continua del confino.Questa la verità storica: tutto l’altro è paccottiglia anti Montanaru.

 

Unu meledu subra pastores e pastoralismu

Unu meledu subra pastores e pastoralismu: sena pastores morit sa Sardigna intrea

di Francesco Casula

I pastori il 23 settembre scorso sono ritornati in Piazza a Cagliari. Come fanno oramai da anni. A ben vedere assistiamo a una vera e propria rivoluzione sociologica e persino antropologica: che smentisce i luoghi comuni sui pastori individualisti, restii alla collaborazione, isolati, soli e solitari nelle loro aziende e nei loro ovili. In periodiche assemblee si riuniscono per discutere, concordare e decidere, collettivamente e democraticamente, obiettivi della vertenza, forme di lotta, iniziative. In migliaia scendono in piazza, organizzati ma senza avere dietro le burocratiche Associazioni tradizionali del mondo agro-pastorale: anzi, spesso contro di loro. Coinvolgendo famiglie e  sindaci  ma anche studenti e lavoratori di altri comparti: tanto che possiamo considerare la lotta dei pastori una vera e propria lotta di popolo e, dunque, non di una sola categoria. Questo, non a caso.

Il pastore infatti non è solo una delle una delle tante figure sociali e la pastorizia non è solo un comparto economico: essa infatti ha prodotto ben altro che latte, formaggi, carne e lana: ha dato luogo al pastoralismo e ai codici e valori che esso sottende e che in buona sostanza costituiscono il nerbo della civiltà e dell’intera cultura sarda.

Per intanto però occorre sottolineare che la pastorizia, come comparto economico, nonostante crisi e difficoltà, nella storia ha sempre retto e i pastori, ancora oggi, non sono una sorta di tribù sopravvissuta alla storia (Ignazio Delogu). Nonostante i reiterati tentativi storici di interrarli.

Pur con crisi e difficoltà immani, la pastorizia è stata storicamente l’unico comparto economico che ha sempre retto: anche a fronte, della fallimentare industrializzazione, dello strozzinaggio delle banche, della lingua blu. Ha retto perché si tratta dell’unica industria, endogena e autocentrata, che  crea un indotto che nessuna altra industria nell’Isola ha mai creato. L’unica “industria” legata al territorio e ai saperi tradizionali, diffusa ubiquitariamente, al contrario dell’industria per “poli”. Che presiede, salvaguardia e difende l’ambiente, garantendo la manutenzione di oltre il 70% del territorio isolano.

Oggi corre un serio pericolo: se non di scomparsa, certo di drastico ridimensionamento che potrebbe ridurla ad attività marginale, sia dal punto di vista economico che occupazionale. C’è infatti da chiedersi quante delle 16.000 aziende pastorali oggi presenti in Sardegna potranno ancora “resistere” a fronte della gravissima crisi che attanaglia il comparto. Quanti occupati potranno ancora sopravvivere producendo “in perdita”. Una pluralità di motivi convergono infatti ad acuire la crisi: primo fra tutti il prezzo del latte pagato una miseria. Sostanzialmente come 20-25 anni fa! A fronte dei mangimi che nel frattempo sono quadruplicati, insieme  all’energia e al gasolio. Il prezzo del latte – pur se fondamentale è solo uno degli elementi della vertenza: dalla piattaforma del MPS emergono tutta una serie di richieste e di obiettivi finalizzati all’uscita dalla crisi. Ad iniziare dal credito e la burocrazia: ormai – ha affermato il leader Felice Floris – il pastore passa più tempo negli uffici che nelle campagne!

Se muore il pastore e la pastorizia non muore solo una delle tante figure sociali o un comparto economico ma la Sardegna intera: il suo etnos, il suo universo culturale, artistico e rituale. Ad iniziare dall’immaginario simbolico rappresentato fra l’altro dalle maschere di carnevale; dall’immaginario musicale rappresentato soprattutto dal Canto a tenore, riconosciuto dall’Unesco, nel 2004, come patrimonio immateriale dell’Umanità.

Ma c’è altro ancora: sottesi al pastoralismo vi sono codici  e valori che storicamente hanno segnato e impregnato la civiltà sarda,

Un patrimonio secolare –scrive l’antropologo Bachisio Bandinu, gran conoscitore delle cose sarde – che dall’età dei nuraghi, ha prodotto una cultura, un simbolo, una scuola di vita, un modo di essere, praticamente scomparso in Europa, che perdura ancora oggi, in Sardegna, pur nella sua forma attuale di civiltà… Non come semplice revival etnologico-folklorico, come museo di tradizioni popolari, operazione di nostalgia o folklorizzazione turistica ma, pur attingendo a lingua e linguaggi, atteggiamenti e comportamenti, interessi e valori, riti e simboli del passato, pone la questione di un rapporto positivo tra locale e globale e si interroga se questa civiltà secolare sia capace di inserirsi nel processo di mondializzazione, elaborando alcuni caratteri distintivi della propria cultura per adattarsi alla nuove esigenze della contemporaneità.

Senza la pastorizia la Sardegna si ridurrebbe a forma di ciambella: con uno smisurato centro abbandonato, spopolato e desertificato: senza più uno stelo d’erba. Con le comunità di paese, spogliate di tutto, in morienza. Di contro, con le coste sovrappopolate e ancor più inquinate e devastate dal cemento e dal traffico. Con i sardi ridotti a lavapiatti e camerieri. Con i giovani senza avvenire e senza progetti. Senza più un orizzonte né un destino comune. Senza sapere dove andare né chi siamo. Girando in un tondo senza un centro: come pecore matte.

Una Sardegna ancor più colonizzata e dipendente. Una Sardegna degli speculatori, dei predoni e degli avventurieri economici e finanziari di mezzo mondo, di ogni risma e zenia. Buona solo per ricchi e annoiati vacanzieri, da dilettare e divertire con qualche ballo sardo e bimborimbò da parte di qualche “riserva indiana”, peraltro in via di sparizione.

Si ridurrebbe a un territorio anonimo: senza storia e senza radici, senza cultura e senza lingua. Disincarnata e sradicata. Ancor più globalizzata e omologata. Senza identità. Senza popolo. Senza più alcun codice genetico e dunque organismi geneticamente modificati (OGM). Ovvero con individui apolidi. Cloroformizzati e conformisti. Sarebbe un etnocidio: una sciagura e una disfatta etno-culturale e civile,prima ancora che  economica e sociale.

Apocalittico e catastrofista? Vorrei sperarlo.