CARLO FELICE

 

FRANCESCO CILOCCO

Un grande eroe, martire e patriota sardo, morto per la libertà e l’indipendenza della Sardegna. Colpevolmente sconosciuto e dimenticato dagli stessi Sardi.

Assassinato dal dominio poliziesco e tirannico dei savoia, regnante come vice re CARLO FELICE

 Est ora de l’amentare!

 

di Francesco Casula

 

Patriota ed eroe nazionale sardo (Cagliari 1769 –Sassari 1802).

Figlio di Michele e fratello di Antonio, poi implicato nella Rivolta di Palabanda. Notaio della Reale Udienza. Repubblicano convinto, pur avendo combattuto contro i rivoluzionari francesi nel 1793, per difendere Cagliari e la Sardegna dalla loro aggressione e tentativo di conquista.

Fu seguace e amico di Giovanni Maria Angioy e, insieme a lui protagonista nelle lotte e nelle ribellioni antifeudali e nazionali dei Sardi contro il feudalesimo e il dominio tirannico e poliziesco dei Savoia.

Nel novembre del 1795, col notaio Antonio Manca e con l’avvocato Giovanni Falchi, seguaci dell’Angioy, fu inviato dagli Stamenti nel Capo di Sopra, per la pubblicazione e diffusione, nei villaggi, del pregone viceregio del 23 ottobre che contraddice la circolare del governatore di Sassari Santuccio del 12 dello stesso mese, che ordinava di sospendere tutti gli ordini provenienti da Cagliari. Un vero e proprio tentativo “secessionista” del governatore stesso e dei baroni. che avevano la loro roccaforte proprio a Sassari.

“L’invio dei tre commissari, secondo la Storia dei torbidi, ripresa dal Manno, è preceduta da una riunione a Cagliari alla quale prendono parte, oltre ai «capi cagliaritani della congiura» anche gli avvocati Mundula e Fadda di Sassari e altri «innovatori» sassaresi, in tale riunione si stabiliscono le linee d’azione per il futuro: mobilitazione dei villaggi del Logudoro, assedio di Sassari, arresto dei reazionari, loro traduzione a Cagliari”(1).

Nonostante il viceré, venuto a conoscenza del piano, cerchi di dissuadere Cilocco dal pubblicare e diffondere il pregone, il Nostro non solo lo pubblica e lo diffonde ma diviene l’anima dei moti, insieme agli altri due commissari, Manca e Falchi, riuscendo a coinvolgere e mobilitare nella sua battaglia antifeudale non solo il popolo (contadini e villici in genere), particolarmente colpito dalla scarsità dei raccolti negli anni 1793-95, ma anche settori della piccola nobiltà e del clero: di qui la partecipazione alle lotte antifeudali di numerosi sacerdoti come i parroci Gavino Sechi Bologna (rettore di Florinas), Aragonez (rettore di Sennori), Francesco Sanna Corda (rettore di Torralba) e Francesco Muroni, (rettore di Semestene) che “conoscevano le miserie e talvolta subivano le stesse angherie dai baroni e dai loro ministri” (2).

Annota inoltre lo storico Girolamo Sotgiu che “direttamente investiti dalla massa degli zappatori affamati, i proprietari coltivatori, che costituiscono l’altro cardine della società rurale, sollecitavano anch’essi la fine del sistema feudale. Anche i proprietari coltivatori erano notevolmente aumentati come aumentata era la produzione complessiva. Ma a questo

 

aumento della produzione non aveva fatto riscontro un aumento del benessere, proprio per gli impedimenti posti dal sistema feudale”(3).

Di qui la lotta antifeudale e antibaronale ma anche di liberazione nazionale . Racconta Francesco Sulis che “Il Ciloccco nel villaggio di Thiesi intesosi con Don Pietro Flores amico dell’Angioy, da un terrazzo della Casa Flores eccitò quelli popolani a insorgere contro i feudatari; e di subito essi tennero l’invito, ed a furia, con tutta sorta di stromenti percotendo le mura del palazzo feudale, lo rovinarono e l’adequarono al suolo”(4)

AOsilo, Sedini e Nulvi, tre centri dell’Anglona i vassalli si rifiutarono di pagare i diritti feudali. Mentre a Ittiri, Uri, Thiesi, Pozzomaggiore e Bonorva e ad Ozieri e Uri i contadini s’impossessarono dei granai dei feudatari.

Una lotta cheassume però anche caratteri più squisitamente politici, prefigurando in qualche modo un nuovo ordine e una nuova organizzazione sociale, attraverso una trasformazione non violenta dell’assetto esistente. Sempre a Thiesi infatti, il 24 novembre davanti al notaio Francesco Sotgiu Satta le ville di Thiesi, Bessude e Cheremule, del marchesato di Montemaggiore, appartenente al duca dell’Asinara, con sindaci, consiglieri, prinzipales, capi famiglia, firmano il primo atto confederativo, cui seguirono nei mesi successivi altri patti d’alleanza. E con esso giurano di non riconoscere più alcun feudatario, ma anche di voler “ricorrere prontamente a chi spetta per essere redenti pagando a tal effetto quel tanto, che da’ Superiori sarà creduto giusto e ragionevole”(5).

I cosiddetti “strumenti di unione” ovvero “patti” fra ville e paesi segnano un salto di qualità della lotta antifeudale, facendole assumere una cifra più squisitamente politica: le federazioni di comunità infatti assurgono al ruolo di soggetto primario, di protagonista fondamentale nell’evoluzione sociale dell’Isola. Esse si moltiplicano e si diffondono in tutto il Sassarese: dopo quelli del 24 novembre se ne stipula un altro a Thiesi il 17 marzo 1796 fra i rappresentanti di 32 paesi fra i quali Bonorva, Ittiri, Osilo, Sorso, Mores, Bessude, Banari, Santu Lussurgiu, Semestene e Rebeccu. “Il patto – scrive Vittoria Del Piano –  vincola le popolazioni a spendere fin l’ultima goccia di sangue, piuttosto che obbedire in avvenire ai loro baroni” (6).

Lo sbocco di questo ampio movimento, autenticamente rivoluzionario e sociale, perché metteva radicalmente in discussione i capisaldi del sistema vigente nelle campagne, fu l’assedio di Sassari. A migliaia – 13 mila secondo le fonti ufficiali e secondo Francesco Sulis, un esercito di contadini armati, proveniente dal Logudoro ma anche dal Meilogu e da paesi più lontani, accorse a Sassari, stringendola d’assedio. Secondo invece lo storico Giuseppe Manno “Sommavano quegli armati a meglio di tremila, non numerando le donne che in copioso numero erano venute anch’esse a guerra, o per assistere i congiunti o per comunione d’odio ed eransi partiti da Osilo, Sorso, Sennori, Usini, Tissi, Ossi, Thiesi, Mores, Sedilo, Ploaghe e altri luoghi posti in quelle circostanze”(7).

Il numero di tremila è poco credibile: vista la massiccia e ubiquitaria mobilitazione soprattutto dei paesi del Logudoro e dell’Anglona ma anche

 

 

 

del Meilogu. del Goceano e non solo. Il Manno, storico conservatore e filosavoia, tende a minimizzare e sminuire l’ampiezza, l’organizzazione e la

qualità di una lotta di migliaia e migliaia di contadini, uomini e donne, che dopo secoli di rassegnazione, usi a chinare il capo e a curvare la schiena, si ribellano, si armano per dire basta e per porre fine a un duro stato di servitù, di rapina e di sfruttamento inaudito.

Il Manno non è dunque credibile. La sua, più che una Storia della Sardegna è infatti una Storia regia della Sardegna. E non è un caso che il magistrato sassarese Ignazio Esperson nei suoi Pensieri sulla Sardegna dal 1789 al 1848, definisca il Manno“l’antesignano della scuola delle penne partigiane e cortigianesche che vergognano le patrie storie”.

A migliaia, comunque, al di là del numero, a piedi e a cavallo circondarono Sassari, pare al canto di Procurade ‘e moderare, Barones, sa tirannia di Francesco Ignazio Mannu. Così l’esercito dei contadini, guidato dal Cilocco  e da Gioachino Mundula, costrinse la città alla resa dopo uno scambio di fucilate con la guarnigione. Quindi, mentre il famigerato duca dell’Asinara, il conte d’Ittiri e alcuni feudatari, erano riusciti a scappare precipitosamente in tempo, prima dell’assedio, rifugiandosi in Corsica prima e nel Continente poi, Cilocco e Mundula arrestarono il governatore don Antioco Santuccio e l’arcivescovo Giacinto Vincenzo Della Torre, portandoli a Cagliari verso cui si dirigono  con 500 uomini armati.

Gli Stamenti d’accordo col viceré, per porre rimedio alla piega, secondo loro pericolosa e “sovversiva” che avevano preso gli avvenimenti, inviarono loro incontro altri tre commissari, che li raggiunsero con un manipolo di guardie il 4 gennaio 1796 a Oristano, ed ingiunsero loro dì liberare gli ostaggi e rimandare ai villaggi d’origine i loro uomini, nel frattempo ridottisi di numero. Ad un primo rifiuto, due giorni dopo, a Sardara, i commissari viceregi risposero con un atto di forza. Cilocco, per paura di essere arrestato, consegna il governatore Santuccio e l’arcivescovo Della Torre ai tre inviati del vicerè : l’avvocato Ignazio Musso, l’abate Raffaele Ledà e Efisio Luigi Pintor Sirigu, ex democratico, uno dei protagonisti della cacciata dei Piemontesi da Cagliari il 28 aprile 1794, ma ormai “pentito” e da vero e proprio voltagabbana, rientrato, opportunisticamente, in cambio di onori, uffizi e privilegi, nell’alveo filo sabaudo.

Era il segnale della svolta moderata che stava maturando negli Stamenti e che avrebbe di lì a poco provocato anche la caduta di Angioy: si concludeva infatti così quella che, a posteriori, sarebbe apparsa come la prova generale della sfortunata marcia di G. M. Angioy.

“Non sembra – scrive Bruno Anatra – che il Cilocco facesse parte del gruppo che nel corso dello stesso anno, seguì Angioy nella sua missione a Sassari e nella successiva, rapidamente abortita, spedizione su Cagliari. È certo invece che, appena la repressione da strisciante si fece palese, anche il Cilocco prese la via dell’esilio e raggiunse il gruppo giacobino sardo a Parigi. Di qui, nella convinzione dell’imminenza di una azione francese in direzione della Sardegna, nella primavera del 1799, gran parte di essi si trasferivano in Corsica. Del gruppo faceva parte il Cilocco che nel gennaio 1801 risulta fosse ad Ajaccio” (8).

 

 

E’ comunque certo che il 21 maggio del 1802 si trasferisce in Corsica, insieme a Mundula, Sanna Corda e altri. Con Sanna Corda in particolare  collabora per preparare il progetto di una insurrezione in Sardegna: che avrebbe dovuto contare questa volta  – dopo i tentativi sempre falliti di coinvolgere truppe francesi – esclusivamente sui Sardi ancora fedeli ad Angioy e comunque nemici giurati del feudalesimo e dei governanti piemontesi, per fondare una repubblica sarda indipendente.

Negli ultimi mesi del 1799 c’era stata la rivolta, sanguinosamente repressa, di Thiesi e Santulussurgiu, segno agli occhi di Cilocco che lo spirito antifeudale nel Logudoro era ancora vivo. E dunque si poteva dare un corso diverso alla storia della Sardegna. Nonostante la monarchia sabauda con i suoi scherani, avesse “già raso al suolo più di un villaggio, inaugurato la forca itinerante, tagliato molte teste, ingalerato a piacimento innocenti e sospetti, seviziato donne e frustato bambini”(9).

Essi inoltre contavano, per costituire una solida base di appoggio, sull’irriducibile banditismo dei, pastori galluresi. All’uopo presero contatto con un famigerato bandito e contrabbandiere, Pietro Mamia, e per suo tramite con i pastori del circondario di Aggius, prospiciente la sponda corsa. Fu una scelta imprudente e suicida:il Mamia farà il doppio gioco: interessato com’era più a ottenere la cancellazione dei suoi delitti da parte delle autorità galluresi che  alla proclamazione della repubblica sarda.

Il progetto prevedeva lo sbarco in Gallura che  avrebbe dovuto provocare la sollevazione della Sardegna. Un primo tentativo nel maggio 1802 fallì. Ripetuto in giungo con un manipolo di uomini, prevedeva lo sbarco del Sanna Corda ai piedi della torre di Longonsardo (l’attuale Santa Teresa di Gallura) e del Cilocco presso la torre dell’Isola Rossa. La spedizione ebbe un esito tragico: il Sanna Corda che aveva espugnato la torre e alzato la bandiera della libertà, inviando alle autorità galluresi lettere in nome della repubblica francese, fu attaccato da un piccolo corpo di spedizione inviato da La Maddalena e cadde combattendo sotto le mura della torre (19 giugno). Cilocco, tradito da Mamia, cui si era affidato soprattutto per la conoscenza dei luoghi, fu narcotizzato (con un vino oppiato) o, comunque sorpreso nel sonno e consegnato ai soldati inviati da Sassari il 25 luglio del 1802.

Secondo Giovanni Siotto Pintor invece, braccato per le campagne, con una taglia sul capo di 500 scudi, fu catturato da numerosi banditi, ecco cosa scrive in proposito “fu fermo da quattordici malandrini intesi a procacciarsi l’impunità, trascinato a d’orso d’asino insino a Sassari, flagellato orribilmente dal boia, afforcato”(10).

L’eroe sardo, fu così umiliato (fu infatti messo, sanguinante e pesto, su un asino e fatto entrare prima a Tempio e poi a Sassari, – dopo aver attraversato molti altri paesi sempre sul dorso di un asino – fra la folla accorsa a vedere lo spettacolo e una ciurma di giovinastri prezzolati che fischiavano e gridavano), colpito da una frusta, di doppia suola intessuta con piombo, a tal punto che non può rimanere né in piedi né coricato ma carpone. Una fustigazione deprecata persino da uno storico conservatore

 

 

 

 

come il Manno che scrive ”alla mano del manigoldo non fu lasciato l’arbitrio di quella naturale umanità che poteva sorgere anche nel cuore di un carnefice. Egli fu talmente aizzato da quei notabili andategli incontro, che il carnefice stesso ebbe a mostrarsene indispettito. Il barone maggiore soprannominato il Duca dell’Asinara, dal balcone del suo palazzo lanciava parole di crudele beffa contro l’infelice frustato…”

La supplica che gli venga comminata la pena del carcere perpetuo o il perpetuo esilio è respinta da Placido Benedetto di Savoia, Conte di Moriana, (fratello del re di Sardegna Carlo Emanuele IV). Cedendo – scrive Carta Raspi – ai suoi istinti sbirreschi.

Insieme all’altro fratello, Carlo Felice, vice re e re ottuso e famelico, (sarà soprannominato Carlo Feroce dal poeta e patriota piemontese Angelo Brofferio) l’infame Conte di Moriana ricorrerà  dopo il generoso tentativo del Cilocco e del Sanna Corda, a una repressione violenta e brutale nei confronti dei Sardi patrioti, anche vagamente sospettati di aver preso parte alla tentata insurrezione.

Il Cilocco fu quindi condannato a morte l’11 agosto del 1802, e il 30 pur disfatto per le torture subite, recuperata la propria lucidità, con animo forte – scrive il Martini – saliva sulla forca.

“Non gli fu neppure risparmiata la tortura della corda e delle tenaglie infuocate. Il corpo verrà bruciato e le ceneri saranno disperse al vento, la testa conficcata sul patibolo i beni confiscati” (11).

“Questo supplizio – ricorda Fabritziu Dettori in una bella ricostruzione della figura dell’eroe sardo – gli fu inferto con così zelo che dalle spalle e dalla schiena gli aguzzini riuscivano a strappargli la pelle a «lische sanguinanti». Sollevato sul patibolo semi vivo, fu impiccato e, da morto, decapitato. Il suo corpo fu bruciato e le ceneri sparse al vento. Ma la malvagità savoiarda, non sazia, sancì, in tributo alla causa antisarda, che la testa del Patriota sardo fosse rinchiusa dentro una gabbia di ferro ed esposta, a scopo intimidatorio, all’ingresso di «Postha Noba», mentre nelle altre «Porte» della città i lembi della sua carne completavano l’orrore. Il macabro monito rimase esposto per giorni e giorni…” (12).

”Giustizia sabauda e spettacolo per la popolazione sassarese che assistè in bestiale gazzarra alla fustigazione e alla impiccagione”(13), commenta amaramente Raimondo Carta Raspi.

Macabro ammonimento, aggiungo io, nei confronti dei Sardi, da parte dei più crudeli, spietati, insipienti, famelici e ottusi (s)governanti che la Sardegna abbia avuto nella sua storia, i Savoia e Carlo Felice in primis.

Cilocco aveva 33 anni. Un grande eroe e patriota sardo, sconosciuto e dimenticato, Est ora de l’amentare!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note bibliografiche

1. Vittoria Del Piano, Giacobini moderati e reazionari in Sardegna– Saggio di un dizionario biografico 1793-1812, Edizioni Castello, Cagliari 1996, pagina 155.

2. Raimondo Carta Raspi, Storia della Sardegna, Edizioni U. Mursia, Milano 1971, pagina 846.

3. Girolamo Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda, (1720-1847), Editori Laterza, Roma-Bari 1984, pagina 193.

4. Francesco Sulis, Dei moti politici dell’isola di Sardegna dal 1793 al 1821, Tip. Nazionale di G. Biancardi, Torino 1857, pagina 64.

5. Luigi Berlinguer, Alcuni documenti sul moto antifeudale sardo del 1795-96, in AA.VV., La Sardegna del Risorgimento, Ed. Gallizzi, Sassari, 1962, pagine 123-124.

6. Vittoria Del Piano, Giacobini moderati e reazionari in Sardegna– Saggio di un dizionario biografico 1793-1812, Edizioni Castello, Cagliari 1996, pagina 156.

7. Giuseppe Manno, Storia moderna della Sardegna-Dall’anno 1773 al 1799, a cura di Antonello Mattone, Ilisso edizioni, Nuoro 1998, pagina 294.

8. Bruno Anatra, Dizionario Biografico degli Italiani, Ed.Treccani,  Volume 25 (1981).

9. Eliseo Spiga, La sardità come utopia – Note di un cspiratore, Cuec, Cagliari 2006, pagina 105.

10. Giovanni Siotto Pintor, Storia civile dei popoli sardi dal 1798 al 1848, Casanova, Torino 1887, pagina 45.

11. Vittoria Del Piano, Giacobini moderati e reazionari in Sardegna– Saggio di un dizionario biografico 1793-1812, Edizioni Castello, Cagliari 1996, pagina 159.

12. Fabritziu Dettori, Francesco Cilocco, un eroe dimenticato, in Sotziu Limba sarda, 10-5-2005.

13. Raimondo Carta Raspi, Storia della Sardegna, Edizioni U. Mursia, Milano 1971, pagina 847

Francesco Casula: perché spostare la statua di Carlo Felice

 

 

PESA SARDIGNA

Blog anticolonialista

 

Francesco Casula: perché spostare la statua di Carlo Felice

Abbiamo intervistato Francesco Casula, un noto storico sardo, sulle motivazioni della richiesta di rimozione della statua di Carlo Felice dal centro di Cagliari.

 

  • Da dove nasce la petizione “Spostiamo la statua di Carlo Felice”?

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Il promotore del Comitato “Spostiamo la statua di Carlo Felice” è stato il professore universitario Giuseppe Melis Giordano. Io ho aderito subito e volentieri offrendo il mio contributo soprattutto dal punto di vista storico. Perché l’appello? Perché un popolo deve innalzare monumenti ai propri eroi non ai propri carnefici. E Carlo Felice tale è stato, per ammissione di tutti gli storici liberi.: un viceré e poi re, ottuso e inetto, sanguinario e famelico (pensava ad accumulare il suo “privato tesoro”, depositando i soldi nelle banche londinesi mentre le carestie decimavano le popolazioni affamate). Su di lui la storia ha già emesso la sua condanna inappellabile. Lo storico Pietro Martini, pur di orientamento monarchico, lo descrive come gaudente parassita, gretto, che “avea poca cultura di lettere e ancor meno di pubblici negozi… servo dei ministri ma più dei cortigiani”. Ai feudatari, da viceré, – scrive, un altro storico sardo Raimondo Carta Raspi – diede carta bianca per dissanguare i vassalli. Mentre a personaggi come Giuseppe Valentino affidò il governo: questi svolse il suo compito ricorrendo al terrore, innalzando forche soprattutto contro i seguaci di Giovanni Maria Angioy, tanto da meritarsi, da parte di Giovanni Siotto-Pintor, l’epiteto di “carnefice e giudice dei suoi concittadini”. Divenuto re con l’abdicazione del fratello Vittorio Emanuele I, mira a conservare e restaurare in Sardegna lo stato di brutale sfruttamento e di spaventosa arretratezza: “con le decime, coi feudi, coi privilegi, col foro clericale, col dispotismo viceregio, con l’iniquo sistema tributario, col terribile potere economico e coll’enorme codazzo degli abusi, delle ingiustizie, delle ineguaglianze e delle oppressioni intrinseche ad ordini di governo nati nel medioevo”: è ancora Pietro Martini a scriverlo.

  •  Qual’è stato storicamente il rapporto tra i sardi e i Savoia?

I savoia, letteralmente, odiavano i Sardi, Li disprezzavano. Di qui l’oppressione economica e fiscale, la repressione e il terrore: soprattutto da parte di Carlo .Felice. Il suo maestro, in tal senso è il reazionario Giuseppe de Maistre che arrivato in Sardegna nel 1800 per reggere la reale cancelleria, non pensa nei tre anni di reggenza, che ai propri interessi denotando uno sviscerato disprezzo per i sardi “je ne connais rien dans l’univers au-dessous (sotto) des molentes”, soleva affermare nei loro confronti e in una lettera da Pietroburgo al Ministro Rossi nel 1805 scrive : “Le sarde est plus savage che le savage , car le savage ne connait la lumiere e le Sarde la connait”.

Purtroppo molti, troppi sardi, riversano nei confronti dei savoia simpatie e consensi. E persino entusiastiche acclamazioni:annotano alcuni storici. Sindrome di Stoccolma? O opera degli ascari locali? Propenderei per questa ipotesi, sulla scia di Pietro Martini che scrive:”Le acclamazioni furono poche e queste furono comprate o vennero dagli uomini del privilegio, del favore e della reazione”.

  • Savoia a parte, sembra che i sardi non abbiano nessuno a cui dedicare le vie e le piazze. Non abbiamo una nostra storia, dei nostri poeti, dei personaggi di spicco?

 La scuola italiana in Sardegna, da sempre, con una impostazione pedagogica, didattica e culturale coloniale e italocentrica, ha proibito, negato e  interrato, in primis la lingua sarda. E con essa la nostra ricca e variegata poesia e letteratura. Proprio in questi ultimi anni ho pubblicato due volumi su “Letteratura e civiltà della Sardegna” da cui emergono decine e decine di Autori, universalmente riconosciuti come poeti e romanzieri di altissimo valore, che la scuola ha cancellato:sic et simpliciter. Penso a Grazia Deledda, Lussu, Salvatore Satta; penso a Peppino Mereu  Montanaru, Cicitu Masala, Benvenuto Lobina.

Una scuola che ha cancellato omines e feminas de gabale, (penso a Eleonora d’Arborea ma anche a Marianna Bussalai) o intellettuali di livello europeo come Sigismondo Arquer; o eroi come Giovanni Maria Angioy e con esso Francesco Cilocco o Sanna Corda, vittime della violenta repressione dei Savoia e soprattutto di Carlo Felice. Un popolo libero e orgoglioso a questi personaggi deve dedicare le sue piazze, le sue vie, i suoi monumenti. Non agli oppressori.

  •  Qualcuno ha detto che la cancellazione sistematica della lingua e della memoria storica di un popolo sono da considerarsi un genocidio, a prescindere dalla presenza di omicidi di massa. I sardi stanno subendo un genocidio?

Sì è proprio così. Lo scriveva fin dagli anni ’70 Antonio Simon Mossa: “Un processo forzato di integrazione minaccia l’identità culturale, linguistica ed etnica”. Un vero e proprio genocidio sia pure – cito ancora Simon Mossa – “sotto ad innocente maschera della difesa di determinati interessi di classe o di casta, di privilegi, di antiche sopraffazioni … con i guanti di velluto anziché col bastone”.

Perché si commette genocidio, prosegue l’intellettuale algherese: “Non solo distruggendo fisicamente un popolo. Vi sono altri modi: assoggettandolo a schiavitù e a regime coloniale, assimilandolo per mezzo dell’integrazione: questo è il più moderno, il più subdolo perché incomincia con l’intorpidimento delle coscienze, ma il punto di arrivo è lo stesso: l’uccisione della coscienza comunitaria di un popolo e la distruzione della sua personalità”.

  • Perché la sinistra italiana (cioè quella sinistra che non mette in discussione il rapporto coloniale con l’Italia della Sardegna) non apprezza la lotta per cambiare la toponomastica degli indipendentisti e di alcuni intellettuali sardi?

La sinistra italiana – ma in genere il marxismo occidentale –  è stata storicamente statalista e centralista. Per la verità con dei maestri e teorici illustri come Engels: “Il proletariato – affermava nel 1847 – può utilizzare soltanto la forma della repubblica una e indivisibile” e “non solo ha bisogno dell’accentramento com’è avviato dalla borghesia, ma dovrà addirittura portarlo più avanti”. Per questo lo stesso Engels combatte il Federalismo “perché semplice espressione di anacronistici particolarismi provinciali”.  Fa eccezione l’austromarxismo. Ricordo che nel 1899 al Congresso socialista austriaco si sostenne che la “soluzione delle questioni nazionali faceva parte degli interessi del proletariato ed era compito del Movimento socialista ed operaio coltivare e sviluppare le specificità nazionali di tutti i popoli dell’Austria”.Peraltro in sintonia con il Marx più rivoluzionario che sosteneva: “un popolo che opprime un altro popolo non può mai essere libero” e a proposito della Questione irlandese affermava: “la vittoria della classe operaia inglese non può risolvere la Questione irlandese, sarà invece la soluzione della Questione irlandese a favorire e rendere possibile la vittoria della classe operaia”. Il PCI  si è sempre mosso in direzione opposta: non ha mai capito né voluto riconoscere il colonialismo interno né tanto meno sostenuto i diritti dei popoli: ad iniziare da quello dell’autodeterminazione e, dunque dell’indipendenza. Di qui la sua ostilità verso tutto quello che è sardo: ad iniziare dalla toponomastica.

 8-5-2016

 

https://www.change.org/p/sindaco-spostiamo-la-statua-di-carlo-felice-istesiemus-s-ist%C3%A0tua-de-carlo-felice

SARDEGNA COME LA NAMIBIA?

SARDEGNA COME LA NAMIBIA?

di Valeria Casula

mi inserisco un po’ in punta di piedi in questo gruppo che seguo con interesse non perché abbia contributi storici con cui arricchire i contenuti del gruppo, ma perché ho piacere e desidero condividere con voi le ragioni che mi hanno spinto non solo ad aderire ma a sostenere attivamente, per quel che posso, l’iniziativa per la rimozione della statua di Carlo Felice.

Tali ragioni non risiedono tanto nel fatto che mio padre figuri fra i promotori, lui ha promosso decine se non centinaia di iniziative analoghe che non mi hanno mai visto al suo fianco come sostenitrice, al limite mi sono limitata ad aderirvi personalmente, ove le condividessi.

La ragione per cui quella statua mi umilia risiede nel mio vissuto personale, quando nell’ormai lontano 2000 con un paio di amiche partimmo per un magnifico viaggio in Namibia.
Sapevamo poco di quel paese prima della partenza, solo poche date lette in aereo prima di atterrare sulla guida turistica: colonia tedesca dal 1884 al 1915 (in cui vive ancora una minoranza tedesca), poi sotto il Sud Africa e indipendente dal 1990.

Trascorremmo la prima serata a Windhoek, la capitale e l’impatto fu subito forte in quanto notammo che l’apartheid, formalmente abolita anche in Sud Africa da oltre 5 anni, costituiva di fatto ancora una realtà: i locali tedeschi riportavano la scritta “Right of admission reserved” ed i locali dei nativi erano di fatto esclusivamente frequentati dai neri. I nomi di moltissime strade e piazze erano tedeschi, tutto evocava la Germania.
Ciò che mi stupì maggiormente fu vedere i ragazzi neri che allegramente passeggiavano nel centro della città indifferenti ad uno dei principali monumenti, il Reiterdenkmal, monumento equestre in onore dei soldati delle Schutztruppe caduti durante le guerre Herero.
Mi dissi: “Ma come fanno a restare tanto indifferenti? Perché non hanno ancora demolito quella statua? Perché ora che son liberi non erigono monumenti ai loro eroi, a chi ha dato la vita per liberare la Namibia? ” Provai pena e compassione per quelle persone che, benché ormai libere, rimanevano ancora schiave, in regime di apartheid, tanto schiave da non “permettersi” neanche di rimuovere le onorificenze ai loro carnefici.
Il viaggio proseguì alternando bellezze naturalistiche a pseudo monumenti prima il fortino tedesco, poi il cimitero in cui sono sepolti i tedeschi caduti durante la rivolta herero del 1904, di cui ricordo ancora il numero e le parole della guida richiesta da noi locale, in realtà tedesca, “123, one two three, it’s easy to remember!” (troppo pochi! pensai).
Con il cimitero monumentale toccammo il fondo e chiedemmo alla guida di modificare il tour, non eravamo affatto interessate a monumenti e simboli del colonialismo, pertanto iniziò anticipatamente il nostro safari.
Il safari, per me il primo, fu magnifico: ricordo tramonti mozzafiato ad osservare i branchi di elefanti che si abbeveravano dalla pozza, maestose giraffe, branchi di zebre, vedemmo persino il leone!

Nonostante tanta bellezza quel viaggio mi lasciò un forte vuoto: di quel paese avevo visto lo splendore della sua natura, il mare con i suoi delfini, la baia delle foche, il deserto, la savana con maestosi animali, tuttavia non ero riuscita a conoscere nulla degli uomini e delle donne che abitavano quel luogo, della loro vita, delle loro usanze, del loro rapporto con quella natura strepitosa.

Quell’estate, come ogni anno trascorsi la restante parte delle ferie nella mia Sardegna. Tornata a Cagliari, come accade quando si torna da luoghi lontani la guardai con un certo senso di estraneità, mantenendo ancora lo spirito del visitatore.
Una sera decisi di prendere un aperitivo all’aperto, risalii a piedi il Largo Carlo Felice per incontrarmi con gli amici in uno dei bar all’aperto della splendida Piazza Yenne. Mentre sorseggiavo il mio drink notai, come non avevo mai notato in tanti anni, l’incombente presenza della statua di Carlo Felice che strideva con la nostra gioia e spensieratezza di una serata fra amici in modo molto più violento di quanto non mi era apparso stridere qualche settimana prima il monumento ai soldati delle Schutztruppe. Quella statua era lì da due secoli e nessun sardo aveva mai provato o era mai riuscito a rimuoverla. Quella statua era lì da due secoli ed io ero tanto ormai abituata a vederla che mi era diventata indifferente.
Ora per la prima volta quella statua mi suscitava delle emozioni, mi suscitava una pena verso me stessa cento volte superiore a quella provata per i giovani Namibiani che avevo visto qualche settimana addietro passeggiare in prossimità del Reiterdenkmal e provai un profondo senso di umiliazione.

Nei giorni successivi persi lo sguardo del visitatore e ritornai ad assuefarmi alla mia città, smisi di stupirmi sia nei confronti delle sue bellezze che di Carlo Felice, rassegnata all’idea che lì avevo sempre visto quel monumento e lì l’avrei per sempre rivisto.

Quando il 28 aprile sono venuta a conoscenza dell’iniziativa non ho potuto non pensare al Reiterdenkmal di Windhoek e in me si è acceso il desiderio e la speranza, ormai persa, di poter finalmente ammirare al posto di Carlo Felice un uomo o una donna simbolo della nostra liberazione e non della nostra sottomissione.

Queste le ragioni del mio accorato appello a sottoscrivere la petizione relativa alla rimozione della statua di Carlo Felice, appello che rivolgo non solo ai Sardi ma a chiunque nel mondo, perché ritengo che non sia solo una questione dei Sardi ma sia un diritto universale quello di erigere onorificenze agli eroi e non agli oppressori, a Cagliari come a Windhoek; perché se i namibiani promuovessero una petizione per sostituire il Reiterdenkmal di Windhoek con un monumento in onore dei loro eroi io sarei fra i primi firmatari, anche se namibiana non sono.

Non si tratta di rimuovere la storia, si tratta leggerla correttamente, assegnando onorificenze ai personaggi che le hanno meritate.

Io non so se la storia della Sardegna sia stata più gloriosa della storia di altri luoghi o di altri popoli, quello che so per certo è che di essere Sarda non mi sono mai dovuta vergognare, perché è una storia in cui non siamo mai stati carnefici, non abbiamo mai conquistato, dominato e sottomesso alcun popolo. E per quanto possa provare un po’ di disagio nei confronti di una certa remissività che il popolo Sardo ha mostrato in alcuni periodi della sua storia, tale disagio è infinitesimamente inferiore alla vergogna che ho provato nel citato viaggio per il fatto di essere europea.
Europea bianca davanti ai visi di splendidi bambini neri dallo stomaco vuoto che venivano portati dalle scuole del villaggio nel nostro lussuoso lodge a darci il benvenuto con le loro allegre canzoni mentre noi ci accingevamo a consumare le abbondanti libagioni davanti a tavole riccamente imbastite.

Inutile dire quanto questo senso indescrivibile di vergogna mi provocasse un tale groppo alla gola da impedirmi di deglutire un solo boccone del ricco pasto!

Giovanni Maria Angioy e la fine di un sogno

angioy_ritrattoUn Comitato denominato “SPOSTIAMO LA STATUA DI CARLO FELICE” di Piazza Yenne a Cagliari, propone  di sostituire la statua di Carlo Felice con altro monumento idoneo a ricordare invece qualche eroe della lotta per la liberazione del popolo sardo dalle vessazioni dei dominatori succedutisi nei secoli, quale per esempio, lo stesso Giovanni Maria Angioy.

Qui di seguito una breve scheda sull’eroe antifeudale, cui io propongo di dedicare una statua che sostituisca quella attuale di Carlo Feroce.

Giovanni Maria Angioy e la fine di un sogno

di Francesco Casula

-Angioy coltivatore ed imprenditore, professore di diritto canonico,giudice della Reale Udienza.

La vita dell’Angioy non è solo una traccia, un frammento, nella storia sotterranea delle longues durées e dei processi di trasformazione che hanno attraversato la società sarda. La sua vicenda politica ed umana assume infatti un valore emblematico perché riflette la parabola di un’intera generazione di sardi, vissuta fra le realizzazioni del cosiddetto «riformismo» (senza riforme)sabaudo, un decennio di sconvolgimenti rivoluzionari e la spietata restaurazione e violenta repressione dei primi anni dell’Ottocento. In quel contesto si inserisce anche l’attività di Angioy, nato a Bono il 21 ottobre 1751, dopo aver studiato a Sassari nel Collegio Campoleno ed essersi addottorato in Legge, nel 1773 a Cagliari inizia la pratica forense.

Imprenditore agrario e manifatturiero oltre che professore di diritto canonico, è un alto funzionario dello Stato (fra l’altro giudice della Reale Udienza) colto ed efficiente oltre che intellettuale aperto agli stimoli e agli influssi dei “lumi” e delle riforme.

Come giudice della Reale Udienza fa parte della Giunta stamentaria costituita di due membri di ciascuno dei bracci parlamentari. Pur rimanendo nell’ombra negli anni delle

sommosse cittadine e dei moti antipiemontesi, – anche se il Manno, cercando di metterlo

in cattiva luce, insinua che egli tramasse dietro le quinte anche in quelle circostanze e dunque fosse coinvolto nella cacciata dei piemontesi- secondo molti storici sardi – ad iniziare dal Sulis – si affermerebbe come il capo più autorevole del Partito democratico

e come l’esponente più importante di un gruppo di intellettuali largamente influenzato

dall’illuminismo e dal Giacobinismo: fra i più importanti Gioachino Mundula, Gavino

Fadda, Gaspare Sini, il rettore di Semestene Francesco Muroni con il fratello speziale

Salvatore, il rettore di Florinas Gavino Sechi Bologna e altri.

-Angioy: “Alternos”

Mentre nel capo di sopra divampa l’incendio antifeudale, con le agitazioni che continuano e si diffondono in paesi e ville del Sassarese, gli Stamenti propongono al viceré Vivalda di nominare l’Angioy alternos con poteri civili, militari e giudiziari pari a quelli del viceré. Il canonico Sisternes si sarebbe poi vantato di aver proposto il nome dell’Angioy per allontanarlo da Cagliari e indebolire il suo partito. Certo è che il suo nome venne fatto perché persona saggia e perché solo lui, grazie al potere e al prestigio che disponeva nonché alla competenza in materia di diritto feudale ma anche perché originario della Sardegna settentrionale, avrebbe potuto ristabilire l’ordine nel Logudoro. L’intellettuale di Bono accettò, ritenendo che con quel ruolo avrebbe rafforzato le proprie posizioni ma anche quelle della sua parte politica incentrate sicuramente nella abolizione del feudalesimo in primis. Il viaggio a Sassari fu un vero e proprio trionfo: seguaci armati ed entusiasti si unirono con lui nel corso del viaggio, vedendolo come il liberatore dall’oppressione feudale. E giustamente. Anche perché riuscì a comporre conflitti e agitazioni, a riconciliare molti personaggi, a liberare detenuti che giacevano – scrive Vittorio Angius –  “in sotterranee oscure fetentissime carceri”.

 

-L’Angioy a Sassari

Accolto a Sassari dal popolo festante ed entusiasta  – persino i monsignori lo ricevettero nel Duomo al canto del Te Deum di ringraziamento – in breve tempo riordinò l’amministrazione della giustizia e della cosa pubblica, creò un’efficiente polizia urbana e diede dunque più sicurezza alla città, predispose lavori di pubblica utilità creando lavoro per molti disoccupati, si fece mandare da Cagliari il grano che era stato inutilmente richiesto quando più vivo era il contrasto fra le due città: per questa sua opera ottenne una vastissima popolarità. Nel frattempo i vassalli, impazienti nel sospirare la liberazione dalla schiavitù feudale (ovvero“de si bogare sa cadena da-e su tuiu” come diceva il rettore Murroni, amico e sostenitore di Angioy) e di ottenere il riscatto dei feudi, proseguirono nella stipulazione dei patti dell’anno precedente: il 17 marzo 1796 ben 40 villaggi del capo settentrionale, confederandosi, giuravano solennemente di non riconoscere più né voler dipendere dai baroni.

Angioy non poteva  non essere d’accordo con loro e li riconobbe: in una lettera spedita il 9 giugno 1796 al viceré da Oristano, nella sfortunata marcia su Cagliari che tra poco intraprenderà, giustificò l’azione degli abitanti delle ville e dei paesi riconoscendo la drammaticità dell’oppressione feudale che non era possibile più contenere e gestire e assurdo e controproducente cercare di reprimere. Non faceva però i conti con la controparte: i baroni. Che tutto voleva fuorché l’abolizione dei feudi: ad iniziare dal viceré. Tanto che i suoi nemici organizzarono durante la sua stessa permanenza a Sassari una congiura, scoperta ad aprile. Si decise perciò di “impressionare gli stamenti con una dimostrazione di forza, – scrive Natale Sanna – che facesse loro comprendere come il moto antifeudale era seguito da tutta la popolazione e che era ormai inarrestabile”. Lasciò dunque Sassari e si diresse a Cagliari.

 

-L’Angioy e la marcia verso Cagliari, la sua fine e la fine di un sogno…

Il 2 Giugno 1896 l’Alternos si dirige verso Cagliari, accompagnato da gran seguito di dragoni, amici e miliziani: nel Logudoro si ripetono le scene di consenso entusiastico dell’anno precedente. A Semestene però ebbe una comunicazione da Bosa circa i preparativi che erano in atto per fronteggiare ogni sua mossa e a San Leonardo, “fatta sequestrare la posta diretta a Sassari, ebbe conferma delle misure che venivano prese contro di lui”, scrivono Lorenzo e Vittoria Del Piano. Difatti a Macomer popolani armati, sobillati pare da ricchi proprietari, cercarono di impedirgli il passaggio, sicché egli dovette entrare con la forza. Poiché anche Bortigali gli si mostrava ostile, si diresse verso Santu Lussurgiu e l’8 giugno giunse in vista di Oristano. Nella capitale la notizia che un esercito si avvicinava spaventò il viceré che radunò gli Stamenti. Tutti furono contro l’Angioy: anche quelli che erano stati suoi partigiani come il Pintor, il Cabras, il Sulis. Ahimè ritornati subito, da veri e propri ascari, sotto le grandi ali del potere in cambio di prebende e uffici.

Così il generoso tentativo dell’Angioy si scontra con gli interessi di pochi: fu rimosso dalla carica di Alternos, si posero 1.500 lire di taglia sulla sua testa e da leader prestigioso e carismatico, impegnato nella lotta antifeudale, per i diritti dei popoli e, in prospettiva nella costruzione in uno stato sardo repubblicano, divenne un volgare “ricercato”. Occorre infatti dire e sostenere con chiarezza che l’Angioy aveva in testa – come risulta dal suo Memoriale – non solo la pura e semplice abolizione del feudalesimo ma una nuova prospettiva istituzionale: la trasformazione dell’antico Parlamento in Assemblea Costituente e uno stato sardo indipendente che “doveva comporsi di quattro dipartimenti (Sassari, Oristano, Cagliari e Orani) suddivisi a loro volta in cantoni ricalcanti le micro-regioni storiche dell’Isola”.