La rivoluzione anagrafica

Michelangelo Pira e la rivoluzione anagrafica

 

di Francesco Casula

 

 

Michelangelo Pira nella Premessa a quel saggio magistrale che è <La rivolta dell’oggetto>, ci parla di un bambino di un paese della Barbagia, che in prima elementare,  il primo giorno di scuola, si sentì dire che il suo nome e il suo cognome non erano quelli che credeva di sapere fin dalla nascita e con i quali fino a quel momen­to era stato «chiamato» da tutti, riconosciuto e istituito come sog­getto: ma erano altri. Nei quali si sentì trattare come un alunno­-oggetto e nei quali faticò non poco a riconoscersi e a re-istituirsi co­me soggetto.

 

Quel bambino, -che poi è lo scrittore stesso- che per tutti era sempre stato fino ad allora, Mialinu de Crapinu: per la famiglia come per la comunità ma soprattutto per se stesso, a scuola, nella scuola “ufficiale”, dello Stato, si sente nominare Pira Michelangelo. Di qui la lacerazione e la mutilazione culturale prodotta dalla negazione della sua identità, specie linguistica.

 

L’attualità di questi giorni ci ripropone il problema denunciato da Pira, risolto questa volta positivamente: il leader di Sardigna Nazione, Sebastiano Cuspostu, ha chiesto e ottenuto che anche nella carta di identità –e dunque anche per lo Stato e la burocrazia- il suo nome sia Bustianu e non più Sebastiano, ovvero nella propria lingua madre, il Sardo, e non nella lingua ufficiale dello Stato, l’Italiano.

 

Il cambio del nome è stato possibile –oltretutto senza alcuna spesa- grazie all’articolo 11 della Legge nazionale 482 del 1999 che tutela le minoranze linguistiche.

 

 

(Pubblicato il 6-6-07 su Il Sardegna)

Il vizio di Onesicrito dei partiti italiani

Il vizio di Onesicrito dei Partiti italiani.

Il cantiere delle sinistre e la “questione nazionale sarda”

di Francesco Casula

Un certo Onesicrito tra il 332 e il 336 a.c. aveva visitato l’India al seguito di Alessandro Magno, riportandone descrizioni alquanto fantasiose, che misero a  lungo fuori strada i geografi dell’epoca.

I partiti italiani– segnatamente quelli di impronta più statalista –per decenni ci hanno dato della “Questione sarda” una descrizione alquanto “fantasiosa”- un po’ come Onesicrito aveva dato dell’India, riducendola a un semplice frammento o appendice della “Questione meridionale”. O in ogni caso in questa affogandola e sciogliendola.

Non solo: la Sardegna è stata considerata –come del resto l’intero Meridione- esclusivamente dal punto di vista economico ed economicistico. Ovvero “sottosviluppato” perché atavicamente arretrato, semifeudale, ancora precapitalistico. Tale tesi si rifaceva a Federico Engels che in una celebre lettera a Filippo Turati sosteneva appunto che il Mezzogiorno d’Italia soffriva per la mancanza di uno sviluppo capitalistico e di una rivoluzione borghese.

Trascurando o negando l’insieme degli aspetti etnoculturali e linguistici di una Comunità etnica –come definirà Antonio Simon Mossa la nostra Isola- ben distinta dalle altre componenti dello Stato Italiano.

La Sardegna infatti subisce un doppio sfruttamento: uno economico e sociale come colonia interna dello Stato Italiano; e uno politico e culturale come nazione oppressa dallo stesso Stato, che nonostante i ritocchi e gli imbellettamenti, rimane ancora brutalmente e pervicacemente unitario, accentrato e centralistico.

Senza partire da questo dato, ogni progetto, ogni “cantiere” che si ponga l’obiettivo di dar vita a una Sinistra nuova e rinnovata, italiana o europea, è impresa vana e destinata comunque al fallimento. Oltretutto nella storia della sinistra ci sono precedenti illustri nella direzione del riconoscimento delle minoranze nazionali e del federalismo.

Nel 1899 al Congresso socialista austriaco venne approvato un programma di ristrutturazione dello stato austriaco in senso nazionale e federale, finalizzato a creare uno stato federativo delle nazionalità e una federalizzazione dello stesso Partito socialista. Sempre in quello stesso Congresso si affermò che la soluzione della Questione nazionale fa parte degli interessi del proletariato ed è compito del movimento socialista ed operaio coltivare e sviluppare la specificità nazionale di tutti i popoli dell’Austria.

La posizione degli austromarxisti era in sintonia del resto con il Marx più autentico e rivoluzionario: quello insomma che sosteneva che un popolo che opprime un altro popolo non può mai essere libero e che a proposito della Questione Irlandese scriveva: la vittoria della classe operaia inglese non può risolvere la questione irlandese, sarà invece la soluzione della questione irlandese a favorire o meglio rendere possibile la vittoria della classe operaia inglese.

Occorrerà partire da questo Marx e dal federalismo degli austromarxisti nel ripensare e ri-costruire una nuova sinistra, abbandonando definitivamente tutta la paccottiglia statalista e centralista, negatrice delle minoranze nazionali, delle etnie minori, delle nazioni senza stato. Quel “centralismo”, di provenienza engelsiana, che in Italia ha plasmato la sinistra nel suo complesso e che pare duro a morire.

Ecco che cosa scriveva Engels nel lontano 1847: il proletariato può utilizzare soltanto la forma della repubblica una e indivisibile. E non solo ha bisogno dell’accentramento com’è  avviato dalla borghesia, ma dovrà addirittura portarlo più avanti…il federalismo è semplice espressione di anacronistici particolarismi provinciali.

Occorrerà che “il cantiere delle sinistre” scelga in modo netto e deciso fra il federalismo austromarxista e l’ipercentralismo borghese e autoritario di Engels: nei suoi programmi come nella sua organizzazione. Solo così –fra l’altro- sarà possibile un fruttuoso dialogo e persino unità d’azione con il variegato movimento nazionalitario, sardista e indipendentista presente in Sardegna.

(Pubblicato su Liberatzione sarda del mese di Giugno)

La crisi della scuola sarda e l’insegnamento della lingua

La crisi della scuola sarda e l’insegnamento de sa limba. di Francesco Casula 

De evidentibus non est disputandum: recita così un antico adagio latino, che a buon diritto può attagliarsi alla crisi della scuola in Sardegna, in classifica ultima in Italia secondo l’Invalsi. Certo si potrà anche discutere sui parametri utilizzati dall’Istituto nazionale di valutazione nello stilare la graduatoria ma credo che comunque la sostanza non cambi molto: la scuola sarda è sicuramente gravemente “malata”.

 

Si è parlato, per colmare lacune e carenze, di porre mano finalmente alla risoluzione degli annosi problemi strutturali, che storicamente la caratterizzano: carenza e/o fatiscenza degli edifici, insufficienza dei laboratori, mancanza di mense e di adeguati trasporti. Certo, ciò è la condizione necessaria per farla  decollare ma ho l’impressione che non sia assolutamente sufficiente: quello che occorre aggredire e cambiare è la catastrofica situazione didattica.

 

La scuola sarda è una semplice succursale della scuola italiana: metodi e contenuti sono omologhi. Direi di più: la scuola italiana nel suo complesso è rivolta a un alunno che non c’è: tutt’al più a uno studente metropolitano, nordista e maschio. Non a un sardo. E’ una scuola che con i contesti sociali, ambientali, culturali e linguistici degli studenti non ha niente a che fare. Nella scuola la Sardegna non c’è: è assente nei programmi, nelle discipline, nei libri di testo. Si studia Orazio Coclite, Muzio Scevola e Servio Tullio: fantasie con cui Tito Livio intende esaltare e mitizzare Roma. Non si studia invece –perché lo storico romano non poteva scriverlo- che i Romani fondevano i bronzetti nuragici per modellare pugnali e corazze; per chiodare giunti metallici nelle volte dei templi; per corazzare i rostri delle navi da guerra.Nella scuola si studia qualche decina di Piramidi d’Egitto, vere e proprie tombe di cadaveri di faraoni divinizzati, erette da centinaia di migliaia di schiavi, sotto la frusta delle guardie;ma non si studiano le migliaia di nuraghi, suggestivi monumenti alla libertà, eretti da migliaia comunità nuragiche indipendenti e federate fra loro.

 

Si studia Napoleone, “piccolo e magro, resistentissimo alla fatica!” ma non si spende una sola parola per ricordare che il tiranno corso, venuto in Sardegna, bombardò La Maddalena e sconfitto da Domenico Millelire, con la coda fra le gambe dovette ritirarsi e abbandonare “l’impresa”.

 

Si studia insomma l’Italia “dell’elmo di Scipio”, e “dalle amate sponde” ma la Sardegna , con le sue vicissitudini storiche, le dominazioni, la sua civiltà e i suoi tesori ambientali, culturali  e artistici è del tutto assente: un diplomato sardo e spesso persino un laureato, esce dalla scuola senza sapere nulla dell’architettura nuragica, della Carta De Logu, di Salvatore Satta e della Lingua sarda. La Regione sarda per più di 50 anni –benchè lo Statuto speciale lo prevedesse esplicitamente nell’art. 5, comma a- non ha mai voluto legiferare sul versante scolastico. Oggi la sua azione non è più rinviabile per la drammaticità dello status della scuola ma anche perché più di ieri ne ha la potestà, specie in seguito alla normativa sull’Autonomia scolastica e alla riforma del titolo V della Costituzione. Essa ha cioè oggi  il compito di legiferare, definendo gli indirizzi e i programmi per quanto attiene all’insegnamento della lingua e della cultura sarda, segnatamente della storia. Oltre che la potestà ha il consenso della stragrande maggioranza dei cittadini sardi come è emerso qualche giorno fa a Paulilatino, da una indagine voluta dalla Giunta Regionale e svolta dal Dipartimento universitario di Ricerche economiche e sociali di Cagliari e da quello di Scienza dei linguaggi dell’Ateneo di Sassari: il 68,4% degli abitanti dell’Isola dichiara di conoscere e parlare una qualche varietà della lingua sarda; una percentuale ancora più alta, il 78,6%, si dichiara d’accordo sull’insegnamento del Sardo a scuola; addirittura l’81,9%  vorrebbe che si insegnasse il Sardo insieme all’Italiano e a una lingua straniera.

 

Il Presidente Soru ha assicurato che i progetti della Regione saranno tesi a introdurre in maniera ufficiale la lingua sarda nelle scuole, attribuendo crediti formativi e punteggi a chi dimostrerà di saperne fare uso. Bene: che la sua Giunta passi finalmente dalle parole ai fatti. Altrimenti i numerosi applausi che centinaia di docenti e amministratori gli hanno tributato a Paulilatino, potrebbero trasformarsi in amari e sonori fischi.

 

 

(Pubblicato sull’Unione Sarda del 13 Maggio 2007)

 

I sardi e sa limba

I Sardi e sa Limba di Francesco Casula

I risultati scaturiti da una indagine voluta dalla Giunta Regionale e svolta dal Dipartimento universitario di Ricerche economiche e sociali di Cagliari e da quello di Scienza dei linguaggi dell’Ateneo di Sassari non lasciano dubbi in merito alle opinioni dei Sardi su sa Limba: il 68,4% degli abitanti dell’Isola dichiara di conoscere e parlare una qualche varietà della lingua sarda; una percentuale ancora più alta, il 78,6%, si dichiara d’accordo sull’insegnamento del Sardo a scuola; e addirittura l’81,9%  vorrebbe che si insegnasse il Sardo insieme all’Italiano e a una lingua straniera.

La percentuale dei sardi che conoscono e parlano sa Limba sale ancora –85,5%-se ci si riferisce agli abitanti dei paesi con meno di 4.000 abitanti.

E allora? Allora vuol dire che il messaggio proveniente dal sondaggio voluto dalla Regione è inequivocabile: la Lingua sarda non è un reperto archeologico, o un residuo del passato. E’ una realtà viva e operante, una formidabile risorsa  culturale di comunicazione e di identità. Che occorre vieppiù conoscere e valorizzare.

L’intervento del Presidente Soru a Paulilatino, in occasione della presentazione del Dossier fa ben sperare e può segnare una svolta epocale nella politica regionale sulla Lingua sarda: ha garantito infatti il suo impegno perché si arrivi –dopo il periodo di sperimentazione già avviato con sa Limba sarda comuna- alla definizione di un codice linguistico scritto accettato da tutta la Sardegna , ma soprattutto ha assicurato che i successivi progetti della Regione saranno tesi a introdurre in maniera ufficiale la lingua sarda nelle scuole, attribuendo crediti formativi e punteggi a chi dimostrerà di saperne fare uso. Non solo: nei Concorsi che fanno capo alla amministrazione pubblica di competenza regionale, a chi mostrerà di sapere il Sardo, verranno riconosciuti dei vantaggi.

La posizione di Soru –che non a caso ha suscitato l’entusiasmo e l’applauso delle centinaia di Sardi presenti a Paulilatino- va incontro ai bisogni di conoscenza del nostro patrimonio identitario, linguistico e culturale, soprattutto da parte dei giovani e degli studenti. Ora si tratterà di passare dalle promesse ai fatti e ai progetti. La Regione sarda ha l’occasione storica per riscattare il suo colpevole ritardo di più di 50 anni, sul versante identitario e linguistico. Ha dalla sua parte la stragrande maggioranza dei Sardi. Non farlo sarebbe, oltre che miope, autolesionista. E gli applausi di Paulilatino, di docenti e amministratori, potrebbero trasformarsi in amari e sonori fischi.

(Pubblicato su Il Sardegna l’11-5-07)

Ritornare al monolinguismo?

Ritornare al monolinguismo?

 

di Francesco Casula

La Camera dei deputati ha approvato a larghissima maggioranza un disegno di Legge costituzionale, per riconoscere l’Italiano come Lingua ufficiale della Repubblica. Hanno votato contro solo la Lega Nord e Rifondazione comunista. Si è così creata una sorta di unione sacra che ha visto alleati –alla faccia del bipolarismo e dell’alternatività dei due poli- DS e Margherita, AN e Forza Italia con cespugli vari. Tutti insieme, appassionatamente, in nome di un neocentralismo linguistico e culturale: compresi molti deputati sardi. Evidentemente dalla lingua biforcuta. Che in Sardegna parlano il linguaggio dell’Autonomia e del Federalismo, di Lingua sarda e di valorizzazione della cultura locale e a Roma invece si intruppano nei rispettivi Partiti, che ancora una volta hanno mostrato il volto di sempre: biecamente statalista e italocentrico. Con avvedutezza i Costituenti –e parlo di Einaudi, De Gasperi, e Togliatti- non avevano formalizzato il monolinguismo nella Costituzione, lasciando le porte aperte ad altre lingue: pensavano sicuramente alle regioni di frontiera (Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, in cui sarà presente e praticato il bilinguismo) ma probabilmente non escludevano che anche in altre regioni, certo insieme all’italiano, fossero adottate a livello ufficiale, altre lingue. Per quanto riguarda la Lingua sarda dovremo aspettare ben cinquant’anni perché venga riconosciuta e valorizzata: prima con la Legge regionale n.26 del 15 Ottobre 1997 e poi con la Legge statale n.482 del 15 Dicembre 1999. La Legge 26 riconosce al Sardo “pari dignità rispetto alla lingua italiana”; quella dello Stato va oltre: riconosce e tutela i sardi come minoranza linguistica, in attuazione dell’articolo 6 della Costituzione. Si tratta di un riconoscimento che si fonda sul diritto personale e collettivo di una comunità etno-linguistica, la cui lingua gode di pari dignità e, almeno per ora, di pari opportunità solo parziali. A parte il possibile uso nell’amministrazione e nei media, la lingua sarda gode ai sensi della legge 482 di una condizione privilegiata all’interno della scuola: infatti in quella primaria e in quella secondaria di primo grado è possibile insegnare il Sardo ma soprattutto insegnare in Sardo le diverse discipline del curriculum scolastico, nella convinzione che l’acquisizione del sapere e la formazione possano avvenire indifferentemente in Italiano e/o in Sardo. Ne risulta così un panorama nuovo dell’istruzione in Sardegna, che assume la lingua come elemento costitutivo dell’identità e della cultura. Questa prospettiva merita un’attenzione particolare non solo per le sue valenze culturali e identitarie, ma anche per le sue implicazioni economiche e occupazionali. Ebbene la Camera dei deputati con l’approvazione del disegno di legge vorrebbe cancellare quanto faticosamente si è ottenuto sul versante del bilinguismo in Sardegna e non solo. Pensavamo che il paradigma “una lingua, uno stato” appartenessero a tempi bui e ormai consegnati al passato. Dobbiamo prendere invece atto che la maggioranza del Parlamento italiano, a quei tempi è ancora legato e abbarbicato. Nei paesi più grandi e democratici d’Europa e del mondo (Spagna, Stati Uniti, Canada,etc) il bi/multilinguismo da decenni è ormai assodato e operante. Anzi, la pluralità linguistica è tutelata e riconosciuta. I gruppi dirigenti, colti e civili lo capiscono. E lo ha ben capito anche la Chiesa cattolica, che con il Concilio Vaticano II ha riscoperto le ragioni della pluralità linguistica, promovendo in tutto il mondo esperienze di alfabetizzazione nelle lingue native. L’onda del pluruilinguismo va avanti nelle nostre società e un freddo studioso di prospezioni economiche come John Naisbit, prevede una crescita ulteriore dei fattori di plurilinguismo. Il parlamento italiano invece è fermo al monolinguismo. Si dirà che la lingua sarda continuerà ad essere valorizzata. Ma questo è il punto: non si tratta solo di valorizzarla ma di utilizzarla socialmente, ufficialmente: costringere l’uso del Sardo in ambito privato –ha scritto l’antropologo Bachisio Bandinu- significa solo <biascicare parole per saziarsi di esse>. Quando invece il parlare è un’operazione sociale e politica che attiene alle basi materiali della significazione e della comunicazione, in ogni sfera delle situazioni di vita e degli accadimenti storici. Che i nostri deputati non pensino ancora che il bilinguismo attenti all’Unità dello Stato?!  (Pub         Unione Sarda del 3-4-07)

Gramsci

continua..

·        per allargare le loro competenze, soprattutto comunicative, di riflessione e di confronto con altri sistemi

·        per accrescere il possesso di una strumentalità cognitiva che faciliti l’accesso ad altre lingue;

·        per prendere coscienza della propria identità  etno – linguistica ed etno – storica, come giovane e studente prima e come persona adulta e matura poi;

·        per personalizzare l’esperienza scolastica, umana e civile, attraverso il recupero delle proprie radici;

·        per combattere l’insicurezza ambientale, ancorando i giovani a un humus di valori alti della civiltà sarda: la solidarietà e il comunitarismo in primis;

·        per superare e liquidare l’idea del “ sardo “ e di tutto ciò che è locale come limite, come colpa, come disvalore, di cui disfarsi e , addirittura, “ vergognarsi “;

·        per migliorare e favorire, soprattutto a fronte del nuovo “ analfabetismo di ritorno “, vieppiù trionfante, soprattutto a livello comunicativo e lessicale, lo status linguistico. Che oggi risulta essere, in modo particolare nei giovani e negli stessi studenti, povero, banale, improprio, “ gergale “.  Lo studio e la conoscenza della lingua sarda, può essere uno strumento formidabile per l’apprendimento e l’arricchimento della stessa lingua italiana e di altre lingue, lungi infatti dall’essere “ un impaccio “ , “  una sottrazione” , sarà invece un elemento di  “ addizione”, che favorisce e non disturba l’apprendimento dell’intero universo culturale e lo sviluppo intellettuale e umano complessivo. Ciò grazie anche alla fertilizzazione e contaminazione reciproca che deriva dal confronto sistemico fra codici comunicativi delle lingue e delle culture diverse , perchè il vero bilinguismo è insieme biculturalità,  e  cioè immersione e partecipazione attiva ai  contesti culturali di cui sono portatrici, le due lingue e culture di appartenenza, sarda e italiana per intanto, per poi allargarsi, sempre più inevitabilmente e necessariamente, in una società globalizzata come la nostra, ad altre lingue e culture. La Lingua sarda  infatti  in quanto concrezione storica complessa e autentica, è simbolo di una identità etno- antropologica  e sociale, espressione diretta di una comunità e di un radicamento  nella propria tradizione e nella propria cultura.             Una lingua  che non resta però immobile – come del resto l’identità di un popolo – come fosse un fossile  o un bronzetto nuragico, ma si “ costruisce “ dinamicamente nel tempo, si confronta e interagisce, entrando nel circuito della innovazione linguistica, stabilendo rapporti di interscambio con le altre lingue. Per questo concresce all’agglutinarsi della vita culturale e sociale. In tal modo la lingua,  non è solo mezzo di comunicazione fra individui, ma è il modo di essere e di vivere di un popolo, il modo in cui tramanda la cultura, la storia, le tradizioni.

E comunque in quanto strumento di comunicazione è capace di esprimere tutto l’universo culturale, compreso il messaggio politico, scientifico,   e non solo dunque – come purtroppo  ancora  oggi molti pensano e sostengono – contos de foghile!

                     A questo proposito  mi piace ricordare quanto sostiene il   già citato J. A. Fishman:” Ogni e qualsiasi lingua è pienamente adeguata a esprimere le attività e gli interessi che i suoi parlanti affrontano. Quando questi cambiano, cambia e cresce anche la lingua. In un periodo relativamente breve, qualsiasi lingua precedentemente usata solo a fini familiari, può essere fornita di ciò che le manca per l’uso nella tecnologia, nella Pubblica Amministrazione, nell’Istruzione”.

CONCLUSIONE:                                                                                                                                                                                       

COSA DOVREBBE E POTREBBE FARE LA REGIONE SARDA

Per decenni abbiamo sentito pronunciare discorsi fumosi e generici sull’Autonomia della Sardegna e sulla necessità di adeguare il nostro sistema scolastico a quello europeo senza però che si siano operate scelte formative e iniziative politico – amministrative conseguenti dando spazio alla specificità etno –nazionale della Sardegna come valore e mettendo in campo una moderna politica educativa  di collaborazione fra Scuola ed Enti Locali o iniziative legislative che fornissero strumenti per realizzare un sistema educativo integrato, per incoraggiare sperimentazioni, ricerche di gruppo e di singoli e per incrementare le potenzialità di intervento finalizzate all’istruzione.

    Con l’approvazione della Legge 26 l’articolo 5 dello Statuto inizia finalmente dopo 50 anni ad essere applicato: ora si tratta di applicare integralmente la Legge 26! Soprattutto in questi ultimi anni, dopo  l’entrata in vigore della Legge e l’Istituzione de “ Sa die de sa Sardigna”  molto nella Scuola sarda si è mosso e fatto nella direzione della valorizzazione della nostra Cultura e Lingua.

     Si tratta oggi di continuare e di fare di più: la Regione Sarda deve intervenire per integrare i Programmi ministeriali, introducendo in tutti i curricula e delle scuole sarde di ogni ordine e grado, in modo organico, lo studio della Cultura sarda, segnatamente della Storia e della Lingua, – peraltro come prevede la Riforma Moratti – con scelte qualitativamente valide e adeguate rispetto ai bisogni degli studenti sardi, in specie per la salvaguardia e valorizzazione, dell’Identità, dei valori della società sarda e delle sue peculiarità etno-nazionali, etno-storiche ed etno-linguistiche. Per questo occorrono generalizzati Corsi di Aggiornamento e formazione sull’intero Universo culturale sardo ma in primis sulla didattica e l’insegnamento della Lingua sarda, per tutti i docenti in servizio. Solo così sarà possibile:

·        favorire la crescita dei giovani studenti predisponendo ricerche ambientali e sulle condizioni socio- economiche, mettendo in essere progetti di sperimentazione metodologico- didattiche volti a suscitare interesse e a creare atteggiamenti favorevoli e positivi rispetto alla comunità sarda, al fine di cambiare l’esistente;

·        stimolare il sistema scolastico perché realizzi un reale processo di autonomia pedagogica e didattica che parta e muova dalla realtà sarda: un discorso pedagogico moderno e avveduto non può infatti prescindere dal pensare a una scuola radicata e ancorata alla tradizione, in grado di educare i giovani a conoscere prima e a padroneggiare poi la  lingua e la cultura  sarda: musica, arte, storia, teatro, letteratura, diritto etc.

·        costruire una scuola in cui la scoperta e la valorizzazione della tradizione negli aspetti più vivi e significativi,  possa trovare l’humus per germogliare e per inserire il “locale” e il nostro specifico e peculiare  nella cultura  mediterranea, europea e mondiale, per continuare ad essere sardi e insieme vivere da cittadini italiani, mediterranei ed europei:ovvero una scuola in cui i valori alti del passato, che reggono ai flutti di una modernità-modernizzazione effimera e fatua si coniughino dialetticamente con altre culture, con la scienza e la tecnologia, in una sorta di convivenza dei distinti , facendo cioè coesistere, conciliando dialetticamente gli elementi della “consuetudine autoctona” con quelli della modernità vera, mediando e facendo continuamente sintesi fra vecchio e nuovo, continuità e discontinuità, locale e globale.E dunque rifiutando da una parte l’etnocentrismo dall’altra l’esterofilismo.  Stando sempre attenti a che l’impatto della globalizzazione si risolva nella negazione, distruzione e/o devastazione delle culture ( e delle economie) deboli ,come è già avvenuto  altrove –  come dimostrano  fra gli altri Levi-Strauss in “Il pensiero selvaggio” e Joseph Rothscild in “Etnopolitica” –  e come rischia di succedere  anche in Sardegna. Per questo occorre opporsi, ad iniziare dunque dalla scuola, al fenomeno dello “sradicamento” dell’identità connaturato alla globalizzazione e al consumismo;

·        una scuola che ricordi – e insegni – ai giovani che senza legami con il passato, senza radici, non c’è presente né futuro, che se una comunità non dispone delle conoscenze fondamentali della sua storia ( compresa quella dei singoli villaggi, che spesso consente di individuare il ceto sociale originario e il conseguente tipo  di formazione storico- urbanistico, vedi “ Il  giorno del giudizio” di Salvatore Satta) non può maturare né il sentimento di appartenenza né la consapevolezza dell’importanza del nesso tra locale e globale che è in buona sostanza coscienza comunitaria, ossia accettazione dell’ideale della collaborazione tra popoli diversi.

       Alla scuola spetta in definitiva il compito primario, sia di fornire gli elementi utili per la formazione moderna legata alla realtà e ai bisogni giovanili, sia gli strumenti metodologici per comprendere il nesso inscindibile, pur nella diversità, tra la storia millenaria dell’Isola e la condizione presente per permettere  al giovane sardo di innestare – senza prevaricarla – la tradizione nel processo di sviluppo della società complessa; per evitare forme campanilistiche o esaltazione della minutaglia folclorica e insieme per rifiutare la mentalità caudataria tipo “ pinta la legna e portala in Sardegna che induce solo ad atteggiamenti esterofili e a complessi di inferiorità. Ma soprattutto spetta il compito di insegnare a diventare produttori in proprio  e dunque anche esportatori di beni di consumo, materiali e immateriali. E un popolo è tanto più capace di emanciparsi e creare e produrre beni di consumo ma soprattutto cultura d’ampia caratura ed esportabile quanto più è radicato in sé il senso della propria Identità e dignità.

                                         

L’uomo contemporaneo,  soprattutto nell’epoca della globalizzazione  economica , della comunicazione planetaria in tempo reale  e di Internet non può vivere senza una sua dimensione specifica, senza “radici”, sia per ragioni psico- pedagogiche ( un punto di riferimento certo dà sicurezza, consapevolezza di sé e fiducia nel proprio futuro) sia per motivi di ordine culturale. La comprensione del nuovo è sempre legata alla conoscenza critica  della storia della società in cui si vive, alle tecniche di produzione, al senso comune, alle tradizioni.

E’ questo l’antidoto più efficace contro la sub-cultura televisiva e à la page, circuitata ad arte da certa comunicazione mass- mediale che riduce la tradizione  a folclore e  spettacolo ad uso e consumo dei turisti. Altrimenti prevalgono solo processi di acculturazione imposti dal “centro”, dalle grandi metropoli, dai poteri forti, arroganti ed egemonici che riducono le peculiarità etniche a espressione retorica, pura mastrucca,  flatus vocis.

     Occorre però concepire e tutelare lo “specifico individuale e collettivo”  non come dicotomia ma in connessione con il generale, vivendo l’identità sarda con dignità e orgoglio ma senza attribuirgli un significato ideologico o di mito; identità non come dato statico e definitivo ma relativo, fluido e dinamico, da conquistare- riconquistare, costruire- ricostruire dialetticamente e autonomamente, adattandolo  e sviluppandolo, quasi giorno per giorno.

     L’attaccamento alla civiltà “primigenia”, in quanto realizza un continuum fra passato e presente, dà maggiore apertura al “mondo grande e terribile” e sicurezza per il futuro. In questa continuità- simbiosi fra antico- moderno e post- industriale post- moderno, in cui la positività della Sardegna s’innesta nella positività europea, consiste il significato profondo dell’Identità e dell’Etnia che da un lato ci libera dalle frustrazioni, dalla chiusura mentale e dal complesso dell’insularità; dall’altro ci salvaguardia dai processi imperialistici di acculturazione,  distruttivi dell’autenticità delle minoranze e dal soffocamento operato dalla camicia di nesso degli interessi economico- finanziari.  

                    Antonio Gramsci di Francesco Casula   Presentazione Antonio Gramsci, sicuramente il Sardo più rappresentativo del primo Novecento –insieme a Emilio Lussu e Grazia Deledda- è lo scrittore più letto nel mondo. Le sue opere sono state tradotte in tutte le lingue più importanti del pianeta. E ancora oggi si scrivono articoli e saggi su Gramsci in Giappone come nel mondo arabo, in America Latina come negli USA. Le sue idee, profonde e originali, hanno travalicato i confini della sua parte politica –la sinistra- per parlare a tutti. Il suo infatti è un messaggio umanissimo che conquista a prescindere dalle ideologie e dalle appartenenze culturali. La sua biografia e la sua vita sfortunata ed eroica, commuove e affascina. Di Gramsci rimane un grande e suggestivo patrimonio culturale –di elaborazione, di analisi e di riflessioni ma soprattutto di testimonianza di vita drammatica e di etica- che affonda le sue radici nella sua terra, la Sardegna, che in questo testo abbiamo cercato di documentare.           1. La Vita Nasce ad Ales (Ca) il 22 Gennaio 1891. Frequenta il liceo classico “G. M. Dettori” a Cagliari, dove avrà come docente Raffa Garzia, gran cultore e conoscitore di tradizioni e di poesia popolare1, nonché direttore dell’Unione Sarda che gli inculcò la passione per gli studi filologici che riprenderà all’Università- vince una borsa di studio e frequenta la Facoltà di Lettere dell’Università di Torino dove inizia a manifestare i suoi interessi per le ricerche sulla Lingua sarda e il proposito di laurearsi proprio in glottologia, con il suo grande maestro Matteo Bartoli, un professore dalmata che conosceva bene il sardo. Nel 1915 aderisce al Partito socialista, nel 1919 fonda –insieme a Angelo Tasca, Palmiro Togliatti e Umberto Terracini- il settimanale “Ordine Nuovo”, rassegna di cultura socialista, dove teorizza e agita il tema dei Consigli operai capaci di diventare, in una situazione rivoluzionaria, i soviet italiani, sulla scia dei soviet che si erano affermati in Russia dopo la rivoluzione di Nikolaj Lenin (pseudonimo di Vladimir Ilič Uljanov). “L’Ordine Nuovo” si fece così animatore nel 1919-20 del movimento di Consigli di fabbrica eletti da tutte le maestranze, movimenti teorizzati da Gramsci in una serie di scritti nei quali, accanto alla suggestione del modello “soviettista” è facilmente rintracciabile l’influenza del sindacalismo rivoluzionario di Sorel, che avrà tanta influenza sul conterraneo Emilio Lussu e sullo stesso Mussolini e che inizia a incontrare il consenso di operai e impiegati. Di qui una concezione della dittatura proletaria che non privilegiava –scrive lo storico Paolo Spriano- né il partito né il sindacato, ma considerava indispensabile che lo stato operaio da costruire si fondasse su istituzioni come i Consigli, diretta emanazione dei lavoratori e strumento della democrazia diretta e di base. Partecipe della battaglia dell’estrema sinistra –le sue critiche al moderatismo riformista e al parlamentarismo del Psi furono citate da Lenin come esemplari- nel Gennaio del 1921 concorse a dar vita, insieme con il gruppo ordinovista, a una scissione del Partito socialista fondando il Partito comunista d’Italia, pur in una posizione subordinata rispetto alla leadership allora indiscussa di Amedeo Bordiga. Nel 1922 “Ordine Nuovo” diventa quotidiano e Gramsci ne è il Direttore. A Maggio viene inviato a Mosca dove entra a far parte dell’Esecutivo dell’Internazionale. Ben presto però le sue condizioni di salute –che sono state sempre precarie- peggiorano a tal punto da costringerlo a ricoverarsi in una casa di cura dove conosce Giulia Schucht, la sua futura moglie. Intanto la situazione in Italia sta precipitando; il Fascismo, dopo la Marcia su Roma (28 Ottobre) è al Governo. Nei primi mesi del 1923 la maggior parte dei capi comunisti vengono arrestati dalla polizia: Gramsci si salva perché è a Mosca ma anche contro di lui viene spiccato un mandato di cattura. Eletto nel 1924 deputato al Parlamento nella Circoscrizione del Veneto, potrà rientrare in Italia e si stabilisce a Roma, dove nel Maggio pronuncia alla camera dei deputati un discorso contro il disegno di legge sulle associazioni segrete presentato da Mussolini e da Alfredo Rocco. Il suo discorso è attentamente seguito e continuamente interrotto dai fascisti e dallo stesso Mussolini. Tra il Giugno del ’24 e il Gennaio del ’25 cerca di organizzare la protesta popolare e parlamentare per il delitto Matteotti e interviene ancora in Parlamento contro Mussolini.  Intanto nel Gennaio del ’26 partecipa al 3° Congresso nazionale del PCI preparato clandestinamente e tenuto a Lione. Le sue tesi riportano un’affermazione nettissima: i voti a suo favore raggiungono il 90,8%. Bordiga, la cui linea politica fino a quel Congresso era stata sempre vincente riporta solo il 9,2% dei voti. Nel frattempo a Mosca è in pieno svolgimento la lotta per la successione a Lenin. Si fronteggiano Stalin (pseudonimo di Josif Vissarionovič) e Lev Trotzkij (pseudonimo di Lejba Bronstein).  Gramsci invia al Comitato centrale del PCUS una lettera per sottolineare l’enorme pericolo di queste lotte interne. Togliatti, che sta a Mosca, non approva i contenuti della lettera, soprattutto per quanto atteneva alla critica nei riguardi di Stalin e della maggioranza bolscevica e la blocca senza farla giungere a destinazione. Gramsci gli manifesta, in modo netto e secco, la sua disapprovazione. Nello stesso Ottobre del 1926 sta elaborando alcune tesi sulla Questione meridionale e si propone di pubblicare una rivista ideologica, quando l’emanazione delle leggi eccezionali da parte del governo fascista consiglia i suoi compagni, che lo sanno in pericolo, a suggerirgli l’emigrazione. Ma la sera dell’8 Novembre 19262 all’uscita dalla Camera dei deputati, è arrestato dalla polizia, nonostante godesse dell’immunità parlamentare e viene rinchiuso nel carcere di Regina Coeli a Roma, in assoluto e rigoroso isolamento, quindi confinato nell’Isola di Ustica. Ritorna in carcere dopo un mandato di cattura spiccato dal Tribunale di Milano. Dopo circa due anni di carcere “preventivo” il 4 Giugno 1928 viene pronunziata la sentenza che lo condannava a 20 anni 4 mesi e 5 giorni di reclusione –oltre a 200 lire di ammenda- dal Tribunale speciale istituito dal Governo fascista per “cospirazione contro lo stato, organizzazione della guerra civile, incitamento all’insurrezione e al mutamento violento della costituzione e della forma di governo, istigazione all’odio di classe e attività sovversiva”. Il Pubblico Ministero, Michele Isgrò, sardo (e…non per niente! aveva chiesto per lui 25 anni, 7 mesi e 6 mila lire di multa. Allo stesso Isgrò e non a Mussolini, verrà attribuita questa cinica e feroce espressione contro Gramsci: “Per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare”. Verrà incarcerato nella Casa penale di Turi (Bari) dove le sue già malferme condizioni di salute si aggraveranno ulteriormente. Colpito da emorragia cerebrale morirà nella clinica Quisisana a Roma il 27 Aprile 1937. Proprio il giorno della sua morte sarebbe dovuto rientrare in Sardegna, a Santulussurgiu, dove aveva studiato da ragazzino. Solo Carlo, il fratello che viveva a Milano, è presente al funerale insieme a Tatiana Schucht, la cognata che di nascosto era riuscita a sottrarre a sottrarre alle autorità fasciste le 2400 pagine dei 32 Quaderni scritti dal ’29 al ’35.       1)      Raffa Garzia, fra l’altro, pubblicherà nel 1917, per la casa editrice Poligrafici Riuniti di Bologna una Raccolta di 1000 mutetus dal titolo “Mutetus cagliaritani 2)      E’ Gramsci stesso a riferirlo in una Lettera dal carcere a Tania del 19-12-1926 : in questi testuali termini: […]“Arrestato l’8 sera alla 10.30 e condotto immediatamente in carcere, sono partito da Roma il mattino prestissimo del 25 Novembre. La permanenza a Regina Coeli è stato il periodo più brutto della detenzione: 16 giorni di isolamento assoluto in cella, disciplina rigorosissima. Ho potuto avere la camera a pagamento solo negli ultimi giorni. I primi tre giorni li ho trascorsi in una cella abbastanza luminosa di giorno e illuminata di notte; il letto era però molto sudicio; le lenzuola erano già adoperate, formicolavano gli insetti più diversi, non mi è stato possibile avere qualcosa da leggere, neanche la <Gazzetta dello Sport…” […]                         2. La famiglia Antonio Gramsci sposa Julija (<Giulia>, <Julka>) Schucht nata a Ginevra nel 1896 e discendente da una famiglia di origine scandinava. La conosce a Mosca nel 1922, in una casa di cura dove era stato ricoverato poco dopo il suo arrivo. Dalla loro unione nacquero Delio e Giuliano. Il padre di Gramsci, Francesco non era sardo: veniva da Gaeta, ma le sue origini erano greco-albanesi. Abbandonati gli studi universitari, vinse un concorso nell’Amministrazione dello stato e venne assegnato all’Ufficio del registro di Ghilarza, dove conosce Giuseppina Marcias, figlia dell’esattore delle tasse di Terralba, che sposerà  nel 1883, nonostante l’ostilità della sua famiglia. Avranno sette figli: Gennaro, Grazietta, Emma, Antonio, Mario, Teresina e Carlo. Dopo pochi anni la famiglia dovette trasferirsi ad Ales prima e a Sorgono poi dove Gramsci frequenta l’asilo infantile delle suore ma non la scuola elementare a causa di un ulteriore e forzato trasferimento della famiglia a Ghilarza quando aveva ancora sette anni. Nei primi mesi del 1898 il padre Francesco viene inquisito nella sua qualità di pubblico funzionario e poiché erano emerse alcune irregolarità contabili e l’ammanco di una piccola somma nella gestione dell’Ufficio del Registro, venne sospeso dall’impiego e dallo stipendio. In seguito a questa dolorosa circostanza emerge con forza la figura, forte, attiva e coraggiosa della madre Peppina Marcias. Ricorderà in seguito Teresina, la più piccola delle sorelle, a cui Gramsci dal carcere invierà numerose e struggenti lettere: “furono degli anni terribili per tutti, ma soprattutto per mia madre. Zia Grazia ci aveva assicurato il tetto1 ma dovevamo nutrirci e poi bisognava pagare gli avvocati per la difesa di papà. Noi eravamo molto piccoli, soprattutto io e Carlo che trascorrevamo lunghe ore, dimenticati da tutti, tenendoci per mano spauriti. Mia madre lavorava sempre; aveva una macchina da cucire Singer con la quale confezionava camicie da uomo, sapeva cucinare molto bene e teneva pensionati per i pasti; così riusciva a raggranellare almeno lo stretto necessario per vivere”. Alle volte alla sera non c’era da cenare per tutti e allora la mamma diceva a me e a Carlo: “se andrete a letto, da bravi, senza mangiare, vi do cinque centesimi. Noi accettavamo e ci addormentavamo felici col soldo sotto il cuscino, ma al mattino dopo era sparito”. Il padre Francesco, poco dopo la sospensione dall’impiego, era finito nelle carceri di Oristano: la corte di Appello l’aveva condannato a 5 anni, 8 mesi e 22 anni di reclusione. I figli vennero tenuti all’oscuro: Antonio Gramsci conoscerà la verità solo a distanza di tempo e sarà per lui un grave trauma che lo porterà vieppiù a chiudersi in se stesso.   Nota 1)Non avendo una casa di proprietà sono ospitati, al loro rientro da Sorgono a Ghilarza, dalla zia Grazia.     3. Il tema di Gramsci alla licenza elementare La sorella Teresina ci ha conservato il tema finale1 composto per gli esami della licenza elementarre, che è poi l’unico posse­duto. Questo il titolo: “Se un tuo compagno benestante e molto intelli­gente ti avesse espresso il proposito di abbandonare gli studi, che cosa gli ri­sponderesti?” Ed ecco lo svolgimento, sotto forma di lettera, del 15 luglio 1903:

“Carissimo amico,  poco fa ricevetti la tua carissima lettera, e molto mi rallegra il sapere che tu stai bene di salute. Un punto solo mi fa stupire te; dici che non riprenderai più gli studi perchè ti sono venuti a noia. Come, tu che sei tanto intelligente, che, grazie a Dio, non ti manca il necessario, tu vuoi abbandonare gli studi? Dici a me di fare lo stesso, perchè è molto meglio scorrazzare per i campi, andare ai balli e ai pubblici ritrovi, anzichè rinchiudersi per quattro ore al giorno in una camera, col maestro che ci predica sempre di studiare perchè se no resteremo zucconi. Ma io, caro amico, non po­trò mai abbandonare gli studi che sono l’unica speranza di vivere onoratamente quando sarò adulto, perchè, come sai, la mia famiglia non è certo ricca di beni di fortuna.

Quanti ragazzi poveri ti invidiano, loro che avrebbero voglia di studiare, ma a cui Dio non ha dato il necessario, non solo per stu­diare, ma molte volte, neanche per sfamarsi. Io li vedo dalla mia finestra, con che occhi guardano i ragazzi che passano con la cartella a tracolla, loro che non possono andare che alla scuola serale. Tu dici che sei ricco, che non avrai bisogno degli studi per cam­parti, ma bada al proverbio “l’ozio è il padre dei vizi”. Chi non stu­dia in gioventù se ne pentirà amaramente nella vecchiaia. Un rove­scio di fortuna, una lite perduta, possono portare alla miseria il più ricco degli uomini. Ricordati del signor Francesco; egli era figlio di una famiglia abbastanza ricca; passò una gioventù brillantissima, andava ai teatri, alle bische, e finì per rovinarsi completamente, ed ora fa lo scrivano presso un avvocato che gli dà sessanta lire al mese, tanto per vivacchiare. Questi esempi dovrebbero bastare a farti dissuadere dal tuo pro­posito. Torna agli studi, caro Giovanni, e vi troverai tutti i beni pos­sibili. Non pigliarti a male se ti parlo col cuore alla mano perché ti voglio bene, e uso dire tutto in faccia, e non adularti come molti. Addio, saluta i tuoi genitori e ricevi un bacio dal Tuo aff.mo Antonio”. Il testo del tema è interessante per comprendere l’idea che Gramsci da giovanissimo, aveva della cultura ma anche come documento di un giovane aperto e capace di fare dell’ironia e dell’umorismo, in contrasto con l’idea che spesso si è data di un Gramsci chiuso e sempre serioso. Sarà in seguito proprio il tema della cultura e del sapere oggetto privilegiato della sua riflessione e delle sue analisi: servirà per capire e insieme trasformare quel mondo “grande e terribile” con cui dovrà fare i conti da adulto.    1)      In  L’altro Gramsci di Giovanni Nieddu, Gia editrice, Cagliari 1990 pag.15   4. Gramsci e la Sardegna “La Sardegna –scrive Eugenio Orrù- non è per Gramsci una mera espressione geografi­ca e neppure soltanto il luogo degli affetti, un luogo della memoria, l’infanzia della politica. La Sardegna è espressione di soggettività, di lingua, di cultura, di storia di un popolo distinto, che vive nella storia pluralistica dell’Italia e deve esistere, esserci, come il Mezzogiorno continentale, come la Sicilia, con una pre­senza paritaria nel contesto unitario dello Stato italiano [cfr. il saggio del ’26 sul­la “Questione meridionale” e i Quaderni 1, 14, 19, 1929, 1932-’35, ibidem]. La lingua, la cultura, la storia della Sardegna sono ricchezza e vanno studiate e vissute. Non è dunque solo tattica, ma è frutto di strategia, di convinzione politi­ca radicata l’appello -ispirato da Gramsci- dell’Internazionale contadina, indi­rizzato il 21 settembre 1925 al V Congresso di Macomer del Partito Sardo D’Azione, appello peraltro preceduto dalla lettera del settembre 1923 all’esecuti­vo del P.C.d’L, dove egli parla di “Repubblica federale degli operai e dei conta­timi”. Ecco, anche da qui un’ulteriore interlocuzione con Gramsci: da qui si può desumere un concetto di autonomia come autogoverno, come democrazia e insieme un concetto di identità non come separazione e chiusura, ma come pro­getto e affermazione di sé, nel dialogo, nella partecipazione, nell’apertura all’Italia  e al mondo1. “Dalla Sardegna –ricorderà il suo compagno di studi e di partito, Palmiro Togliatti, il leader massimo dell’allora Partito comunista italiano, commemorandolo nel 1947 nel Municipio di Cagliari in occasione del decimo anniversario della sua morte- venne ad Antonio Gramsci il primo impulso, la vocazione iniziale della Sua vita; ciò che egli aveva visto, osservato, sofferto in Sardegna, diventò elemento fondamentale per la elaborazione del Suo pensiero politico, spinta decisiva alla esplicazione della Sua attività pratica di dirigente della classe operaia e dei lavoratori italiani”. Con la Sardegna e con le sue radici Gramsci mantenne sempre un rapporto molto stretto: certo per motivi affettivi –basta ricordare le sue Lettere dal carcere- ma non solo. I ricordi dell’infanzia e della prima giovinezza trascorsi soprattutto a Ghilarza prima e a Cagliari poi, durante il periodo del Liceo al “Dettori” (1908-1911), rimasero sempre impressi in tutta la sua esistenza e certo lo aiutarono a livello umano, fra l’altro forgiandolo nel suo carattere forte e coriaceo, unico strumento per superare le immani difficoltà che dovrà attraversare nella sua tormentata vita –si pensi in modo particolare al carcere- ma diedero corpo anche alla sua complessa elaborazione intellettuale e politica. “Gramsci –ricorda l’ex parlamentare Battista Columbu in un appassionato intervento2 in occasione del 50° anniversario della morte- fu sardo di nascita; sardo perché amò la sua terra d’immenso amore, l’am0 così com’essa è, con la sua bellezza semplice, con le sue asperità, con i suoi contrasti, con le sue sofferenze, con le sofferenze del popolo sardo che egli conobbe, comprese, condivise”. Di queste sofferenze egli parlerà a più riprese, fra l’altro scrivendone il  16 Aprile  1919 in un articolo per l’edizione piemontese dell’Avanti avente per titolo “I dolori della Sardegna”. In cui ricorderà quanto aveva affermato “nell’ultimo congresso sardo tenuto a Roma, un generale sardo: che cioè nel cinquantennio 1860-1910 lo Stato italiano, nel quale hanno sempre predominato la borghesia e la nobiltà piemontese, ha prelevato dai contadini e pastori sardi 500 milioni di lire che ha regalato alla classe dirigente non sarda. Perché –aggiungeva- è proibito ricordare, che nello Stato italiano, la Sardegna dei contadini e dei pastori e degli artigiani è trattata peggio della colonia eritrea in quanto lo stato <spende> per l’Eritrea, mentre sfrutta la Sardegna, prelevandovi un tributo imperiale”3. E non si tratta di fantasie. Proprio nel Congresso cui fa cenno Gramsci –che si tenne tra il 10 e il 15 Maggio del 1914, fu il primo Congresso regionale sardo di Roma e non l’ultimo come sbagliando afferma Gramsci che per di più lo colloca nel 1911- ci fu chi come il deputato Carboni-Boy dimostrerà nella sua relazione che il gettito fiscale prelevato in Sardegna era esorbitante non solo in relazione  alle risorse di cui poteva disporre l’Isola ma al reddito reale dei suoi abitanti. “Il balzello” finiva così per “paralizzare ogni forza produttiva e ogni risparmio”. In effetti per conseguenza di quel regime fiscale l’abitante della Sardegna versava allo Stato complessivamente lire 3,53 di imposte e risultava quindi “gravato come quasi e anche di più sosteneva il Carboni-Boy- di quello di regioni ricchissime” quali il Piemonte (lire 3,78), il Lazio (lire 3,56), la Toscana (lire 2,66)4 . Lo stesso Gramsci il 14 Aprile del 1919, in un altro articolo, titolato significativamente La Brigata Sassari e pubblicato sempre nell’edizione piemontese dell’Avanti aveva parlato di sfruttamento coloniale della Sardegna da parte della classe borghese di Torino. “Non siamo –commenta lo storico sardo Federico Francioni- di fronte all’uso di una parola ad effetto, in quanto Gramsci dimostra di essere convinto dell’esistenza di un colonialismo esercitato ai danni dell’Isola5. “Colonia, colonialismo –continua Francioni- ecco due termini, potremmo dire quasi due parolacce che gli storici, gli intellettuali sardi, fatte poche, pochissime eccezioni, hanno sempre cercato di rimuovere, come dire di esorcizzare6.

Eppure di colonialismo si trattava –o si tratta ancora oggi?-

  • con la rapina delle risorse, segnatamente attraverso lo sfruttamento delle miniere e la distruzione delle foreste sarde;
  • con l’esasperata e sproporzionata pressione fiscale che il parlamentare l’avvocato Enrico Carboni-Boy nella sua relazione al Congresso tenuto dai Sardi a Roma, aveva ben illustrato, quantificato e documentato;
  • con la politica doganale –in seguito alla rottura dei trattati commerciali con la Francia-  che aveva privato i prodotti tradizionali sardi degli sbocchi di mercato;
  • con l’emigrazione dei lavoratori sardi –le forze più produttive- verso le

gramsci

Antonio Gramsci

 

di Francesco Casula

 

 

 

Presentazione

Antonio Gramsci, sicuramente il Sardo più rappresentativo del primo Novecento –insieme a Emilio Lussu e Grazia Deledda- è lo scrittore più letto nel mondo. Le sue opere sono state tradotte in tutte le lingue più importanti del pianeta. E ancora oggi si scrivono articoli e saggi su Gramsci in Giappone come nel mondo arabo, in America Latina come negli USA.

Le sue idee, profonde e originali, hanno travalicato i confini della sua parte politica –la sinistra- per parlare a tutti. Il suo infatti è un messaggio umanissimo che conquista a prescindere dalle ideologie e dalle appartenenze culturali. La sua biografia e la sua vita sfortunata ed eroica, commuove e affascina.

Di Gramsci rimane un grande e suggestivo patrimonio culturale –di elaborazione, di analisi e di riflessioni ma soprattutto di testimonianza di vita drammatica e di etica- che affonda le sue radici nella sua terra, la Sardegna, che in questo testo abbiamo cercato di documentare.

1. La Vita

Nasce ad Ales (Ca) il 22 Gennaio 1891. Frequenta il liceo classico “G. M. Dettori” a Cagliari, dove avrà come docente Raffa Garzia, gran cultore e conoscitore di tradizioni e di poesia popolare1, nonché direttore dell’Unione Sarda che gli inculcò la passione per gli studi filologici che riprenderà all’Università- vince una borsa di studio e frequenta la Facoltà di Lettere dell’Università di Torino dove inizia a manifestare i suoi interessi per le ricerche sulla Lingua sarda e il proposito di laurearsi proprio in glottologia, con il suo grande maestro Matteo Bartoli, un professore dalmata che conosceva bene il sardo.

Nel 1915 aderisce al Partito socialista, nel 1919 fonda –insieme a Angelo Tasca, Palmiro Togliatti e Umberto Terracini- il settimanale “Ordine Nuovo”, rassegna di cultura socialista, dove teorizza e agita il tema dei Consigli operai capaci di diventare, in una situazione rivoluzionaria, i soviet italiani, sulla scia dei soviet che si erano affermati in Russia dopo la rivoluzione di Nikolaj Lenin (pseudonimo di Vladimir Ilič Uljanov). “L’Ordine Nuovo” si fece così animatore nel 1919-20 del movimento di Consigli di fabbrica eletti da tutte le maestranze, movimenti teorizzati da Gramsci in una serie di scritti nei quali, accanto alla suggestione del modello “soviettista” è facilmente rintracciabile l’influenza del sindacalismo rivoluzionario di Sorel, che avrà tanta influenza sul conterraneo Emilio Lussu e sullo stesso Mussolini e che inizia a incontrare il consenso di operai e impiegati.

Di qui una concezione della dittatura proletaria che non privilegiava –scrive lo storico Paolo Spriano- né il partito né il sindacato, ma considerava indispensabile che lo stato operaio da costruire si fondasse su istituzioni come i Consigli, diretta emanazione dei lavoratori e strumento della democrazia diretta e di base.

Partecipe della battaglia dell’estrema sinistra –le sue critiche al moderatismo riformista e al parlamentarismo del Psi furono citate da Lenin come esemplari- nel Gennaio del 1921 concorse a dar vita, insieme con il gruppo ordinovista, a una scissione del Partito socialista fondando il Partito comunista d’Italia, pur in una posizione subordinata rispetto alla leadership allora indiscussa di Amedeo Bordiga.

Nel 1922 “Ordine Nuovo” diventa quotidiano e Gramsci ne è il Direttore. A Maggio viene inviato a Mosca dove entra a far parte dell’Esecutivo dell’Internazionale. Ben presto però le sue condizioni di salute –che sono state sempre precarie- peggiorano a tal punto da costringerlo a ricoverarsi in una casa di cura dove conosce Giulia Schucht, la sua futura moglie. Intanto la situazione in Italia sta precipitando; il Fascismo, dopo la Marcia su Roma (28 Ottobre) è al Governo. Nei primi mesi del 1923 la maggior parte dei capi comunisti vengono arrestati dalla polizia: Gramsci si salva perché è a Mosca ma anche contro di lui viene spiccato un mandato di cattura.

Eletto nel 1924 deputato al Parlamento nella Circoscrizione del Veneto, potrà rientrare in Italia e si stabilisce a Roma, dove nel Maggio pronuncia alla camera dei deputati un discorso contro il disegno di legge sulle associazioni segrete presentato da Mussolini e da Alfredo Rocco. Il suo discorso è attentamente seguito e continuamente interrotto dai fascisti e dallo stesso Mussolini. Tra il Giugno del ’24 e il Gennaio del ’25 cerca di organizzare la protesta popolare e parlamentare per il delitto Matteotti e interviene ancora in Parlamento contro Mussolini.  Intanto nel Gennaio del ’26 partecipa al 3° Congresso nazionale del PCI preparato clandestinamente e tenuto a Lione. Le sue tesi riportano un’affermazione nettissima: i voti a suo favore raggiungono il 90,8%.

Bordiga, la cui linea politica fino a quel Congresso era stata sempre vincente riporta solo il 9,2% dei voti.

Nel frattempo a Mosca è in pieno svolgimento la lotta per la successione a Lenin. Si fronteggiano Stalin (pseudonimo di Josif Vissarionovič) e Lev Trotzkij (pseudonimo di Lejba Bronstein).

 Gramsci invia al Comitato centrale del PCUS una lettera per sottolineare l’enorme pericolo di queste lotte interne. Togliatti, che sta a Mosca, non approva i contenuti della lettera, soprattutto per quanto atteneva alla critica nei riguardi di Stalin e della maggioranza bolscevica e la blocca senza farla giungere a destinazione. Gramsci gli manifesta, in modo netto e secco, la sua disapprovazione. Nello stesso Ottobre del 1926 sta elaborando alcune tesi sulla Questione meridionale e si propone di pubblicare una rivista ideologica, quando l’emanazione delle leggi eccezionali da parte del governo fascista consiglia i suoi compagni, che lo sanno in pericolo, a suggerirgli l’emigrazione. Ma la sera dell’8 Novembre 19262 all’uscita dalla Camera dei deputati, è arrestato dalla polizia, nonostante godesse dell’immunità parlamentare e viene rinchiuso nel carcere di Regina Coeli a Roma, in assoluto e rigoroso isolamento, quindi confinato nell’Isola di Ustica. Ritorna in carcere dopo un mandato di cattura spiccato dal Tribunale di Milano.

Dopo circa due anni di carcere “preventivo” il 4 Giugno 1928 viene pronunziata la sentenza che lo condannava a 20 anni 4 mesi e 5 giorni di reclusione –oltre a 200 lire di ammenda- dal Tribunale speciale istituito dal Governo fascista per “cospirazione contro lo stato, organizzazione della guerra civile, incitamento all’insurrezione e al mutamento violento della costituzione e della forma di governo, istigazione all’odio di classe e attività sovversiva”.

Il Pubblico Ministero, Michele Isgrò, sardo (e…non per niente! aveva chiesto per lui 25 anni, 7 mesi e 6 mila lire di multa. Allo stesso Isgrò e non a Mussolini, verrà attribuita questa cinica e feroce espressione contro Gramsci: “Per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare”.

Verrà incarcerato nella Casa penale di Turi (Bari) dove le sue già malferme condizioni di salute si aggraveranno ulteriormente.

Colpito da emorragia cerebrale morirà nella clinica Quisisana a Roma il 27 Aprile 1937. Proprio il giorno della sua morte sarebbe dovuto rientrare in Sardegna, a Santulussurgiu, dove aveva studiato da ragazzino. Solo Carlo, il fratello che viveva a Milano, è presente al funerale insieme a Tatiana Schucht, la cognata che di nascosto era riuscita a sottrarre a sottrarre alle autorità fasciste le 2400 pagine dei 32 Quaderni scritti dal ’29 al ’35.

1)      Raffa Garzia, fra l’altro, pubblicherà nel 1917, per la casa editrice Poligrafici Riuniti di Bologna una Raccolta di 1000 mutetus dal titolo “Mutetus cagliaritani

2)      E’ Gramsci stesso a riferirlo in una Lettera dal carcere a Tania del 19-12-1926 : in questi testuali termini: […]“Arrestato l’8 sera alla 10.30 e condotto immediatamente in carcere, sono partito da Roma il mattino prestissimo del 25 Novembre. La permanenza a Regina Coeli è stato il periodo più brutto della detenzione: 16 giorni di isolamento assoluto in cella, disciplina rigorosissima. Ho potuto avere la camera a pagamento solo negli ultimi giorni. I primi tre giorni li ho trascorsi in una cella abbastanza luminosa di giorno e illuminata di notte; il letto era però molto sudicio; le lenzuola erano già adoperate, formicolavano gli insetti più diversi, non mi è stato possibile avere qualcosa da leggere, neanche la <Gazzetta dello Sport…” […]

2. La famiglia

Antonio Gramsci sposa Julija (<Giulia>, <Julka>) Schucht nata a Ginevra nel 1896 e discendente da una famiglia di origine scandinava. La conosce a Mosca nel 1922, in una casa di cura dove era stato ricoverato poco dopo il suo arrivo. Dalla loro unione nacquero Delio e Giuliano.

Il padre di Gramsci, Francesco non era sardo: veniva da Gaeta, ma le sue origini erano greco-albanesi. Abbandonati gli studi universitari, vinse un concorso nell’Amministrazione dello stato e venne assegnato all’Ufficio del registro di Ghilarza, dove conosce Giuseppina Marcias, figlia dell’esattore delle tasse di Terralba, che sposerà  nel 1883, nonostante l’ostilità della sua famiglia.

Avranno sette figli: Gennaro, Grazietta, Emma, Antonio, Mario, Teresina e Carlo. Dopo pochi anni la famiglia dovette trasferirsi ad Ales prima e a Sorgono poi dove Gramsci frequenta l’asilo infantile delle suore ma non la scuola elementare a causa di un ulteriore e forzato trasferimento della famiglia a Ghilarza quando aveva ancora sette anni.

Nei primi mesi del 1898 il padre Francesco viene inquisito nella sua qualità di pubblico funzionario e poiché erano emerse alcune irregolarità contabili e l’ammanco di una piccola somma nella gestione dell’Ufficio del Registro, venne sospeso dall’impiego e dallo stipendio. In seguito a questa dolorosa circostanza emerge con forza la figura, forte, attiva e coraggiosa della madre Peppina Marcias.

Ricorderà in seguito Teresina, la più piccola delle sorelle, a cui Gramsci dal carcere invierà numerose e struggenti lettere: “furono degli anni terribili per tutti, ma soprattutto per mia madre. Zia Grazia ci aveva assicurato il tetto1 ma dovevamo nutrirci e poi bisognava pagare gli avvocati per la difesa di papà. Noi eravamo molto piccoli, soprattutto io e Carlo che trascorrevamo lunghe ore, dimenticati da tutti, tenendoci per mano spauriti. Mia madre lavorava sempre; aveva una macchina da cucire Singer con la quale confezionava camicie da uomo, sapeva cucinare molto bene e teneva pensionati per i pasti; così riusciva a raggranellare almeno lo stretto necessario per vivere”.

Alle volte alla sera non c’era da cenare per tutti e allora la mamma diceva a me e a Carlo: “se andrete a letto, da bravi, senza mangiare, vi do cinque centesimi. Noi accettavamo e ci addormentavamo felici col soldo sotto il cuscino, ma al mattino dopo era sparito”.

Il padre Francesco, poco dopo la sospensione dall’impiego, era finito nelle carceri di Oristano: la corte di Appello l’aveva condannato a 5 anni, 8 mesi e 22 anni di reclusione.

I figli vennero tenuti all’oscuro: Antonio Gramsci conoscerà la verità solo a distanza di tempo e sarà per lui un grave trauma che lo porterà vieppiù a chiudersi in se stesso.

Nota

1)Non avendo una casa di proprietà sono ospitati, al loro rientro da Sorgono a Ghilarza, dalla zia Grazia.

3. Il tema di Gramsci alla licenza elementare

La sorella Teresina ci ha conservato il tema finale1 composto per gli esami della licenza elementarre, che è poi l’unico posse­duto. Questo il titolo: “Se un tuo compagno benestante e molto intelli­gente ti avesse espresso il proposito di abbandonare gli studi, che cosa gli ri­sponderesti?”

Ed ecco lo svolgimento, sotto forma di lettera, del 15 luglio 1903:

“Carissimo amico,  poco fa ricevetti la tua carissima lettera, e molto mi rallegra il sapere che tu stai bene di salute. Un punto solo mi fa stupire te; dici che non riprenderai più gli studi perchè ti sono venuti a noia. Come, tu che sei tanto intelligente, che, grazie a Dio, non ti manca il necessario, tu vuoi abbandonare gli studi? Dici a me di fare lo stesso, perchè è molto meglio scorrazzare per i campi, andare ai balli e ai pubblici ritrovi, anzichè rinchiudersi per quattro ore al giorno in una camera, col maestro che ci predica sempre di studiare perchè se no resteremo zucconi. Ma io, caro amico, non po­trò mai abbandonare gli studi che sono l’unica speranza di vivere onoratamente quando sarò adulto, perchè, come sai, la mia famiglia non è certo ricca di beni di fortuna.

Quanti ragazzi poveri ti invidiano, loro che avrebbero voglia di studiare, ma a cui Dio non ha dato il necessario, non solo per stu­diare, ma molte volte, neanche per sfamarsi.

Io li vedo dalla mia finestra, con che occhi guardano i ragazzi che passano con la cartella a tracolla, loro che non possono andare che alla scuola serale.

Tu dici che sei ricco, che non avrai bisogno degli studi per cam­parti, ma bada al proverbio “l’ozio è il padre dei vizi”. Chi non stu­dia in gioventù se ne pentirà amaramente nella vecchiaia. Un rove­scio di fortuna, una lite perduta, possono portare alla miseria il più ricco degli uomini. Ricordati del signor Francesco; egli era figlio di una famiglia abbastanza ricca; passò una gioventù brillantissima, andava ai teatri, alle bische, e finì per rovinarsi completamente, ed ora fa lo scrivano presso un avvocato che gli dà sessanta lire al mese, tanto per vivacchiare.

Questi esempi dovrebbero bastare a farti dissuadere dal tuo pro­posito. Torna agli studi, caro Giovanni, e vi troverai tutti i beni pos­sibili. Non pigliarti a male se ti parlo col cuore alla mano perché ti voglio bene, e uso dire tutto in faccia, e non adularti come molti.

Addio, saluta i tuoi genitori e ricevi un bacio dal

Tuo aff.mo Antonio”.

Il testo del tema è interessante per comprendere l’idea che Gramsci da giovanissimo, aveva della cultura ma anche come documento di un giovane aperto e capace di fare dell’ironia e dell’umorismo, in contrasto con l’idea che spesso si è data di un Gramsci chiuso e sempre serioso. Sarà in seguito proprio il tema della cultura e del sapere oggetto privilegiato della sua riflessione e delle sue analisi: servirà per capire e insieme trasformare quel mondo “grande e terribile” con cui dovrà fare i conti da adulto. 

1)      In  L’altro Gramsci di Giovanni Nieddu, Gia editrice, Cagliari 1990 pag.15

4. Gramsci e la Sardegna

“La Sardegna –scrive Eugenio Orrù- non è per Gramsci una mera espressione geografi­ca e neppure soltanto il luogo degli affetti, un luogo della memoria, l’infanzia della politica. La Sardegna è espressione di soggettività, di lingua, di cultura, di storia di un popolo distinto, che vive nella storia pluralistica dell’Italia e deve esistere, esserci, come il Mezzogiorno continentale, come la Sicilia, con una pre­senza paritaria nel contesto unitario dello Stato italiano [cfr. il saggio del ’26 sul­la “Questione meridionale” e i Quaderni 1, 14, 19, 1929, 1932-’35, ibidem].

La lingua, la cultura, la storia della Sardegna sono ricchezza e vanno studiate e vissute. Non è dunque solo tattica, ma è frutto di strategia, di convinzione politi­ca radicata l’appello -ispirato da Gramsci- dell’Internazionale contadina, indi­rizzato il 21 settembre 1925 al V Congresso di Macomer del Partito Sardo D’Azione, appello peraltro preceduto dalla lettera del settembre 1923 all’esecuti­vo del P.C.d’L, dove egli parla di “Repubblica federale degli operai e dei conta­timi”. Ecco, anche da qui un’ulteriore interlocuzione con Gramsci: da qui si può desumere un concetto di autonomia come autogoverno, come democrazia e insieme un concetto di identità non come separazione e chiusura, ma come pro­getto e affermazione di sé, nel dialogo, nella partecipazione, nell’apertura all’Italia  e al mondo1.

“Dalla Sardegna –ricorderà il suo compagno di studi e di partito, Palmiro Togliatti, il leader massimo dell’allora Partito comunista italiano, commemorandolo nel 1947 nel Municipio di Cagliari in occasione del decimo anniversario della sua morte- venne ad Antonio Gramsci il primo impulso, la vocazione iniziale della Sua vita; ciò che egli aveva visto, osservato, sofferto in Sardegna, diventò elemento fondamentale per la elaborazione del Suo pensiero politico, spinta decisiva alla esplicazione della Sua attività pratica di dirigente della classe operaia e dei lavoratori italiani”.

Con la Sardegna e con le sue radici Gramsci mantenne sempre un rapporto molto stretto: certo per motivi affettivi –basta ricordare le sue Lettere dal carcere- ma non solo. I ricordi dell’infanzia e della prima giovinezza trascorsi soprattutto a Ghilarza prima e a Cagliari poi, durante il periodo del Liceo al “Dettori” (1908-1911), rimasero sempre impressi in tutta la sua esistenza e certo lo aiutarono a livello umano, fra l’altro forgiandolo nel suo carattere forte e coriaceo, unico strumento per superare le immani difficoltà che dovrà attraversare nella sua tormentata vita –si pensi in modo particolare al carcere- ma diedero corpo anche alla sua complessa elaborazione intellettuale e politica.

“Gramsci –ricorda l’ex parlamentare Battista Columbu in un appassionato intervento2 in occasione del 50° anniversario della morte- fu sardo di nascita; sardo perché amò la sua terra d’immenso amore, l’am0 così com’essa è, con la sua bellezza semplice, con le sue asperità, con i suoi contrasti, con le sue sofferenze, con le sofferenze del popolo sardo che egli conobbe, comprese, condivise”.

Di queste sofferenze egli parlerà a più riprese, fra l’altro scrivendone il  16 Aprile  1919 in un articolo per l’edizione piemontese dell’Avanti avente per titolo “I dolori della Sardegna”. In cui ricorderà quanto aveva affermato “nell’ultimo congresso sardo tenuto a Roma, un generale sardo: che cioè nel cinquantennio 1860-1910 lo Stato italiano, nel quale hanno sempre predominato la borghesia e la nobiltà piemontese, ha prelevato dai contadini e pastori sardi 500 milioni di lire che ha regalato alla classe dirigente non sarda. Perché –aggiungeva- è proibito ricordare, che nello Stato italiano, la Sardegna dei contadini e dei pastori e degli artigiani è trattata peggio della colonia eritrea in quanto lo stato <spende> per l’Eritrea, mentre sfrutta la Sardegna, prelevandovi un tributo imperiale”3.

E non si tratta di fantasie. Proprio nel Congresso cui fa cenno Gramsci –che si tenne tra il 10 e il 15 Maggio del 1914, fu il primo Congresso regionale sardo di Roma e non l’ultimo come sbagliando afferma Gramsci che per di più lo colloca nel 1911- ci fu chi come il deputato Carboni-Boy dimostrerà nella sua relazione che il gettito fiscale prelevato in Sardegna era esorbitante non solo in relazione  alle risorse di cui poteva disporre l’Isola ma al reddito reale dei suoi abitanti. “Il balzello” finiva così per “paralizzare ogni forza produttiva e ogni risparmio”.

In effetti per conseguenza di quel regime fiscale l’abitante della Sardegna versava allo Stato complessivamente lire 3,53 di imposte e risultava quindi “gravato come quasi e anche di più sosteneva il Carboni-Boy- di quello di regioni ricchissime” quali il Piemonte (lire 3,78), il Lazio (lire 3,56), la Toscana (lire 2,66)4 .

Lo stesso Gramsci il 14 Aprile del 1919, in un altro articolo, titolato significativamente La Brigata Sassari e pubblicato sempre nell’edizione piemontese dell’Avanti aveva parlato di sfruttamento coloniale della Sardegna da parte della classe borghese di Torino. “Non siamo –commenta lo storico sardo Federico Francioni- di fronte all’uso di una parola ad effetto, in quanto Gramsci dimostra di essere convinto dell’esistenza di un colonialismo esercitato ai danni dell’Isola5.

“Colonia, colonialismo –continua Francioni- ecco due termini, potremmo dire quasi due parolacce che gli storici, gli intellettuali sardi, fatte poche, pochissime eccezioni, hanno sempre cercato di rimuovere, come dire di esorcizzare6.

Eppure di colonialismo si trattava –o si tratta ancora oggi?-

con la rapina delle risorse, segnatamente attraverso lo sfruttamento delle miniere e la distruzione delle foreste sarde;

con l’esasperata e sproporzionata pressione fiscale che il parlamentare l’avvocato Enrico Carboni-Boy nella sua relazione al Congresso tenuto dai Sardi a Roma, aveva ben illustrato, quantificato e documentato;

con la politica doganale –in seguito alla rottura dei trattati commerciali con la Francia-  che aveva privato i prodotti tradizionali sardi degli sbocchi di mercato;

con l’emigrazione dei lavoratori sardi –le forze più produttive- verso le Americhe: ben centomila lasciarono l’Isola;

con l’allocazione di tutti i centri decisionali e di potere a Torino: ad iniziare dai Consiglio di Amministrazione delle Ferrovie sarde e di alcune società minerarie i cui membri –sottolinea Gramsci- erano lautamente retribuiti.

1)In Il pensiero dominante, Gramsci oltre il suo tempo, a cura di Eugenio Orrù e Nereide Rudas, Tema ed. Cagliari 1999, pag. 9.

2)In La questione meridionale, atti del Convegno di studi, Cagliari 23-24 ottobre 1987, Pubblicazione del Consiglio regionale della Sardegna, pag. 378-379.

3)In Antonio Gramsci- Scritti 1915-1921. Nuovi contributi a cura di Sergio Capriogli :I Quaderni de “Il Corpo”-1968, pagg.103-104.

4)In Atti del Primo Congresso Regionale Sardo tenuto in Roma in Castel Sant’Angelo dal 10 al 15 Maggio 1914, promosso e organizzato dall’Associazione fra i Sardi in Roma. Coop. Tipografica Ma nunzio, Roma, 1914, pagg.143-144.

5)In La questione meridionale, atti del convegno di studi, op. cit. pag. 125.

6)Ibidem pag.125.

5. Gramsci e la Lingua sarda

Le Lettere dal carcere scritte dopo il suo arresto sono dirette per la gran parte ai familiari: alla moglie e ai figli, alla cognata, alla madre, alle sorelle e al fratello Carlo. Solo alcune sono indirizzate agli amici.

Per la prima volta furono pubblicate in un volume uscito nel 1947 che ne comprendeva 218. Nel 1965 un nuovo volume ne comprenderà 428, delle quali 119 fino ad allora inedite. Esse risultano un grandioso e insieme toccante documento autobiografico testimonianza umana culturale ed etica. Esse oltre a costituire un documento di insostituibile interesse storico e letterario rappresentano un’avvincente testimonianza psicoantropologica, una vita ricca di eventi significativi e persino drammatici. Eccone una1 diretta alla sorella Teresina in cui affronta la questione della Lingua sarda.

1) In Lettere da carcere, di Antonio Gramsci a cura di Sergio Caprifoglio ed Elisa Fubini. Introduzione e note di Sebastiano Vassalli, Giulio Einaudi editore, 1965. 

Carissima Teresina,

mi è stata consegnata sola pochi giorni fa la lettera che mi avevi inviato a Ustica e che conteneva la foto­grafia di Franco1. Ho così potuto vedere finalmente il tuo bimbetto e te ne faccio tutte le mie congratula­zioni; mi manderai, è vero? anche la fotografia della Mimì e così sarò proprio contento. Mi ha colpito mol­to che Franco, almeno dalla fotografia, rassomigli po­chissimo alla nostra famiglia: deve rassomigliare a Paolo2 e alla sua stirpe campidanese e forse addirit­tura maurreddina3: e Mimì a chi somiglia? Devi scri­vermi a lungo intorno ai tuoi bambini, se hai tempo, o almeno farmi scrivere da Carlo o da Grazietta. Fran­co mi pare molto vispo e intelligente: penso che parli già correttamente. In che lingua parla? Spero che lo lascerete parlare in sardo e non gli darete dei dispia­ceri a questo proposito. È stato un errore, per me, non aver lasciato che Edmea, da bambinetta, parlasse libe­ramente il sardo. Ciò ha nociuto alla sua formazione intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia. Non devi fare questo errore coi tuoi bambi­ni. Intanto il sardo non è un dialetto, ma una lingua a sé4, quantunque non abbia una grande letteratura, ed è bene che i bambini imparino piú lingue, se è pos­sibile. Poi, l’italiano, che voi gli insegnerete, sarà una lingua povera, monca5, fatta solo di quelle poche fra­si e parole delle vostre conversazioni con lui, pura­mente infantile; egli non avrà contatto con l’ambien­te generale e finirà con l’apprendere due gerghi6 e nessuna lingua: un gergo italiano per la conversazione ufficiale con voi e un gergo sardo, appreso a pezzi e bocconi, per parlare con gli altri bambini e con la gente che incontra per la strada o in piazza.

 Ti racco­mando, proprio di cuore, di non commettere un tale errore e di lasciare che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino spontanea­mente nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà un impaccio per il loro avvenire, tutt’altro. Delio e Giuliano sono stati male in questi ultimi tempi: hanno avuto la febbre spagnola7; mi scrivono che ora si sono rimessi e stanno bene. Vedi, per esem­pio, Delio: ha cominciato col parlare la lingua della madre8, come era naturale e necessario, ma rapida­mente è andato apprendendo anche l’italiano e can­tava ancora delle canzoncine in francese, senza perciò confondersi o confondere le parole dell’una e dell’al­tra lingua. Io volevo insegnarli anche a cantare: «Lassa sa figu, puzone»9, ma specialmente le zie si sono opposte energicamente[…].

Abbraccio Paolo affettuosamente; tanti baci a te e ai tuoi bambini

Nino

Note presenti nel testo

1. Teresina Gramsci Paulesu ebbe quattro figli: Franco, Mim­ma (« Mimí »), Diddi e Marco,

2. Paolo Paulesu, marito di Teresina Gramsci.

3. Maureddu si chiama chi abita il Campidano, cioè la pianura tra i golfi di Oristano e di Cagliari e,   in generale, le regioni meri­dionali della Sardegna.

4. Effettivamente l’idioma sardo viene considerato dagli stu­diosi come una lingua a sé stante, con vicende storiche sue pro­prie che ne fanno un caso singolare e autonomo nell’ambito delle lingue romanze

5. Cioè limitata nel lessico («povera») e perciò incompleta (« monca »).

6. Si dice « gergo » un linguaggio convenzionale, quale può for­marsi all’interno di gruppi sociali isolati.

7. Forma influenzale a carattere epidemico, comparsa per la prima volta in Europa nel 1918.

8. Cioè il russo.

9. « Lascia il fico, o uccello » (in sardo).

               In questa lettera del 26 Marzo del 1927,scritta alla sorella Teresina dal carcere, giustamente notissima e super citata, Gramsci rivela una serie di intuizioni formidabili sull’importanza, sull’utilità, sul ruolo e la funzione della lingua sarda, specie per quanto attiene allo sviluppo del bambino e allo stesso apprendimento dell’italiano.

                Per intanto ammette che “è stato un errore non aver lasciato che Edmea, da bambinetta, parlasse liberamente in sardo”. Si tratta di un errore oltremodo diffuso nella cultura e nell’intera scuola italiana, ancora oggi  ma soprattutto nel passato.

                       Un errore e un pregiudizio che deriva da lontano: basti pensare ai primi Programmi della Scuola italiana ,impostati a partire dall’Unità e dalla Legge Coppino del 1867 secondo una logica statoiatrica e italocentrica, finalizzata  a creare una supposta coscienza “ unitaria “  un cosiddetto spirito “ nazionale “, capace di superare i limiti – così erroneamente si pensava – di una realtà politico-sociale estremamente divisa, differenziata e composita sul piano storico, linguistico e culturale.

                        Così, tutto ciò che anche lontanamente sapeva di locale – segnatamente la storia e la lingua– fu rigidamente espunto ed espulso dalla scuola, represso e censurato, messo a tacere e bandito o comunque marginalizzato nella vita sociale.

                        Questo processo continuerà e anzi si accentuerà enormemente nel periodo fascista, in cui si tentò addirittura di cancellarla e decapitarla la lingua sarda come pure la storia e in genere quanto atteneva al locale, allo specifico, al particolare: elementi tutti che avrebbero –secondo l’ideologia fascista– attentato all’unità nazionale dello Stato, concepito in modo rigidamente monolingue e monoculturale.

                         Ebbene Gramsci, proprio in questo periodo storico e in questa temperie culturale ed ideologica ha il coraggio di andare controcorrente, anche su questo versante: “ non imparare il sardo da parte di Edmea – sostiene  – ha nociuto alla sua formazione intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia….è bene che i bambini imparino più lingue…. ti raccomando di lasciare che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino spontaneamente nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà un impaccio per il loro avvenire : tutt’altro.

      Il grande intellettuale sardo esprime in questa lettera una serie di posizioni sulla lingua materna, che i linguisti e i glottologi nonchè gli studiosi delle scienze sociali: psicologi come pedagogisti, antropologi come psicanalisti e persino psichiatri avrebbero in seguito articolato, argomentato e rigorosamente dimostrato come valide, in modo inoppugnabile.

                          Ovvero che il Bilinguismo, praticato fin da bambini, sviluppa  l’intelligenza e costituisce un vantaggio intellettuale non sostituibile con l’insegnamento in età scolare di una seconda lingua, ad esempio l’inglese.  

      Nell’apprendimento bilingue entrano in gioco fattori di carattere psico- linguistico di  grande portata formativa, messi in evidenza da appropriati e rigorosi studi e ricerche.

     Tutto ciò, soprattutto con il Bilinguismo a base etnica – proprio il nostro caso di sardi – che, come sostiene uno dei massimi studiosi e sostenitori, J. A. Fisman1 non è da considerarsi un fatto increscioso da correggere e da controllare ma una condizione che agisce positivamente nelle psicodinamiche dello sviluppo cognitivo e relazionale, base di potenzialità linguistiche-coscienziali straordinariamente estese, tanto che l’educazione bilingue ha delle funzioni che vanno al di là dell’insegnamento della lingua.                                                                   Ovvero che la lingua materna, la cultura e la storia locale hanno un ruolo fondamentale e decisivo  nello sviluppo degli individui, soprattutto dei giovani,  partendo “dall’ambiente naturale in cui sono nati “:

·       

Identità e dintorni de Frantziscu Casula

francesco.jpgTruncare sas cadenas

 

cun sa limba e sa cultura sarda  

 

Presentazione del Blog.

 

Questo blog, bilingue (in Sardo e in Italiano) a disposizione, in modo particolare, di tutti i Sardi –residenti o comunque nati in Sardegna- pubblicherà soprattutto articoli, interventi, saggi sui problemi dell’Identità, ad iniziare da quelli riguardanti la Lingua, la Storia, la Cultura sarda. Ecco il primo saggio sull’Identità, pubblicato recentemente (in Sardegna, university press, antropologia, Editore CUEC/ISRE, Cagliari 2007) e su Lingua e cultura sarda nella storia e oggi (pubblicato nel volume Pro un’iscola prus sarda, Ed. CUEC, Cagliari 2004). Seguirà la versione in Italiano della Monografia su Gramsci (di prossima pubblicazione) mentre quella in lingua sarda è stata pubblicata dall’Alfa editrice di Quartu nel 2006 (a firma mia e di Matteo Porru).      

Identità e dintorni.

 

di Francesco Casula  

 

premessa

 

L’Iidentità di cui ragionerò, individuale e collettiva, non è una realtà astratta, metastorica, immobile, bensì concreta e dinamica: non naviga cioè nei cieli della metafisica ma cammina nella materialità corposa delle vicende e dei processi reali in cui si contamina, si trasforma e si costruisce-ricostruisce.   Unitarismo,globalizzazione e risveglio identitario Solo fino a qualche decennio fa sembrava vittoriosa su tutti i fronti l’ideologia, vacuamente ottimistica e credente nelle “magnifiche sorti e progressive”, tutta basata su uno sviluppo materiale illimitato, che avrebbe dovuto eliminare le nazionalità marginali, le diversità linguistiche e culturali, bollate sic et simpliciter come primordiali, quando non veri e propri residui e cascami del passato. Sull’altare di tale progresso, scandito dalla semplice accumulazione di beni materiali e fondato sulla onnipotenza della “tecnostruttura” –di cui parla Jean Braudillard- ovvero sulla tecnologia e gli apparati di dominio politico, si è devastato l’ambiente, compromettendo forse in modo irreversibile gli equilibri dell’ecosistema e nel contempo sono state sacrificate e distrutte culture, risorse artistiche, codici. Si è trattato e si tratta – perché il perverso processo, sia pure oggi messo in discussione continua – di una vera e propria catastrofe antropologica, se solo pensiamo a quanto ci rende noto il Centro studi di Milano “Luigi Negro”, secondo il quale ogni anno scompaiono nel mondo dieci minoranze etniche e con esse altrettante civiltà, modi di vivere originali, specifici e irrepetibili. Con questo ritmo, persino i più ottimisti fra i linguisti – ricordo per tutti Claude Hagè- prevedono che tra appena cento anni la metà delle settemila lingue ancora parlate nel pianeta oggi, scomparirà.    Il pretesto e l’alibi di tale genocidio è stato che occorreva trascendere e travolgere le arretratezze del mondo “barbarico” –per noi Sardi “barbaricino”– le sue superstizioni, le sue “aberranti” credenze, i suoi vecchi e obsoleti modelli socio-economico-culturali, espressione di una civiltà preindustriale e rurale ormai superata. I motivi veri sono invece da ricondurre alla tendenza del capitalismo e degli Stati – e dunque delle etnie dominanti– a omologare  in nome di una falsa “unità”, della globalizzazione dei mercati, della razionalità tecnocratica e modernizzante, dell’universalità cosmopolita e scientista, le etnie marginali e con esse le loro differenze, in quanto portatrici di codici “altri”, scomodi e renitenti, ossia “reverdes”. Quella “unità” di cui parla lo scrittore Eliseo Spiga nel suo recente suggestivo e potente romanzo, <Capezzoli di pietra> ”: Ormai il mondo era uno. Il mondo degli incubi di Caligola. Un’idea. Una legge. Una lingua. Un’eresia abrasa. Un’umanità indistinta. Una coscienza frollata. Un nuragico bruciato. Un barbaricino atrofizzato. Un’atmosfera lattea. Una natura atterrita. Un paesaggio spianato. Una luce fredda. Città villaggi campagne altipiani nazioni livellati ai miti e agli umori di cosmopolis. Che vorrebbe un mondo uniforme, una sfera rigida e astratta nell’empireo e non invece tanti mondi, ciascuno col proprio movimento e con un suo essere particolare e inconfondibile. Quell’unità e quel pensiero “unico” che – ha scritto a questo proposito il parlamentare europeo Nichi Vendola– abolisce le stagioni, sospende il tempo, rende insignificante il contrasto fra il caldo e il freddo, ammutolisce la politica, mette al bando l’idea stessa del cambiamento. Omologando destra, sinistra e centro; annullando progressivamente le specificità; ibernando nella bara della tecnica, del calcolo economico, della mercificazione, della globalizzazione le identità politiche, sociali, etniche. Oggi, dicevo, fortunatamente, sia pure con difficoltà e lentamente, inizia ad affermarsi la convinzione e la consapevolezza che la standardizzazione e  l’omologazione, insomma la reductio ad unum, rappresenta una catastrofe e una disfatta, economica e sociale ancor prima che culturale, per gli individui e per i popoli. Di qui la necessità della valorizzazione e dell’esaltazione delle diversità, ovvero delle specifiche “Identità”: certo per aprirci e guardare al futuro e non per rifugiarci nostalgicamente in una civiltà che non c’è più; per intraprendere, come Comunità sarda, il recupero della nostra prospettiva esistenziale: la comunità e i suoi codici etici improntati sulla solidarietà e sul dono, i valori dell’individuo incentrati sulla valentia personale come coraggio e fedeltà alla parola e come via alla felicità. E insieme per percorrere una “via locale” alla prosperità e al benessere e partecipare così, nell’interdipendenza, agli scambi e ai rapporti economici e culturali. Su queste problematiche è stata già prodotta una vera e propria “letteratura” a livello mondiale: penso a economisti come Rifkin o a scienziati e teorici dell’ecologia sociale come Vandana Shiva, indiana, che in “Sopravvivere allo sviluppo” denuncia le distorsioni irreparabili della globalizzazione capitalistica, scrivendo che: le necessità materiali dei poveri potranno essere soddisfatte soltanto quando l’economia naturale e le economie di sussistenza saranno robuste e resilienti. Per garantire che lo siano dobbiamo farla finita con l’ossessione per l’economia del mercato globale e per la ricchezza. La crescita finanziaria che distrugge la natura è la formula per aumentare la povertà e per degradare ancor più l’ambiente. O penso all’italiano Enzo Tiezzi che in “Tempi storici e tempi biologici” ci ricorda i limiti oggettivi delle risorse naturali –soprattutto energetiche- e quindi dello sviluppo, l’era del “mondo finito” di cui parlava Paul Valery. O a Levi-Strauss e Joseph Rothscild che in “Il pensiero selvaggio” il primo e in “Etnopolitica” il secondo denunciano la distruzione e/o devastazione delle culture (e delle economie) deboli. O ancora al teorico marxista e terzomondista Samir Amin che il “La teoria dello sganciamento” prospetta la necessità di fuoruscire dal sistema occidentalista. O infine all’americano Alvin Toffler che in “La terza ondata” sostiene la crisi dell’industrialismo e la necessità di una nuova civiltà, non più basata sulla concentrazione-centralizzazione-standardizzazione-omologazione. E’ dentro quest’universo di contestazioni e insieme di proposte che da anni è in atto nell’intero Pianeta un forte e ubiquitario risveglio etno-identitario, in cui convergono nazioni senza stato, partiti e sindacati etnici, l’ambientalismo sociale, culture alternative, gruppi e comunità locali. Tale risveglio etno-identitario, non si pone come fenomeno passatista e nostalgico rispetto a un passato che non c’è più ma come fenomeno moderno e postindustriale: come protesta e lotta contro gli Stati, accentrati e oppressori delle minoranze nazionali coattivamente incorporate. E si pone dunque come rivendicazione e proposta perché le minoranze, le nazionalità marginali e le etnie vengano riconosciute e valorizzate nelle loro identità: da quelle politiche a quelle storiche e culturali, da quelle economiche e produttive a quelle ambientali, geografiche, alimentari.   Identità e storia Sostiene Umberto Eco nel suo monumentale romanzo <L’Isola del giorno prima>: Io sono memoria di tutti i miei momenti passati, la somma di tutto ciò che ricordo. La storia è la radice del nostro essere, della nostra realtà e Identità collettiva e individuale: nessun individuo come nessun popolo può realmente e autenticamente vivere senza la conoscenza e coscienza della sua Identità, della sua biografia, dei vari momenti del suo farsi capace di ricostruire il suo vissuto personale. Un filo ben preciso lega il nostro essere presente al passato: il filo della nostra identità e specificità, come individui e come comunità. Se non fossimo diversi non potremmo neppure dialogare, confrontarci, conoscere. La diversità ci salva dalla omologazione–standardizzazione. Sia ben chiaro: la coscienza di essere diversi non esclude la consapevolezza di essere e di vivere dentro un universo più vasto. La conoscenza della nostra storia, delle nostre radici etno-culturali, le nostre specificità artistiche e musicali, ci aiutano a superare i conflitti fra le diversità, in quanto la coscienza della nostra storia peculiare deve portarci non all’esaltazione acritica del nostro passato, magari in termini mitologici, né all’etnocentrismo, né alla chiusura verso l’esterno e/o il diverso: bensì al dialogo e alla tolleranza e – perché no? – alla contaminazione e al meticciato, in cui la nostra Identità si plasma e si trasforma, arricchendosi e irrobustendosi con l’innesto di nuove culture.In quest’ottica la nostra Identità non può tradursi in forme di chiusura autocastrante o di separazione: essa deve invece essere accettata e riconosciuta come la condizione base del nostro modo di situarci nel mondo e di dialogare con gli orizzonti più diversi, “senza cedere alla tentazione –osserva acutamente il filosofo sardo Placido Cherchi – di usare la nostra differenza come ideologia o di caricarla, a seconda delle fasi, ora di arroganze etnocentriche ora di significati autodepressivi”.   Identità e lingua “La Lingua essendo la più forte ed essenziale componente del patrimonio ricchissimo di tradizioni e di memorie popolari, sta a fondamento –scrive Giovanni Lilliu –dell’Identità della Sardegna e del diritto ad esistere dei Sardi, come nazionalità e come popolo, che affonda le sue radici nel senso profondo della sua storia, atipica e dissonante rispetto alla coeva storia e cultura mediterranea ed europea”. Nell’epoca della globalizzazione, il rapporto fra le lingue è un banco di prova – e anche una grande metafora– del rapporto fra le culture. Comunicare restando diversi, ascoltare l’altro senza rinunciare alla propria pronuncia, essere radicati in una tradizione senza fare di questo, un elemento di separatezza o di esclusione o di sopraffazione: il rapporto fra le lingue – la compresenza attiva di moltissime lingue – dimostra che è possibile tendere alla comprensione salvando la differenza. Nella nostra epoca, come muoiono specie animali e vegetali, così anche molte lingue si estinguono o sono condannate alla sparizione. Per ogni lingua che muore è una cultura, una memoria ad essere abolita. Un universo di suoni e di saperi a dileguarsi. Preservare allora le specie linguistiche – nonostante le migrazioni, le egemonie mercantili, le colonizzazioni mascherate – dovrebbe essere il primo compito dell’ecologia della cultura e del sapere. L’idea di una lingua unica perduta è solo un sogno: ”un frivolo sogno” lo definiva già Leopardi nello Zibaldone. E anche l’idea che sia necessaria una lingua unica che permetta a tutti di intendersi immediatamente non riesce a nascondere il disegno egemonico: disegno che è in particolare di ordine mercantile. Le lingue imposte via via dai colonizzatori hanno sbaragliato e mortificato e distrutto le forme e l’energia inventiva delle lingue locali. Il controllo politico, le ragioni di mercato, i progetti di assimilazione hanno sacrificato tradizioni e culture, suoni e nomi, relazioni profonde tra il sentire e il dire. E tuttavia più volte è accaduto che quelle culture vinte abbiano attraversato le lingue egemoni irrorandole di nuova linfa creativa: è quel che è accaduto meravigliosamente nelle letterature ibero-americane, è quel che accade oggi nelle letterature africane di lingua portoghese, inglese e francese o nella letteratura nordamericana o in quella inglese. Inoltre le migrazioni hanno dappertutto esportato saperi, confrontato stili di vita e di pensiero, contaminato linguaggi e sogni e memorie. Molti poeti e scrittori del ‘900 appartengono a una storia di migrazioni tra le lingue: da Canetti a Celan, da Nabokof a Brodskij, da Singer a Rushidie, da Gombrowitz a Naipaul.   Identità e folclore Occorre leggere e interpretare l’Identità –scrive opportunamente Alberto Contu- non con le lenti logore di un’ideologia passatista, ma con un restyling concettuale nuovo e complesso che rifiuta e oltrepassa una improbabile visione museale. Ovvero un’impostazione che riproponga un cliché che la riduce a semplice recupero acritico del passato e delle sue tradizioni o del suo folclore; o a un attributo eterno e immutabile. Provocatoriamente sosterrei anzi che la visione puramente etnografica dell’identità, certifica la morte dell’identità stessa. Di più: “quando ci si interroga sull’identità –scrive magistralmente Bachisio Bandinu in <La Maschera, la donna e lo specchio, Spirali editore, Milano 2004>- vuol dire che si sta sperimentando una condizione di disidentità. Si cerca qualcosa che si è già perduta…Si piange il corpo morto e si tesse il manto luttuoso del ricordo e del rimpianto. Opera il fantasma della madre tradizione. Si arreda lo spazio di monumenti, documentazioni, mappature, rituali, tutti timbrati inesorabilmente al passato, secondo una concezione mussale. Si ricostruiscono i luoghi sacri della malinconia. Ricorrenze, ripetizioni e fantasie ri rinascita. E’ un lutto senza elaborazione. Così codici e scritture, riti e narrazioni, usi e costumi non prendono la forma del tempo attuale, La fissazione all’oggetto perduto produce le folclorizzazioni che sono delle rappresentazioni mortuarie. C’è un enunciato, imperativo e malinconico, davvero sintomatico che ricorre nel discorso sardo: torrare a su connotu, ritornare al conosciuto. Su connotu è visto come uno spazio reale e simbolico di garanzia, ricco di valori è costituito dal patrimonio storico, archeologico, artistico, linguistico e culturale, ma inteso come tesoro da custodire, senza investimento” L’identità non è un dato dunque che si contempla: quando ciò avviene vuol dire che il fenomeno è ormai svanito. E neppure semplicemente si studia o si indaga: questo avviene infatti quando essa viene a mancare o si è trasformata in oggetto estraniante. Pensiamo alle lingue morte che sono sempre oggetto di attenzione alla luce fioca dei tavoli accademici, quando “il morto” è sezionato e classificato. O pensiamo alle lingue, le arti, le tradizioni sempre più materia per i nuovi entomologi.   Identità come percorso, processo  e progetto L’identità che occorre difendere e rivendicare e far crescere non è quella che si esprime in un isolato e fermo recupero e cernita di memorie e tradizioni ma nei termini accrescitivi di un confronto nel tempo perché è in quel confronto, in quello scambio intersoggettivo che trova la ragione la capacità di conservare ma anche di progettare e di accogliere e di proporre di ricevere e di dare. Ciascuno è figlio della propria terra ma anche figlio del mondo intero. Occorre partire dal “luogo della differenza” per riconoscerci e appartenerci e insieme da quel luogo, dal valore della diversità segnata da una storia dissonante e da arresti anche drammatici ma carica di significati millenari: ripartire, muovere per disegnare nel presente la nostra storia futura, il progetto della nostra terra. L’identità non è un dato, rassicurante e immobile, ma un elemento dinamico, da rielaborare continuamente, da ricostruire in progress, secondo la logica del bricolage, nella dimensione di un grande blob –continua Contu-  che crea inedite adiacenze tra segni e simboli delle vecchie certezze e nuovi elementi mobili dai confini elastici. In quest’ottica –utilizzo ancora l’affilata e pregnante prosa di Bandinu- “la tradizione non è un luogo, è il traditur come procedere del tempo. L’elaborazione del passato trova il suo punto di progettazione come investimento nell’impresa del dire e del fare…Il passato non è svelamento magico di un tesoro e neppure contenuto sostanziale di cui appropriarsi. E’ il percorso narrativo del farsi del linguaggio…Non si tratta di fare un cammino a ritroso per abitare la vecchia casa, è piuttosto un percorso prospettico che avvia un modo nuovo del dire e del fare. Il passato come rielaborazione per cogliere la specificità del tempo attuale”. L’identità dunque è quella che diventa fatto nuovo, che interroga l’esperienza del tempo attuale, per affrontare il presente nella sua drammatica attualità, per definire un orizzonte di senso, per situarci e per abitare, aperti al suo respiro, il mondo lottando contro il tempo della dimenticanza. “L’identità dunque si vive, nel segno della contaminazione e dell’appartenenza. L’identità è quella che si trasforma in questione operativa: che diventa progetto e l’appartenenza diventa storia, caricandosi di vita, suscitando conflitti, impegnandosi con le lotte a trasformare il presente e costruire il futuro.   A mo’ di conclusione E invece cosa succede in Sardegna? “Ohi ohi ohi cosa siamo diventati –fa dire Salvatore Niffoi a Bachis, il  protagonista del romanzo <La sesta ora>- né antichi né moderni, né altri né noi stessi! Quel fuggire rimanendo incatenati, quel restare col prurito di Ulisse nel culo, era tutto uno stillicidio di sangue che si versava nel limbo del non tempo, altrove e lui non se ne chiamava fuori, anzi: si torturava e s’interrogava, su quel rapporto magico e maledetto che aveva con la sua gente, la sua terra. Un cane randagio era. Un cane randagio che non stava bene da nessuna parte, che non si sentiva a casa né in acqua, né in cielo, né in terra. Che cosa aveva fatto per cambiare le cose ad Ularzai? Niente! E se avesse passato i suoi giorni a tribolare per il suo paese, sarebbe cambiato qualcosa? Di sicuro niente! Forse, quella terra malinconica, i suoi figli li voleva proprio così: che non facessero niente, che capissero fin da piccoli l’inutilità del fare, che tanto è tutto inutile…”. O no?