Giovanni Maria Angioy

Perché intitolare la 131 a Giovanni Maria Angioy, “cacciando” Carlo Felice, vice re e re ottuso, famelico, repressivo e crudele. di Francesco Casula

1. La figura di Giovanni Maria Angioy. 2. Angioy coltivatore ed imprenditore, professore di diritto canonico, giudice della Reale Udienza. 3. Angioy e i moti del 1795. 4. Angioy “Alternos”. 5. L’Angioy a Sassari. 6. L’Angioy e la marcia verso Cagliari, la sua fine e la fine di un sogno… 7. Riferimenti bibliografici.

La proposta di Paolo Maninchedda di dedicare la 131 a un eroe sardo mi trova assolutamente consenziente. A mio parere – senza togliere nulla a Mariano IV, il giudice-re padre di Eleonora – preferisco che si intitoli la 131 a Giovanni Maria Angioy.

Sono molteplici e di varia natura (storico-politiche, culturali ed etiche) le ragioni. Esse emergono soprattutto con il suo viaggio a Sassari, (proprio attraversando la 131) quando inizia il suo eroico e sfortunato tentativo di liberare i vassalli sardi dallo sfruttamento feudale e di costruire una repubblica sarda indipendente e federata alla Francia.

 

 

 

1. La figura di Giovanni Maria Angioy

 

La sua figura – scrive lo storico sassarese Federico Francioni (1)- nella storia del suo tempo è stata a lungo oggetto di controversie, a volte di esaltazioni, a volte

di accuse, spesso condizionate da un dibattito politico contingente, che prendevanoparticolarmente di mira sue indecisioni e «doppiezze».

Oggi invece è necessario cercare di capire nel profondo le ragioni dei dubbi ed anche delle ambiguità che, ad un primo esame, sembrano le fasi e le caratteristiche piú

marcate della biografia angioyna. Ma è indispensabile, prima di tutto, indagare sulle origini delle lotte antifeudali con le quali giunsero a maturazione istanze comuni sia

al mondo delle campagne che ai gruppi della nascente borghesia isolana. È essenziale, inoltre, non perdere di vista il quadro in cui vanno collocati gli avvenimenti

sardi: il drammatico scenario dominato dal crollo dell’ancien régime, dalle attese quasi messianiche di emancipazione delle masse rurali, dall’azione di élites

audaci ed intransigenti e dagli «alberi della libertà».

Solo così sarà possibile rimettere in discussione stereotipi – in larga parte ancora vigenti – su una Sardegna tagliata fuori, sempre e comunque, da tutte le grandi correnti

rivoluzionarie, politiche, culturali ed intellettuali dell’Europa moderna.

 

2. Angioy coltivatore ed imprenditore, professore di diritto canonico, giudice della Reale Udienza.

 

La vita dell’Angioy non è solo una traccia, un frammento, nella storia sotterranea dellelongues durées e dei processi di trasformazione che hanno attraversato la società

sarda. La sua vicenda politica ed umana assume infatti un valore emblematico perché riflette la parabola di un’intera generazione di sardi, vissuta fra le realizzazioni

del «riformismo» sabaudo, un decennio di sconvolgimenti rivoluzionari e la spietata restaurazione dei primi anni dell’Ottocento. In quel contesto si inserisce anche

l’attività di Angioy, nato a Bono il 21 ottobre 1751, dopo aver studiato a Sassari nel Collegio Campoleno ed essersi addottorato in Legge, nel 1773 a Cagliari inizia la

pratica forense.

Imprenditore agrario e manifatturiero oltre che professore di diritto canonico, è un alto funzionario dello Stato (fra l’altro giudice della Reale Udienza) colto ed efficiente,

oltre che intellettuale aperto agli stimoli e agli influssi dei “lumi” e delle riforme.

Come giudice della Reale Udienza fa parte della Giunta stamentaria costituita di due membri di ciascuno dei bracci parlamentari. Pur rimanendo nell’ombra negli anni delle

sommosse cittadine e dei moti antipiemontesi, – anche se il Manno, cercando di metterlo in cattiva luce, insinua che egli tramasse dietro le quinte anche in quelle circostanze e

dunque fosse coinvolto nella cacciata dei piemontesi- secondo molti storici sardi – ad iniziare dal Sulis – si affermerebbe come il capo più autorevole del Partito democratico

e come l’esponente più importante di un gruppo di intellettuali largamente influenzato dall’illuminismo e dal Giacobinismo: fra i più importanti Gioachino Mundula, Gavino

Fadda, Gaspare Sini, il rettore di Semestene Francesco Muroni con il fratello speziale Salvatore, il rettore di Florinas Gavino Sechi Bologna e altri.

 

3. Angioy e i moti del 1795.

 

I moti del 1795 – scrive ancora Francioni – a differenza di quelli del 1793, che ingenere erano stati guidati da gruppi interni ai villaggi, sono preceduti da un’intensa

attività di propaganda non solo antifeudale ma anche politica. Infatti insieme alleribellioni nelle campagne si darà vita ai cosiddetti “strumenti di unione” ovvero a

“patti” fra ville e paesi – per esempio fra Chiesi, Bessude, Brutta e Cheremule il 24novembre 1795 e in seguito fra Bonorva, Semestene e Rebeccu nel Sassarese. In essi

le persone giuravano di “non riconoscere più alcun feudatario”.

Lo sbocco di questo ampio movimento – autenticamente rivoluzionario e sociale perchè metteva radicalmente in discussione i capisaldi del sistema vigente nelle campagne

– fu l’assedio di Sassari – scrivono gli storici Lorenzo e Vittoria Del Piano (2). Con cui si costrinse la città alla resa dopo uno scambio di fucilate con la guarnigione. I capi,

il giovane notaio cagliaritano Francesco Cilocco e Gioachino Mundula arrestarono il governatore Santuccio e l’arcivescovo Della Torre mentre i feudatari erano riusciti a

fuggire in tempo rifugiandosi in Corsica prima e nel Continente poi.

Dentro questo corposo movimento antifeudale, di riscatto economico, sociale e persino culturale-giuridico dei contadini e delle campagne si inserisce il ”rivoluzionario”

Giovanni Maria Angioy.

 

4. Angioy “Alternos”.

 

Mentre nel capo di sopra divampa l’incendio antifeudale, con le agitazioni che continuano e si diffondono in paesi e ville del Sassarese, gli Stamenti propongono al

viceré Vivalda di nominare l’Angioy alternos con poteri civili, militari e giudiziari pari a quelli del viceré. Il canonico Sisternes si sarebbe poi vantato di aver proposto

il nome dell’Angioy per allontanarlo da Cagliari e indebolire il suo partito. Certo è che il suo nome venne fatto perché persona saggia e perché solo lui, grazie al potere

e al prestigio che disponeva nonché alla competenza in materia di diritto feudale ma anche perché originario della Sardegna settentrionale, avrebbe potuto ristabilire

l’ordine nel Logudoro.

L’intellettuale di Bono accettò, ritenendo che con quel ruolo avrebbe rafforzato le proprie posizioni ma anche quelle della sua parte politica incentrate sicuramente nella

abolizione del feudalesimo in primis. Il viaggio a Sassari fu un vero e proprio trionfo: seguaci armati ed entusiasti si unirono con lui nel corso del viaggio, vedendolo come

il liberatore dall’oppressione feudale. E giustamente. Anche perché riuscì a comporre conflitti e agitazioni, a riconciliare molti personaggi, a liberare detenuti che giacevano

– scrive Vittorio Angius “in sotterranee oscure fetentissime carceri”.

 

5. L’Angioy a Sassari

 

Accolto a Sassari dal popolo festante ed entusiasta – persino i monsignori lo ricevettero nel Duomo al canto del Te Deum di ringraziamento – in breve tempo riordinò

l’amministrazione della giustizia e della cosa pubblica, creò un’efficiente polizia urbana e diede dunque più sicurezza alla città, predispose lavori di pubblica utilità

creando lavoro per molti disoccupati, si fece mandare da Cagliari il grano che era stato inutilmente richiesto quando più vivo era il contrasto fra le due città: per questa

sua opera ottenne una vastissima popolarità. Nel frattempo i vassalli, impazienti nel sospirare la liberazione dalla schiavitù feudale (ovvero“de si bogare sa cadena da-e

su tuiu” come diceva il rettore Murroni, amico e sostenitore di Angioy) e di ottenere il riscatto dei feudi, proseguirono nella stipulazione dei patti dell’anno precedente:

il 17 marzo 1796 ben 40 villaggi del capo settentrionale, confederandosi, giuravano solennemente di non riconoscere più né voler dipendere dai baroni. Angioy non poteva

non essere d’accordo con loro e li riconobbe: in una lettera spedita il 9 giugno 1796 al viceré da Oristano, nella sfortunata marcia su Cagliari che tra poco intraprenderà,

cercò di giustificare l’azione degli abitanti delle ville e dei paesi riconoscendo la drammaticità dell’oppressione feudale che non era possibile più contenere e gestire e

assurdo e controproducente cercare di reprimere.

Non faceva però i conti con la controparte: i baroni. Che tutto voleva fuorché l’abolizione dei feudi: ad iniziare dal viceré. Tanto che i suoi nemici organizzarono

durante la sua stessa permanenza a Sassari una congiura, scoperta ad aprile. Si decise perciò di “impressionare gli stamenti con una dimostrazione di forza, che facesse loro

comprendere come il moto antifeudale era seguito da tutta la popolazione e che eraormai inarrestabile” (3). Lasciò dunque Sassari e si diresse a Cagliari.

 

6. L’Angioy e la marcia verso Cagliari, la sua fine e la fine di un sogno…

 

Il 2 Giugno 1896 l’Alternos si dirige verso Cagliari, accompagnato da gran seguito di dragoni, amici e miliziani: nel Logudoro si ripetono le scene di consenso entusiastico

dell’anno precedente. A Semestene però ebbe una comunicazione da Bosa circa i preparativi che erano in atto per fronteggiare ogni sua mossa e a San Leonardo, “fatta

sequestrare la posta diretta a Sassari, ebbe conferma delle misure che venivano presecontro di lui” (4). Difatti a Macomer popolani armati, sobillati pare da ricchi proprietari,

cercarono di impedirgli il passaggio, sicchè egli dovette entrare con la forza. Poiché anche Bortigali gli si mostrava ostile, si diresse verso Santu Lussurgiu e l’8 giugno

giunse in vista di Oristano.

Nella capitale la notizia che un esercito si avvicinava spaventò il viceré che radunò gli Stamenti. Tutti furono contro l’Angioy: anche quelli che erano stati suoi partigiani

come il Pintor, il Cabras, il Sulis. Ahimè ritornati subito sotto le grandi ali del potere in cambio di prebende e uffici. Sardi ancora una volta pocos, locos y male unidos:

l’antica maledizione della divisione pesa ancora su di loro. Questa volta per qualche piatto di lenticchie.

Così il generoso tentativo dell’Angioy si scontra con gli interessi di pochi: fu rimosso dalla carica di Alternos, si posero 1.500 lire di taglia sulla sua testa e da leader

prestigioso e carismatico, impegnato nella lotta antifeudale, per i diritti dei popoli e, in prospettiva nella costruzione in uno stato sardo repubblicano, divenne un volgare

“ricercato”.

Occorre infatti dire e sostenere con chiarezza che l’Angioy aveva in testa – come risulta dal suo Memoriale (5)- non solo la pura e semplice abolizione del feudalesimo

ma una nuova prospettiva istituzionale: la trasformazione dell’antico Parlamento in

Assemblea Costituente e uno stato sardo indipendente che “doveva comporsi di quattro

dipartimenti (Sassari, Oristano, Cagliari e Orani) suddivisi a loro volta in cantoni

ricalcanti le micro-regioni storiche dell’Isola(6).

 

Riferimenti bibliografici

1. Federico Francioni, Giommaria Angioy nella storia del suo tempo, Editore Della Torre, Cagliari 1985

2. Lorenzo e Vittoria Del Piano, Giovanni Maria Angioy e il periodo rivoluzionario 1793-1812,Edizioni C. R, Quartu, 2000

3. Natale Sanna op. cit.

4. Lorenzo e Vittoria Del Piano op. cit.

5. II testo integrale in francese del memoriale angioiano, con il titolo Mémoire sur la Sardaigne, si trova in La Sardegna di Carlo Felice e il problema della terra, a cura di C. Sole, Cagliari, 1967, sp. pp. 181-182Di esso aveva già fornito un sunto J. F. Mimaut,Histoire de Sardaigne ou la Sardaigne ancienne et moderne considérée dans ses loìs, sa topographìe, ses productìons et sa moeurs, t. II, Paris, 1825, pp. 248-253. Tradotto in italiano si può leggere in A. Boi, Giommaria Angioy alla luce di nuovi documenti,Sassari, 1925 (v. sp. p. 80).

6. Antonello Mattone, Le radici dell’autonomia. Civiltà locale ed istituzioni giuridiche dal Medioevo allo Statuto speciale, in La Sardegna cit., 2, pp. 19-20; vedi, anche La Sardegna di Carlo Felice cit., pp. 194-196C. Ghisalberti, Le costituzioni «giacobine» 1796-1799, Milano, 1973.

SA SCOMUNIGA DE PREDI ANTIOGU: di Autore sconosciuto *

 

Università della terza Età di Quartu sesta Lezione 25-11-2015
Scheda di Francesco Casula
Il capolavoro, anonimo, della poesia comico-satirica sarda dell’800
Sa Scomuniga de predi Antiogu in 678 versi, alcuni dei quali particolarmente icastici e fulminanti, rappresenta senza ombra di dubbio il capolavoro della poesia comica e satirica in sardo-campidanese dell’800 e – forse – non solo. E rimane comunque una delle opere migliori prodotte in lingua sarda.
Mai pubblicata a stampa dal suo autore che rimane sconosciuto, la più antica edizione che si conosce è del 1879 con il titolo Famosissima maledizioni de s’arrettori de Masuddas, a dimostrazione che era molto conosciuta e dunque doveva essere già abbastanza antica.
Antonello Satta, il grande studioso de Sa scomuniga, colloca la data di composizione intorno al 1850: nel clima delle polemiche e delle scomuniche che precedono e seguono l’abolizione, per legge, delle decime il 15 aprile 1851 da parte di Vittorio Emanuele II.
Celebrata da Antonio Gramsci che le riconosce un umorismo fresco e paesano e in una Lettera alla madre le chiede di mandargliene una copia; studiata da Max Leopold Wagner, che la considera «un monumento psicologico» e «dalla vis comica irresistibile», anche se, –a mio parere sbagliando – non le riconosce il minimo valore letterario.
L’autore, che è un eccezionale conoscitore della cultura popolare, di ciò che vive e che si muove nelle sue viscere e nel suo sottosuolo, non è un poeta estemporaneo che si affida alla imitazione della poesia colta. È un intellettuale raffinato che riesce a portare la poesia popolare e satirica nell’ambito della dignità artistica, in genere non amplissimo in Sardegna, anche perché la nostra intellighenzia locale, salvo rare eccezioni, è solita affidarsi alle suggestioni –quando non alle rimasticature– delle culture egemoni ed esterne: arcadiche o romantiche o neorealiste o noir, poco importa. Culture che sono assolutamente divergenti o comunque lontane, –almeno per come vengono assimilate ed espresse– dalla identità dei sardi.

Presentazione del testo
Predi Antiogu, emblema non soltanto del clero –e dunque di una classe di potere– ma anche dei poveri di villaggio, fatti tutti uguali dalla miseria, è costretto, se vuole sopravvivere, a entrare e inserirsi anche lui nella economia locale, e si fa allevatore di pecore e di capre. Ma anche lui è costretto a “pagare” una decima, pesante ed esosa: subisce, infatti, il furto del suo bestiame. Così s’arrettori de Masuddas porta sul pulpito la sua dolorosa esperienza privata, l’aver subito in «d’una notti de scuriu», [«in una notte oscura»], il furto. In tal modo, i «malignosus e discannotus», [«maligni e ingrati»], nei paesi come Masullas hanno voluto degumai po finzas a is sacerdotus, [«far fuori persino i sacerdoti»].
Antonello Satta colloca la composizione in quel genere letterario specificamente sardo che chiama «poesia agreste», che riconduce nel cuore stesso di un modo di pensare la propria esistenza che è tipica della civiltà di villaggio della Sardegna dell’Ottocento.
Ma ecco i versi del testo:

[…]
Custu sreba’1 po is mascus
It’ap’a2 nai immoi
a is eguas colludas?
Minci e chi si a’ parau!
Gei nd’eis cundiu sa’ idda3
cun centu milla maneras
de lussuria e disonestadi!

Tengu finzas bregungia
de ddu nai me in s’Artari:
sindi andais a Casteddu
it’an ca feis me innì?
Nan c’andais a srebì:
unu tiau! A bagassai!
E finzas po tres arriabis
osi feis iscrapuddai
de pustis chi su sodrau
su nennori cavalleri
os’ant appiccigau
su mabi4 furisteri.
E immoi a intru ’e5 ’idda6
ita manera è custa
ita tiau de farringiu
totu su logu è pringiu
e accanta de iscioppai.
Candu mai custu s’è biu:
is bagadias angiadas!
Eguas de su dimoniu
anch’è su matrimoniu
E is cartas de isposai ?
Minci e chini s’ad isbiddiau
e pottau a segu’ de carru! […]

Note
1.Nella lingua sarda è molto presente il fenomeno della “metatesi” (dal greco metàthesis che significa trasposizione) presente nella lingua greca, ma anche di altre lingue, persino in italiano per es. areoplano invece di aeroplano. Così possiamo avere srebat o serbat, (serva), perda, preda o pedra (pietra) con la trasposizione del fonema, “r” in questo caso, all’interno della parola. Un fonema che potremmo chiamare “ballerino”: in quanto si sposta..
2. Il segno <‘> indica l’elisione di qualche lettera: in genere della consonante finale (della <t> in sreba’) o della vocale <a> ( in it’) o <u> (in ap’).
3. L’elisione può anche riguardare la consonante iniziale come in ‘idda, (paese) in cui è eliminata la <b>. Il motivo delle elisioni è da ricondurre o a cacofonie (cattivi suoni) o a motivazioni metriche.
4. Mabi (male) tipico della Marmilla, nella maggior parte del Campidanese si usa “mali”.
5. ‘e (di):viene elisa la d iniziale
6. ‘idda: vedi nota n.3

Traduzione
[…]
Questo serva per i maschi
Che dirò adesso
alle cavalle vergini?
Maledetto chi vi ha messe al mondo.
Avete proprio sistemato il paese
in centomila modi
di lussuria e disonestà.
Ho persino vergogna
a dirlo dall’Altare:
ve ne andate a Cagliari
per fare che cosa laggiù?
Dicono che andate a far le serve:
un accidenti! A puttaneggiare!
E anche per pochi centesimi
vi mettete a scapocchiare
dopo che il militare
il signore cavaliere
vi hanno contagiato
il male forestiero.
E adesso nel paese
che maniera è questa
che diamine di meretricio,
tutto il posto è pregno
ed è vicino a esplodere.
Quando mai s’è visto questo:
le nubili che hanno figliato!
Cavalle del demonio,
dove sono il matrimonio
e gli atti per sposarsi?
Maledetto chi vi ha tolto il cordone ombelicale
e portato nella parte posteriore del carro! […]

ANALIZZARE
Dentro lo schema del componimento che è semplicissimo (denuncia particolareggiata del furto e anatema) scorre la vita della comunità della Marmilla, una regione storica della Sardegna meridionale, vista nel suo sottosuolo antropologico. Un popolo dedito alle fatiche e alle miserie delle attività contadine diventa «archiladori, chi non lassat cosa in logu, una maniga de ladronis» [«uccello rapace che non lascia niente dove passa, un manipolo di ladri»]. Tutti, infatti, sono «furuncus che i su ’attu, imbidiosus de s’allenu, praizzosus che i su cani» [«ladri come i gatti, invidiosi dei beni altrui, poltroni come i cani»].
Particolarmente duri ed efficaci sono gli improperi contro le donne, cui sono dedicati i versi riportati: esse, per predi Antiogu (prete Antioco), non si limitano a bagassai, (puttaneggiare), soltanto quando vanno a Cagliari, come domestiche: ma si comportano allo stesso modo anche a intro ’e ’idda, (dentro il paese), tanto che «tottu su logu è pringiu e accanta de iscioppai» (tutto il posto è pregno e vicino a esplodere, partorire).
L’autore de Sa scomuniga nei suoi versi rifiuta e sfugge a preziosismi retorici e lessicali come a metafore di riporto o immagini meramente letterarie. La sua lingua scorre fluida e lieve nell’alveo della poesia/creazione comunitaria, senza forzature popolareggianti di matrice colta. La lingua di base è il campidanese dell’area di Mogoro-Masullas in cui si sovrappongono elementi lessicali, fonetici e sintattici appartenenti ad altre aree linguistiche dei campidani. Il metro si avvicina a quello della repentina, una composizione estemporanea e improvvisata, cantata soltanto da pochissimi improvvisatori, il verso è libero.

FLASH DI STORIA-CIVILTA’

-“Sa scomunica de Predi Antiogu”, Gramsci e il folclore.
L’interesse di Gramsci per “Sa scomunica de Predi Antiogu” deriva dalla curiosità di conoscere la cultura popolare oltre che la Lingua sarda. Che il “martire” di Ales concepisce come qualcosa che si “costruisce“ dinamicamente nel tempo, che si confronta e interagisce, entrando nel circuito dell’innovazione linguistica, stabilendo rapporti di interscambio con le altre lingue. Per questo concresce con l’agglutinarsi della vita culturale e sociale. In tal modo la lingua, per Gramsci, non è solo mezzo di comunicazione fra individui, ma è il modo di essere e di vivere di un popolo, il modo in cui tramanda la cultura, la storia, le tradizioni.
Sì, le tradizioni popolari: “le canzoni sarde che cantano per le strade i discendenti di Pirisi Pirione di Bolotana … le gare poetiche… le feste di San Costantino di Sedilo e di San Palmerio … le feste di Sant’Isidoro”. “Sai – scrive in una lettera alla mamma il 3 Ottobre 1927– che queste cose mi hanno sempre interessato molto, perciò scrivimele e non pensare che sono sciocchezze senza cabu nè coa”.
In varie Lettere dal carcere ma anche in altre opere Gramsci ribadirà che il folclore non deve essere concepito come una bizzarria, una stranezza o un elemento pittoresco, ma come una cosa molto seria. Solo così –fra l’altro– l’insegnamento sarà più efficiente e determinerà realmente una nuova cultura nelle grandi masse popolari, facendo sparire il distacco fra la cultura moderna e la cultura popolare o folclore. In altre occasioni sottolinea che folclore, è ciò che è, e “occorrerebbe studiarlo come una concezione del mondo e della vita…riflesso della condizione di vita culturale di un popolo…in contrasto con la società ufficiale“.

-La Chiesa e la Lingua sarda
Dal Basso Medioevo fino ai primi del ‘900 la Chiesa produce molte opere in Lingua sarda e in tutto questo periodo moltissimi preti maneggiano la Lingua sarda meglio dello Spagnolo prima e dell’Italiano poi. Vengono così prodotti Gosos (Inni e laudi), sacre rappresentazioni, sermoni ad uso dei sacerdoti ma soprattutto manuali di catechismo: questa scelta nasce soprattutto dall’esigenza di diffondere il Cristianesimo a livello popolare. Pensiamo a questo proposito a quanto avviene con il dominio piemontese nell’Isola. Nel 1720, quando i Savoia prendono possesso della Sardegna,la situazione linguistica isolana è caratterizzata da un bilinguismo imperfetto: la lingua ufficiale -della cultura, del Governo,dell’insegnamento nella scuola religiosa riservata ai ceti privilegiati – è il Castigliano,; la lingua del popolo in comunicazione subalterna con quella ufficiale è il Sardo.
Ai Piemontesi questa situazione appare inaccettabile e da modificare quanto prima, nonostante il Patto di cessione dell’Isola del 1718 imponga il rispetto delle leggi e delle consuetudini del vecchio Regnum Sardiniae. Per i Piemontesi occorre rendere ufficiale la Lingua italiana. Come prima cosa pensano alla Scuola per poi passare agli Atti pubblici. Ma evidentemente le loro preoccupazioni non sono di tipo glottologico. Attraverso l’imposizione della Lingua italiana vogliono sradicare la Spagna dall’Isola, rafforzare il proprio dominio, combattere il “Partito spagnolo”, sempre forte nell’aristocrazia ma non solo. Pensano allora di elaborare “Il progetto di introdurre la Lingua italiana nella scuola“ affidandone lo studio e la gestione ai Gesuiti. Nella prima fase il progetto coinvolgerà comunque pochi giovani: appartenenti ai ceti privilegiati. Il problema diventa molto più ampio ai primi dell’Ottocento, quando il Governo inizia a interessarsi dell’Istruzione del popolo. I bambini “poverelli” ricevono, gratuitamente, due libri in lingua italiana: Il Catechismo del Cardinal Roberto Bellarmino e il Catechismo agrario, “giacchè l’agricoltura è precipuo sostegno di ogni stato e in particolare della Sardegna”. Ma evidentemente l’operazione culturale non dà buoni frutti se non solo all’inizio dell’800 ma anche all’inizio del ‘900 la Chiesa sente il dovere di scrivere i Catechismi in Lingua sarda: ne ricordo in particolare due: uno del 1820 (de su obispu Giuanni Nepomuceno de Iglesias) e un altro (Catechismu Maggiori) del 1910, ambedue scritti in sardo-campidanese.

*Questi testi sono tratti dalla mia Letteratura e civiltà della Sardegna volume 1, Edizioni Grafica del Parteolla, 2011.

SIGISMONDO ARQUER

Università della Terza Età di Quartu 5° Lezione di Francesco Casula

 SIGISMONDO ARQUER

Lo scrittore vittima dell’Inquisizione  e condannato al rogo in Spagna (1530-1571)

Sigismondo Arquer nasce a Cagliari nel 1530, studia teologia e legge nell’università di Pisa dove nel maggio del 1547 consegue la laurea in Diritto civile e canonico, mentre nell’università di Siena si laurea in Teologia. Tornato in Sardegna diviene avvocato del fisco a Cagliari. Nel settembre del 1548 lascia di nuovo l’Isola per recarsi presso il re Carlo I (Carlo V imperatore) a Bruxelles, a perorare la causa della sua famiglia alla quale erano stati posti sotto sequestro i beni.

   Durante un breve soggiorno a Basilea, su invito di Sebastian Münster, geografo, cartografo e di fede luterana presso il quale era ospite, scrive una monografia sulla Sardegna Sardiniae brevis historia et descriptio, cui era allegata una carta dell’isola e una veduta di Cagliari (Tabula corographica insulae ac metropolis illustrata), che viene inserita nella Cosmografia scritta dallo stesso Münster. La parte composta dall’Arquer  fu pubblicata nell’edizione del 1550, ma la stesura più nota in Italia è quella del 1558, riportata nelle Antiquitates Italicae Medii Evi di Ludovico Muratori. Il libro dell’Arquer sulla Sardegna fu inserito anche da Domenico Simon, insigne giurista e letterato algherese del secolo XVIII, nel suo Rerum Sardoarum Scxiptores, stampato a Torino nel 1778.

  Sulla figura dell’Arquer scrissero, tra gli altri, anche gli storici sardi Pasquale Tola, Pietro Martini e Giuseppe Manno. La Breve storia della Sardegna, rappresenta  la più antica descrizione dello stato e dei problemi dell’Isola in cui l’Arquer traccia anche un ritratto censorio del corrotto clero del tempo. La descrizione che egli presenta della condizione dei religiosi cagliaritani dell’epoca non è diversa da quella che espose nel 1562 l’Arci­vescovo Antonio Parragues de Castillejo, ma per tale censura l’Arquer incorse nelle ire dell’Inquisizione spagnola, è accusato di luteranesimo e incarcerato a Toledo nello stesso anno 1562. Riesce ad evadere, ma non può uscire dalla Spagna perché vengono inviate a tutte le frontiere le indicazioni sulla sua persona, per cui è imprigionato una seconda vol­ta.

L’Arquer sostiene appassionatamente la sua innocenza ed in carcere scrive un’autodifesa  in  lingua castigliana, la Passione. Il poema –che segna l’inizio della drammaturgia religiosa in Sardegna- si compone di 45 strofe, ognuna delle quali comprende dieci versi ottosillabi con rima assonante mista, ossia baciata e alternata. Il manoscritto del poema sulla Passione fu rinvenuto nel 1953 fra le carte del processo a carico di Arquer presso “l’Archvio Historico Nacional” di Madrid da Francesco Loddo e Alberto Boscolo, studiosi di storia sarda, durante un loro viaggio nella capitale spagnola, che lo pubblicarono nel volume XXIV dell’Archivio storico sardo. Nel poema l’Arquer esalta la passione di Gesù Cristo così simile alla sua, ma i suoi nemici cagliaritani, tra i quali vi erano gli Aymerich e gli Zapata, intrigheranno contro di lui raccogliendo prove tali da accelerarne la fine. Egli sosterrà sempre la propria innocenza ed anzi si dichiarerà martire della vera fede, schernendo quegli stessi ministri del culto che lo esortavano al pentimento. Per questo, durante il terribile “auto da fé” (l’espressione deriva dal portoghese e significa atto della fede), ossia la proclamazione pubblica della sentenza, lo si metterà alla sbarra prima che venisse addossato al palo, ed i carnefici vedendo che non solo non si pentiva ma che anzi esaltava il suo martirio, lo trafiggeranno con le lance e lo getteranno poi nel rogo degli eretici. Così morirà nel il 4 Giugno del 1571 a Toledo, dopo sette anni e otto mesi di detenzione. La sua figura “assai complessa e conflittiva e di dimensione europea” –la definisce Marcello Maria Cocco, studioso dell’Arquer- e la sua opera, ignorata dagli scrittori sardi contemporanei e pressoché sconosciuta fino alla metà del ‘700, quando ne parlerà Ludovico Muratori-  verrà riscoperta e riproposta nell’800 con un triplice atteggiamento nei suoi confronti: di compassione per la sua tragica fine; di indispettita disapprovazione per le sue critiche impietose formulate nella Sardiniae brevis istoria; di ammirazione per la incisività e la concisione della sua prosa ma soprattutto per il sacrificio della sua vita che segna il trionfo della libertà di coscienza.

Lo storico Dionigi Scano, autore dello studio più ampio sull’Arquer, sostiene che il luteranesimo non fu che un pretesto di cui si servì la classe nobiliare cagliaritana per disfarsi di un terribile avversario. E sarebbe dunque la Cagliari della prima metà del ‘500, con i suoi odi e le lotte intestine a segnare la fine drammatica di Sigismondo Arquer.

 

Presentazione del testo [tratto dal cap. VII dell’opera  Sardiniae brevis historia et descriptio, testi, traduzione e note a cura di Cenza Thermes, Ed. Gianni Trois, Cagliari 1987, pag.30].

L’opera scritta da Sigismondo durante il soggiorno basileense dal 21 Aprile al 5 Giugno del 1549, è un brevissimo saggio di 12 pagine articolato in sette paragrafi, redatto in un latino di rara  raffinatezza, chiaro, semplice ed elegante. Si tratta di un’opera informativa più che storica da cui emerge un agile ritratto della Sardegna del tempo, corredato da buone illustrazioni quali la carta dell’Isola, la riproduzione del muflone e la pianta schematica di Cagliari.

Poche pagine ma fitte di notizie, spesso di prima mano, di giudizi critici su alcune credenze superstiziose, di indagini sui problemi della lingua dei sardi, che confronta con il catalano e il latino, portando ad esempio una trascrizione del Pater Noster in queste tre lingue.

Particolarmente interessanti il quadro che offre della fauna della Sardegna, le informazioni sulle terme, sulle miniere, sulle saline. Più discutibili invece le brevi note sulle antiche vicende storiche che si rifanno alle fonti classiche, che affondano abbondantemente le loro radici nelle leggende e nei miti. Non manca un accenno alla validità e bontà della Carta de Logu di Eleonora d’Arborea, la Costituzione della Sardegna in vigore dal 1392 e nel capitolo VII, un quadro, riportato nel testo, che riguarda le magistrature, le condizioni della religione, della cultura, della morale in genere nonché delle condizioni economiche che si riflettono nell’uso del vestiario più o meno di lusso.

Il “librillo” –così lo chiama l’autore- è privo di organicità e anche piuttosto frammentario tanto che l’Arquer, conscio dell’incompletezza, ci fa sapere che nutre il proposito di scrivere una più completa storia dei Sardi, “Si dominus requiem e ocium dederit” (Se il Signore ci darà pace e tempo libero). Pace e tempo libero che purtroppo gli mancarono. In ogni caso La qualità intrinseca dell’opera, unita al prestigio della collocazione nella quale apparve, fanno della Sardiniae brevis historia et descriptio una pietra miliare nel panorama delle lettere isolane, anche perché si tratta dell’archetipo di una serie di scritti del genere letterario storico-descrittivo, destinato ad affermarsi con i secoli nella cultura isolana.

 

DE MAGISTRATIBUS, INCOLARUM NATURA, MORIBUS, LEGIBUS ET RELIGIONE

 “[…] Ecclesiastici magistratus in Sardinia sunt constituti iuxta papae decreta. Nam sunt in ea tres archiepiscopi, nempe Calaritanus, Arborensis et Turritanensis seu Sassarensis, qui et nonnullos sub se habent episcopos. Est quoque ibi inquisitor generalis contra haereticos, apostatas et maleficos, secundum Hispaniae mores et constitutiones, ultra ea quae iure communi Imperato­rum et pontificum inquisitoribus sunt concessa. Habet iste immensa privilegia, nec quenquam praeter Hispa­niae supremum inquisitorem, cuius est delegatus, agno­scit superiorem in Sardinia. Constituit ipse quoque sub se alios inquisitores et ministros, quorum omnium iudex ipse est, qui tanta severitate contra suspectos procedunt, ut paucis verbis exprimi nequeat. Nam miseros homines multis annis in carcere detinent, examinant et torquent priusquam eos vel damnent vel absolvant. Habent autem de his rebus libros impressos, ut Malleum malefica­rum, Directorium inquisitorum et nonnullos alios, item instructiones secretas et multa alia quae ex ipsorum pendent arbitrio. Habent praeterea Sardi et Cruciatae commissarium, qui nullum praeter Romanum pontificem agnoscit superio­rem, etc.

Caeterum quantum attinet ad mores et naturam Sardo­rum, noveris eos esse corpore robustos, agrestes et laboribus assuetos, praeter paucos luxui deditos: literarum studio parum sunt intenti, venationi autem deditissimi sunt. Multi pecuariam faciunt rem, agresti cibo et .aqua contenti. Qui in oppidi et villis habitant, pacifice inter se

vivunt, advenas amant, et humaniter tractant. Vivunt in diem, vilissimoque vestiuntur panno. Bella nulla ha­bent, neque multa arma. Et quod mirandum est, nullum habent artificem in tam ampia insula, qui enses, pugio­nes et alia fabricet arma, sed haec petunt ex Hispania et Italia. Utuntur plerunque balistis, maxime in vena­tionibus. Et si quando piratae, Turcae aut Afri illuc veniunt praedam abacturi, facile a Sardis in fugam vertuntur aut captivi detinentur. Sunt Sardi optimi equites, sunt ob solis ardorem subfusci coloris, vivunt bene secundum legem naturae, optime victuri, si sin­ceros haberent verbi Dei praecones.

Cum rustici diem fe­stum alicuius sancti celebrant, audita missa in ipsius sancti templo, tota reliqua die et nocte saltant in templo, prophana cantant, choreas viri cum foeminis ducunt, porcos, arietes et armenta mactant, magnaque laetitia in honorem sancti vescuntur carnibus illis. Sunt etiam multi qui pecus aliquod saginant in hono­rem certi alicuius sancti, ut illud in fano eius potissimum in sylvis extructo, et festa die devorent. Et si familia minor fuerit ad esum pecoris, convocant et alios ad con­vivium illud quod in fano celebrant, ne quid residui maneat. Foeminae rusticorum valde honestae sunt in vestitu, omnem escludentes pompam at urbanae di­vitiis abundantes, abutuntur illis in magnam super­biam.

Sacerdotes indoctissimi sunt, ut raros inter eos, sicut et apud monachos, inveniatur, qui latinam intelligat linguam. Habent suas concubinas, maioremque dant operam procreandis filiis quam legendis libris”.

 

MAGISTRATURE, NATURA DEGLI ABITANTI, LORO COSTUME, LEGGI E RELIGION

 […] Le cariche ecclesiastiche in Sardegna sono regolate secondo i decreti del Papa. Infatti vi si trovano tre arci­vescovi, a Cagliari, Arborea e Torres o Sassari, i quali hanno sotto di sé alcuni vescovi. Vi è pure un inqui­sitore generale contro gli eretici, gli apostati e gli stregoni, come av­viene in Spagna, al quale sono con­cessi altri diritti, oltre quelli che, per norma generale voluta dai re e dai papi, sono concessi agli altri inqui­sitori. Gode di grandissimi privilegi e non ha sopra di sé nessuno all’in­fuori del supremo inquisitore di Spa­gna, del quale è delegato. Nessuno in Sardegna può contare più di lui. Egli, per suo conto, nomina, come suoi dipendenti, altri inquisitori e funzionari, dei quali è giudice; co­storo agiscono contro chi è sospet­tato, con tanta durezza che non è possibile accennarne solo con poche parole. Infatti, tengono in carcere per molti anni dei poveri infelici, e li interrogano e li sottopongono a torture prima di decidere se devono condannarli o assolverli. Hanno an­che, per esercitare le loro funzioni, dei libri, come il Malleum malefica­rum, il Directorium inquisitorum e alcuni altri volumi. Inoltre hanno del­le istruzioni segrete e molte altre disposizioni che interpretano secondo il loro personale giudizio. I Sardi hanno anche un Commissarium Crociatae, che non ha alcun superiore, oltre il pontefice, ecc. Infine, per quanto riguarda i costumi e la natura dei Sardi, dirò che essi son robusti, per lo più rudi e avvez­zi alla fatica, all’infuori di pochi che si abbandonano al lusso; son poco dediti allo studio delle lettere, men­tre amano moltissimo la caccia. Mol­ti sono pastori e a loro bastano cibo agreste e acqua. Quelli che abitano nei borghi e nei villaggi, vivono tran­quilli e sono ospitali e gentili; vivo­no alla giornata e vanno vestiti di poverissimo panno; non conoscono guerra ed hanno anche poche armi; ciò che è ancora più straordinario è il fatto che, in un’isola così vasta, non vi è chi fabbrichi spade, pugnali e altre armi; ma queste vengono dalla Spagna e dall’Italia. I Sardi si servono invece di frecce, soprattutto quando vanno a caccia. Ma se tal­volta sbarcano nell’isola, per far pre­da, pirati turchi o africani, vengono subito volti in fuga dai Sardi o son fatti prigionieri. Gli isolani son ottimi cavalieri e di colorito bruno a causa del sole ar­dente; vivono onestamente, secondo le leggi di natura, e meglio vivreb­bero se avessero degli onesti pre­dicatori della parola di Dio.

Quando i contadini celebrano qual­che festa, dopo la Messa, per tutto il resto della giornata e della notte ballano -uomini e donne- dentro la chiesa del Santo, cantando canzoni profane; inoltre uccidono maiali, montoni e buoi e mangiano allegra­mente di queste carni in onore del Santo. Vi sono anche di quelli che ingrassano qualche maiale in onore di un santo, per poterlo poi mangiare durante la festa, spesso in una chie­sina costruita fra i boschi. E se la famiglia non è tanto numerosa da poter consumare tutta quella carne, perché non ne avanzi, invitano altre persone al banchetto che si fa den­tro la chiesa stessa. Le donne cam­pagnole sono modestissime nel ve­stire che non ostenta lussi; ma le signore delle città, che son ricchis­sime, abusano del fasto e del lusso, ostentandoli superbamente. I sacer­doti sono ignorantissimi al punto che è raro trovarne tra essi, come tra i monaci, uno che conosca il latino. Vivono con le loro concubine e si danno con più impegno a mettere al mondo figli che a dedicarsi alla lettura.

 –De Sardorum lingua [testo tratto da Sardiniae brevis istoria et descriptio di Sigsmondo Arquer a cura di Cenza Thermes, Gianni Trois editore, Cagliari 1987, pag. 29]

“Habuerunt quidem Sardi olim linguam propriam; sed quum diversi populi immigraverint in Insulam atque ab exteris principibus eius imperium usurpatum fuerit, nempe Latinis, Pisanis, Genuensibus, Hispanis et Afris, corrupta fuit multum lingua eorum, relictis, tamen plurimis vocabulis; quae in nullo inveniuntur idiomate. Latini sermonis aduc multa tenet vocabula, praesertim in Barbariae montibus, ubi Romani Imperatores militum habebant praesidia, ut L.ij.C. de officio praefecti prae. Afric.

 Hinc est quod Sardi in diversis locis tam diverse loquuntur,  iuxta quod tam varium

habuerunt imperium; etiamsi ipsi mutuo sese recte intelligant. Sunt autem duae praecipuae in ea Insula linguae, una. qua utuntur in civitatibus, et altera qua extra civitates.

Oppidani loquuntur fere lingua Hispanica, Tarraconensi seu Catalana, quam. didicerunt ab Hispanis, qui plerumque magistratum in eisdem gerunt civitatibus: alii vero genuinam retinent Sardorum linguam,

 

La lingua dei Sardi

Un tempo i Sardi ebbero una lingua propria, ma poiché nell’isola soprag­giunsero diversi popoli e la terra sarda fu dominio di signorie stra­niere, come quelle dei Latini, dei Pisani, dei Genovesi, degli Ispanici e degli Africani, la lingua ne rimase corrotta, sebbene tuttora vi si tro­vino moltissimi vocaboli che non e­sistono in nessun’altra lingua. Ci re­stano molte parole latine, soprattut­to nei monti della Barbagia, dove gli imperatori romani stanziarono i loro presidi, come è detto nel libro II C. De officio prae. Afric.

Da quanto ho detto precedentemen­te, ne è derivato il fatto che i Sardi, nei diversi luoghi, parlano lingue tan­to diverse, a seconda dei dominato­ri; ma fra di loro si intendono bene.

Nell’isola, due sono le lingue prin­cipali: una è quella usata nelle cit­tà, l’altra è quella usata fuori di esse. Infatti, nelle città si parla quasi do­vunque la lingua spagnola, tarrago­nense o catalana, che gli abitanti hanno appreso dagli Spagnoli, che quasi sempre vi tengono i posti di comando; gli altri mantengono intatta la lingua sarda. 

SCHEDA per la 3° Lezione del 4-11-2015

Università della Terza Età di Quartu
SCHEDA per la 3° Lezione del 4-11-2015
di Francesco Casula

1. LA NASCITA DELLA LINGUA SARDA E I PRIMI DOCUMENTI.

1.La Carta del giudice Torchitorio (1070-1080) che contiene un’ampia donazione che fa all’arcivescovo di Cagliari (ville e soprattutto i diritti su “totus sus liberus de paniliu cantu sunt per totu Caralis).

2. Privilegio logudorese ((1080-85) che contiene una donazione del giudice Mariano di Lacon

3. Libellus Judicum turritanorum (Libro dei Giudici turritani) ma siamo già nel 1255-1287, opera di carattere cronachistico, con una certa capacità di elaborazione narrativa.

4. I Condaghi (XI e XIII secolo)

I Condaghi (Condaghes o Condakes) derivano il loro nome dal greco-bizantino Kontakion: a sua volta da Kontos con la quale si indicava il bastoncino a cui si arrotolava la pergamena. Successivamente il termine, per traslato, andò a indicare il contenuto di un atto giuridico o l’atto medesimo e dunque registro o codice in cui diversi atti venivano trascritti e raccolti dai monaci di diversi monasteri e abbazie della Sardegna. In questi registri patrimoniali venivano ordinatamente annotati dagli abati o priori, inventari, donazioni, contratti di acquisto (comporus) e vendita, permute (tramutus), smerci, cessioni di terre e di servi, definizioni di confine (postura de tremens), transazioni (campanias), sentenze giudiziarie relative alla proprietà ecc. ecc.
Dei quattro Condaghi più importanti, che ci sono pervenuti integralmente, due risalenti ai secoli XI-XII (Condaghe di San Nicola di Trullas e di San Pietro di Silki) sono scrittti in sardo-logudorese e uno (Condaghe di Santa Maria di Bonarcado), che contiene documenti compilati in tempi diversi tra i primi decenni del secolo XII e la metà del secolo XIII, è scritto in sardo-arborense. Mentre il quarto, il Condaghe di San Michele di Salvennor, originariamente scritto in Sardo, è andato perduto, e di esso possediamo solo una copia tradotta in lingua castigliana mista a sardo, nel secolo XVI.
Condaghe di Santa Maria di Bonarcado
Barusone iudex
IN NOMINE DOMINI NOSTRI IHESU CHRISTI,Amen.
EGO IUDICE Barusone de Serra potestando locu de Arborea fado custa carta pro saltu qui do a sancta Maria de Bonarcatu in sa sacratione dessa clesia nova, pro anima mea et de parentes meos daunde lo cognosco su regnu de Arbore; et pro dedimi Deus et sancta Maria vita et sanitate et filios bonos, ki potestent su regnum post varicatione mea.

2.LA CARTA DE LOGU (1392)

La Carta de Logu, promulgata da Eleonora nel 1392 raccoglie leggi consuetudinarie di diritto civile, penale e rurale. Contiene un proemio e 198 capitoli: i primi 132 formano il Codice civile e penale gli altri 66 il Codice rurale, emanato dal padre Mariano IV, il padre di Eleonora..
In seguito alla sua promulgazione si inizia a chiamare la Sardegna «nacion sardesca» e la Carta «de sa republica sardisca» a significare che era espressione dell’intera Sardegna ma soprattutto che era una vera e propria Carta costituzionale nazionale.
La Carta di Mariano IV da sedici anni non era stata rivista e poiché non rispondeva più ai bisogni delle nuove condizioni sociali, occorreva rivederla e aggiornarla per preservare la giustizia e in buono tranquillo e pacifico stato del popolo del suddetto nostro regno e delle chiese e dei diritti ecclesiastici e dei liberi e dei probiuomini e di tutta la gente della suddetta nostra terra e del regno di Arborea. Queste le finalità della Carta annunciate nel Proemio.
Scritta in sardo-arborense è sicuramente il Codice legislativo più importante di tutto il medioevo sardo e non solo. Il re spagnolo Alfonso il Magnanimo –che ormai domina sulla Sardegna- l’apprezza a tal punto da estenderla nel 1421 a tutta l’Isola, in cui rimarrà in vigore per ben 400 anni, fino al 1827 quando sarà sostituita dal Codice Feliciano.
XXI CAPIDULU
De chi levarit per forza mygeri coyada.

Volemus ed ordinamus chi si alcun homini levarit per forza mugeri coyada, over alcun’attera femina, chi esserit jurada, o isponxellarit alcuna virgini per forza, e dessas dittas causas esserit legittimamenti binchidu, siat iuygadu chi paghit pro sa coyada liras chimbicentas; e si non pagat infra dies bindighi, de chi hat a esser juygadu, siat illi segad’uno pee pro moda ch’illu perdat. E pro sa bagadìa siat juygadu chi paghit liras ducentas, e siat ancu tenudu pro leva­rilla pro mugeri, si est senza maridu, e placchiat assa femina; e si nolla levat pro mugeri, siat ancu tentu pro coyarilla secundu sa condicioni dessa femina, ed issa qualidadi dess’homini. E si cussas caussas issu non podit fagheri a dies bindighi de chi hat a esser juygadu, seghintilli unu pee per modu ch’illu perdat. E pro sa virgini paghit sa simili pena; e si non hadi dae hui pagari, seghintilli unu pee, ut supra.

Traduzione
XXI
CAPITOLO VENTUNESIMO
Di chi violentasse una donna sposata.

Vogliamo ed ordiniamo che se un uomo violenta una donna maritata, o una qualsiasi sposa promessa, o una vergine, ed è dichiarato legittimamen­te colpevole, sia condannato a pagare per la donna sposata lire cinquecen­to; e se non paga entro quindici giorni dal giudizio gli sia amputato un piede. Per la nubile, sia condannato a pagare duecento lire e sia tenuto a sposarla, se è senza marito (=promesso sposo) e se piace alla donna. Se non la sposa (perché lei non è consenziente), sia tenuto a farla accasare (munendola di dote) secondo la condizione (sociale) della donna e la qua­lità (= il rango) dell’uomo. E se non è in grado di assolvere ai suddetti òneri entro quindici giorni dal giudizio, gli sia amputato un piede. Per la vergine, sia condannato a pagare la stessa cifra sennò gli sia amputato un piede come detto sopra.

3. ANTONIO CANO
Il primo scrittore di un poema in lingua sarda(1400-1476/78)
Il poemetto, di argomento agiografico, è considerato la più antica opera letteraria in lingua sarda fino ad oggi conosciuta.
Protasi
O Deu eternu, sempre omnipotente,
In s’aiudu meu ti piachat attender
Et dami gratia de poder acabare
Su sanctu martiriu in rima vulgare
De sos sanctos martires tantu gloriosos
Et cavaleris de Cristus victoriosos
Sanctu Gavinu Prothu e Januariu
Contra su demoniu nostru adversariu
Fortes defensores et bonos advocaos,
Qui in su paradisu sunt glorif icados
De sa corona de sanctu martiriu,
Cussos sempre siant in nostru adiutoriu.
Amen

Traduzione
(O Dio eterno, sempre onnipotente, ti piaccia intervenire in mio aiuto e donarmi la grazia per poter finire in rima volgare, il santo martirio dei santi Martiri tanto gloriosi e cavalieri di Cristo vittoriosi, San Gavino, Proto e Gianuario.Contro il demonio nostro nemico, forti difensori e buoni avvocati, che sono glorificati in paradiso con la corona del santo martirio, intervengano sempre in nostro aiuto. Così sia)

4. GIROLAMO ARAOLLA
Il poeta sardo trilingue che vuole “ripulire” la lingua sarda (1510 circa-fine secolo XVI)
Nel 1582 pubblicò il suo poema Sa vida, su martiriu, et morte dessos gloriosos Martires Gavinu, Brothu et Gianuari, opera che si riallaccia a quella quattrocentesca di Antonio Cano, riadattando il vasto materiale della leggenda popolare sulla vita dei martiri turritani ad una costruzione narrativa più articolata. La sua morte viene collocata tra il 1595 e il 1615.
Oltre a questo poema scrisse Rimas diversas spirituales (Rime varie spirituali), in diversi metri, composte da canzoni, capitoli, epistole e sonetti, alcune scritte in lingua italiana e castigliana ma la maggior parte in lingua sarda.
SA FIDE DE GIANUARI

1. Los agatant in logu in hue1 soliant
Viver, sempre in abstrattu contemplende
Sa ineffabile altesa, in hue sentiant
Immensa gloria cun Deus conversende:
Sa pena, su martiriu si queriant
Fuer, los potint mas issos bramende
Stant su puntu, s’hora, et sa giornada
Qui l’esseret per Christu morte dada.

2. Los imbarcant cun furia, et cuddos Santos,
Quale angione portadu a sacrificiu,
Cantende istant sos versos et sos cantos
Dessu2 devotu Re divinu officiu;
Non timent pena, morte, non ispantos,
Aspirende a’ cuddu altu benefficiu,
In hue pr’unu mortale suffrimentu
Eterna gloria, eternu est su contentu.

 

 

Traduzione:
LA FEDE DI GIANUARIO
1.Li trovano nel luogo dove erano soliti vivere, sempre a contemplare in estasi l’ineffabile altitudine dove, conversando con Dio, sentivano l’immensa gloria: se avessero voluto sfuggire alla pena, al martirio, avrebbero potuto ma bramandolo sanno il punto, l’ora e la giornata in cui, per Cristo, sarebbe loro data la morte.
2. Li imbarcano con furia e quei santi, come agnelli portati al sacrificio, cantano i versi e i canti, divino ufficio del devoto Re. Non temono né pene né morte, né paure ma aspirano a quell’alto beneficio dove in cambio della mortale sofferenza c’è l’eterna gloria e l’eterna felicità.

5. GIOVANNI MATTEO GARIPA
Il più grande scrittore in lingua sarda del secolo XVII (1575/1585-1640)
Giovanni Matteo Garipa nasce a Orgosolo (Nu) forse tra il 1575 e il 1585. Nel 1627 pubblica a Roma su Legendariu de Santas Virgines et Martires de Jesu Cristu (Il Leggendario delle Sante Vergini e Martiri di Gesù Cristo). Nella traduzione il Garipa utilizza la Lingua sarda nella variante logudorese, ma non quello settentrionale, come aveva fatto Girolamo Araolla, ma un logudorese di tipo centrale.
PROLOGV
ASSU DEUOTU LETORE.
“Sendemi vennidu à manos in custa Corte Romana vnu Libru in limba Italiana, nouamente istampadu, sibenes segundu naran est meda antigu; hue si contenen sas Vidas de algunas Santas Virgines, martires,& penitentes; & acatandelu cun sa letura, qui fuit piu, deuotu; & deletosu, pensesi tenner pro bene impleadu, & honestu su traballu, qui dia leare si lu voltao in limba Sarda… Las apo voltadas in Sardu menjus, qui non in atera limba pro amore dessu vulgu (corrente apo naradu supra) qui non tenjan bisonju de interprete pro bilas declarare, & tambene pro esser sa limba Sarda tantu bona, quantu participat dessa Latina, qui nexuna de quantas limbas si platican est tantu parente assa Latina formale quantu sa Sarda”
Traduzione
PROLOGO. AL DEVOTO LETTORE
Essendomi capitato fra le mani in questa Corte Romana un libro scritto in lingua italiana, ristampato, che si dice, sia molto antico e contiene le Vite di alcune Sante Vergini, martiri e penitenti; e avendolo trovato, nella lettura, pio, devoto e piacevole, penso di spendere bene il mio tempo dedicandomi a questo onesto lavoro di tradurlo in lingua Sarda…
Le ho tradotte in Sardo, piuttosto che non in un’altra lingua per amore del popolo (come ho già detto sopra) in modo che non avessero bisogno di un interprete per spiegarle e anche perché la lingua Sarda è degna di un tale uso perché partecipa della lingua Latina, perché nessuna delle lingue che si utilizzano è così vicina alla lingua Latina quanto quella Sarda

Ricordando, a 40 anni dalla sua morte, Salvatore Satta

Ricordando, a 40 anni dalla sua morte, Salvatore Satta

1 novembre 2015

La veranda - Salvatore Satta
Francesco Casula

Ricorre quest’anno il quarantesimo anniversario della morte di Salvatore Satta, accademico, giurista e narratore di vaglia, segnatamente per il suo capolavoro: Il giorno del giudizio. Esso pubblicato postumo, nell’anno stesso della sua morte, nel 1975, susciterà sconcerto e malcontento, soprattutto a Nuoro: in realtà si rivelerà una delle opere di più alto livello letterario che si siano mai state registrate in Sardegna.

In pochi mesi venderà 60.000 copie e conoscerà subito decine di edizioni, sarà tradotto in 19 lingue e gli procurerà una vasta fama. Il romanzo ha finito così per rappresentare un caso letterario, una specie di Gattopardo sardo, come è stato definito, proprio perché maturato accanto e al di fuori delle tendenze narrative correnti. È infatti il prodotto di una scrittura letteraria raffinatissima e di una straordinaria libertà espressiva che traggono origine da una cultura umanistica e filosofica profonda e vastissima, un’opera che rappresenta davvero una grande e drammatica metafora dell’esistenza. Il progetto originario del romanzo prevedeva due parti: la prima in 22 capitoli è stata portata a termine, la seconda invece è rimasta incompiuta, conta appena una pagina.

Nella prima parte ricapitola i termini di una storia individuale e collettiva mentre nell’unica pagina della seconda parte racchiude il breve ma compiuto monologo del narratore che traccia l’inventario dei motivi dai quali è stato spinto a evocare le vite dei personaggi e ripensa a ciò che quell’atto ha prodotto. Una sintesi da giudizio conclusivo, appunto, che coincide col racconto del dramma interiore di chi si è distaccato da un mondo con cui sente il bisogno di fare i conti nel tentativo, vano, di riappropriarsene.

Il romanzo nasce – è lui stesso a scriverlo in alcune lettere – come “storia della famiglia che è la storia di Nuoro e della Sardegna, un’isola di demoniaca tristezza”. Con questo romanzo Satta ha inteso narrare, in voce individuale, l’autobiografia collettiva di Nuoro nel passaggio fatale dall’arcaismo alla modernità. E la famiglia Sanna Carboni, nel passaggio da una generazione all’altra, fa da filo conduttore dell’intero romanzo. Una famiglia che, pur se rustica e a volte indistinguibile da quella dei pastori e dei contadini, costituisce pur sempre una borghesia in ascesa e straniata dalla vera realtà sarda (si pensi al fatto che Satta stesso trascorse quasi tutta la sua vita adulta in Continente).

Ambienti e personaggi sono raffigurati con puntigliosità analitica e ogni asserzione ha il timbro di autenticità dell’esperienza vissuta anche se tutto è reinventato, reinterpretato, trasceso attraverso la memoria: che non è solo una ricostruzione del passato, e tanto meno l’allestimento di un museo di reliquie, ma piuttosto un ponte con il presente e con la propria coscienza del presente. Per prendere coscienza della propria identità è necessario infatti riconoscere il proprio coinvolgimento nel sistema di cui si fa parte.

La morte effimera e insieme eterna: è il tema che attraversa tutto il romanzo ed è presente fin dall’incipit: con due dei suoi icastici, lapidari e fulminanti aforismi, “Nulla è più eterno a Nuoro, nulla più effimero della morte” e “La morte è eterna ed effimera in Sardegna non solo per gli uomini ma anche per le cose” Satta entra subito, per così dire, in medias res. Sono parole che colpiscono per la loro paradossale contraddittorietà, per quei due predicati fortemente antitetici, per gli ossimori che formano.

Il romanzo è pervaso dunque dal senso della caducità che toglie ai personaggi consistenza, vigore, vitalità. Per Sattauomini e cose, eventi e storia sono e devono rimanere effimeri e fuggevoli, transitori, precari e labili. La vita e la morte hanno questa tragica connotazione. C’è di più: il morire di un individuo è inteso non solamente come un distacco dalla sua fisicità, ma anche come una sua cancellazione definitiva dalla memoria dei vivi. La non presenza del defunto comporta e implica, più o meno progressivamente ma inesorabilmente, la sua non ricordanza da parte dei superstiti. E l’autore cita in questo passo, come esempio, la sorte delle sue nonne, quella paterna, di cui soltanto il cognome era rimasto nel timbro notarile di don Sebastiano e quella materna, il cui unico ricordo era un ritratto, scomparso poco dopo la sua morte, ma ormai nessuno sapeva più che fosse esistente.

Nell’aforisma “la morte è eterna ed effimera…” sembra di avvertire qualcosa di cupo e di misterioso, un cupio dissolvi perentorio e oscuro: neanche la morte può avere un significato, o meglio deve deperire nel suo significato. Si delinea così una prospettiva infinita di caducità, in un tragico e chiuso orizzonte, senza speranza: ”Donna Vincenza era una donna senza speranza”.

L’autore impiega il discorso indiretto uniformemente attraverso tutto il romanzo, con l’esclusione di alcune iniezioni autoriflessive su cui in prima persona si sofferma, quasi per rallentare il flusso della narrazione. Il discorso assume allora un andamento divagatorio e digressivo con un ricorso frequente a prolessi e analessi.

Nel Giorno non c’è dunque che la voce del Satta, tutto il resto è silenzio. Silenzio assoluto dei personaggi e quindi assoluta mancanza di uno scambio di voci, di interazione di due espressioni, di sovrapporsi di due stili. L’io narrante volontariamente si sostituisce alle voci degli altri. In questo romanzo infatti l’interlocutore non esiste e di conseguenza non esiste la sua volontà. Allegoricamente, in un’operazione metalinguistica all’interno del testo, troviamo esemplificato quest’atto repressivo come una pratica comune nella vita dei Sanna-Carboni e dei nuoresi, si pensi alla sorte di Donna Vincenza, zittita ripetutamente da Don Sebastiano che fa leva sulla inutilità e ridondanza della voce della moglie.

La caratteristica dominante del suo linguaggio è il nitore e la profondità della parola, l’asciutezza dello stile aforistico, degli enunciati sentenziosi, proferiti con l’assertività di chi ribadisce verità indiscutibili.

Nell’immagine: La veranda – Salvatore Satta

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