SA DIE DE SA SARDIGNA DIMENTICATA di Francesco Casula

SA DIE DE SA SARDIGNA DIMENTICATA di Francesco Casula

A pochi giorni dalla ricorrenza del 28 aprile, in extremis si cerca di “recuperare” Sa Die de sa Sardigna,  prevedendo diverse iniziative nei quattro capoluoghi storici con un nutrito programma di eventi culturali. In realtà Pigliaru e la sua Giunta certificano l’interramento della Giornata del popolo sardo. Non solo e non tanto per l’esiguità dei finanziamenti previsti, o per l’improvvisazione e i ritardi, quanto perché si è smarrito il senso originario e autentico di Sa Die.Istituita dal Consiglio regionale il 14 ottobre 1993, come vera e propria Festa nazionale del popolo sardo, per ricordare la cacciata dei Piemontesi da Cagliari, nei primi anni di vita è stata caratterizzata da centinaia di iniziative, partecipate diffuse e ubiquitarie, in tutta l’Isola. Soprattutto nelle scuole. Con decine e decine di docenti, storici, giornalisti, esperti organizzati nel “Comitato pro sa Die” presieduto dal professor Giovanni Lilliu e nato dall’incontro di numerose Associazioni culturali, con la Fondazione Sardinia in prima fila.

Per anni, questa legione di studiosi è stata impegnata a “visitare” le scuole sarde, di ogni ordine e grado, per parlare e discutere con gli studenti di cultura, storia e lingua sarda: rigorosamente escluse dalla Scuola ufficiale. Probabilmente quest’opera iniziale di studio, ricerca, confronto, sensibilizzazione “ha spaventato soprattutto la politica”, come opportunamente ha scritto Vito Biolchini. Così la “Festa” da occasione di studio e di risveglio identitario si riduce nel tempo a rito formale e liturgia vuota. Con l’Amministrazione Soru viene annacquata e svuotata  dei significati storici e simbolici più “eversivi”. La Giunta di Cappellacci la stravolge del tutto: viene addirittura dedicata alla Brigata Sassari! E oggi Pigliaru, la seppellisce definitivamente, sic et simpliciter.

E’ stato anche sostenuto che l’esaurimento della forza propulsiva di Sa Die sia da ricondurre alla “debolezza” dell’Evento del 28 aprile. Non sono d’accordo. Non si è trattato di “robetta”: magari di una semplice congiura ordita da un manipolo di borghesi giacobini, illuminati e illuministi, per cacciare qualche centinaio di piemontesi: come pure è stato scritto. A questa tesi, del resto ha risposto, con dovizia di dati, documenti e argomentazioni Girolamo Sotgiu. Non sospettabile di simpatie “nazionalitarie” il prestigioso storico sardo, gran conoscitore e studioso della Sardegna sabauda, polemizza garbatamente ma decisamente proprio con l’interpretazione data da storici filo sabaudi, come il Manno o l’Angius al 28 aprile, considerato alla stregua, appunto, di una congiura. “Simile interpretazione offusca – scrive Sotgiu – le componenti politiche e sociali e, bisogna aggiungere senza temere di usare questa parola «nazionali».

“Insistere sulla congiura – cito sempre lo storico sardo – potrebbe alimentare l’opinione sbagliata che l’insurrezione sia stato il risultato di un intrigo ordito da un gruppo di ambiziosi, i quali stimolati dagli errori del governo e dalle sollecitazioni che venivano dalla Francia, cercò di trascinare il popolo su un terreno che non era suo naturale”,

A parere di Sotgiu questo modo di concepire una vicenda complessa e ricca di suggestioni, non consente di cogliere il reale sviluppo dello scontro sociale e politico
né di comprendere la carica rivoluzionaria che animava larghi strati della popolazione
di Cagliari e dell’Isola nel momento in cui insorge contro coloro che avevano dominato da oltre 70 anni. Non fu quindi congiura o improvviso ribellismo: ad annotarlo è anche Tommaso Napoli, padre scolopio, vivace e popolaresco scrittore ma anche attento e attendibile  testimone, che visse quelli avvenimenti in prima persona. Secondo il Napoli “l’avversione della «Nazione Sarda» – la chiama proprio così – contro i Piemontesi, cominciò da più di mezzo secolo, allorché cominciarono a riservare a sé tutti gli impieghi lucrosi, a violare i privilegi antichissimi concessi ai Sardi dai re d’Aragona, a promuovere alle migliori mitre soggetti di loro nazione lasciando ai nazionali solo i vescovadi di Ales, Bosa e Castelsardo, ossia Ampurias. L’arroganza e lo sprezzo – continua – con cui i Piemontesi trattavano i Sardi chiamandoli pezzenti, lordi, vigliacchi e altri simili irritanti epiteti e soprattutto l’usuale intercalare di Sardi molenti, vale a dire asinacci, inaspriva giornalmente gli animi  e a poco a poco li alienava da questa nazione”.

Questo a livello storico: c’è poi il significato simbolico dell’evento: i Sardi dopo secoli di rassegnazione, di abitudine a curvare la schiena, di acquiescenza, di obbedienza, di asservimento e di inerzia, per troppo tempo usi a piegare il capo, subendo ogni genere di soprusi, umiliazioni, sfruttamento e sberleffi, con un moto di orgoglio nazionale e un colpo di reni, di dignità e di fierezza, si ribellano e alzano il capo, raddrizzano la schiena e dicono: basta! In nome dell’autonomia e dunque, per “essi meris in domu nostra”. E cacciano Piemontesi (con Nizzardi e Savoiardi), non per motivi etnici, ma perché rappresentano l’arroganza, la prepotenza e il potere. Sono infatti militari, funzionari, impiegati. Cagliari all’alba dell’800 contava 20.000 abitanti, la burocrazia e il potere piemontese 514 esponenti: più di uno per ogni 40 cagliaritani!

Al di là comunque di tutto questo e dello specifico avvenimento, quello che è importante oggi nella Festa di Sa Die de sa Sardigna è proprio il suo il valore simbolico di autocoscienza storica e di forza unificante. Sia ben chiaro: nessun ripiegamento nostalgico o risentito  verso il passato: ma il passato sepolto, nascosto, rimosso, si tratta prima di tutto di dissotterrarlo e conoscerlo, perché diventi fatto nuovo che interroga l’esperienza del tempo attuale, per affrontare il presente nella sua drammatica attualità, per definire un orizzonte di senso, per situarci e per abitare, aperti al suo respiro il mondo, lottando contro il tempo della dimenticanza; quel mondo grande e terribile di cui parlava Gramsci.

 

La lingua sarda e la lezione gramsciana

 

La lingua sarda e la lezione gramsciana

di Francesco Casula

Antonio Gramsci in una lettera dal carcere alla sorella Teresina, del 26 Marzo del 1927, esprime sul ruolo e l’importanza della lingua materna, una serie di formidabili intuizioni. Che però saranno largamente dimenticate, rimosse e persino combattute da molti suoi “nipotini”: di ieri come di oggi. Così nel 1977 il segretario provinciale nuorese del PCI di allora, invitava, con una circolare spedita a tutte le sezioni, di non aderire, anzi di boicottare la raccolta di firme per la Proposta di legge di iniziativa popolare sul Bilinguismo, elaborata da alcuni intellettuali sardi (Lilliu, Masala, Spiga, Sciola) perché separatista e attentatrice all’Unità della Nazione! E oggi, il Presidente del Consiglio regionale sardo Pigliaru e la sua Giunta (di sinistra) hanno stanziato per la lingua sarda, nel bilancio regionale per il 2015, lo 0,025% ! Meno di quanto la Regione assegni a una sagra paesana sulle lumache o a un campionato di calciobalilla!

Ma ecco la Lettera di Gramsci alla sorella: “[…]Devi scri­vermi a lungo intorno ai tuoi bambini, se hai tempo, o almeno farmi scrivere da Carlo o da Grazietta. Fran­co mi pare molto vispo e intelligente: penso che parli già correttamente. In che lingua parla? Spero che lo lascerete parlare in sardo e non gli darete dei dispia­ceri a questo proposito. È stato un errore, per me, non aver lasciato che Edmea, da bambinetta, parlasse libe­ramente il sardo. Ciò ha nociuto alla sua formazione intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia. Non devi fare questo errore coi tuoi bambi­ni. Intanto il sardo non è un dialetto, ma una lingua a sé, quantunque non abbia una grande letteratura, ed è bene che i bambini imparino più lingue, se è pos­sibile. Poi, l’italiano, che voi gli insegnerete, sarà una lingua povera, monca,fatta solo di quelle poche fra­si e parole delle vostre conversazioni con lui, pura­mente infantile; egli non avrà contatto con l’ambien­te generale e finirà con l’apprendere due gerghi e nessuna lingua: un gergo italiano per la conversazione ufficiale con voi e un gergo sardo, appreso a pezzi e bocconi, per parlare con gli altri bambini e con la gente che incontra per la strada o in piazza. Ti racco­mando, proprio di cuore, di non commettere un tale errore e di lasciare che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino spontanea­mente nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà un impaccio per il loro avvenire, tutt’altro […]”

In questa lettera Gramsci rivela una serie di intuizioni lucidissime sull’importanza, sull’utilità, sul ruolo e la funzione della lingua sarda, specie per quanto attiene alla formazione e allo sviluppo del bambino e allo stesso apprendimento dell’italiano.

Per intanto ammette che “è stato un errore non aver lasciato che Edmea, da bambinetta, parlasse liberamente in sardo”. Si tratta di un errore oltremodo diffuso nella cultura e nell’intera scuola italiana, ancora oggi ma soprattutto nel passato, specie nel periodo fascista.

Ebbene Gramsci, proprio in questo periodo storico e in questa temperie culturale ed ideologica ha il coraggio di andare controcorrente, anche su questo versante. “non imparare il sardo da parte di Edmea – sostiene – ha nociuto alla sua formazione intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia”.

Il grande intellettuale sardo esprime in questa lettera una serie di posizioni sulla lingua materna, che i linguisti e i glottologi nonché gli studiosi delle scienze sociali avrebbero in seguito rigorosamente dimostrato come valide. Ovvero che il bilinguismo non è da considerarsi un fatto dannoso da correggere e da controllare ma una condizione e una competenza che agisce positivamente nelle psicodinamiche dello sviluppo cognitivo e relazionale tanto che l’educazione bilingue ha delle funzioni che vanno al di là dell’insegnamento della lingua. Ovvero che la lingua materna, ha un ruolo fondamentale e decisivo nello sviluppo degli individui, soprattutto dei giovani. Non solo: lo studio e la conoscenza della lingua sarda, può essere uno strumento formidabile per l’apprendimento e l’arricchimento della stessa lingua italiana e di altre lingue. Lungi infatti dall’essere “un impaccio“, “una sottrazione”, sarà invece un elemento di “addizione”, che favorisce e non disturba l’apprendimento dell’intero universo culturale e lo sviluppo intellettuale e umano. Ciò grazie anche alla fertilizzazione e contaminazione reciproca che deriva dal confronto sistemico fra codici comunicativi delle lingue e delle culture diverse, perché il vero bilinguismo è insieme biculturalità, e cioè immersione e partecipazione attiva ai contesti culturali di cui sono portatrici, le due lingue e culture di appartenenza, sarda e italiana per intanto, per poi allargarsi, sempre più inevitabilmente, in una società globalizzata come la nostra, ad altre lingue e culture, al plurilinguismo e alla multiculturalità.

Dal punto di vista formale in questa Lettera  –ma anche nelle altre – Gramsci rivela una scrittura semplice e insieme intensa, talvolta persino scherzosa e ironica, mai “letteraria”, di una naturale altezza e forza morale. La sua capacità di interessarsi profondamente e amabilmente delle vicende dei suoi familiari, dell’educazione dei bambini, cui racconterà favole e storielle, rivelano un uomo dall’alta statura umana ed etica, affettuosamente e profondamente legato alla sua terra, alla sua lingua, alle sue tradizioni. Pur infatti nel carcere e nelle privazioni riesce sempre a mantenere un eccezionale equilibrio tra raziocinio e fantasia e un dominio tranquillo sulla realtà, tanto che raramente il carcere nelle Lettere “si sente”. Eppure, come scriverà in Passato e Presente: ”la prigione è una lima così sottile, che distrugge completamente il pensiero, oppure fa come quel mastro artigiano, al quale era stato consegnato un bel tronco di legno d’olivo stagionato per fare una statua di San Pietro, e taglia di qua, taglia di là, correggi, abbozza, finì col ricavarne un manico di lesina” .

 

 

Se il regista americano Michael Moore diventasse Presidente degli Stati Uniti…

 

COSA FAREI SE FOSSI PRESIDENTE DEGLI STATI UNITI, di Michael Moore                       

VORREI annunciare la formazione di una commissione incaricata di studiare l’eventualità di istituire una commissione esplorativa con il compito di valutare le potenzialità di una candidatura di Michael Moore alla presidenza degli Stati Uniti nel 2016. Per essere chiaro: non sto dichiarando ufficialmente che voglio candidarmi: sto solo dicendo che, se dovessi decidere di scendere in campo con tutta la mia possente stazza, questo è quanto proporrei di fare qualora venissi eletto.
1. Un caricabatterie solo per qualsiasi dispositivo digitale. Già solo questo punto basterebbe a farmi eleggere, ma voglio comunque fare un altro po’ di promesse.
2. Firmerò una legge per abbassare l’età del voto a 16 anni. Un adolescente che a 18 anni può morire per il proprio Paese deve poter dire la sua su chi lo manderà in guerra.
3. Se ci sarà una chiamata alle armi, dichiarerò, come comandante in capo, che i primi a essere reclutati e spediti al fronte dovranno essere i pargoli maggiorenni di tutti i membri del Congresso, del presidente e dei ministri (e poi, in ordine, i figli degli ad delle aziende del Fortune 5-00 , degli appaltatori militari e dei dirigenti dei media). Questa misura dovrebbe ridurre il numero delle guerre.
4. Condonerò a tutti gli studenti universitari i debiti che hanno contratto per studiare. Torneremo a un sistema di borse di studio con lavoro part-time, sovvenzioni e prestiti minimi a interessi zero. Il college dovrebbe essere gratuito.
5. Ridurrei del 75 per cento i fondi per la difesa. Con i soldi risparmiati pagherei il college gratuito e buona parte delle proposte che seguono. Avremmo comunque uno dei più grandi eserciti del mondo e la capacità militare per distruggere il mondo ripetute volte, solo un po’ meno di prima.
6. Tutti gli americani avranno gli stessi piani sanitari gratuiti a cui hanno accesso i membri del Congresso.
7. Il suddetto piano sanitario includerà cure mentali e odontoiatriche gratuite: se gli americani avessero la possibilità di farsi mettere a posto denti e testa quando necessario, il costo e la necessità di andare da un medico si ridurrebbe.
8. I ricchi pagherebbero la stessa percentuale di contributi previdenziali, su tutto il loro reddito, che paga ogni americano di classe media. Ora come ora, chi guadagna più di 118.500 dollari paga zero contributi sulla parte eccedente quella cifra. Per converso, ogni lavoratore che guadagna meno di 118.500 dollari paga i contributi sul suo intero reddito. Se i ricchi fossero obbligati a pagare i contributi su tutto quello che guadagnano, nelle casse della previdenza pubblica ci sarebbe denaro a sufficienza per andare avanti quasi fino al prossimo secolo.
9. Torneremo alle aliquote sul reddito che esistevano quando era presidente quel grande repubblicano che era Gerald Ford. Non c’è bisogno di tornare ai tempi di Eisenhower, quando i ricchi pagavano un’aliquota superiore al 90 per cento. Mi accontento di tornare all’ultimo repubblicano prima di Reagan, quando le élite pagavano intorno al 70 per cento.
10. Treni ad alta velocità. Non aggiungo altro.
11. Messa al bando dello sciroppo di mais ad alto contenuto di fruttosio. Questo veleno a buon mercato è di difficile reperibilità nel resto del mondo civilizzato per una serie di ragioni che potrebbero avere a che fare col fatto che quasi tutti i Paesi in questione hanno un’incidenza di diabete più bassa degli Stati Uniti.
12. Chiunque usi il proprio cellulare dentro a un cinema sarà soggetto a “reidratazione retta- le” (ringrazio la Cia per questo spunto!).
13. Bando pressoché totale per pistole e armi semiautomatiche, campagne elettorali di otto settimane, ritorno alle schede elettorali cartacee, divieto di spot di farmaci in tv, regole stringenti per il settore bancario e finanziario, rifiuto di sopprimere le libertà civili dopo attentati terroristici, rapporti commerciali con Cuba e una versione del football americano con i tentativi di meta ridotti a tre.
14. Tutte le scuole torneranno a insegnare educazione civica: se i giovani possono votare a 16 anni devono sapere cosa possono fare per votare e rivoltare il Paese.
15. Tutti gli studenti dovranno imparare a scrivere in corsivo. Non ci togliete l’unica cosa che tutti siamo in grado di fare ed è unica per ciascuno di noi. Il corsivo è l’impronta digitale della nostra creatività. Scrivere a mano consente alla nostra anima di venir fuori. Il mondo è già abbastanza freddo e aspro: perché toglierci questo piccolo, personale pezzo di umanità?
16. Non sosterremo teocrazie. E cominceremo da noi stessi: sono 35 anni che sono costretto a rispettare leggi istigate dalla destra cristiana e mi sono stufato. Per fare la mia parte, unirò in matrimonio gay chiunque voglia.
17. Tutti gli americani avranno quattro settimane obbligatorie di ferie retribuite. Ai datori di lavoro spedirò gli studi che dimostrano che così aumenta la produttività.
18. Le prigioni non saranno possedute o gestite da aziende private, ma dalla collettività. Non saranno più luoghi di punizione, ma centri di formazione. Non esisteranno per incarcerare le razze o le etnie che non hanno potere. Gli individui non violenti non verranno messi dietro le sbarre. Chi ha rubato, dovrà restituire il maltolto. Criminali delle grandi imprese, sto parlando di voi.
19. Ci sforzeremo di essere gentili: fra di noi, con il mondo e con noi stessi. Come presidente, mi proporrò l’estirpazione dell’ignoranza come più alto scopo. L’ignoranza porta alla paura, la paura porta all’odio e l’odio porta alla violenza. Per troppo tempo questa equazione ha dominato l’America. La strada verso la sua rimozione comincia con la mia elezione. (Copyright The Nation.
Traduzione di Fabio Galimberti)

La repubblica 29 marzo 2015-03-30

Interessantissimo articolo di Roberta Faggioli su “Alle origini della civiltà. L’acqua bene comune. Quale libera e volontaria scelta per l’uso intelligente delle risorse naturali”.

Copyright © 2010 by Istituto Storico della Resistenzae dell’età Contemporanea in Provincia di Pistoia

QF Quaderni di Farestoria Anno XII – N. 2 maggio-agosto 2010  

Alle origini della civiltà. L’acqua bene comune. Quale libera e volontaria scelta per l’uso intelligente delle risorse naturali. di Roberta Raggioli

In alcune leggende e miti dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo, così come peraltro nel resto del mondo, persino fra i Dogon africani, si mette in evidenza il fatto che, in un tempo ormai lontanissimo dal nostro, le forze della natura si siano scatenate contro la terra e i suoi abitanti, con il rischio d’estinzione d’ogni forma di vita, così che il nostro pianeta sarebbe rimasto a lungo sommerso dall’acqua alluvionale. Le cause geologiche sono state studiate e appurate dai ricercatori, e non voglio qui fare disquisizioni di carattere scientifico. Almeno fino alle soglie del Paleolitico e all’introduzione dell’agricoltura, l’uomo non aveva apportato ancora alcun cambiamento rilevante all’ambiente. Questo almeno fino ad epoca storica, quando invece comincerà ad utilizzare indiscriminatamente le risorse naturali, giungendo oggi a danneggiare seriamente ed in certi casi irreversibilmente, l’ecosistema, come ad es. è avvenuto in Sardegna, la terra emersa, geologicamente più antica del Mediterraneo (Cambrico e Silurico, 600-400 milioni d’anni fa) ormai da decenni a rischio di desertificazione Eppure i geologi contrastando ogni previsione catastrofica informarono le istituzioni del rilevamento di veri e propri corsi d’acqua o addirittura piccoli laghi sotterranei, nelle zone calcaree situate fra il centro e il Nord dell’Isola, in particolare nella Barbagia Seulo, in territorio di Ulassai, i cosìdetti “Tacchi Calcarei” (Taccu Arboredo, Taccu Esterzili etc.). Questi fiumi spesso fuoriescono in superficie dando origine a sorgenti vere e proprie (carsismo), e comunque anche le acque del sottosuolo sono facilmente raggiungibili, dato che non si deve escavare a grandi profondità essendo la roccia di per sé friabile. Eppure esse restano inutilizzate. Le stesse pianure del Campidano e della Nurra, sono di natura alluvionale, cioè formatesi attraverso vari processi di subsidenza ed emersione dal mare di depositi vulcanici, che diedero origine ai rilievi, i quali a loro volta furono erosi dalle acque di scorrimento e piovane, che depositarono tali detriti sedimentandoli sul fondo di quelli che erano veri e propri canali marini. Il che testimonia non solo che l’acqua è alla base della vita ma che la stessa Sardegna è nata emergendo da tale elemento, e che perciò da sempre i sardi, come tutti i popoli antichi, l’hanno considerata sacra. Di miti sardi (paristorias) che riferiscono tali fatti geologicamente comprovati, che vedono questa “zolla di terra” nascere proprio dall’acqua, in modo ovviamente leggendario e fantasioso, ve n’è più d’uno; ne ricorderò qui solo alcuni, che si ritrovano codificati in due explanatory tales: L’orma Divina (Ichnussa), cioè il nome che i greci diedero all’Isola, e Sa B(h)ia de sa B(h)adza, sardo lugudorese, tradotto letteralmente “La Via della Paglia”, e cioè la Via Lattea, come è facile evincere dal racconto, rappresentata, sul territorio sardo, dalla catena montuosa de Sos Sette Frades (I Sette Fratelli) situata a sud-est della Sardegna, punto di riferimento per i naviganti e per i pastori dell’entroterra, visibile dalla costa in prossimità dell’antico porto di Caralis. Terra, acqua, fuoco, aria dicevano i filosofi di Mileto questo l’arkè da cui genera la vita. E vedremo perché. La Sardegna, non dimentichiamolo, ha restituito i più antichi resti dell’antica cultura megalitica insieme a gran parte del sud della penisola italiana, e dell’Europa, che si sviluppa durante tutto il neolitico, riduttivamente chiamata civiltà della pietra, giacchè come gli studiosi hanno dimostrato fu proprio questo il periodo di formazione embrionale del pensiero scientifico e filosofico che, dalle coste dell’Asia Minore (Lidia e Frigia) si diffonderà dapprima nelle Isole dell’Egeo e nelle coste del Mediterraneo, con i Sardiani-Lidi. Fermatisi in Sardegna faranno di questa una testa di ponte per giungere in piccoli drappelli all’Elba e poi sulla terra ferma dando luogo alla civiltà sardo-tirrenica da cui originò solo in seguito quella etrusca. Tutto questo è avvalorato da persistenze culturali e linguistiche all’interno della civiltà arcaica agro-pastorale, la quale ha conservato numerose usanze appartenenti alla sfera del “sacro” di quel passato remoto, stratificandole sincreticamente via via che incontrava le nuove culture impostesi su quella protosarda e sardo-nuragica in seguito alle varie conquiste, secondo le tesi dello studioso sardo più accreditabile in materia il Prof. M. Pittau, linguista e Preside della facoltà di Lettere e Filosofia di Sassari. Il pantheon delle divinità sarde, ne annovera alcune autoctone protosarde e nuragiche, fra le quali quella maschile dominante, delle acque e perciò ctonia (Ade, per intendersi) e del cielo, raffigurata infatti dagli etruschi con in mano un fulmine, e che corrisponde al dio greco Zeus, che i romani denominarono Sardus Pater, (Maymone per i sardiani-tirreni, e Mainoles per i greci), appellativo di Dionysos, il cui corrispettivo al femminile era la dea Mania, divinità sardiano-tirrenica, ctonia della terra ma anche del cielo, anch’essa Grande Madre, che corrisponde alla Dione greca, dea dell’Acqua e del cielo luminoso (Nyx, la luna), dunque Afrodite Urania o Astrea. Due divinità ctonie, legate cioè alle ricchezze del sottosuolo e della terra in generale, ma anche al cielo, prime fra tutte l’Acqua. Gli antichi sapevano che tali risorse si erano generate in epoche remotissime di cui l’uomo non ha più memoria, ma ne conserva la conoscenza archetipica, intuendone e studiandone i fenomeni attraverso le scienze esatte. Queste divinità “plutoniche”, dunque generarono l’universo, la terra. Alle origini della civiltà e il suo sistema solare, secondo la mitologia mediterrana, e le loro storie leggendarie non sono altro che testimonianze di quel protopensiero scientifico e filosofico da cui ha preso le mosse la stessa cultura scientifica alla base della nostra cultura moderna, che secondo studiosi della storia del pensiero scientifico e filosofico quale ad es. il Preti, e come oggi è stato chiaramente dimostrato dall’archeologia e astronomia chiaramente, non affonda le proprie radici in occidente ma nell’Asia Minore, in cui la “speculazione” ossia l’osservazione del cielo ha preso le mosse e da cui deriva quella filosofica. Le notizie mitologiche e soprattutto archeologiche sul culto di Maymon e Mania, sono avvalorate anche dalla toponomastica, e più in generale dalla linguistica, oltre che dagli studi di etno-antropologia (M. Pira – M. Pittau – Dolores Turchi et altri), su cui mi soffermerò con particolare attenzione. Nella Sardegna centro-settentrionale sono presenti in prevalenza montagne e altipiani, e proprio nella zona delle così dette “Barbagie”, e in particolare la Barbagia Seulo, a 13 Km da Bitti, si trova una località di montagna detta Maimone, non lontana dalle sorgenti del fiume Tirso, il più importante fra i fiumi sardi. Sulla direttrice che da Bitti conduce a Maimone, si trova uno dei complessi nuragici più grandi e antichi dell’Isola “Su Romanzesu”(XVI sec. a.C, ampliato nel XIII sec. a.C), all’interno del quale sono presenti emergenze archeologiche di vario genere, fra cui i resti di più di cento capanne (pinnettos) e due Templi a Tholos adibiti al culto delle Aque-Fertilità e dell’orgheono (Pozzi Sacri). Il territorio è quello de “Sa Crastazza”, la cui geomorfologia si connota per la prevalenza di ripidi canaloni (canyons) che partono dall’altopiano e giungono fino a valle, in cui si gettano scroscianti salti d’acqua, uno fra i maggiori è quello stagionale de “S’Illorai”, che si sviluppa nel periodo delle piogge insieme alle cascate de “Sas Lappias”. Nelle vicinanze si trova il Monte Albo, massiccio calcareo-dolomitico, alto 1127 m s.l.m , sui cui fianchi si aprono ampi canyon, depressioni, grotte. Nella zona sono presenti le famose “Domus de Janas” (Case delle Fate) di “Rujas” e “Caradianas”(Posada), ipogei funerari e luoghi sacri del Neolitico, in cui si celebravano sia il culto dei Morti che quello dell’Acqua e in cui, non a caso, sono stati rinvenuti in tutta la Sardegna (Montessu, Anghelu Ruju, Cuccuru S’Arriu-Cabras, Su Cungiau Mannu-Decimoputzu, Ozieri) i più antichi esemplari di “figurines” della Grande Madre Mediterranea, che come ho già fatto notare è la dea della Vita, dunque legata all’acqua, e della Morte, la cui caratteristica somatica più comune negli esemplari più antichi è la steatopigia. La Grande Madre, Mania, era conosciuta anche con il nome di Orga, termine paleosardo che significa “terreno umido”(M. Pittau), da cui origina il toponimo Orgosolo, anch’essa località dell’interno della Sardegna a Sud di Nuoro. Chiudo il discorso sulle prove linguistiche dell’esistenza delle due divinità maggiori del pantheon sardo, riportando quello che era un’antica “pregadoria” (invocazione) che gli abitanti di Ghilarza, Neoneli, Orotelli e Ottana usano rivolgere ancora oggi proprio a Maymone, portando in processione degli “stendatos” o labari fatti di pervinche intrecciate, in periodi di siccità. Curioso è il fatto che i bimbi sfilino con delle corone fatte con la stessa pianta, persistenza sincretica che riporta ancora una volta a constatare l’affinità con la divinità greca di Dyonisos Anthroporraites, i cui rituali prevedevano la stessa usanza e una vera e propria “Commedia dell’Innocenza”, messa in scena del sacrificio di un vitello travestito da essere umano, e il linciaggio simbolico presso un corso d’acqua dell’uccisore, e gli oranti infatti durante la sfilata in onore di Maymone dicono “M’ucchidan che t’ucchidimus”. Ecco Il testo nelle due versioni, quella di Aidomaggiore riportata da M. Pira in “Sardegna tra due lingue”(1968) e quella trascitta in un quaderno teatrale per l’opera “Ojos” dai ricercatori della Cooperativa Teatru “Fueddu e gestu” di Villasor – Cagliari, note al testo poetico “Deus de Sas Abbas”, da “Maschere, Miti e feste della Sardegna”, Dolores Turchi Sunto. I) M. Pira II) D. Turchi Sunto

Dadennos abba , Segnore, Maimone Maimone

in custa nezessidade: abba cheret su laore

sos anzones cheren erva abba cheret su siccau

e nois cherimus pane. Maimone laudadu.

Abba a terra a sos laores,

abba a terra, a nonne dare.

Alla fine tutti rispondevanocon la frase di buon auspicio:

“Isperemos che Deus bos Intendat”.

Durante la processione agli adulti veniva offerto il vino, e alla fine il “Maymone”, lo spauracchio, veniva gettato in mare: altri segni sincretici tangibili dei riti dionisiaci a cui ho accennato sopra. C’è da dire inoltre che il lemma Maymone in Barbagia sta ad indicare sia lo “spauracchio o spaventapasseri”, che la “Maschera carnevalesca” dei “Mamuthones” di Mamoiada, che sfilano per le strade del paese nel numero di 12, come gli antichi Sacerdoti Salii durante i Giochi Capitolini nell’antica Roma, che a loro volta in verità erano manifestazione di un antico retaggio Etrusco. Il Carnevale di Mamoiada si celebra guarda caso ancora secondo le date del rito antico, e non a febbraio, ma il giorno di Sant’Antonio Abate nella sera fra il 16 e il 17 gennaio, e che in Sardegna è detto “Sant’Antoni ‘e su fogu”, e in cui i ragazzi vanno in giro per il paese a chiedere “Farina e Faso’ “ (farina e fagioli), e accendono il fuoco nei pressi di un antica Pietra Fitta o Menhir fuori dal paese. Ciò ci riporta ancora una volta a quei riti arcaici riconducibili alla civiltà megalitica che accomuna la nostra cultura a quella del nord alle origini della civiltà europea. Come ben si può comprendere, la geomorfologia del territorio in questione, ha ispirato e influenzato la stessa cultura del sacro isolana, compresa ovviamente la stessa toponomastica, giacchè ad un territorio ricco di acque sorgive e di scorrimento corrisponde una civiltà incentrata sul culto delle acque e che su esso ha modellato la propria cultura millenaria. In passato infatti la Sardegna, grazie all’abbondanza d’acqua e alla sua natura verdeggiante e florida, godeva di un clima mediterraneo con estati meno secche e inverni più umidi, un pò’ come l’odierna Corsica. In epoca moderna, si è passati invece ad un clima secco e poco favorevole alla povera economia agro-pastorale, in conseguenza dei disboscamenti subiti nel corso dei secoli, e degli incendi, che nel corso del tempo hanno devastato ettari di territorio boschivo (che sono spesso commissionati da chi ha interesse a convertire quei territori finora adibiti ad attività agro-pastorali, in aree edificabili) si fa così leva sui mali atavici dell’ Isola, e cioè la penuria di mezzi economici e la conseguente disoccupazione, che si sono acuiti sempre più dagli anni ’60 e ‘70 in poi, come bene fece notare l’uomo di cultura sardo Francesco Masala, autore de “S’Istoria” in lingua sardo-lugudorese, periodo in cui nella terra dei sardi fu impiantato il grande polo industriale petrolchimico di Macchiareddu e Sarroch, nel cagliaritano, nonchè quello delle fibre sintetiche di Ottana nel nuorese, e il polo chimico di Porto Torres. All’inizio hanno illuso i sardi di avere risolto finalmente una grossa parte dei loro problemi legati ad un’economia agro-pastorale di sussistenza secolare, povera ma sicura anche se poco remunerativa, alla quale si imputava il ritardo con cui l’Isola si affacciava all’era moderna, e il suo mancato progresso, ma che in realtà nel corso dei decenni, si sono rivelate delle vere e proprie “Cattedrali nel Deserto”, e che, come bene ha messo in evidenza lo storico sardo Francesco Casula, rappresentano ormai il segno tangibile di «[…] un duplice contestuale fallimento cinquantennale della così detta Rinascita ed Autonomia, che tradendo le aspirazioni e le speranze del popolo sardo, si sono rovesciate nella realtà del sottosviluppo e nella involuzione ai limiti della tolleranza». Dunque ad essere messo sotto accusa è proprio «[…] quel modello di sviluppo incentrato sulla grande industria, di stato e privata […] che ha devastato e depauperato il territorio: la nostra risorsa più pregiata; ha degradato e inquinato l’ambiente e il mare, con danni incalcolabili per il turismo e la pesca; ha sconvolto gli equilibri e le vocazioni naturali; ha distrutto quel tessuto economico tradizionale e quel minimo di industrie e imprenditorialità locale, attentando all’identità dei sardi, con l’eliminazione delle specificità linguistico-culturali, con il pretesto di combattere la violenza e il banditismo […] senza creare peraltro occupazione e progresso. Così oggi Stato e Privati ci lasciano un cimitero di ruderi…» (“Sul fallimento dell’industrializzazione in Sardegna” – Le colpe di un’industria malata – Il Giornale di Sardegna, 09/02/2010, articolo di Francesco Casula). E concludeva il Casula, anche le multinazionali come l’Alcoa che foraggiata dallo stato doveva ristrutturare il polo di Ottana, incassato il malloppo si defilano facendo rotta per altri lidi, dove il costo della manodopera è più basso, sicuri così di ottenere dei profitti maggiori che non nella ormai dissanguata Isola dei “Sardi venales”! Dunque l’unica via d’uscita per la Sardegna dalla dipendenza e dal sottosviluppo, così come per il resto del Sud d’Italia e del mondo, resta quella dell’autodeterminazione e della progettualità basata sulle risorse legate all’ ambiente e alla cultura. Questo non vuol certo dire che dobbiamo e possiamo tornare a “Su Connottu” (ciò che è conosciuto) senza fare i conti con il nostro vivere globalizzato, anzi bisognerà far tesoro di ciò che di buono è insito nella cultura moderna come gli interscambi culturali che si son potuti amplificare proprio grazie ai moderni mezzi di comunicazione e di spostamento, a tutti i livelli, e soprattutto nel commercio dei beni di consumo, che possono e devono tornare ad essere fonte e veicolo di progresso e del sapere condiviso dei popoli. Ne sia un esempio proprio la sapiente ricerca che studiosi come Antony Allan del King’s College di Londra hanno definito della “Acqua Virtuale”, cioè la quantità d’acqua necessaria a produrre le merci di scambio, che se non controllata a dovere rischia di prosciugare il terzo mondo su cui grava la pressante domanda occidentale. Per questo l’UNESCO, grazie a tale saggia riflessione, ha introdotto il “Water Footprint Calculator”, che calcola il nostro peso idrico sulla terra. Ma a pensarci bene non era proprio questa la filosofia alla base del modello di sviluppo economico, sociale e culturale, delle società agropastorali, attuato attraverso le forme della cooperazione e dello autoaiuto? La risposta è sì, giacchè questo comportava la creazione di un mercato interno ed esterno che, in modo del tutto naturale, accoglieva prodotti di per sé idrointensivi. Infatti i vari territori producevano solo ciò che era loro concesso per vocazione, e quindi il flusso di acqua che accompagnava lo scambio di merci poteva comportare solo benefici e non sprechi, non utilizzando così un sovrappiù d’acqua, poichè ogni oggetto era prodotto a seconda delle risorse offerte dall’ambiente e nel suo rispetto. Dunque prodotti esportati da aree ad alta produttività idrica danno un risparmio globale. E allora bisognerà davvero cambiare rotta, e recuperare quel rispetto e senso del sacro nei confronti della natura e delle cose, diceva Carlo Levi in “Tutto il miele e finito”, che l’uomo ha erroneamente accantonato, e ripartire dal ciò che abbiamo vissuto ed esperimentato, di là dal bene e dal male, ritrovando in noi il senso della misura, e dunque tornando ad essere noi stessi misura di tutte le cose. Non è per vetero-conservatorismo o inutile nostalgia del tempo che fu che dobbiamo attivare quel processo di Ars Memoriae, che è ricerca e recupero della cultura identitaria individuale e collettiva, ma per costruire dei veri e propri ponti culturali fra popoli che diano spazio ai saperi condivisi del mondo. Ma per fare ciò bisogna sapere agire contro il tempo presente, in favore di un tempo venturo, quello della “Utopia”, quello de “Il coraggio dei miti” (Carlo Levi docet), con la coscienza di chi ci crede, e che continua a cercare nei suoi simili la stessa antica speranza che le cose possano cambiare davvero. A questo proposito amo sempre ricordare la famosa parafrasi con cui il poeta britannico J. Keats si rivolgeva al fratello George, in una lettera del 1819, cercando di spiegare quale sia la cifra dell’arcano, del sacro che i greci vollero sintetizzare nella formula “Anthropos mikros kosmos”, e che qui riporto integralmente, chiudendo con essa la mia breve riflessione sul tema dell’acqua, bene sacro perchè alla base della sopravvivenza nostra e del pianeta, e che di per se stesso è bene comune. “Consider the world a vale of soul making, than you will know how to use the world”. (J. Keats, 1819)

 

Interessantissimo articolo di Roberta Faggioli su “Alle origini della civiltà. L’acqua bene comune. Quale libera e volontaria scelta per l’uso intelligente delle risorse naturali”

Copyright © 2010 by Istituto Storico della Resistenza

e dell’età Contemporanea in Provincia di Pistoia

QF Quaderni di Farestoria

Anno XII – N. 2 maggio-agosto 2010

 

Alle origini della civiltà. L’acqua bene comune. Quale libera e volontaria scelta per l’uso intelligente delle risorse naturali.

di Roberta Raggioli

In alcune leggende e miti dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo, così come peraltro nel resto del mondo, persino fra i Dogon africani, si mette in evidenza il fatto

che, in un tempo ormai lontanissimo dal nostro, le forze della natura si siano scatenate

contro la terra e i suoi abitanti, con il rischio d’estinzione d’ogni forma di vita, così che

il nostro pianeta sarebbe rimasto a lungo sommerso dall’acqua alluvionale. Le cause

geologiche sono state studiate e appurate dai ricercatori, e non voglio qui fare disquisizioni di carattere scientifico. Almeno fino alle soglie del Paleolitico e all’introduzione dell’agricoltura, l’uomo non aveva apportato ancora alcun cambiamento rilevante all’ambiente. Questo almeno fino ad epoca storica, quando invece comincerà ad utilizzare indiscriminatamente le risorse naturali, giungendo oggi a danneggiare seriamente ed in certi casi irreversibilmente, l’ecosistema, come ad es. è avvenuto in Sardegna, la terra emersa, geologicamente più antica del Mediterraneo (Cambrico e Silurico, 600-400 milioni d’anni fa) ormai da decenni a rischio di desertificazione Eppure i geologi contrastando ogni previsione catastrofica informarono le istituzioni del rilevamento di veri e propri corsi d’acqua o addirittura piccoli laghi sotterranei, nelle zone calcaree situate fra il centro e il Nord dell’Isola, in particolare nella Barbagia Seulo, in territorio di Ulassai, i cosìdetti “Tacchi Calcarei” (Taccu Arboredo, Taccu Esterzili etc.).

Questi fiumi spesso fuoriescono in superficie dando origine a sorgenti vere e proprie

(carsismo), e comunque anche le acque del sottosuolo sono facilmente raggiungibili,

dato che non si deve escavare a grandi profondità essendo la roccia di per sé friabile.

Eppure esse restano inutilizzate. Le stesse pianure del Campidano e della Nurra, sono di natura alluvionale, cioè formatesi attraverso vari processi di subsidenza ed emersione dal mare di depositi vulcanici, che diedero origine ai rilievi, i quali a loro volta furono erosi dalle acque di scorrimento e piovane, che depositarono tali detriti sedimentandoli sul fondo di quelli che erano veri e propri canali marini. Il che testimonia non solo che l’acqua è alla base della vita ma che la stessa Sardegna è nata emergendo da tale elemento, e che perciò da sempre i sardi, come tutti i popoli antichi, l’hanno considerata sacra. Di miti sardi (paristorias) che riferiscono tali fatti geologicamente comprovati, che vedono questa “zolla di terra” nascere proprio dall’acqua, in modo ovviamente leggendario e fantasioso, ve n’è più d’uno; ne ricorderò qui solo alcuni, che si ritrovano codificati in due explanatory tales: L’orma Divina (Ichnussa), cioè il nome che i greci diedero all’Isola, e Sa B(h)ia de sa B(h)adza, sardo lugudorese, tradotto letteralmente “La Via della Paglia”, e cioè la Via Lattea, come è facile evincere dal racconto, rappresentata, sul territorio sardo, dalla catena montuosa de Sos Sette Frades (I Sette Fratelli) situata a sud-est della Sardegna, punto di riferimento per i naviganti e per i pastori dell’entroterra, visibile dalla costa in prossimità dell’antico porto di Caralis. Terra, acqua, fuoco, aria dicevano i filosofi di Mileto questo l’arkè da cui genera la vita.

E vedremo perché. La Sardegna, non dimentichiamolo, ha restituito i più antichi resti dell’antica cultura megalitica insieme a gran parte del sud della penisola italiana, e dell’Europa, che si sviluppa durante tutto il neolitico, riduttivamente chiamata civiltà della pietra, giacchè come gli studiosi hanno dimostrato fu proprio questo il periodo di formazione embrionale del pensiero scientifico e filosofico che, dalle coste dell’Asia Minore (Lidia e Frigia) si diffonderà dapprima nelle Isole dell’Egeo e nelle coste del Mediterraneo, con i Sardiani-Lidi. Fermatisi in Sardegna faranno di questa una testa di ponte per giungere in piccoli drappelli all’Elba e poi sulla terra ferma dando luogo alla civiltà sardo-tirrenica da cui originò solo in seguito quella etrusca. Tutto questo è avvalorato da persistenze culturali e linguistiche all’interno della civiltà arcaica agro-pastorale, la quale ha conservato numerose usanze appartenenti alla sfera del “sacro” di quel passato remoto, stratificandole sincreticamente via via che incontrava le nuove culture impostesi su quella protosarda e sardo-nuragica in seguito alle varie conquiste, secondo le tesi dello studioso sardo più accreditabile in materia il Prof. M. Pittau, linguista e Preside della facoltà di Lettere e Filosofia di Sassari.

Il pantheon delle divinità sarde, ne annovera alcune autoctone protosarde e nuragiche,

fra le quali quella maschile dominante, delle acque e perciò ctonia (Ade, per intendersi) e del cielo, raffigurata infatti dagli etruschi con in mano un fulmine, e che

corrisponde al dio greco Zeus, che i romani denominarono Sardus Pater, (Maymone per i sardiani-tirreni, e Mainoles per i greci), appellativo di Dionysos, il cui corrispettivo al femminile era la dea Mania, divinità sardiano-tirrenica, ctonia della terra ma anche del cielo, anch’essa Grande Madre, che corrisponde alla Dione greca, dea dell’Acqua e del cielo luminoso (Nyx, la luna), dunque Afrodite Urania o Astrea.

Due divinità ctonie, legate cioè alle ricchezze del sottosuolo e della terra in generale,

ma anche al cielo, prime fra tutte l’Acqua. Gli antichi sapevano che tali risorse si erano generate in epoche remotissime di cui l’uomo non ha più memoria, ma ne conserva la conoscenza archetipica, intuendone e studiandone i fenomeni attraverso le scienze esatte. Queste divinità “plutoniche”, dunque generarono l’universo, la terra. Alle origini della civiltà e il suo sistema solare, secondo la mitologia mediterrana, e le loro storie leggendarie non sono altro che testimonianze di quel protopensiero scientifico e filosofico da cui ha preso le mosse la stessa cultura scientifica alla base della nostra cultura moderna, che secondo studiosi della storia del pensiero scientifico e filosofico quale ad es. il Preti, e come oggi è stato chiaramente dimostrato dall’archeologia e astronomia chiaramente, non affonda le proprie radici in occidente ma nell’Asia Minore, in cui la “speculazione” ossia l’osservazione del cielo ha preso le mosse e da cui deriva quella filosofica. Le notizie mitologiche e soprattutto archeologiche sul culto di Maymon e Mania, sono avvalorate anche dalla toponomastica, e più in generale dalla linguistica, oltre che dagli studi di etno-antropologia (M. Pira – M. Pittau – Dolores Turchi et altri), su cui mi soffermerò con particolare attenzione.

Nella Sardegna centro-settentrionale sono presenti in prevalenza montagne e altipiani,

e proprio nella zona delle così dette “Barbagie”, e in particolare la Barbagia Seulo,

a 13 Km da Bitti, si trova una località di montagna detta Maimone, non lontana dalle

sorgenti del fiume Tirso, il più importante fra i fiumi sardi. Sulla direttrice che da Bitti

conduce a Maimone, si trova uno dei complessi nuragici più grandi e antichi dell’Isola

“Su Romanzesu”(XVI sec. a.C, ampliato nel XIII sec. a.C), all’interno del quale sono

presenti emergenze archeologiche di vario genere, fra cui i resti di più di cento capanne (pinnettos) e due Templi a Tholos adibiti al culto delle Aque-Fertilità e dell’orgheono (Pozzi Sacri). Il territorio è quello de “Sa Crastazza”, la cui geomorfologia si connota per la prevalenza di ripidi canaloni (canyons) che partono dall’altopiano e giungono fino a valle, in cui si gettano scroscianti salti d’acqua, uno fra i maggiori è quello stagionale de “S’Illorai”, che si sviluppa nel periodo delle piogge insieme alle cascate de “Sas Lappias”. Nelle vicinanze si trova il Monte Albo, massiccio calcareo-dolomitico, alto 1127 m s.l.m , sui cui fianchi si aprono ampi canyon, depressioni, grotte. Nella zona sono presenti le famose “Domus de Janas” (Case delle Fate) di “Rujas” e “Caradianas”(Posada), ipogei funerari e luoghi sacri del Neolitico, in cui si celebravano sia il culto dei Morti che quello dell’Acqua e in cui, non a caso, sono stati rinvenuti in tutta la Sardegna (Montessu, Anghelu Ruju, Cuccuru S’Arriu-Cabras, Su Cungiau Mannu-Decimoputzu, Ozieri) i più antichi esemplari di “figurines” della Grande Madre Mediterranea, che come ho già fatto notare è la dea della Vita, dunque legata all’acqua, e della Morte, la cui caratteristica somatica più comune negli esemplari più antichi è la steatopigia. La Grande Madre, Mania, era conosciuta anche con il nome di Orga, termine paleosardo che significa “terreno umido”(M. Pittau), da cui origina il toponimo Orgosolo, anch’essa località dell’interno della Sardegna a Sud di Nuoro. Chiudo il discorso sulle prove linguistiche dell’esistenza delle due divinità maggiori del pantheon sardo, riportando quello che era un’antica “pregadoria” (invocazione) che gli abitanti di Ghilarza, Neoneli, Orotelli e Ottana usano rivolgere ancora oggi proprio a Maymone, portando in processione degli “stendatos” o labari fatti di pervinche intrecciate, in periodi di siccità. Curioso è il fatto che i bimbi sfilino con delle corone fatte con la stessa pianta, persistenza sincretica che riporta ancora una volta a constatare l’affinità con la divinità greca di Dyonisos Anthroporraites, i cui rituali prevedevano la stessa usanza e una vera e propria “Commedia dell’Innocenza”, messa in scena del sacrificio di un vitello travestito da essere umano, e il linciaggio simbolico presso un corso d’acqua dell’uccisore, e gli oranti infatti durante la sfilata in onore di Maymone dicono “M’ucchidan che t’ucchidimus”. Ecco Il testo nelle due versioni, quella di Aidomaggiore riportata da M. Pira in “Sardegna tra due lingue”(1968) e quella trascitta in un quaderno teatrale per l’opera “Ojos” dai ricercatori della Cooperativa Teatru “Fueddu e gestu” di Villasor – Cagliari, note al testo poetico “Deus de Sas Abbas”, da “Maschere, Miti e feste della Sardegna”, Dolores Turchi Sunto.

I) M. Pira II) D. Turchi Sunto

Dadennos abba , Segnore, Maimone Maimone

in custa nezessidade: abba cheret su laore

sos anzones cheren erva abba cheret su siccau

e nois cherimus pane. Maimone laudadu.

Abba a terra a sos laores,

abba a terra, a nonne dare.

Alla fine tutti rispondevanocon la frase di buon auspicio:

“Isperemos che Deus bos Intendat”.

Durante la processione agli adulti veniva offerto il vino, e alla fine il “Maymone”, lo spauracchio, veniva gettato in mare: altri segni sincretici tangibili dei riti dionisiaci a cui ho accennato sopra. C’è da dire inoltre che il lemma Maymone in Barbagia sta ad indicare sia lo “spauracchio o spaventapasseri”, che la “Maschera carnevalesca” dei “Mamuthones” di Mamoiada, che sfilano per le strade del paese nel numero di 12, come gli antichi Sacerdoti Salii durante i Giochi Capitolini nell’antica Roma, che a loro volta in verità erano manifestazione di un antico retaggio Etrusco. Il Carnevale

di Mamoiada si celebra guarda caso ancora secondo le date del rito antico, e non a febbraio, ma il giorno di Sant’Antonio Abate nella sera fra il 16 e il 17 gennaio, e che in Sardegna è detto “Sant’Antoni ‘e su fogu”, e in cui i ragazzi vanno in giro per il paese a chiedere “Farina e Faso’ “ (farina e fagioli), e accendono il fuoco nei pressi di un antica Pietra Fitta o Menhir fuori dal paese. Ciò ci riporta ancora una volta a quei riti arcaici riconducibili alla civiltà megalitica che accomuna la nostra cultura a quella del nord alle origini della civiltà europea. Come ben si può comprendere, la geomorfologia del territorio in questione, ha ispirato e influenzato la stessa cultura del sacro isolana, compresa ovviamente la stessa toponomastica, giacchè ad un territorio ricco di acque sorgive e di scorrimento corrisponde una civiltà incentrata sul culto delle acque e che su esso ha modellato la propria cultura millenaria. In passato infatti la Sardegna, grazie all’abbondanza d’acqua e alla sua natura verdeggiante e florida, godeva di un clima mediterraneo con estati meno secche e inverni più umidi, un pò’ come l’odierna Corsica. In epoca moderna, si è passati invece ad un clima secco e poco favorevole alla povera economia agro-pastorale, in conseguenza dei disboscamenti subiti nel corso dei secoli, e degli incendi, che nel corso del tempo hanno devastato ettari di territorio boschivo (che sono spesso commissionati da chi ha interesse a convertire quei territori finora adibiti ad attività agro-pastorali, in aree edificabili) si fa così leva sui mali atavici dell’ Isola, e cioè la penuria di mezzi economici e la conseguente disoccupazione, che si sono acuiti sempre più dagli anni ’60 e ‘70 in poi, come bene fece notare l’uomo di cultura sardo Francesco Masala, autore de “S’Istoria” in lingua sardo-lugudorese, periodo in cui nella terra dei sardi fu impiantato il grande polo industriale petrolchimico di Macchiareddu e Sarroch, nel cagliaritano, nonchè quello delle fibre sintetiche di Ottana nel nuorese, e il polo chimico di Porto Torres. All’inizio hanno illuso i sardi di avere risolto finalmente una grossa parte dei loro problemi legati ad un’economia agro-pastorale di sussistenza secolare, povera ma sicura anche se poco remunerativa, alla quale si imputava il ritardo con cui l’Isola si affacciava all’era moderna, e il suo mancato progresso, ma che in realtà nel corso dei decenni, si sono rivelate delle vere e proprie “Cattedrali nel Deserto”, e che, come bene ha messo in evidenza lo storico sardo Francesco Casula, rappresentano ormai il segno tangibile di «[…] un duplice contestuale fallimento cinquantennale della così detta Rinascita ed Autonomia, che tradendo le aspirazioni e le speranze del popolo sardo, si sono rovesciate nella realtà del sottosviluppo e nella involuzione ai limiti della tolleranza». Dunque ad essere messo sotto accusa è proprio «[…] quel modello di sviluppo incentrato sulla grande industria, di stato e privata […] che ha devastato e depauperato il territorio: la nostra risorsa più pregiata; ha degradato e inquinato l’ambiente e il mare, con danni incalcolabili per il turismo e la pesca; ha sconvolto gli equilibri e le vocazioni naturali; ha distrutto quel tessuto economico tradizionale e quel minimo di industrie e imprenditorialità locale, attentando all’identità dei sardi, con l’eliminazione delle specificità linguistico-culturali, con il pretesto di combattere la violenza e il banditismo […] senza creare peraltro occupazione e progresso. Così oggi Stato e Privati ci lasciano un cimitero di ruderi…» (“Sul fallimento dell’industrializzazione in Sardegna” – Le colpe di un’industria malata – Il Giornale di Sardegna, 09/02/2010, articolo di Francesco Casula). E concludeva il Casula, anche le multinazionali come l’Alcoa che foraggiata dallo stato doveva ristrutturare il polo di Ottana, incassato il malloppo si defilano facendo rotta per altri lidi, dove il costo della manodopera è più basso, sicuri così di ottenere dei profitti maggiori che non nella ormai dissanguata Isola dei “Sardi venales”! Dunque l’unica via d’uscita per la Sardegna dalla dipendenza e dal sottosviluppo, così come per il resto del Sud d’Italia e del mondo, resta quella dell’autodeterminazione e della progettualità basata sulle risorse legate all’ ambiente e alla cultura. Questo non vuol certo dire che dobbiamo e possiamo tornare a “Su Connottu” (ciò che è conosciuto) senza fare i conti con il nostro vivere globalizzato, anzi bisognerà far tesoro di ciò che di buono è insito nella cultura moderna come gli interscambi culturali che si son potuti amplificare proprio grazie ai moderni mezzi di comunicazione e di spostamento, a tutti i livelli, e soprattutto nel commercio dei beni di consumo, che possono e devono tornare ad essere fonte e veicolo di progresso e del sapere condiviso dei popoli. Ne sia un esempio proprio la sapiente ricerca che studiosi come Antony Allan del King’s College di Londra hanno definito della “Acqua Virtuale”, cioè la quantità d’acqua necessaria a produrre le merci di scambio, che se non controllata a dovere rischia di prosciugare il terzo mondo su cui grava la pressante domanda occidentale. Per questo l’UNESCO, grazie a tale saggia riflessione, ha introdotto il “Water Footprint Calculator”, che calcola il nostro peso idrico sulla terra. Ma a pensarci bene non era proprio questa la filosofia alla base del modello di sviluppo economico, sociale e culturale, delle società agropastorali, attuato attraverso le forme della cooperazione e dello autoaiuto? La risposta è sì, giacchè questo comportava la creazione di un mercato interno ed esterno che, in modo del tutto naturale, accoglieva prodotti di per sé idrointensivi. Infatti i vari territori producevano solo ciò che era loro concesso per vocazione, e quindi il flusso di acqua che accompagnava lo scambio di merci poteva comportare solo benefici e non sprechi,

non utilizzando così un sovrappiù d’acqua, poichè ogni oggetto era prodotto a seconda

delle risorse offerte dall’ambiente e nel suo rispetto. Dunque prodotti esportati da aree

ad alta produttività idrica danno un risparmio globale. E allora bisognerà davvero cambiare rotta, e recuperare quel rispetto e senso del sacro nei confronti della natura e delle cose, diceva Carlo Levi in “Tutto il miele e finito”, che l’uomo ha erroneamente accantonato, e ripartire dal ciò che abbiamo vissuto ed esperimentato, di là dal bene e dal male, ritrovando in noi il senso della misura, e dunque tornando ad essere noi stessi misura di tutte le cose. Non è per vetero-conservatorismo o inutile nostalgia del tempo che fu che dobbiamo attivare quel processo di Ars Memoriae, che è ricerca e recupero della cultura identitaria individuale e collettiva, ma per costruire dei veri e propri ponti culturali fra popoli che diano spazio ai saperi condivisi del mondo. Ma per fare ciò bisogna sapere agire contro il tempo presente, in favore di un tempo venturo, quello della “Utopia”, quello de “Il coraggio dei miti” (Carlo Levi docet), con la coscienza di chi ci crede, e che continua a cercare nei suoi simili la stessa antica speranza che le cose possano cambiare davvero. A questo proposito amo sempre ricordare la famosa parafrasi con cui il poeta britannico J. Keats si rivolgeva al fratello George, in una lettera del 1819, cercando di spiegare quale sia la cifra dell’arcano, del sacro che i greci vollero sintetizzare nella formula “Anthropos mikros kosmos”, e che qui riporto integralmente, chiudendo con essa la mia breve riflessione sul tema dell’acqua, bene sacro perchè alla base della sopravvivenza nostra e del pianeta, e che di per se stesso è bene comune. “Consider the world a vale of soul making, than you will know how to use the world”. (J. Keats, 1819)