Sindacato

 

La storia del sindacato etnico.

 

 

di Francesco Casula

 

 

Domani 11 Maggio la Confederazione sindacale sarda nel salone del teatro Nanni Loy presso la Casa dello studente, celebra il suo sesto Congresso nazionale e ha ormai 23 anni di vita.

 

La CSS nasce infatti con l’Assemblea costituente del 19-20 Gennaio del 1985, per iniziativa di Eliseo Spiga –che terrà la relazione introduttiva e sarà il primo segretario generale- e di  un gruppo numeroso di lavoratori dell’area sardista. Tra i suoi obiettivi primari Spiga individuava “sa tutoria de is deretus e de is interessus de is traballodoris sardus impreaus e non; s’affirmadura de is derettus nazionalis de is sardus po s’espressadura prena de is valoris linguisticus e culturalis de su connotu nazionali sardu”.

 

Un sindacato dunque etnico –il primo nella storia della Sardegna-  finalizzato a difendere i Sardi in quanto lavoratori –e dunque dal punto di vista economico e sociale- ma anche culturale e linguistico. Tanto che il secondo articolo dello Statuto recita testualmente: “Sa lingua officiali de sa Confederazioni sarda est su sardu aici comenti est fueddau de totu is Sardus. Sa CSS apretat po custu s’umperu de parti de totu is iscritus de sa lingua sarda po sa acanzada prus lestra de s’indipendenzia prena, linguistica e culturali de is sardus”.

 

A svolgere la relazione introduttiva al Congresso davanti a 150 delegati sarà il segretario nazionale Giacomo Meloni. Sono tre le emergenze individuate per la Sardegna: Traballu, Ambienti, Sviluppu. Il lavoro prima di tutto, anche perchè “Su traballu fait s’omine: esso infatti dalla CSS è inteso non solo come fonte di sostentamento per sé e per la famiglia, ma come fattore di crescita umana e civile.

 

Poi s’ambienti: visto come occasione di occupazione e prosperità. Pensiamo –scrive Meloni- all’enorme occasione che, dopo la dismissione di alcune servitù militari e demaniali, ha la città di Cagliari e Quartu per il compendio di Molentargius e le Saline. La stessa occasione straordinaria viene offerta a La Maddalena, dopo lo smantellamento della base.

 

La terza emergenza è su sviluppu. Ma –precisa la CSS-  non esiste sviluppo se non è identitario. Di qui la proposta di affrontare con mezzi straordinari ed eccezionali in termini di risorse e strumentazione il problema della modernizzazione e del rilancio dell’Agricoltura come industria che preveda la lavorazione-conservazione-trasformazione e commercializzazione dei prodotti.

 

 

 

(Pubblicato su Il Sardegna del 10-5-08)

 

Lingue

Lingue, un tesoro dell’Umanità

 

 

di Francesco Casula

 

 

Le Nazioni Unite hanno proclamato il 2008 anno internazionale delle Lingue: lo ha annunciato Koichiro Matsuura, direttore generale dell’Unesco nel suo messaggio ufficiale di qualche mese fa. Egli ha inoltre ricordato che le lingue sono una parte essenziale del patrimonio vivente dell’Umanità: ciò nonostante più della metà delle circa 6700 lingue parlate nel mondo sono minacciate di estinzione e si stima che il 96% di queste sono parlate solo dal 4% della popolazione mondiale.

 

“Con la minaccia che incombe sulla sopravvivenza di queste lingue, -ha scritto- ci sono un’infinità di immagini, di percezioni e di significati veicolati dalle parole che rischiano di sparire per sempre a detrimento della diversità linguistica e dell’equilibrio delle loro comunità d’origine”.

 

Con la scomparsa di migliaia di lingue in tutto il mondo –e dunque di altrettanti modi di vivere originali, specifici e irrepetibili, di interi codici, culture e civiltà- non  ci sarebbe però solo un impoverimento culturale, artistico e linguistico. Assisteremo a una vera e propria catastrofe antropologica. Che colpirebbe anche noi Sardi.

 

A rischio –secondo l’Atlante dell’Unesco- ci sarebbe infatti anche la Lingua sarda. Esso, individua con nettezza i rischi che corrono molte lingue, tra cui la nostra: quantità crescenti di bambini non le apprendono più, i parlanti più giovani hanno abbondantemente superato i 30 anni, a parlarla costantemente sono rimasti solo i più anziani.

 

Il problema vero che abbiamo dunque davanti, come Sardi, ma non fra 10-20 anni, ma qui ed ora, hic et nunc, è il “che fare”.

 

Un prezioso suggerimento ci viene dal linguista Tullio De Mauro: “poiché le lingue -egli afferma- alla pari di tutti gli organismi viventi deperiscono se non alimentate, occorre usarle. L’unica via è sviluppare il bilinguismo, protegger il diritto a parlare nella propria lingua, investendo nell’alfabetizzazione primaria”

 

Ovvero, per noi, insegnando il Sardo, nelle scuole prima di tutto. E io preciserei: in tutte le scuole, di ogni ordine e grado, non solo quindi nelle primarie.

 

Abbiamo una Legge regionale (la 26)e una Legge statale (la 482) che giuridicamente parificano il Sardo con l’Italiano; disponiamo di una Riforma della Scuola che prevede la gestione di una quota dei programmi scolastici da parte delle Regioni. Che la nostra legiferi per introdurre nei curricula degli studenti sa Limba.

 

 

(Pubblicato su Il Sardegna del 31-5-08)

 

25 aprile

Dopo le polemiche, aboliamo il 25 Aprile?

 

di Francesco Casula

 

Da più parti, a fronte delle nuove polemiche e divisioni esplose in occasione del 25 Aprile, si è proposto di abolirne la ricorrenza. Il Fascimo è morto –è stato scritto- e, oramai consegnato al passato remoto, serve solo all’antifascismo per vivere di rendita, parassitariamente. Penso il contrario: la festa della Liberazione –spesso ridotta a puro rito rievocativo- deve essere rivitalizzata, per diventare momento e occasione di studio e di discussione sul nostro passato, che non possiamo né rimuovere, né recidere né dimenticare. Dobbiamo anzi disseppellirlo: non per riproporre vecchie divisioni e steccati ormai anacronistici e superati ma per creare concordia e unità: la “pacificazione” insomma. Nella chiarezza però. Per i morti, per tutti i morti non possiamo che nutrire e riversare tutta intera la nostra pietas: ma per favore senza metter sullo stesso piano oppressi e oppressori: partigiani e repubblichini, tanto per intenderci. Ovvero chi si batteva per la libertà e chi invece ce  la voleva togliere. Tener viva la memoria e la verità significa ricordare a chi lo dimentica e a chi non l’ha mai saputo che la Repubblica sociale italiana fu uno stato fondato sulla tortura, sulla persecuzione razziale e politica, sulla distruzione fisica degli avversari, sulla delazione: né sessantatre né cento anni bastano a cancellare tutto questo.  Soprattutto però disseppelliamo e valorizziamo il carattere plurale dell’antifascismo: cui parteciparono certo Comunisti e Socialisti ma anche i cattolici, i liberali di Gobetti, l’intellettuale lucido e brillante, morto a Parigi per i postumi di un’aggressione fascista a colpi di bastone; gli azionisti dei  fratelli Nello e Carlo Rosselli, gli eroi della libertà, ugualmente massacrati da sicari di Mussolini in Francia il 9 Giugno 1937. Ma in modo particolare disseppelliamo e studiamo gli eroi sardi della libertà e dell’antifascismo: da Gramsci a Lussu, da Bellieni a Puggioni, a Efisio Melis, il primo martire sardista antifascista ferito a morte da un fascista a cavallo, che gli conficca nel petto la lancia del gagliardetto, davanti al quale il giovane di Monserrato si era rifiutato di togliersi il capello. O questa storia dobbiamo dimenticarla, magari per giustificare e avallare una politica incanaglita in un antifascismo senza contenuti, unanimistico e appiattito sul terreno patriottardo e sul canto di “Fratelli d’Italia”? (Pubblicato su Il Sardegna del 24-5-08)

Centrali

Le centrali nucleari? No, grazie!

 

 

d

i Francesco Casula

 

 

 

 

L’8 Novembre 1987 l’Italia decise di uscire dal nucleare con un Referendum  in cui circa l’80% degli elettori votando Sì a tre quesiti affossarono quell’opzione. Furono smantellate le 4 centrali allora attive e si interruppero i lavori per la costruzione di quella di Montaldo di Castro. Oggi il Governo ripropone l’utilizzo del nucleare per scopi civili e annuncia che entro il 2013 si apriranno i primi cantieri. Bene. Ma a parte che si tratta di una promessa assai difficile da mantenere, perchè per realizzare una centrale operativa, sempre che si abbia un sito dove collocarla in sicurezza, occorrono minimo 8-10 anni, non sarebbe il caso, prima di imbarcarsi in quest’avventura, di riflettere su alcuni dati, ad iniziare dai costi? Eccoli: negli Usa hanno calcolato che una nuova centrale, operante nel 2010, produrrebbe elettricità al costo di oltre 6 cents di dollaro per kilowattora contro i 5 cents del gas, i 5,34 del carbone, i 5,05 dell’eolico, ritenuto da molti costoso e che però come il solare è rinnovabile all’infinito.

 

Vi sono poi i problemi legati alle scorie e ai pericoli: “non sono contrario al nucleare che deve però risolvere i problemi delle scorie, degli incidenti e della sua vulnerabilità agli atti di terrorismo: comunque preferisco utilizzare il solare”, ha affermato  il premio Nobel 1988 per la fisica Jack Steinberger.

 

Rispetto alle scorie, soluzioni concrete, ancora oggi non ne esistono. Ed è un’eredità con un potere radioattivo che non si estinguerà prima di 50 mila anni, nella migliore delle ipotesi. E mentre oggi nel mondo abbiamo 250 mila tonnellate di rifiuti altamente radioattivi, nel 2050 ne avremo un milione. Forse non è un caso che molti paesi produttori hanno già deciso di uscire dalla fissione nucleare (Germania nel 2020 e Svezia); che l’unico paese in Europa occidentale che ha in programma il lancio di un impianto nucleare è la Finlandia; che negli Usa non si realizza più un reattore dal 1979.

 

Certo, il petrolio è sempre più costoso e il protocollo di Kyoto impone di tagliare le emissioni di Co2 e noi paghiamo il 45% in più di bolletta rispetto alla media UE. Ma la soluzione non sta nel nucleare: che oltretutto produce nel pianeta un misero 7% del totale dell’energia, bensì nel risparmio energetico e nelle energie rinnovabili (eolica e solare in primis). Sole e vento di cui, soprattutto la Sardegna, è ricchissima.

 

 

(Pubblicato su Il Sardegna del 7-6-08)

 

Latte

Latte, pastoralismo e intellettuali.

di Francesco Casula

Il conflitto fra pastori sardi e proprietari dei caseifici è una costante nella nostra storia: fin dalla fine ‘800 e inizio ‘900 quando calano nell’Isola commercianti continentali –soprattutto romani- che organizzano le prime lavorazioni in loco di formaggi pecorini, specie di “tipo romano”. Molti di loro si affermano come “feudatari del latte”: il severo giudizio è dell’architetto algherese, Antonio Simon Mossa, teorico del moderno indipendentismo sardo. Spesso essi infatti si comportano da veri e propri strozzini, imponendo solo loro e al ribasso il prezzo del latte, tanto che uno degli obiettivi, del neonato Partito sardo d’azione sarà proprio la battaglia contro sos meres continentales de su latte e la creazione di cooperative di pastori per gestire loro, in prima persona, il prodotto del proprio lavoro. Questo cento anni fa. Ma oggi la situazione non è cambiata molto: i pastori attraverso il COPAS (Coordinamento pastori sardi) hanno denunciato all’antitrust gli industriali di fare cartello per tenere basso il prezzo del latte. La risposta di questo è stata ambigua: da una parte ha censurato gli industriali caseari, di fatto rimproverando loro di aver violato le norme che disciplinano il libero mercato; dall’altra non ha preso alcun provvedimento. Di qui la ripresa della mobilitazione degli allevatori: al centro vi è come negli anni passati il prezzo del latte che, se pure spuntasse nel prossimo anno 80 centesimi di euro, non riuscirebbe ormai a coprire neppure i costi di produzione, tali e tanti sono stati negli ultimi anni e nel 2008 in particolare, gli aumenti dei mangimi, dei concimi, del carburante etc. Le produzioni pastorali costituiscono ancora oggi il nucleo fondamentale del nostro prodotto interno lordo: di qui la necessità della difesa intransigente di questo comparto. Ma il discorso non può essere solo economico. Troppi intellettuali sardi –ricorda Bachisio Bandinu- si sono scagliati contro questo mondo, considerato un relitto del passato, da eliminare in nome del progresso. Dimenticando che esso ha dato vita all’intellettualità sarda: a Lussu, Mereu, Montanaru, alla poesia orale degli improvvisatori, a Deledda, Cambosu, Sebastiano, Salvatore e Antonello Satta, a Pira e Pigliaru, a Nivola, Ballero e Ciusa. In senso antropologico –sostiene Bandinu-vengono tutti dal mondo pastorale: se escludiamo questa gente, vediamo cosa resta. (Pubblicato su Il Sardegna del 14-6-08)

Aumentano i prezzi

Aumentano i prezzi e la fame.

di Francesco Casula  

Robert Zoellick, Presidente della Banca Mondiale, in una recente conferenza stampa ci ha detto che a livello globale, il grano nell’ultimo anno è aumentato del 120%. La FAO stima che i prezzi dei cereali,  sempre nell’ultimo anno, sono raddoppiati, quelli del mais sono saliti di un terzo ed aumenti consistenti si registrano anche per la soia.

 

In Sudan il grano è aumentato del 90%, in Armenia del 30%, in Senegal è raddoppiato; in Uganda il mais costa il 65% in più, in Nigeria il miglio costa il 50% in più. Nelle stesse Filippine il prezzo del riso, alimento principale, è cresciuto dell’80% dal gennaio 2007. In Etiopia ed in Madagascar i governi sono dovuti intervenire con la polizia per evitare assalti al cibo.

 

In Egitto 12 mila persone sono state arrestate perché vendevano farina al mercato nero. Ovunque -dall’Africa al Pakistan, dalla Thailandia al Messico- i cereali, nuovo oro dei campi, vengono protetti  da guardie in armi. In Occidente ci siamo occupati solo quasi esclusivamente degli alti prezzi petroliferi, allarmati dal rincaro del pieno di benzina. Certo anche da noi continuavano ad aumentare pane e pasta, ma il cibo nei paesi occidentali incide solo per il 15-18 % sul bilancio di una famiglia europea (10-14 % per quelle USA). Ora, all’improvviso, scopriamo che il raddoppio dei prezzi di grano, mais, riso e soia sta sconvolgendo il mondo. Ora una grande parte del mondo ha fame: più fame che nel passato.

 

“Ma come? Avevano sostenuto che il mercato libero avrebbe aumentato la concorrenza e fatto calare i prezzi; gli OGM –i prodotti transgenici- avrebbero salvato il mondo dalla fame; l’occidente teconologico avrebbe contribuito a risolvere i problemi della malnutrizione e della mortalità infantile; la globalizzazione avrebbe portato enormi benefici ai paesi più poveri…invece dopo la “mucca pazza”, ormai tutto sembra impazzire: petrolio e oro, grano e pane, riso e fagioli…oltre a mozzarella, vino, olio, acqua e aria inquinate”.

 

A sostenere ciò non è un no-global arrabbiato o un pericoloso sovversivo –alla Toni Negri, per intenderci-  ma un prete, il saveriano Padre Marcello Storgato nel numero di Maggio del mensile “Missionari Saveriani” di cui è anche Direttore.

 

E dire che –conclude il sacerdote- i business delle guerre e delle armi, delle droghe e del lusso, dei mercati e delle speculazioni sono sempre floridi, anche in tempo di carestia.

 

 

(Pubblicato su Il Sardegna del 21-6-08)

Soldati in Sardegna

Soldati in Sardegna ieri e oggi.

di Francesco Casula

La prassi del ricorso ai militari per la gestione dell’ordine pubblico è una costante nella storia italiana. Il caso più clamoroso fu quello che si verificò fra il 1861-65 quando lo Stato impiegò oltre 100.000 militari contro il “brigantaggio” meridionale. Furono messi fuori combattimento circa 14.000 briganti, -o semplicemente sospettati come tali- dei quali alcune migliaia uccisi o fucilati e gli altri imprigionati. Morirono allora più persone che in tutte le guerre risorgimentali. E poco interessava ai governanti se si trattava “di infelici contadini che morivan di fame” come ebbe a sostenere allora Garibaldi.
Ma, ancor più dell’Italia, è la Sardegna ad aver sperimentato la “militarizzazione”: anche prima dell’Unità. Nel 1849 il generale Albero La Marmora –proprio l’autore del monumentale Voyage en Sardaigne- per “pacificare” l’Isola, scossa da continui tumulti per le gravissime condizioni economiche, ricorse alla repressione più brutale.Qualche anno dopo fu inviato il generale Durando e 500 soldati e fu imposto lo stato d’assedio in tutta la provincia di Sassari per “domare” le agitazioni popolari.
Circa un secolo dopo la storia sembra ripetersi: il 3-6 Gennaio 1967 vengono mandati in Sardegna 600 agenti di PS del reparto celere di Padova e 300 carabinieri. Per combattere il banditismo, naturalmente. A Maggio, prima Orgosolo e poi Orune verranno circondati e perquisiti, casa per casa. Un giornalista di grido, Augusto Guerriero (noto come Ricciardetto) sul settimanale “Panorama” invocò l’utilizzo “dei gas asfissianti o per lo meno paralizzanti per sterminare i banditi”. Erano i tempi di Mesina.
Ma veniamo all’oggi. Il Governo ha deciso di inviare i militari nelle strade, pur avendo l’Italia il numero più alto di forze dell’ordine in Europa. Si tratta per la verità di una “militarizzazione” morbida ed esigua: 3.000 soldati, uno 0.8% in più che si aggiunge ai ben 324.339 uomini che operano per difendere “l’ordine pubblico”. Verosimilmente l’impatto sarà vicino allo zero. Ma, si dice, quello che conta non è l’effetto concreto bensì quello che produce nell’immaginario collettivo: un maggior senso di sicurezza. Forse è vero: è una questione di immagine. Una campagna tutta giocata non sulla sicurezza, ma sulla percezione della sicurezza. Anche a costo della militarizzazione del territorio, che pensavamo roba da paesi sud americani e dittatoriali.

(Pubblicato su Il Sardegna del 28-6-08)

Festival

Festival di Gavoi senza Sardegna.

 

 

di Francesco Casula

 

 

Inaugurata Giovedì scorso dal concerto di Enrico Giaretta, è iniziata ieri la Kermesse letteraria di Gavoi che si concluderà domani. Partecipano vere e proprie star letterarie mondiali: dall’anglo-americana Zadie Smith all’israeliano Uri Orlev all’irlandese Nick Laird. C’è da scommettere che anche quest’anno avrà un largo successo di pubblico.

 

Tutto bene allora? Non proprio. Ad iniziare dal titolo della kermesse: Festival letterario della Sardegna. L’Isola infatti nel Festival è assente. Se non fosse per la lettura  di qualche frammento di “La vendetta barbaricina” del Pigliaru da parte di vari artisti o, verosimilmente, per il consumo di pecorino sardo, culurzones e sebadas, nessuno direbbe che si tratti di un Festival sardo.

 

Manca del tutto –come del resto nei 4 festival precedenti- la Letteratura in lingua sarda. E si tratta di un’essenza ingiustificabile, soprattutto a fronte del rifiorire non solo della poesia ma della produzione di decine e decine di romanzi e opere narrative in genere in limba.

 

Eppure Marcello Fois e gli altri organizzatori dovrebbero sapere che l’idea di una letteratura italiana che comprenda esclusivamente le opere scritte in italiano può considerarsi ormai tramontata. Il concetto stesso di letteratura italiana si è dilatato sino a comprendere l’insieme delle opere scritte in tutto il territorio dello Stato italiano, indipendentemente dalla lingua utilizzata. Pertanto la letteratura regionale, un tempo considerate minori, sono diventate le diverse componenti di un quadro nazionale più vasto. Ciò che sostanzialmente deve essere riconsiderato è il rapporto fra il “centro” e le  “periferie”, dal momento che – come scrive Carlo Dionisetti, il principale teorico di questi studi, soprattutto in “Geografia e storia della letteratura italiana”- “la storia della marginalità reca un contributo essenziale alla storia totale in costruzione, perché si manda lo storico, senza tregua, dal centro alla periferia e dalla periferia al centro”. In tal modo, finalmente i fenomeni letterari possono essere considerati per il loro valore artistico, estetico, storico e culturale e non in base a un sistema linguistico.

 

Oltretutto la furia italocentrica e cosmopolita gioca brutti scherzi: le star letterarie straniere vanno bene, ma escludere gli scrittori sardi -e segnatamente quelli in limba- è segno di provincialismo non di apertura al mondo.

 

 

(Pubblicato su Il Sardegna del 5-7–08)