Serramanna, 15-11-2013: Lectio magistralis di Francesco Casula in occasione della inaugurazione dell’Anno accademico 2013-2014 dell’Università della Terza Età.

 

 FUNZIONE DELLA LINGUA E DELLA LETTERATURA SARDA NELLA SCUOLA E NELLA SOCIETA’ DI OGGI

 di Francesco Casula

PREMESSA. L’enorme buco nero della Scuola italiana in Sardegna

La scuola italiana in Sardegna è rivolta a un alunno che non c’è: tutt’al più a uno studente metropolitano, nordista e maschio. Non a un sardo. È una scuola che con i contesti sociali,ambientali, culturali e linguistici degli studenti non ha niente a che fare. Nella scuola la Sardegna non c’è: è assente nei programmi, nelle discipline, nei libri di testo. Si studia Orazio Coclite, Muzio Scevola e Servio Tullio: fantasie con cui Tito Livio intende esaltare e mitizzare Roma. Non si studia invece – perché lo storico romano non poteva scriverlo – che i Romani fondevano i bronzetti nuragici per modellare pugnali e corazze; per chiodare giunti metallici nelle volte dei templi; per corazzare i rostri delle navi da guerra.Nella scuola si studia qualche decina di piramidi d’Egitto, vere e proprie tombe di cadaveri di faraoni divinizzati, erette da centinaia di migliaia di schiavi, sotto la frusta delle guardie; ma non si studiano le migliaia di nuraghi, suggestivi monumenti alla libertà, eretti da migliaia di comunità nuragiche Indipendenti e federate fra loro. Si studia Napoleone, «piccolo e magro, resistentissimo alla fatica!», ma non si spende una sola parola per ricordare che il tiranno corso, venuto in Sardegna, bombardò La Maddalena e, sconfitto da Domenico Millelire, con la coda fra le gambe dovette ritirarsi e abbandonare «l’impresa».

 

Si studia insomma l’Italia «dalle amate sponde» e «dell’elmo di Scipio», ma la Sardegna, con le sue vicissitudini storiche, le dominazioni, la sua civiltà e i suoi tesori ambientali, culturali e artistici è del tutto assente: un diplomato sardo e spesso persino un laureato, esce dalla scuola senza sapere nulla dell’architettura nuragica, della Carta de Logu, di Salvatore Satta e della Lingua sarda. Quest’ultima pare addirittura cancellata.

 

A fronte di ciò credo non più dilazionabile una battaglia – in tutte le sedi, comprese quelle istituzionali, ad iniziare dalla Regione – per l’inserimento organico nei programmi e dunque nei curricula scolastici (almeno per la quota del 15%) lo studio della Lingua sarda e con essa della cultura, della letteratura, della storia, della civiltà dei Sardi. A tal fine occorre una precisa legge ad hoc che preveda espressamente l’istituzione nelle scuole isolane di ogni ordine e grado delle cattedre di Cultura, Lingua, Storia e Letteratura sarda. Ne ha la potestà e il diritto: ma anche il dovere. 

 

1. Le basi storico-culturali della richiesta e della proposta del Bilinguismo perfetto e della istituzione delle cattedre di Cultura, Lingua, Storia e Letteratura sarda

a) La ‘censura’ e la ‘proibizione’ della storia e della lingua sarda nel passato

 

Nel 1720, quando i Savoia prendono possesso della Sardegna, la situazione linguistica isolana è caratterizzata da un bilinguismo imperfetto: la lingua ufficiale – della cultura, del Governo, dell’insegnamento nella scuola religiosa riservata ai ceti privilegiati – è il castigliano, mentre la lingua del popolo, in comunicazione subalterna con quella ufficiale, è il Sardo.

 

Ai Piemontesi questa situazione appare inaccettabile e da modificare quanto prima, nonostante il Patto di cessione dell’Isola del 1718 imponga il rispetto delle leggi e delle  consuetudini del vecchio Regnum Sardiniae. Per i Piemontesi occorre rendere ufficiale la Lingua italiana. Come prima cosa pensano alla Scuola per poi passare agli atti pubblici. Ma evidentemente le loro  preoccupazioni non sono di tipo glottologico. Attraverso l’imposizione della Lingua italiana vogliono sradicare la Spagna dall’Isola, rafforzare il proprio dominio, combattere il «Partito spagnolo» sempre forte nell’aristocrazia ma non solo. Pensano allora di elaborare il «Progetto di introdurre la Lingua italiana nella scuola», affidandone lo studio e la gestione ai Gesuiti. Nella prima fase il progetto coinvolgerà comunque pochi giovani, appartenenti ai ceti  privilegiati. Il problema diventa molto più ampio ai primi dell’Ottocento, quando il Governo inizia a interessarsi dell’Istruzione del popolo. I bambini «poverelli» ricevono gratuitamente due libri in lingua italiana: Il Catechismo del Bellarmino e il Catechismo agrario, «giacchè l’agricoltura è precipuo sostegno di ogni stato e in particolare della Sardegna».

 

Ciò nonostante il popolo continuerà a parlare diffusamente, come sotto la dominazione spagnola, la lingua sarda, affermando con essa la sua Identità, la sua cultura, la sua concezione del mondo.

 

Per quanto attiene all’insegnamento della storia la situazione è analoga: a Pietro Martini – uno dei padri della storiografia sarda, e siamo in pieno Ottocento! –, intenzionato a introdurre fra gli studenti dell’Isola l’insegnamento della Storia sarda, capitò di sentirsi rispondere seccamente dalle autorità governative piemontesi che «nelle scuole dello Stato debbasi insegnare la storia antica e moderna, non di una provincia ma di tutta la nazione e specialmente d’Italia».

 

Tale concezione, da ricondurre a un progetto di omogeneizzazione culturale – che per l’Isola significherà dessardizzazione –, la ritroviamo pari pari nelle Leggi sull’istruzione elementare obbligatoria nell’Italia pre e post unitaria: del Ministro Gabrio Casati (1859), Cesare Correnti (1867) e Michele Coppino (1877).

 

I programmi scolastici, impostati secondo una logica rigidamente nazional-statale, o statalista che dir si voglia, e italocentrica, sono finalizzati a creare una coscienza «unitaria», uno spirito «nazionale», capace di superare i limiti – così si pensava – di una realtà politico sociale  estremamente composita sul piano storico, linguistico e culturale.

 

Questo paradigma fu enfatizzato nel periodo fascista, con l’operazione della«nazionalizzazione-italianizzazione» dell’intera storia italiana. A onor del vero, proprio nell’incipiente periodo fascista non mancò chi, come Giuseppe Lombardo Radice, estensore dei Programmi della Scuola elementare, sostenne la necessità di valorizzare il locale e il dialetto e di partire proprio dalla lingua viva per facilitare l’apprendimento e lo sviluppo intellettuale degli scolari (G. L. Radice, Lezioni di didattica).

 

Sempre nello stesso periodo, fu lo stesso Gentile a voler introdurre la Lingua sarda nelle scuole isolane, con altre lingue minori in altre Regioni italiane: subito dopo, però, estromesse dal regime perché avrebbe messo in pericolo «l’Italianità» della Sardegna!

 

L’idiosincrasia – uso volutamente un termine eufemistico – nei confronti di tutto ciò che è  sardo, e in modo particolare de Sa Limba, continuerà comunque anche nel dopoguerra. Nel 1955, nei programmi elementari elaborati dalla Commissione Medici si introduce l’esplicito divieto per i maestri di rivolgersi agli scolari in dialetto. E in tempi a noi più vicini, con una nota riservata del Ministero – regnante Malfatti – del 13.02.1976, si sollecitano Presidi e  direttori Didattici a «controllare eventuali attività didattiche-culturali riguardanti l’introduzione della Lingua sarda nelle scuole». Una precedente nota riservata dello stesso anno del 23.01 della Presidenza del Consiglio dei Ministri aveva addirittura invitato i capi d’Istituto a «schedare» gli insegnanti.

 

E non si tratta di pregiudizi presenti solo negli apparati statali e ministeriali romani: il segretario provinciale sardo di un Partito politico, allora ferocemente centralistico, sia pure di un «centralismo democratico», nel 1978 invitava, con una circolare spedita a tutte le sezioni, di non aderire, anzi di boicottare la raccolta di firme per la Proposta di legge di iniziativa popolare sul Bilinguismo perché «separatista» e attentatrice all’Unità della Nazione! Oggi finalmente qualcosa inizia a muoversi: ad iniziare dalla concezione della storia locale. Dopo interi secoli di riserve e, spesso, di vera e propria insofferenza nei confronti della storia locale anche in Italia – sia pure in ritardo abissale rispetto ad altri paesi europei, come la Francia, per esempio –, si sta superando il paradigma storiografico secondo il quale solo la «storia generale» è degna di essere studiata.

 

Soprattutto in seguito alle significative posizioni di storici come Marc Bloch e Lucien le Febvre, con la creazione nel 1929 degli Annales, e con il pensiero di Fernand Braudel, la storiografia più avveduta supera e rifiuta la storia come grande evento politico-militare, rivalutando la storia locale che si pone anzi come ‘laboratorio’ della nuova concezione storiografica secondo la quale non vi è una gerarchia di rilevanza fra storia locale e storia generale.

 

Così oggi la storia locale ha acquisito un ruolo importante e stabile e «la storiografia – è lo storico Franco Catalano a sostenerlo – si è liberata dalle innaturali concezioni che celebrano la grande storia», per cui la nuova storia, oltre che abbattere le vecchie recinzioni storiografiche, per una storia aperta e senza barriere disciplinari, è capace di valorizzare la vita degli uomini nel tempo e nello spazio, indagando a tutto campo: dalla cantina al solaio. Ma non di questo solo si tratta: l’impostazione pedagogica, didattica e culturale tutta giocata sulla proibizione, cancellazione e potatura della Storia locale – ma lo stesso discorso vale per la cultura e la lingua sarda – ha prodotto effetti devastanti negli studenti, e nei giovani in genere in modo particolare.  

 

b) Gli effetti della proibizione della cultura locale

 

La smemorizzazione. Provate a chiedere a uno studente sardo che esca da un Liceo artistico, cosa conosce di una civiltà e di un’architettura grandiosa come quella nuragica, sicuramente fra la più significative dell’intero Mediterraneo; provate a chiedere a uno studente del Liceo

classico cosa sa della parentela fra la lingua sarda e il latino; provate a chiedere a uno studente di un Istituto tecnico per Ragionieri e persino a un laureato in Giurisprudenza cosa conosce di quel monumentale codice giuridico che è la Carta de Logu di Eleonora d’Arborea. Vi  endereste conto che la storia, la lingua, la civiltà complessiva dei Sardi dalla Scuola ufficiale è stata non solo negata ma cancellata, interrata.

 

Lo sradicamento e la perdita dell’Identità. Una scuola monoculturale e monolinguistica, negatrice delle specificità, tutta tesa allo sradicamento degli antichi codici culturali e basata sulla sovrapposizione al «periferico» di astratti paradigmi e categorie che le «grandi civiltà»

avrebbero voluto irradiare verso le «civiltà inferiori», ha prodotto in Sardegna, soprattutto negli ultimi decenni, giovani che ormai appartengono a una sorta di area grigia, a una terra di nessuno. E Nicola Tanda (storico della Letteratura e per decenni docente di Letteratura e Filologia presso l’Università di Sassari) aggiunge: «Ora l’Italiano, la lingua letteraria o standard, grazie ai media, e soprattutto alla televisione, bene o male viene parlata e scritta da italiani e non italiani. Con quali conseguenze? Che una lingua stereotipata e male appresa non sempre riesce a comunicare le emozioni del vissuto. È diventata insomma una lingua di plastica, inodore, insapore e incolore».  

 

L’omologazione e la standardizzazione. I giovani soprattutto, sono oggi appiattiti e omologati nell’alimentazione come nell’abbigliamento, nei gusti come nei consumi, nei miti come nei modelli in cui quelli di Cagliari non sono molto diversi da quelli di Detroit. Una delle cause fondamentali è sicuramente la mancanza di memoria storica. Mi piace a questo proposito citare quanto sostiene Umberto Eco nel suo monumentale romanzo L’Isola del giorno prima: «Io  sono memoria di tutti i miei momenti passati, la somma di tutto ciò che ricordo». O l’afgano Khaled Hosseini, che nel suo primo romanzo di grande successo Il cacciatore di aquiloni, scrive «Non è vero come dicono molti che si può seppellire il passato. Il passato si aggrappa con i suoi artigli al presente». A significare cioè che l’individuo esiste e ha una sua identità in quanto possiede la memoria storica. Recisa ed estinta questa, sia come singoli che come comunità, saremmo semplicemente omologati, soggetti e comunità indifferenziate, senza la ricchezza delle specificità culturali e storiche.

 

La frattura fra città e campagna. I Programmi ministeriali, complessivamente, almeno fino ad oggi – come dicevo nella premessa –, sono stati costruiti su un allievo che non c’è. Un allievo astratto, maschio, tutt’al più nordista e, soprattutto, metropolitano. Anche in Sardegna

la scuola è tutta sbilanciata a favore della città contro la campagna e i paesi. Essa ha insegnato e ancora insegna che il paese è «un mondo chiuso» e che crescendo occorre «uscire  definitivamente dall’orizzonte mentale del paese d’origine, per entrare nel mondo aperto della città, e che occorre ancora un lungo processo di civilizzazione perché nessuno si sente più cittadino di Ollolai» (la frase virgolettata è tratta dall’articolo di un docente di Filosofia teoretica dell’Università di Cagliari, poi divenuto Preside della Facoltà di Lettere e ora docente a Roma, ed era rivolta polemicamente proprio al sottoscritto). Oggi, fortunatamente, qualcosa sul versante della cultura identitaria e della differenza inizia a cambiare: nella società come nella scuola. 

 

2. Fiducia illimitata nel progresso, globalizzazione e primi segni di crisi e messa in discussione

Solo fino a qualche decennio fa sembrava vittoriosa su tutti i fronti l’ideologia, vacuamente ottimistica e credente nelle «magnifiche sorti e progressive», tutta basata su una crescita e uno sviluppo materiale illimitato, che avrebbe dovuto eliminare le nazionalità minori e marginali, le diversità e specificità linguistiche e culturali, bollate sic et simpliciter, come primordiali e arcaiche, quando non veri e propri cascami e residui del passato. Sull’altare di tale sviluppo e progresso, scandito dalla semplice accumulazione di beni materiali e fondato sulla onnipotenza tecnologica, si è devastato l’ambiente, compromettendo forse in modo irreversibile gli equilibri dell’ecosistema e nel contempo sono state sacrificate e distrutte risorse artistiche, lingue, codici, culture, soggetti, intere etnie. Si è trattato e si tratta – perché il perverso processo, sia pure oggi messo, almeno parzialmente in discussione, continua – di una vera e propria catastrofe antropologica, se solo pensiamo a quanto ci rende noto il Centro studi di Milano «Luigi Negro», secondo il quale ogni anno scompaiono nel mondo dieci minoranze etniche e con esse altrettanti lingue, culture e civiltà, modi di vivere originali, specifici e irrepetibili. Con questo ritmo, persino i più ottimisti fra i linguisti – ricordo per tutti Claude Hagègè – prevedono che tra appena cento anni la metà delle settemila lingue ancora parlate nel pianeta oggi, scomparirà. Il pretesto e l’alibi di tale genocidio è stato che occorreva superare, trascendere e travolgere le arretratezze del mondo «barbarico» – per noi Sardi, «barbaricino» –, le sue superstizioni, le sue «aberranti» credenze, i suoi vecchi e obsoleti modelli socio-economicoculturali, espressione di una civiltà preindustriale e rurale ormai superata. I motivi veri sono invece da ricondurre alla tendenza del capitalismo e degli Stati – e dunque delle etnie dominanti – a omologare e assimilare, in nome di una falsa «unità», della globalizzazione dei mercati, della razionalità tecnocratica e modernizzante, dell’universalità cosmopolita e scientista, le etnie minori e marginali, e con esse le loro differenze e specificità, in quanto altre, scomode e renitenti. Quella «unità» di cui parla il compianto Eliseo Spiga nel suo recente suggestivo e potente romanzo, Capezzoli di pietra: «Ormai il mondo era uno. Il mondo degli incubi di Caligola. Un’idea. Una legge. Una lingua. Un’eresia abrasa. Un’umanità indistinta. Una coscienza frollata. Un nuragico bruciato. Un barba ricino atrofizzato. Un’atmosfera lattea. Una natura atterrita. Un paesaggio spianato. Una luce fredda. Città villaggi campagne altipiani nazioni livellati ai miti e agli umori di cosmopolis». Che vorrebbe – aggiungo io – un mondo uniforme, una sfera rigida e astratta nell’empireo e non invece tanti mondi, ciascuno col proprio movimento e con un suo essere particolare e inconfondibile. 

 

3. Primi segni di cambiamento anche nella scuola

Oggi, dicevo, fortunatamente, sia pure con difficoltà e lentamente, inizia ad affermarsi la convinzione e la consapevolezza che la standardizzazione, l’omogeneizzazione e l’omologazione, insomma la reductio ad unum, rappresenta una catastrofe e una disfatta, economica e sociale ancor prima che culturale, per gli individui e per i popoli. Di qui la necessità del recupero, della valorizzazione e dell’esaltazione delle diversità e delle differenze, ovvero delle specifiche Identità: certo per aprirci e guardare al futuro e non per rifugiarci nostalgicamente in una civiltà che non c’è più; per intraprendere, come Comunità sarda, una via locale alla prosperità e al benessere e partecipare così, nell’interdipendenza, agli scambi e ai rapporti economici e culturali. Oggi, anche nella scuola, l’operazione è più facile rispetto al passato: i nuovi e recenti programmi della Scuola elementare – e, sia pure ancora in misura insufficiente della scuola media e superiore – raccomandano di portare l’attenzione degli alunni «sull’uomo e la società umana nel tempo e nello spazio, nel passato e nel presente, nella dimensione civile, culturale, economica, sociale, politica e religiosa per creare interesse intorno all’ambiente di vita del bambino, per accrescere in lui il senso di appartenenza alla comunità e alla propria terra». «È compito della scuola elementare – si afferma ancora – stimolare e sviluppare nei fanciulli il passaggio dalla cultura vissuta e assorbita direttamente dall’ambiente di vita, alla cultura come ricostruzione intellettuale».

Ciò significa – per quanto attiene per esempio alla lingua materna – partire da essa per pervenire all’uso della lingua italiana e delle altre lingue, senza drammatiche lacerazioni con la coscienza etnica del contesto culturale vissuto, in un continuo e armonico arricchimento della mente e dell’intelletto, per aprire nuovi e più ampi orizzonti alla formazione e all’istruzione. La pedagogia moderna più attenta e avveduta infatti ritiene che la lingua materna e i valori alti di cui si alimenta sono i succhi vitali, la linfa, che nutrono e fanno crescere i bambini senza correre il gravissimo pericolo di essere collocati fuori dal tempo e dallo spazio contestuale alla loro vita. Solo essa consente di saldare le valenze e i prodotti propri della sua cultura ai valori di altre culture. Negando la lingua materna, non assecondandola e non coltivandola si esercita grave e ingiustificata violenza sui bambini, nuocendo al loro sviluppo e al loro equilibrio psichico. Li si strappa al nucleo familiare di origine e si trasforma in un campo di rovine la loro prima conoscenza del mondo. I bambini infatti – ma il discorso vale anche per i giovani studenti delle medie e delle superiori –, se soggetti in ambito scolastico a un processo di sradicamento dalla lingua materna e dalla cultura del proprio ambiente e territorio, diventano e risultano insicuri, impacciati, poveri culturalmente e linguisticamente. Oggi sono – almeno parzialmente – gli stessi programmi scolastici ministeriali ad indicare nelle esperienze linguistiche e nelle culture locali i fondamenti su cui costruire tutto il processo di apprendimento della stessa lingua italiana ma soprattutto la formazione della personalità dello studente: una profonda conoscenza dell’ambiente come base ineludibile e come condizione necessaria del processo educativo e didattico degli studenti e dei giovani. Certo l’ambiente naturale con i suoi monti fiumi e pianure, con la sua flora e la sua fauna, ma soprattutto l’ambiente come società umana con le sue specificità culturali: storiche e linguistiche in primis.

Da questo punto di vista i moderni studi e le nuove concezioni sulla Letteratura italiana, sulla  storia e sul valore della lingua materna sono di grande aiuto, perché la lingua, la cultura e la  storia sarda entrino finalmente, in modo organico, nella scuola di ogni ordine e grado e nei curricula scolastici.

Ma vi è di più: la cultura della «differenza», la nuova sensibilità per le lingue locali e minoritarie ha avuto un formale riconoscimento giuridico e normativo prima a livello europeo con la Carta Europea per le lingue regionali e minoritarie, poi a livello regionale con la Legge n. 26 del 15 Ottobre 1997 sulla «Promozione e valorizzazione della cultura e della lingua della Sardegna» e infine a livello nazional-statale italiano con la Legge n. 482 del 15 Dicembre 1999 riguardante «Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche» in cui è presente la Lingua sarda.

Lo studio della Cultura e della Lingua sarda nella Scuola, per noi Sardi è dunque oggi favorito dalla nuova normativa comunitaria, statale e regionale. Di qui l’urgenza e la necessità di utilizzare tutti gli spazi, gli strumenti e i finanziamenti che tali normative mettono a disposizione. Per studiare – ripeto – in modo particolare la storia e la lingua sarda ma in generale l’intero universo culturale dell’Isola. A tal fine occorrerà anche pensare anche alla modifica e aggiornamento della stessa Legge 26, che oggi risulta arretrata rispetto alla Legge 482 dello Stato: questa – fra l’altro – prevede che si possa insegnare in Sardo, ovvero la possibilità dell’uso veicolare della Lingua sarda per l’insegnamento curriculare – mentre questa possibilità non è prevista dalla Legge 26 

 

4. Letteratura italiana (scritta in italiano) o Letteratura degli Italiani?

 

L’Idea di una letteratura italiana che comprenda quasi esclusivamente le opere scritte in italiano può considerarsi ormai tramontata: in questi ultimi anni infatti si assiste a un rinnovato interesse per le letterature delle diverse Regioni.

 

Il concetto stesso di letteratura italiana si è dilatato sino a comprendere l’insieme delle opere scritte in tutto il territorio dello Stato italiano, indipendentemente dalla lingua utilizzata. Pertanto la letteratura regionale, un tempo considerate minori, sono diventate le diverse componenti di un quadro nazionale – più correttamente occorrerebbe dire «statale» – più vasto.

 

Ciò che sostanzialmente deve essere riconsiderato è il rapporto fra il «centro» e le «periferie», dal momento che – come scrive Carlo Dionisetti, il principale teorico di questi studi – «la storia della marginalità reca un contributo essenziale alla storia totale in costruzione, perché si manda lo storico, senza tregua, dal centro alla periferia e dalla periferia al centro».

 

Si muove sulla stessa linea il già citato Nicola Tanda, secondo il quale «dopo le risoluzioni del Parlamento europeo, la Carta europea delle lingue regionali e minoritarie non si può più parlare di una letteratura italiana costruita secondo categorie concettuali del secolo scorso. Semmai di letteratura degli italiani. Si impone a questo punto un nuovo canone o statuto che tenga conto della geografia delle letterature prodotte dalle lingue e dai dialetti impiegati nelle varie regioni. Finalmente i fenomeni letterari possono essere considerati per il loro valore artistico, estetico, storico e culturale e non in base a un sistema linguistico o letterario, considerato comune a tutti».

 

Poiché la letteratura è legata saldamente al territorio in cui nasce ed è espressione diretta dei sentimenti e delle necessità dei popoli che tale territorio abitano, non si può scrivere una storia della letteratura senza definirne contestualmente anche una geografia. Spesso sono proprio i caratteri tipicamente regionali a definire la specificità di una determinata produzione letteraria a prescindere dalla lingua utilizzata o dagli stili e generi nei quali si inquadra. Riportare la letteratura a una dimensione territoriale non significa isolarsi né è indice di provincialismo. Aiuta invece a comprendere lo sviluppo dei fenomeni in rapporto alle realtà locali; consente di valutare meglio il contributo dato dalle singole esperienze alla storia della cultura nazionale e internazionale o cultura tout court. E questo può essere fatto senza doversi confrontare in ogni momento con le opere e le idee dei grandi personaggi che, secondo una concezione tipicamente idealistica, avrebbero fatto la storia della letteratura. In quest’ottica, ogni forma di comunicazione scritta, destinata a un pubblico più o meno vasto, acquista rilevanza. La storia della letteratura dunque viene a coincidere con la storia della cultura scritta – in lingua italiana, in lingua sarda o nei dialetti italici, poco importa – nelle sue particolarità locali, in relazione con la storia delle idee e della comunicazione nel resto del mondo. Anche la Sardegna ha maturato una propria identità e si è confrontata con altre culture dalle quali ha tratto idee e forme di espressione, raggiungendo risultati spesso significativi e  altamente validi, che vale perciò la pena di conoscere e approfondire.  

 

5. La Letteratura sarda

 

Esiste e sempre è esistita una letteratura sarda che risulta autonoma, distinta e diversa dalle altre letterature. E dunque non una sezione di quella italiana: magari gerarchicamente inferiore. Nasce anche da qui l’esigenza di un’autonoma trattazione delle vicende letterarie sarde: ad iniziare da quelle scritte in Lingua sarda. Da considerare non dialettali, ma autonome, nazionali sarde, vale a dire. A questa stessa conclusione arriva, del resto, un valente critico letterario (e cinematografico) italiano come Goffredo Fofi, che nell’Introduzione a Bellas Mariposas, di

Sergio Atzeni, scrive: «Sardegna, Sicilia. Vengono spontanei paragoni che indicano la diversità che è poi quella dell’insularità e delle caratteristiche che, almeno fino a ieri, ne sono derivate, di isolamento e di orgoglio. È possibile fare una storia della letteratura siciliana o una storia della letteratura sarda, mentre, per restare in area centro-meridionale non ha senso pensare a una storia della letteratura campana, o pugliese, o calabrese, o marchigiana, o laziale… Il mare divide e costringe: la letteratura siciliana e la letteratura sarda possono essere studiate – nonostante la comunanza della lingua con quella di altre regioni, almeno dopo l’Unità – come “Letterature nazionali”. Con un loro percorso, una loro ragione, loro caratteri e segni». Dalle origini del volgare sardo fino ad oggi, non vi è stato periodo nel quale la lingua sarda non abbia avuto una produzione letteraria. Certo, qualcuno potrebbe obiettare che essa,  rispetto ad altre lingue romanze, ha prodotto pochi frutti: può darsi, ma dato e non concesso – si poteva pensare che un cavallo per troppo tempo tenuto a freno, legato e imbrigliato potesse correre? –, la lingua sarda, certo, deve crescere e sta crescendo: ha soltanto bisogno che le vengano riconosciuti i suoi diritti, che le venga proprio riconosciuto il suo status di lingua, e dunque le opportunità per potersi esprimere, oralmente e per iscritto, come avviene per la lingua italiana.

 

La Lingua sarda, dopo essere stata lingua curiale e cancelleresca nei secoli XI e XII, lingua dei Condaghi e della Carta de Logu, con la perdita dell’indipendenza giudicale viene infatti ridotta al rango di dialetto paesano, frammentata ed emarginata, cui si sovrapporranno prima i linguaggi italiani di Pisa e Genova, poi il catalano e il castigliano e infine di nuovo l’italiano.

 

Ma anche prescindendo dal codice linguistico usato – molti hanno scritto appunto in catalano, in castigliano e in italiano –, pare difficile non ritrovare in tale produzione letteraria una specifica e particolare sensibilità locale, «una appartenenza totale alla cultura sarda, separata e distinta da quella italiana», diversa dunque e «irrimediabilmente altra», come scrive il critico sardo Giuseppe Marci.

 

L’importante è soprattutto – come scrive Antonello Satta – «che gli autori sappiano andare per il mondo con pistoccu in bertula, perché proprio in questo andare per il mondo, mostrano le stimmate dei sardi e, quale che sia lo scenario delle loro opere, vedono la vita alla sarda». Miguel de Unamuno era basco e scriveva in castigliano, ed era anche contrario a una ripresa dell’euskera come lingua letteraria. Eppure Unamuno, se fa parte della letteratura  spagnola fa anche anche parte della letteratura basca e il mondo intero, così presente nella sua opera, è per lui una Bilbao dilatata: «Hermanos somos todos los humanos / el mundo entero es un Bilbao más grande».

 

Anche tra Italia e Sardegna vi sono appartenenze comuni: e dunque negli autori sardi vi sono anche elementi di assimilazione e di integrazione e persino «imitatori» di movimenti e stili oltre Tirreno, e non solo.

 

Pensiamo – per esempio – a due grandi del primo Novecento: Sebastiano Satta e Grazia Deledda. Il primo vanta robuste ascendenze carducciane e pascoliane; la seconda è copiosamente influenzata sia dal Verismo oltreché dai romanzieri russi di fine Ottocento: eppure ambedue sono soprattutto i cantori della sardità e pongono al centro della loro scrittura la Sardegna e i Sardi.

 

Ma anche quando la Sardegna non è protagonista – pensiamo a Un anno sull’altipiano e Marcia su Roma e dintorni – emerge comunque l’identità etno-nazionale sarda. Nel caso di Lussu, è evidente nella sua scrittura che, come ha sostenuto autorevolmente il linguista sardo Leonardo Sole, «si incardina nella cultura orale e in particolare perfino nel ritmo narrativo della fiaba sarda»: fortemente ritmizzata e caratterizzata da un giro di parole essenziale e rapido.

 

Riferendosi in modo particolare al romanzo sardo, Nereide Rudas, uno degli intellettuali sardi più lucidi e colti nel suggestivo e brillante saggio l’Isola dei coralli scrive: «Il romanzo sardo pur collocandosi all’interno dell’universo linguistico e culturale italiano, se ne discosta per molti aspetti. Leggendo le opere di Grazia Deledda, di Salvatore Satta, di Emilio Lussu e, a ben guardare anche di Antonio Gramsci, cogliamo subito una specificità e una diversità. Confrontate con le altre opere letterarie italiane esse ci appaiono in un certo senso omogenee fra loro e nel contempo “irrimediabilmente altre”».  

 

6. Valenze dello studio della storia locale: identitarie, conoscitivo-didattiche ed educative

 

Abbiamo parlato di Storia della Sardegna come storia «locale». In realtà dovremmo parlare di Storia della Sardegna come storia «generale» e «primaria». Scrive a questo proposito il maggior storico medievista della Sardegna, Francesco Cesare Casula «La nostra non è una storia mitologica locale da cantare in piazza a ottavas o da narrare a contus de forredda o da

lasciare all’insipienza della Regione Autonoma della Sardegna perché la valorizzi o, al massimo, da presentare come cultura indigena agli alunni sardi in aggiunta alla storia peninsulare; ma è una storia generale e primaria, senza la quale non si capisce lo sviluppo della storia italiana. Da inserire quindi – di dovere – all’interno del manuale scolastico nazionale adottato sia a Cagliari che a Milano, a Roma come a Napoli e a Palermo, perché, oltretutto, dalle ceneri della splendida civiltà giudicale nacque nel 1324 quel regno di Sardegna che nel 1861 si trasformò di nome in Regno d’Italia e che per questo costituisce la base istituzionale dell’attuale nostra repubblica».  

 

a. Valenze Identitarie. La storia è la radice del nostro essere, della nostra realtà e Identità collettiva e individuale. Nessun individuo, come nessun popolo, può realmente e autenticamente vivere senza la conoscenza e coscienza della sua Identità, della sua biografia, dei vari momenti del suo farsi capace di ricostruire il suo vissuto personale e storico. Un filo ben preciso lega il nostro essere presente al passato: il filo della nostra identità e diversità-specificità, come individui e come comunità etno-nazionale. Se non fossimo diversi non potremmo neppure dialogare, confrontarci, conoscere. Noi conosciamo in quanto siamo diversi: avremmo altrimenti l’hegeliana «notte nera in cui tutte le vacche sono nere». La diversità ci salva dalla omologazione-standardizzazione. Sia ben chiaro: la coscienza di essere diversi non esclude la consapevolezza di essere e di vivere dentro un universo più vasto.   

 

b. Valenze conoscitive e didattiche. Dissolto – soprattutto grazie agli storici francesi degli  Annales – l’eurocentrismo storiografico e, contestualmente liquidato il pregiudizio secondo il quale vi erano nella ricerca storiografica delle gerarchie fra storia generale «più alta e più importante» e storia locale meno prestigiosa, oggi possiamo con buone ragioni sostenere che lo studio della storia locale è indispensabile non solo per la conoscenza della storia specifica della Sardegna ma per capire e interpretare la stessa storia generale: sia come verifica della ricaduta a livello locale di fenomeni generali (pensiamo solo, per esempio, alle conseguenze a livello sardo, delle politiche economiche e fiscali dei governi italiani post-unitari); sia come individuazione degli effetti che scelte e spinte che provengono dal locale, dal basso, inducono e producono nelle scelte di ordine generale.  

 

c. Valenze educative. La conoscenza della nostra storia, delle nostre radici etno- linguistiche ed etno-culturali ci aiutano a superare i conflitti fra le diversità, in quanto la coscienza della nostra storia peculiare deve portarci non all’esaltazione acritica del nostro passato, magari in termini mitologici, né all’etnocentrismo, né alla chiusura verso l’esterno e/o il diverso: bensì al dialogo e alla tolleranza e – perché no? – alla contaminazione e al meticciato, in cui la nostra Identità si plasma e si trasforma, arricchendosi e irrobustendosi con l’innesto di nuove culture.  

 

7. Lo studio della lingua sarda, all’interno dello specifico locale, risulta oggi ancor più importante e urgente

 

Ci si potrà obiettare che si tratta di un’operazione antistorica, a fronte del processo ormai inevitabile della globalizzazione e dell’unificazione, a livello planetario, soprattutto dell’economia e del mercato. Ebbene rispondo che proprio il mercato che con le sue leggi sembra unificare il mondo, in realtà lo divide, soprattutto con le guerre.  La lingua invece, che nella pluralità disseminata delle sue forme, sembra dividere e separare il mondo e le culture, di fatto, attraverso la traduzione apre varchi, mette in rapporto popoli lontani ed estranei. Si traduce perché si vuole rendere familiare lo straniero, rispettando la sua fisionomia, il suo timbro, la sua cultura. Ogni traduzione infatti mette in relazione due lingue, preservando l’identità dell’una e dell’altra. Per questo la babele delle lingue interpretata tante volte come una condanna, non è affatto una maledizione, una caduta al di fuori dell’unica comprensiva lingua: è anzi, specialmente oggi, l’occasione perché quel che è diverso, possa essere conservato nella ricchezza della sua diversità. Nell’epoca della globalizzazione, il rapporto fra le lingue è un banco di prova – e anche una grande metafora – del rapporto fra le culture. Comunicare restando diversi, ascoltare l’altro senza rinunciare alla propria pronuncia, essere radicati in una tradizione senza fare di questo un elemento di separatezza o di esclusione o di sopraffazione: il rapporto fra le lingue – la compresenza attiva di moltissime lingue – dimostra che è possibile tendere alla comprensione salvando la differenza.

 

È triste registrare che nella nostra epoca, come muoiono specie animali e vegetali, così anche molte lingue si estinguono o sono condannate alla sparizione. Per ogni lingua che muore è una cultura, una memoria ad essere abolita. Un universo di suoni e di saperi si dilegua. Preservare allora le specie linguistiche – nonostante le migrazioni, le egemonie mercantili, le colonizzazioni mascherate – dovrebbe essere il primo compito dell’ecologia della cultura e del sapere. L’idea di una lingua unica perduta è solo un sogno: «un frivolo sogno», lo definiva già Leopardi nello Zibaldone. E anche l’idea che sia necessaria una lingua unica che permetta a tutti di intendersi immediatamente non riesce a nascondere il disegno egemonico: disegno che è in particolare di ordine mercantile. Sia l’imposizione di una lingua sulle altre, sia il malriuscito progetto di una lingua convenzionale e artificiale vorrebbero abolire la lontananza togliendo a essa la sua profondità. Vorrebbero togliere alla diversità la sua stessa radice e ridurre così la ricchezza del confronto e dello scambio. Le lingue imposte via via dai colonizzatori hanno sbaragliato e mortificato e distrutto le forme e l’energia inventiva delle lingue locali. Il controllo politico, le ragioni di mercato, i progetti di assimilazione hanno sacrificato tradizioni e culture, suoni e nomi, relazioni profonde tra il sentire e il dire. E tuttavia più volte è accaduto che quelle culture vinte abbiano attraversato le lingue egemoni irrorandole di nuova linfa creativa: è quel che è accaduto meravigliosamente nelle letterature ibero-americane, è quel che accade oggi nelle letterature africane di lingua portoghese, inglese e francese o nella letteratura nordamericana o in quella inglese. Inoltre le migrazioni hanno dappertutto esportato saperi, confrontato stili di vita e di pensiero, contaminato linguaggi e sogni e memorie. Molti poeti e scrittori del Novecento appartengono a una storia di migrazioni tra le lingue: da Canetti a Celan, da Nabokof a Brodskij, da Singer a Rushidie, da Gombrowitz a Naipaul. Tra le diverse forme di scrittura, la poesia – per via del suo rapporto intimo e assoluto con il linguaggio – vive l’intero ventaglio delle questioni qui accennate.  

 

8. Importanza della Lingua materna

 

a. Lingua della poesia. La prima lingua della poesia è la lingua materna, il dantesco «parlar materno». Lingua della poesia e della musica. Tanto che, storicamente, i confini fra poesia e musica e danza, sono sempre stati labili e sfumati a tal punto che gli antichi poeti –gli aedi greci per esempio– non scrivevano poesie ma le cantavano, accompagnandosi con la lira: non a caso nasce il termine “lirica” e “aoidòs” in greco significa “cantore”. Ma “cantano” anche Dante e Petrarca, Ariosto e Tasso e Leopardi. E i “cantadores” sardi, soprattutto gli improvvisatori.  Cantano con quella lingua materna che riassume la fisionomia, il timbro, l’energia inventiva, la cultura, la civiltà peculiare del nostro popolo. Una lingua – il Sardo – che è insieme memoria e universo di saperi e di suoni. Che sottende –talvolta in modo nascosto e subliminale– senso e insieme oltresenso, musica, ritmo e ballo. Segnatamente il ballo tondo: momento magico in cui l’intera comunità, tott’umpare, si pesat a ballare, si muove in cerchio. E con questo esprime una molteplicità di segni,significati, simboli e riti: l’armonia dell’universo, il movimento dell’acqua e del fuoco, il Nuraghe. E con esso tutta la civiltà e la cultura nuragica che evoca e richiama: la democrazia federalista e comunitaria, il rifiuto del capo, del gerarca, del sovrano – la Sardegna è sempre stata acefala- la difesa intransigente dell’autonomia e dell’indipendenza di ogni singola comunità, di ogni singolo villaggio. Una lingua abitata anzitutto dai silenzi che stanno all’ombra delle sillabe e nel cuore stesso delle vocali. Una lingua abitata da una voce: segreta tessitura che resisterà sotto ogni futura pronuncia del poeta, come risonanza di un timbro, di una presenza. Hölderlin, a proposito della formazione del, poeta ricordava questa muta pedagogia materna. La lingua materna è, per il bambino, per l’infante, soprattutto lingua di vocali: dunque aerea, leggera, impalpabile. E le vocali sono per il poeta l’anima della lingua. Sono il nesso tra lingua e il canto. Fra la poesia e i numeri della musica. Tra la poesia e il vento. L’elemento per il poeta è anche la terra. La terra considerata nel suo cerchio di necessità e bellezza: situarsi in questo cerchio, con lo sguardo e la passione di chi vuole conoscere e preservare e non offendere o distruggere, è sempre stato da sempre uno dei compiti della poesia. Nella lingua della poesia coesistono, dunque, la lingua materna – corporale, vocalica, leggera – e la lingua che il poeta ha scelto per la sua scrittura. Questa lingua scelta è sempre in un certo senso straniera, anche quando essa è la lingua del proprio paese: è straniera in quanto altra dalla lingua materna. Per alcuni poeti tuttavia, questa lingua è straniera in senso stretto: l’esilio, la migrazione, il dominio coloniale o mercantile o, qualche volta una scelta personale dislocano il poeta fuori dalla lingua della propria comunità di appartenenza. Ma tutti i lettori di poesia sanno che c’è qualcosa che trascorre sotto la lingua dei versi, al di là della sua pronuncia e delle sue parole linguisticamente definite. C’è qualcosa che trascorre sotto la molteplicità delle lingue. Ed è questa sostanza nascosta sotto la lingua – senso e insieme ultrasenso, musica e ritmo – che permette alla traduzione, quando riesca ad essere una buona traduzione, di sperimentare una sorprendente e miracolosa contraddizione: togliere al poeta quello che ha di più proprio, cioè la sua lingua, e tuttavia riuscire a preservare l’energia e il timbro e la singolarità della sua poesia. Quel che qui si dice della poesia, certo, è in gran parte estensibile ad altre forme del fare letterario come la narrazione o il teatro. Ma nella poesia questo movimento fra le lingue e questa sostanza che sottende ogni lingua appaiono in tutte le implicazioni – estetiche e antropologiche – e in modo trasparente.

 

b. Lingua della Identità. La Lingua rappresenta l’architrave, la più forte ed essenziale componente della Identità di un popolo. Per questo la Lingua sarda deve essere non solo recuperata e valorizzata e dunque studiata e conosciuta ma ufficializzata, vale a dire parificata all’Italiano, la lingua ufficiale dello Stato, e dunque utilizzata anche in tutte le occasioni ufficiali, insegnata nelle scuole di ogni ordine e grado e adoperata come lingua veicolare per trasmettere e comunicare qualunque contenuto e messaggio, ovvero l’intero universo culturale. Si può e si deve discutere sui tempi e sui modi, ma questo è l’obiettivo che occorre porsi se davvero vogliamo un bilinguismo che non sia zoppo o mutilato.  

 

9. Il Bilinguismo perfetto

 

Ci si obietterà che la realizzazione del bilinguismo perfetto, specie in ordine all’insegnamento delle scuole, sarà estremamente difficoltosa se non altro perché il Sardo è una lingua pluralizzata. Certo. Ma vi è una sola ragione plausibile – mi chiedo – che vieti che la lingua oggi pluralizzata assurga al piano e al ruolo pratico e giuridico, di lingua unificata? Come peraltro è successo a molte lingue europee negli ultimi 170 anni della nostra storia: per esempio al Rumeno, all’Ungherese e al Finlandese e, più recentemente, al Catalano e al Lituano? Iniziando a prendere come modello Sa Limba sarda comuna, proposta dagli studiosi nominati dalla Regione sarda?

 

Si obietterà ancora che la Lingua sarda ha «prodotto poco» e cultura bassa. Come ho già sostenuto prima – dato e non concesso che abbia prodotto poco (in realtà non è vero ha prodotto molto, ma non conosciamo la produzione in sardo, specie dei secoli passati): ci sarebbe da meravigliarsi che la Lingua sarda abbia prodotto poco? Forse le è stato permesso?

 

Non è forse stata la Lingua sarda un cavallo per troppo tempo tenuto a freno e impastoiato? Un volta libero di correre al galoppo, non potrà forse esprimere, abbondantemente, qualunque contenuto culturale? Per quanto attiene invece al problema della cultura ‘bassa’, occorrerebbe finalmente iniziare a liquidare certi equivoci gerarchici sulla cultura e sulle sue forme, per cui ci si attarda ancora a parlare di cultura «alta» e cultura «bassa», di cultura «materiale» (miniere, artigianato, agricoltura, pastorizia, turismo) inferiore e subordinata alla cultura «immateriale» (lingua, letteratura, arte, musica, diritto, ecc.), o di cultura orale inferiore alla cultura «scritta» e dunque meno degna di essere conosciuta e studiata. La cultura, senza gerarchie, deve essere intesa in senso antropologico, ovvero nei valori sottostanti alle scelte collettive e individuali e quindi agli ideali che orientano i comportamenti, con particolare riferimento a quelli sociali.

 

Si obietterà infine che comunque l’istruzione complessiva – specie quella universitaria – non potrà svolgersi attraverso la Lingua sarda come strumento veicolare. Ebbene, uno dei massimi studiosi del Bilinguismo a base etnica, J. A. Fishman, a tale obiezione  così risponde: «Ogni e qualsiasi lingua è pienamente adeguata a esprimere le attività e gli interessi che i suoi parlanti affrontano. Quando questi cambiano, cambia e cresce anche la lingua. In un periodo relativamente breve, qualsiasi lingua precedentemente usata solo a fini familiari, può essere fornita di ciò che le manca per l’uso nella tecnologia, nella Pubblica Amministrazione, nell’Istruzione».

 

Certo, occorre intelligenza ed equilibrio nell’utilizzo del Sardo come lingua veicolare: si può iniziare a parlare e trattare in Sardo i temi dell’ambiente, del gioco, del lavoro, delle feste, delle tradizioni popolari, delle vicende storiche. Anche perché – è il linguista Renzo Titone a sostenerlo – «l’insegnamento della lingua come materia a sé, non produce effetti significativi, se la lingua non è usata come strumento di insegnamento di altre materie e come mezzo per l’espletamento delle attività ordinarie, ossia come mezzo di comunicazione nelle situazioni di vita».

 

Di qui la necessità non solo che si insegni il Sardo e nel contempo che si insegni in Sardo ma che poi questa Lingua venga parlata e usata normalmente, tutti i giorni, in tutte le occasioni, a partire da quelle ufficiali: di qui insomma la necessità dell’uso sociale della Lingua sarda, altrimenti rischia di essere una lingua artificiosa e sostanzialmente morta. Ciò significa che il Sardo deve irrompere in modo organico, come lingua coufficiale nella stampa (giornali, libri, testi scolastici), nelle TV, in Internet: insomma in tutti i media. Deve essere normalmente e permanentemente utilizzata negli Enti locali come nelle Amministrazioni statali, nelle imprese e nelle società commerciali come in tutte le Associazioni, nella toponomastica (a questo proposito dobbiamo considerare ottima l’iniziativa dell’Assessorato regionale alla cultura sull’elaborazione di un Atlante toponomasticu sardu) come nelle insegne – ad iniziare da quelle stradali – e nella cartellonistica, nella pubblicità come negli avvisi.  

 

10. Alcuni motivi (didattici, culturali, civili) per introdurre il Sardo nelle scuole

 

Sono comunque plurime e di diversa natura le motivazioni – didattiche, culturali, educative, civili – che pongono con urgenza e senza ulteriori rinvii la necessità dell’introduzione del Bilinguismo nella scuola. Pedagogisti come linguisti e glottologi, psicologi come psicoanalisti e perfino psichiatri, ritengono infatti che la presenza della lingua materna e della cultura locale nel curriculum scolastico si configurino non come un fatto increscioso da correggere e controllare ma come elementi indispensabili di arricchimento, di addizione e non di sottrazione, che non ‘disturbano’ anzi favoriscono lo sviluppo comunicativo degli studenti perché agiscono positivamente nelle psicodinamiche dello sviluppo. In particolare la lingua materna (quella sarda per noi) serve:

-per allargare le loro competenze degli studenti, soprattutto comunicative, di riflessione e di confronto con altri sistemi;

 

vper accrescere il possesso di una strumentalità cognitiva che faciliti l’accesso ad altre lingue;

 

vper prendere coscienza della propria identità etno-linguistica ed etno–storica, come giovane e studente prima e come persona adulta e matura poi;

 

vper personalizzare l’esperienza scolastica, umana e civile, attraverso il recupero delle proprie radici;

 

vper combattere l’insicurezza ambientale, ancorando i giovani a un humus di valori alti della civiltà sarda: la solidarietà e il comunitarismo in primis;

 

vper migliorare e favorire, soprattutto a fronte del nuovo «analfabetismo di ritorno», vieppiù trionfante, soprattutto a livello comunicativo e lessicale, lo status linguistico. Che oggi risulta essere, in modo particolare nei giovani e negli stessi studenti, povero, banale, improprio, gergale

 

La lingua sarda è ancora libera, popolana, vera, indipendente, ricca di istinto e fantasia, passione e sentimento. A fronte delle lingue imperiali (l’inglese in primis, ma l’italiano), vieppiù fredde, commerciali e burocratiche, vieppiù liquide e gergali,invertebrate e povere, al limite dell’afasia: certo indossano cravatta e livrea ma rischiano di essere solo dei manichini.

 

Una lingua che –se insegnata con intelligenza nelle Scuole di ogni ordine e grado- potrebbe servire persino per migliorare e favorire, soprattutto a fronte del nuovo “analfabetismo di ritorno“, vieppiù trionfante, a livello comunicativo e lessicale, lo “status linguistico” . Che oggi risulta essere, in modo particolare nei giovani e negli stessi studenti, povero e banale. Tanto che qualche studioso sostiene la tesi dei giovani “semiparlanti”: che non conoscono più la lingua sarda  e parlano (e scrivono) un italiano frammentario, disorganizzato, improprio, gergale; la cui parola dice di sé solo le accezioni selezionate dal Piccolo Palazzi: senza metafore, senza natura,senza storia, senza vita.

 

Quella lingua che è soprattutto valore simbolico di autocoscienza storica e di forza unificante, il segno più evidente dell’appartenenza e delle radici che dominatori di ogni risma e zenia hanno cercato di recidere.

 

Inoltre – premesso che la sollecitazione delle capacità linguistiche deve partire dall’individuazione del retroterra linguistico, culturale, personale, familiare, ambientale dell’allievo e del giovane, non per fissarlo e inchiodarlo a questo retroterra ma, al contrario, per arricchire il suo patrimonio linguistico –, l’educazione bilingue svolge delle funzioni che vanno al di là e al di sopra dell’insegnamento della lingua: si pone infatti anche come strumento per iniziare a risolvere i problemi dello svantaggio culturale, dell’insuccesso scolastico e della stessa «dispersione» e mortalità come della precaria alfabetizzazione di gran parte della popolazione, evidente e diffusa a livello di scolarità di base ma anche superiore. Ma lo studio della lingua sarda, va al di là di questi pur importanti obiettivi.  

 

11. Studio della Lingua sarda e apprendimento delle altre lingue. Bilinguismo e Biculturalità

Lo studio e la conoscenza della lingua sarda può essere uno strumento formidabile per l’apprendimento e l’arricchimento della stessa lingua italiana e di altre lingue, lungi infatti dall’essere «un impaccio», «una sottrazione», sarà invece un elemento di «addizione», che favorisce e non disturba l’apprendimento dell’intero universo culturale e lo sviluppo intellettuale e umano complessivo. Ciò grazie anche alla fertilizzazione e contaminazione reciproca che deriva dal confronto sistemico fra codici comunicativi delle lingue e delle culture diverse, perché il vero bilinguismo è insieme biculturalità, e cioè immersione e partecipazione attiva ai contesti culturali di cui sono portatrici, le due lingue e culture di appartenenza, sarda e italiana per intanto, per poi allargarsi, sempre più inevitabilmente e necessariamente, in una società globalizzata come la nostra, ad altre lingue e culture, europee e mondiali. La Lingua sarda infatti in quanto concrezione storica complessa e autentica, è simbolo di una identità etno-antropologica e sociale, espressione diretta di una comunità e di un radicamento nella propria tradizione e nella propria cultura. Una lingua che non resta però immobile – come del resto l’identità di un popolo – come fosse un fossile o un bronzetto nuragico, ma si ‘costruisce’ dinamicamente nel tempo, si confronta e interagisce, entrando nel circuito della innovazione linguistica, stabilendo rapporti di interscambio con le altre lingue. Per questo concresce all’agglutinarsi della vita culturale e sociale. In tal modo la lingua, non è solo mezzo di comunicazione fra individui, ma è il modo di essere e di vivere di un popolo, il modo in cui tramanda la cultura, la storia, le tradizioni. 

2. Valore etico, etnico e antropologico della Lingua sarda

 

La Lingua sarda, infine, essendo la più forte ed essenziale componente del patrimonio ricchissimo di tradizioni e di memorie popolari, sta a fondamento – per usare l’espressione di Giovanni Lilliu – «dell’Identità della Sardegna e del diritto ad esistere dei Sardi, come nazionalità e come popolo, che affonda le sue radici nel senso profondo della sua storia, atipica e dissonante rispetto alla coeva storia e cultura mediterranea ed europea». Assume cioè un valore etico, etnico-nazionale e antropologico e, se si vuole, anche politico, nel senso di riscatto dell’Isola e del suo diritto-dovere all’Autodeterminazione. Il che non significa che la nostra Identità debba tradursi in forme di chiusura autocastrante o di separazione: essa deve invece essere accettata e riconosciuta come la condizione base del nostro modo di situarci nel mondo e di dialogare con gli orizzonti più diversi, «senza cedere alla tentazione – come osserva acutamente il filosofo sardo Placido Cherchi – di usare la nostra differenza come ideologia o di caricarla, a seconda delle fasi, ora di arroganze etnocentriche, ora di significati autodepressivi ». .

 

Quella lingua che è soprattutto espressione della nostra civiltà e della nostra storia dunque ma nel contempo, strumento per difendere e sviluppare la nostra identità e la nostra coscienza di popolo e di nazione, i cui lemmi che la compongono, infatti, prima di essere un suono sono stati oggetti, oggetti che hanno creato una civiltà, oggetti che hanno creato storia, lavoro, tradizioni, letteratura, cultura. E la cultura è data dal battesimo dell’oggetto.

 

Ma occorre leggere e interpretare l’Identità non con le lenti logore di un’ideologia passatista, ma con un restyling concettuale nuovo e complesso che rifiuta e oltrepassa una improbabile visione museale. Ovvero un’impostazione che riproponga un cliché che la riduce a semplice recupero acritico del passato e delle sue tradizioni o del suo folclore; o a un attributo eterno e immutabile. Provocatoriamente sosterrei anzi che la visione puramente etnografica dell’identità, certifica la morte dell’identità stessa.

 

L’attaccamento alla civiltà “primigenia”, in quanto realizza un continuum fra passato e presente, dà maggiore apertura al “mondo grande e terribile” (di cui parlava Gramsci) e sicurezza per il futuro. In questa continuità- simbiosi fra antico- moderno e post- industriale post- moderno, in cui la positività della Sardegna s’innesta nella positività mediterranea ed europea, consiste il significato profondo dell’Identità e dell’Etnia che da un lato ci libera dalle frustrazioni, dalla chiusura mentale e dal complesso dell’insularità; dall’altro ci salvaguarda dai processi imperialistici di acculturazione, distruttivi dell’autenticità delle minoranze e dal soffocamento operato dalla camicia di nesso degli interessi economico- finanziari.

 

Soprattutto i giovani devono sapere di appartenere a una peculiare storia e a una peculiare civiltà e di ereditare un patrimonio culturale, linguistico artistico e musicale, ricco di risorse da elaborare e confrontare con esperienze e proposte di un mondo più vasto e complesso. In cui, partendo da radici sicure e dotati di robuste ali, possano volare alti, i giovani e non solo.  

 

13. Cosa deve fare oggi la Regione sarda?

 

Per decenni abbiamo sentito pronunciare discorsi fumosi e generici sull’Autonomia della Sardegna e sulla necessità di adeguare il nostro sistema scolastico a quello europeo senza però che si siano operate scelte formative e iniziative politico-amministrative conseguenti dando spazio alla specificità etno-nazionale della Sardegna come valore e mettendo in campo una moderna politica educativa di collaborazione fra Scuola ed Enti Locali o iniziative legislative che fornissero strumenti per realizzare un sistema educativo integrato, per incoraggiare sperimentazioni, ricerche di gruppo e di singoli e per incrementare le potenzialità di intervento finalizzate all’istruzione.

La Regione Sarda deve intervenire per integrare i Programmi ministeriali, con scelte qualitativamente valide e adeguate rispetto ai bisogni degli studenti sardi, in specie per la salvaguardia e valorizzazione dei valori della società sarda e delle sue peculiarità etniche. A tal fine – lo ripeto – deve istituire le cattedre di Lingua, storia, letteratura e cultura sarda dedicando loro almeno il 15% dell’orario curriculare.

Inoltre:

 

vOccorre favorire la crescita dei giovani studenti stimolando il sistema scolastico  perché realizzi un reale processo di autonomia pedagogica e didattica che parta e muova dalla realtà sarda: un discorso pedagogico moderno e avveduto non può infatti prescindere dal pensare a una scuola radicata e ancorata alla tradizione, in grado di educare i giovani a conoscere prima e a padroneggiare poi la lingua e la cultura sarda: musica, arte, storia, teatro, letteratura, diritto, ecc. ecc.

 

vOccorre una scuola in cui la scoperta e la valorizzazione della tradizione negli aspetti più vivi e significativi, possa trovare l’humus per germogliare e per inserire il «locale» e il nostro specifico e peculiare nella cultura mediterranea, europea e mondiale, per continuare ad essere sardi e insieme vivere da cittadini mediterranei ed europei.

 

vOccorre cioè una scuola in cui i valori alti del passato, che reggono ai flutti di una modernità-modernizzazione effimera e fatua si coniughino dialetticamente con altre culture, con la scienza e la tecnologia, in una sorta di convivenza dei distinti, facendo cioè coesistere, conciliando dialetticamente gli elementi della «consuetudine autoctona» con quelli della modernità vera, mediando e facendo continuamente sintesi fra vecchio e nuovo, continuità e discontinuità, locale e globale. E dunque rifiutando da una parte l’etnocentrismo, dall’altra l’esterofilismo. Stando sempre attenti a che l’impatto della globalizzazione si risolva nella negazione, distruzione e/o devastazione delle culture (e delle economie) deboli, come è già avvenuto altrove – come dimostrano fra gli altri Claude Levi-Strauss in Il pensiero selvaggio e Joseph Rothscild in Etnopolitica – e come rischia di succedere anche in Sardegna.

 

Per questo

 

voccorre opporsi, a iniziare dunque dalla scuola, al fenomeno dello «sradicamento» dell’identità connaturato alla globalizzazione e al consumismo;

 

v–Occorre una scuola che ricordi – e insegni – ai giovani che senza legami con il passato, senza radici, non c’è presente né futuro, che se una comunità non dispone delle conoscenze fondamentali della sua storia (compresa quella dei singoli villaggi, che spesso consente di individuare il ceto sociale originario e il conseguente tipo di formazione storico urbanistico,

 

vedi Il giorno del giudizio di Salvatore Satta) non può maturare né il sentimento di appartenenza né la consapevolezza dell’importanza del nesso tra locale e globale che è in buona sostanza coscienza comunitaria, ossia accettazione dell’ideale della collaborazione tra popoli diversi.

 

Alla scuola spetta in definitiva il compito primario, sia di fornire gli elementi utili per la formazione moderna legata alla realtà e ai bisogni giovanili, sia gli strumenti metodologici per comprendere il nesso inscindibile, pur nella diversità, tra la storia millenaria dell’Isola e la condizione presente per permettere al giovane sardo di innestare – senza prevaricarla – la tradizione nel processo di sviluppo della società complessa; per evitare forme campanilistiche o esaltazione della minutaglia folclorica e insieme per rifiutare la mentalità caudataria tipo «pinta la legna e portala in Sardegna» che induce solo ad atteggiamenti esterofili e a complessi di inferiorità.

 

L’uomo contemporaneo, soprattutto nell’epoca della globalizzazione economica, della comunicazione planetaria in tempo reale e di Internet, non può vivere senza una sua dimensione specifica, senza radici, sia per ragioni psico-pedagogiche (un punto di riferimento certo dà sicurezza, consapevolezza di sé e fiducia nel proprio futuro), sia per motivi di ordine culturale. La comprensione del nuovo è sempre legata alla conoscenza critica della storia della società in cui si vive, alle tecniche di produzione, al senso comune, alle tradizioni. È questo l’antidoto più efficace contro la sub-cultura televisiva e à la page, circuitata ad arte da certa comunicazione mass-mediale che riduce la tradizione a folclore e spettacolo ad uso e consumo dei turisti. Altrimenti prevalgono solo processi di acculturazione imposti dal «centro», dalle grandi metropoli, dai poteri forti, arroganti ed egemonici che riducono le peculiarità etniche a espressione retorica, pura mastrucca, flatus vocis.

 

Occorre però concepire e tutelare lo «specifico individuale e collettivo», non come dicotomia ma in connessione con il generale, vivendo l’identità sarda con dignità e orgoglio ma senza attribuirgli un significato ideologico o di mito; identità non come dato statico e definitivo ma relativo, fluido e dinamico, da conquistare-riconquistare, costruire- ricostruire dialetticamente e autonomamente, adattandolo e sviluppandolo, quasi giorno per giorno. L’attaccamento alla civiltà primigenia, in quanto realizza un continuum fra passato e presente, dà maggiore apertura al gramsciano «mondo grande e terribile» e sicurezza per il futuro. In questa continuità-simbiosi fra antico/moderno e post-industriale/post-moderno, in cui la positività della Sardegna s’innesta nella positività europea, consiste il significato profondo dell’Identità e dell’Etnia che da un lato ci libera dalle frustrazioni, dalla chiusura mentale e dal complesso dell’insularità; dall’altro ci salvaguarda dai processi imperialistici di acculturazione, distruttivi dell’autenticità delle minoranze e dal soffocamento operato dalla  camicia di nesso degli interessi economico-finanziari. 

 

Pro cuncruire

La conoscenza e l’uso della Lingua sarda e dunque il ritrovamento e la valorizzazione della nostra Identità etno-nazionale deve servirci soprattutto: per superare il complesso del nanismo di cui parla in un bel romanzo lo scrittore Marcello Fois: «Da nani ci hanno trattato sempre. E noi da nani ci siamo lasciati trattare… a elemosinare contributi… con l’orgoglio attaccato a sputo e l’invidia per chi nano non è. Nani con lo sguardo nano. Uno sguardo che non oltrepassa il cortile di casa. Questo è il morbo: vederci nani anche quando siamo giganti. Si deve prendere la vita nelle proprie mani, rifiutando di continuare a delegarla a politici nani… abbiamo una storia talmente sussurrata che bisogna tacere per sentirla. Una storia di nani che aspettano giganti che li portino sulle spalle, oltremare, altrove, nel mondo». Dobbiamo liquidare insomma il complesso di nanismo che atavicamente ci portiamo nella nostra storia, smettendola di aspettare i giganti che ci salvino: i giganti non esistono e comunque non arriveranno mai per salvarci; possiamo salvarci solo con le nostre forze.

 

 

 

 

 

Serramanna, 15-11-2013: Lectio magistralis di Francesco Casula in occasione della inaugurazione dell’Anno accademico 2013-2014 dell’Università della Terza Età.ultima modifica: 2013-11-12T08:05:39+01:00da zicu1
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