Gli Istituti solidaristici e comunitari dei Sardi:SA PARADURA.

L’Istituto de sa Paradura e dintorni.

di Francesco Casula

Condivido totalmente l’eccellente articolo di Tonino Bussu (apparso su La Barbagia.Net del 19 agosto scorso e che riporto sotto alla fine di questo mio intervento) sugli Istituti solidaristici che hanno caratterizzato la storia e la civiltà sarda e, che ancora oggi, sia pure in forme diverse, continuano a vivere e operare: come ha documentato Tonino Bussu nell’articolo. E anch’io auspico che la Regione sarda si muova “nella direzione di recuperare questi istituti comunitari che hanno una grande e immediata efficacia, purché liberati dalle pastoie della burocrazia”.

Partendo da tali Istituti vorrei tentare una breve incursione storica – che attiene strettamente ai valori dei Sardi –  per liquidare intanto il becero luogo comune sui Sardi pocos, locos y mal unidos. Attribuito a Carlo V, ma mai verificato in alcun documento o altra fonte storica.

Del resto l’imperatore poco doveva conoscere la Sardegna se non dai dispacci “interessati” dei vice re: solo due volte la visitò direttamente. Nel 1535 quando durante la spedizione contro Tunisi e i Barbareschi sbarcò a Cagliari trattenendosi alcune ore e nell’ottobre del 1541, nella seconda spedizione, questa volta contro Algeri, il più attivo nido dei Barbareschi. In questo caso la flotta imperiale sostò in Sardegna: ma non – come ebbe a sostenere Carlo V – per visitare Alghero, dove passò la notte del 7, bensì per esserne abbondantemente approvvigionato, a spese della popolazione della città catalana e dell’intero sassarese.

 Ma tant’è: tale luogo comune – a prescindere da Carlo V – è stato interiorizzato da molti sardi, con effetti devastanti, specie a livello psicologico e culturale  (vergogna di sé, complessi di inferiorità, poca autostima) ma con riverberi in plurime dimensioni: tra cui quella socio-economica.

I Sardi certo sono pocos,: e questo di per sé non è necessariamente un fattore negativo. Ma non locos: ovvero stolti, stolidi e men che meno imbecilli.

Certo le esuberanti creatività e ingegnosità popolari dei Sardi furono represse e strangolate dal genocidio e dal dominio romano. Ma la Sardegna, a dispetto degli otto trionfi celebrati dai consoli romani, fu una delle ultime aree mediterranee a subire la pax romana, afferma lo storico  Meloni. E non fu annientata. La resistenza continuò. I Sardi riuscirono a rigenerarsi, oltrepassando le sconfitte e ridiventando indipendenti con i quattro Giudicati: sos rennos sardos (i regni sardi). 

Certo con catalani, spagnoli e piemontesi furono di nuovo dominati e repressi: ma dopo secoli di rassegnazione, a fine Settecento furono di nuovo capaci ai alzare la schiena e di ribellarsi dando vita a quella rivoluzione antifeudale, popolare e nazionale che porrà la base della Sardegna moderna.

Certo, si è tentato in ogni modo di scardinare e annientare lo spirito comunitario, la solidarietà popolare, quella pluralità di reti sociali e di relazione che avevano caratterizzato da sempre le Comunità sarde con variegati sistemi e costumi solidaristici e di forte unità: basti pensare a s’ajudu torrau o a sa paradura: costumanza che colpirà persino un viaggiatore e visitatore come La Marmora che [in Viaggio in Sardegna di Alberto Della Marmora, Gianni Trois editore, Cagliari 1955, Prima Parte, Libro primo, capitolo VII., pagine 207-209] scriverà:”Fra le usanze dei campagnuoli della Sardegna, alcune sono de­gne di nota e sembrano risalire all’antichità più remota : citeremo le seguenti.

Ponidura o paradura.  Quando un pastore ha subito qualche perdita e vuol rifare il suo gregge, l’usanza gli dà facoltà di fare quel che si dice la ponidura o paradura. Egli compie nel suo villag­gio, e magari in quelli vicini, una vera questua. Ogni pastore gli dà almeno una bestia giovane, in modo che il danneggiato mette subito insieme un gregge d’un certo valore, senza contrarre alcun obbligo, all’infuori di quello di rendere lo stesso servizio a chi poi lo reclamasse da lui…”

 

La solidarietà senza burocrazia

di Tonino Bussu

Qualche anno fa, in occasione del terremoto in Abruzzo, ha creato simpatie e onsensi l’iniziativa de sa paradura di Gigi Sanna, cantante del gruppo de sos Istentales, ma  nche attivo imprenditore agricolo di una fattoria didattica in quel di Baddemanna a Nuoro.

Già il nome Istentales, la grande e meravigliosa costellazione autunnale di Orione, rievoca antichi miti greci, ma anche tradizioni pastorali sarde in quanto questa costellazione, chiamata Sos Bacheddos in Barbagia, era l’orologio notturno estivo per i pastori barbaricini e, quando si presentava sulla volta celeste, preceduta da su Gurdone, le Pleiadi, avvertiva che era il momento di riportare il gregge all’ovile dopo il pascolo notturno de su chenadorzu o murigargiu o su tzucare, come dicono nell’oristanese.Quindi Orione, sos Baccheddos, sos Istentales, diventano oggi con Gigi Sanna il simbolo dell’antica solidarietà pastorale senza burocrazia che in poco tempo riescono a creare, a parare un gregge per donarlo ai fratelli pastori abruzzesi colpiti dal terremoto.Di altrettanta simpatia e stima si è circondato questi giorni Fortunato Ladu, pastore impegnato con grande energia e passione nelle lotte per il riscatto di questa categoria che rimane, oggi più di ieri, alla base della nostra economia e cultura millenarie. E la stima e simpatia per Fortunato Ladu deriva dalla sua iniziativa di esprimere e incoraggiare una solidarietà concreta, efficace e veloce, con l’invio di varie balle di fieno per i pastori del Sarcidano funestati dal fuoco assassino e crudele dei giorni scorsi che ha distrutto pascoli, greggi e messo a repentaglio la vita stessa delle persone.Ebbene, la lodevole iniziativa di Fortunato Ladu, seguita dalla generosità di altri suoi colleghi di varie zone della Sardegna, si inserisce nel solco di quelle forme di solidarietà comunitaria in vigore nella società pastorale fino agli anni sessanta, che affonda le sue radici nei secoli passati quando in casi di estrema necessità personale non vi erano aiuti pubblici e si rischiava la fame e la miseria.Numerosi sono i racconti di tropas de pastores, gruppi di pastori, che si prendono l’impegno di andare da un ovile ad un altro e chiedere una , due o più pecore, a seconda dei casi, per ricostruire il gregge del Tal dei Tali perché o gli era stato distrutto da una calamità naturale, o gli era stato rubato o perchè, dopo vari anni di prigione, non aveva più nulla e quindi era opportuno metterlo nelle condizioni di riprendere a lavorare.Ecco quindi i termini in lingua sarda per indicare questa antica pratica di sa ponidura, come dice spesso Gonario Pinna, noto penalista nuorese, nella sua opera ‘Il pastore sardo e la Giustizia’, da pònnere, mettere a disposizione una pecora o altro capo di bestiame.L’altro termine è sa paradura, da parare cioè formare, creare, parare pacos pecos de bestiàmene, formare un piccolo gregge di pecore o di armenti o maiali ecc.Si dice anche su paru, per indicare un genere, una specie di bestie, su paru de sa berbeghe, ma in certi casi, soprattutto quando si intende condannare l’azione riprovevole di una persona, si dice anche su paru ‘e su tontu o de s’isterzare! Comuni sono espressioni come: e ite li cheries fàchere a su par’e su maccu! E per indicare il massimo del disprezzo nei confronti di una persona o di una bestia invece che paru su dice parìle, o parìle malu!Quindi sa paradura da parare. Mi raccontava un pastore barbaricino in quel di Bosa che negli Anni Sessanta aveva donato almeno dieci pecore per aiutare un amico a ricrearsi il gregge, mentre per un altro pastore del Montiferru avevano lo stesso fatto sas berbeghes de dimanda.Nei primi Anni Venti del secolo scorso una delle tante violenti calamità naturali aveva tra l’altro incenerito il gregge di un pastore di Ollolai, certo Giovanni Lostia mi sembra, e allora, anche su indicazione del Consiglio Comunale, come risulta da una delibera del tempo, i pastori ollolaesi hanno portato nel suo ovile ognuno una pecora viva e in cambio si sono presi una pecora morta e nel giro di qualche giorno gli hanno ricostruito il gregge, l’ant torrau a parare sa gama, sa roba, salvandolo dalla disperazione più nera.Istituti come sa ponidura o paradura o berbeghes de dimanda dovrebbero essere contemplati negli statuti comunali perché sono una pratica che permette di esprimere la solidarietà viva, diretta e soprattutto veloce, senza perdersi in lungaggini burocratiche.Abbiamo tentato negli anni scorsi di mettere in qualche statuto comunale tracce, arrastos delle nostre migliori tradizioni comunitarie come la figura de s’omin’e mesu o appunto de sa paradura, ma la modernità e la legislazione statale non lascia spazio a scelte coraggiose e identitarie di questo tipo che, per alcuni che predicano la superficiale sardità da cartolina, è solo vecchiume.Per fortuna invece tali istituti sopravvivono nelle iniziative di persone e gruppi che infischiandosene delle leggi e considerate le lungaggini previste da queste ultime, danno risposte, come in questo caso, che sostituiscono gli interventi statali o regionali che spesso o non arrivano o arrivano in ritardo, perché sono tanto precise nella loro stesura quanto farraginose nella loro applicazione. Sarebbe opportuno che la Regione si muovesse nella direzione di recuperare questi istituti comunitari che hanno una grande e immediata efficacia, purché liberati dalle pastoie della burocrazia.

 

 

 

 

PEDRU MURA E LE SUE “RIMAS NOBAS”

PEDRU MURA*

Il Garcia Lorca sardo (Isili 1901-Nuoro 1966)

Pedru Mura  nasce il 23 Febbraio 1901 a Isili (Ca), “cittadina ridente del vecchio e sonante Sarcidano, che si affaccia come una fanciulla alle floride pianure del Campidano”, scriverà il poeta stesso in una sua nota autobiografica. In cui ci informa anche che suo padre faceva l’artigiano: costruiva e vendeva caldaie di rame. Frequenta di mala voglia la scuola elementare, fino alla quarta classe, poi segue i fratelli nel lavoro di suo padre. Ben presto si pentirà per non aver proseguito le scuole elementari e gli nacque subito –è sempre il poeta stesso a rivelarcelo- la passione alla lettura della poesia, tanto che in poco tempo imparò a memoria la Divina Commedia e La Gerusalemme Liberata, unici testi, insieme a L’Orlando Furioso, che aveva a disposizione nella sua casa di Isili.

Fin da giovanissimo inizia a poetare: ecco come lo ricorda lui stesso ”Una domenica sera vidi amici e altri giovani ascoltando una gara poetica che si svolgeva dentro una bettola. Entrai anch’io e cantai un’ottava: Avevo tredici o quattordici anni: scoppiarono tutti in un fortissimo applauso, tanto che mi tentarono a cantare ancora. Da quel giorno mi esibivo ogni tanto specialmente in occasioni di feste”. Costituirà il suo noviziato poetico: a 18 anni comincerà a scrivere le sue prime poesie in rima com’era l’uso di quei primi anni del Novecento.

Finita la guerra, nel 1925 si trasferisce a Nuoro dove si sposerà e aprirà una bottega di articoli di rame, che vendeva nei paesi vicini, avendo così l’occasione di conoscere le condizioni della Barbagia di allora. In seguito all’esperienza dell’acquisto, nel 1936, di una cartoleria-libreria, rivelatasi fallimentare, partì in Africa orientale come volontario e vi rimase per tre anni, fino al 1939. E’ in questo periodo che scrisse varie liriche. Ritornato a Nuoro frequenta uomini di cultura e poeti del calibro di Gonario Pinna, Raffaello Marchi, Gavino Pau. Intanto, soprattutto negli anni Cinquanta-Sessanta la sua biblioteca si era arricchita con numerosi autori latini,sardi ,italiani e stranieri.

Nel 1955 concepì un progetto di pubblicazione delle sue poesie in sardo-nuorese e ne predispose la copertina e il comunicato: ”Con questo fascicolo ha inizio la pubblicazione delle mie poesie. Cento operette diverse che presento al popolo sardo amante della poesia dialettale, convinto che saprà vagliarle con lo stesso spirito con cui amo la Sardegna”. E prosegue: “Sono versi scaturiti dal pianto di centinaia di famiglie sarde (de cussas chi non tenent santos in corte) tra le quali ho passato molti giorni della mia vita dividendo con esse gioie e dolori. In questa modesta opera, ho tentato di esprimere aspirazioni e speranze del nostro popolo abbandonato da secoli. Chiedo scusa a certi lettori se dai miei versi non emana profumo (de sa petta arrustia) e chiedo scusa a tutti se non ho fatto meglio come forse avrei potuto se le circostanze della vita non mi avessero inchiodato col mio martello all’incudine sulla quale per molti anni cercai l’aurora riuscendo solo a scalfirle un fosso”.

“Il progetto –scrive autorevolmente Nicola Tanda, il massimo studioso e conoscitore di Pedru Mura e della sua poesia- documenta abbastanza il livello di consapevolezza e di maturazione degli anni precedenti la sua partecipazione al premio Ozieri…iniziò a prendervi parte fin dal 1957 ed ebbe numerose progressive affermazioni…non impacciato nella rima, raggiunse subito risultati letterariamente notevoli e fu in grado di arricchire la lingua poetica sarda attingendo i procedimenti formali dai testi della lirica italiana, spagnola ed europea”.

Morì il 16 Agosto del 1966.

 

Presentazione del testo [poesia tratta da Sas poesias d’una bida, Edizione critica a cura di Nicola Tanda (trad. G. M. Poddighe) 2D Editrice Mediterranea, Sassari-Cagliari 1992 pagg.64-66].

 

Di questo poeta, rimasto sostanzialmente inedito durante la sua vita, la prima raccolta di liriche fu pubblicata nel 1992 col titolo Sas poesias d’una bida a cura di Nicola Tanda e ripubblicata in una nuova edizione critica, sempre a cura dello stesso Tanda (con la collaborazione di Raffaella Lai nel 2004 per la CUEC editrice) secondo cui  sempre più spesso la lingua poetica di Predu Mura si avvale non solo dei procedimenti della lingua poetica contemporanea ma anche della carica simbolica di metafore bibliche o dantesche come di metafore ricavate dal mondo naturale. Soprattutto prevale, dal punto di vista dei significati, un fortissimo senso della giustizia e un fervido sentimento cristiano”.

Con Fippo operaiu ‘e luche soliana Pedru Mura nel 1963 vinse il prestigioso premio Ozieri, (che poi rivincerà nel 1960 con la poesia Sos chimbe orfaneddos e nel 1965 con Prena sa notte ‘e crarore): dello stesso Premio divenne poi membro onorario.

In questa poesia rivela una straordinaria originalità, indicando il modo di fare poesia in lingua sarda, come una via attraverso la quale imprimere una spinta modernizzatrice a una tradizione forse a rischio di crisi.

Pedru Mura nella sua poesia e segnatamente in Fippo operaiu, -che secondo Nicola Tanda può considerarsi il suo testamento poetico- esprime una forte carica espressiva, con uno stile essenziale e moderno: canta cantones friscas, lui un tempo operaiu ‘e luche soliana ed ora oscuru artisanu de versos currende un’odissea ‘e rimas nobas.

E nutre la speranza –ricordiamo che sono gli anni della programmazione e del primo Piano di rinascita- che finalmente una nuova aurora possa nascere per la Sardegna, attraverso uno sviluppo e una prosperità che sappia coniugare e saldare tradizione e modernità, vecchio e nuovo, passato e presente: Gai fortzis su sole/in custa die de chelu/est bénniu a cojubare/frores de neulache/cun fruttos de meladidone.( Così forse il sole/in questo giorno di cielo,/è venuto a congiungere /i fiori dell’oleandro/con le bacche rossobrune del corbezzolo) .

 

 

Giudizio critico

Scrive Nicola Tanda a proposito dell’opera poetica di Pedru Mura, dopo aver ricordato l’edizione, da lui stesso curata, di Sas poesias de una bida che comprende le raccolte Cantos ultimos, cantos quasi ultimos, cantos anticos e de su tempus pitzinnu: “Il sistema letterario sardo, elemento fondamentale del testo complessivo di questa cultura, si è aperto, grazie alla sua opera, alle esperienze più interessanti della lingua poetica contemporanea. Avendo alle spalle l’intero patrimonio della poesia e della cultura, Mura ha arricchito la lingua poetica sarda di nuovi significanti, immettendola nel grande filone classico-romanzo europeo, e di nuovi significati, rompendo definitivamente con la tradizione dell’odio e della vendetta.Ha aperto con le frontiere dell’ethos barbaricino alla cultura della pace e del perdono, senza le quali è impossibile edificare  una società degna di rispetto. L’operazione letteraria compiuta con questi testi ha contribuito al rafforzamento dell’automodello della cultura sarda che ha ripreso energia dal basso e che funziona secondo nuovi orientamenti”.

[Nicola Tanda-Dino Manca, Introduzione alla letteratura, Ed. Centro di studi filologici/CUEC, Cagliari, 2005, pag.311-312].

 

FIPPO OPERAIU ‘E LUCHE SOLIANA

E commo Deus de chelu

A chie canto

Cust’urtima cantone cana?

A bentanas apertas

a su tempus nobu promissu

a Sardigna

barandilla de mares e de chelos?

Su bentu ghettat boches.

Commo m’ammento:

unu frore rùju

una melagranada aperta

una tempesta ‘e luche

cussa lapia ‘e ràmene luchente!

Fippo operàiu ‘e luche soliana

commo so’ oscuru artisanu de versos

currende un’odissea ‘e rimas nobas

chi mi torret su sonu ‘e sas lapias

ramenosas campanas

brundas timballas e concas

e sartàghines grecanas.

Cada corfu ‘e marreddu

allughia unu sole

e su drinnire

de una musica ‘e framas

m’ingravidabat su coro

e mi prenabat sos ocros

d’unu mare ‘e isteddos.

Frailàrju ‘e cantones friscas

camino a tempus de luche

pudande sos mezus frores

in custa paca die chi m’abarrat

prontu a intrare

in su nurache ‘e s’umbra.

Gai fortzis su sole

in custa die de chelu

est bénniu a cojubare

frores de neulache

cun fruttos de meladidone.

 

Traduzione

ERO OPERAIO DI LUCE SOLARE

E adesso, Dio del cielo

a chi intono

quest’ultimo canto canuto?

A finestre spalancate

al tempo nuovo promesso

alla Sardegna

balcone di mari e di cieli?

Il vento mi sussurra voci.

Ora ricordo:

un fiore rosso

una melagrana spaccata

una tempesta d i luce

quel paiolo di rame luccicante!

Ero operaio di luce di sole

ora sono un oscuro artigiano di versi

che corre un’odissea di rime nuove

che mi rendano il suono

dei paioli ramati,

campane rilucenti stampi

conche e grecaniche impronte.

Ogni colpo di martello

mi accendeva un sole

e il tintinnio

di una musica di fiamme

mi gonfiava il cuore

e mi riempiva gli occhi

d’un mare di stelle

Fabbro di fresche canzoni

cammino a tempo di luce

cogliendo i fiori migliori

in questo po’ di giorno che mi avanza

pronto a varcare

il nuraghe dell’ombra.

Così forse il sole

in questo giorno di cielo,

è venuto a congiungere

i fiori dell’oleandro

con le bacche rossobrune del corbezzolo,

 

 

ANALIZZARE

Nella lirica Nicola Tanda ritrova “analogie ungarettiane,quasimodiane, lorchiane” che però “vengono calate in un universo antropologico diverso, “il muro d’ombra” diviene “su nurache ‘e s’umbra”, “balaustrata di cielo”, “barandillas de mares de chelos”, “l’operaio di sogni” di Quasimodo ”operaiu ‘e luche soliana”; sinestesie ardite come “musica ‘e framas”, “frailàrju ‘e cantones friscas”, analogie come “una tempesta ‘e luche”, “unu mare de isteddos” sono associate a calchi danteschi, del dolce stil nuovo (un’odissea ‘e rimas nobas), e indicano una ricerca di nuovi percorsi, di aperture e saldature fra circuiti vecchi e nuovi che non comportano perdita di identità, come nell’orientamente solito dei poeti sardi in lingua italiana, anzi la rafforzano e ne fanno un vessillo.

In tal modo il poeta di Isili, riplasma l’immaginario sardo con una scansione lirica che si risolve in valori fonosimbolici del tutto nuovi e sorprendenti, grazie anche all’uso raffinatissimo che fa di alcune esperienze che gli provengono sia dalla poesia ermetica italiana che da certe civiltà sub regionali (Garcia Lorca e Nazim Hikmetz). 

“Tanto che –cito ancora una volta Tanda-  Fippo operaiu ‘e luche soliana, una poesia scritta da un ramaio che si dilettava a comporre versi fino dall’età di tredici anni e che, quindi, sapeva unire l’artigianato del rame con l’artigianato della poesia, rappresenta certamente il vertice dell’esperienza poetica di Pietro Mura e probabilmente di quella sarda contemporanea”.

 

 

FLASH DI STORIA À

 

 -Il nuovo bilinguismo letterario

“[…]Ed ecco la lirica in lingua sarda immediatamente alla scuola della contemporanea poesia, italiana e straniera, più viva e consapevole. Pietro Mura, e con lui, come abbiamo detto, Benvenuto Lobina, e successivamente Antoninu Mura Ena hanno iniziato unoperazione letteraria nuova. Hanno messo in moto la funzione poetica della vecchia lin­gua sarda e hanno usato sperimentalmente i procedimenti formali del linguaggio poetico contemporaneo, lo hanno adeguato, con mediazione ardita, alla straordinaria meravi­glia di nuovi significanti e di nuovi significati. Hanno ripla­smato limmaginario sardo con una scansione lirica tutta interna e hanno ricreato una lingua poetica scavata nelle profondità del soggetto, risolvendola in valori fonosimboli­ci del tutto nuovi e insospettati. Non solo Mura, non solo Lobina, non solo Mura Ena, si sono assoggettati alla scuola del Novecento. Una folta schiera di poeti (“astronauti sem­bravano”) ha prodotto una poesia in grado di permeare tutti, di coinvolgere gli strati sociali alti e quelli più umili, poeti colti, dunque, e poeti che la tradizione orale, almeno inizialmente, aveva alimentato e nutrito. Unoperazione semantica, o meglio semiotica, che ha rimesso in discussione quel modello culturale che la società degli anni Sessanta proponeva e che anche i ‘Novissimi’ contestavano, quello della monocultura industriale e dell’o­mologazione. Si è prodotta allora una rottura a livello di significato e uno scarto a livello di significanti. La mono­cultura industriale che massifica e mette in forse l’esistenza delle lingue, le lingue tagliate, ha provocato un sussulto di appartenenza, una tensione e un riscatto a livello antropo­logico. Il tema-problema della identità linguistica assume, in questo contesto, un rilievo che non aveva mai avuto in precedenza, neanche nei momenti più accesi della lotta autonomistica. Il Premio Ozieri ne diviene il vero catalizza­tore e ne assume, in quegli anni di indifferenza e di ‘benessere’, la guida. Quel modello dell’industria a senso unico, totalmente dipendente dall’esterno, estraneo allavocazione  antropologica del territorio, viene contestato dai poeti e con esso il progetto economico del Piano di Rinascita e insieme, viene rigettato il modello della fierezza barbaricina e il codicedella vendetta, arcaici e inutilizzabili in un futuro civile e democratico.

Da allora la scelta della lingua sarda nelle sue varietà, vienecondivisa da un numero sempre crescente di scrittori dipoeti che vogliono appropriarsi dei procedimenti formalidella lingua poetica e delle culture contemporanee e si assisteall’avanzata di una produzione letteraria nuova. Il rinnovamento metrico diventa elemento di rottura e pro­duce l’abbandono degli schemi della poesia della tradizione e una nuova libertà espressiva. Si contaminano procedi­menti formali del passato e del presente con risultati di sincretismo che esaltano al massimo la capacità del vecchio volgare romanzo che, sopravvissuto nel volgere dei secoli, diviene uno strumento di comunicazione straordinaria­mente moderno, in grado di farcircolare messaggi aggiornati, esperienze nuove e di permeare le coscienze e fondare finalmente, nel confronto, un automodello culturale. La scelta della lingua diviene segno di rinnovamento di codici linguistici ed espressivi. Si inaugura una nuova stagione poetica e dunque una vita nuova’ in lingua sarda. I percor­si appaiono ben distinti e differenziati: le due coordinate principali della comunicazione sono ormai litaliano e/o il sardo, un vero e proprio bilinguismo letterario. Le altre vie appaiono piuttosto sentieri, crocevia, non direttrici di mar­cia. La Sardegna, finalmente, da ‘non luogo‘ diventa ‘luogo‘, non di un esclusivo recupero memoriale, ma luogo dellim­maginario che produce il progetto di un‘identità dinamica, dal quale deriva lenergia vitale e morale di un nuovo modello di sviluppo economico e civile […]”.

[Nicola Tanda, Introduzione a Pedru Mura, Sas poesias Sas poesias d’una bida, nuova edizione critica a cura di Nicola tanda con la collaborazione di Raffaella Lai, CUEC Editrice, Cagliari 2004,pagg.XII-XIII-XIV].

 

Lettura. [questa poesia è tratta da Pedru Mura, Sas poesias Sas poesias d’una bida, nuova edizione critica a cura di Nicola Tanda con la collaborazione di Raffaella Lai, CUEC Editrice, Cagliari 2004, pagg.6-7].

 

 

L’HANA MORTU CANTANDE

L’hana mortucantande

 chin sa cantone in bucca.

E mi l’han accattau

in s’àndala predosa ocros a chelu

chin su fror’ ‘e sa morte

ispat’  in fronte.

Fit solu chin su frittu

e chin sa malasorte;

chin su bentu mosséndeli sos pilos

e in artu sa luna, pompiande.

Non l’hat cubau nemmancu su dolu.

Sosmortores fughios,

che umbra mala,

los hat bidos su ribu.

E sos seros de luna

cando dormin sas predas

si sedet a contare in segretesa

a isteddos e nues

comente l’hana mortu,

Est ruttu chen’ischire d’haer viviu;

chen’ischire de morrere:

l’hana mortu cantande

chin sa cantone in bucca.

 

Traduzione

CANTAVA E L’HANNO UCCISO

Cantava e l’hanno ucciso

col canto sulle labbra.

E me l’hanno trovato

nel sentiero di pietra occhi al cielo

con il fiore della morte

in fronte spalancato.

E’ rimasto solo col freddo

con la malasorte;

col vento che gli morde i capelli

e in alto, testimone, la luna

quando le pietre dormono

si siede a raccontare in gran segreto

a stelle e nuvole

come l’hanno ucciso.

E’ caduto senza sapere

d’aver vissuto;

senza sapere di morire;

cantava e l’hanno ucciso

col canto sulle labbra.

 

 

COMPRENDERE E VALUTARE

Altre attività didattiche per lo studente

 

Approfondimenti

-Nella sua poesia Pedru Mura “rompe definitivamente –come afferma Nicola Tanda- con la tradizione dell’odio e della vendetta” e con “Gli antichi sardi pelliti e mastrucati, <belli feroci e prodi> come li definiva Satta”. Approfondisci questa nuova visione presente nel poeta di Isili.

 

Confronti

-Confronta la poesia di Pedru Mura con alcune liriche di Quasimodo o di Garcia Lorca, mettendo in rilievo analogie e diversità.

 

Ricerche (anche a mezzo Internet)

-Servendoti anche di Internet registra le poesie in cui è maggiormente presente il messaggio cristiano del perdono e della pace.

 

Spunti vari

-La speranza di una “nuova aurora” nella poesia di Mura.

-la modernità della sua lingua poetica

 

 

Bibliografia essenziale

Opere dell’Autore

-Sas poesias d’una bida, Edizione critica a cura di Nicola Tanda (trad. G. M. Poddighe) 2D Editrice Mediterranea, Sassari-Cagliari 1992.

 

Opere sull’Autore

-Nicola Tanda, Introduzione a Sas poesias d’una bida, Edizione critica a cura di Nicola Tanda (trad. G. M. Poddighe) 2D Editrice Mediterranea, Sassari-Cagliari 1992.

-Nicola Tanda-Dino Manca, Introduzione alla letteratura, Ed. Centro di studi filologici/CUEC, Cagliari, 2005.

-Salvatore Tola, La Letteratura in lingua sarda,Testi, autori, vicende, CUEC editrice, Cagliari 2006.

*Tratto da Letteratura e civiltà della Sardegna, volume I, di Francesco Casula, Grafica del Parteolla Editore, Dolianova, 2011, pagg.254-261

 

 

 

In ricordo di Salvatore Satta a 111 anni dalla sua nascita

 

SALVATORE SATTA.

L’accademico, il giurista e il narratore di vaglia (1902-1975)

Nasce a Nuoro il 9 Agosto del 1902. Dopo aver frequentato il liceo “Domenico Alberto Azuni” di Sassari, nel 1921 si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza della regia Università di Pavia. Prosegue gli studi universitari presso le Università di Pisa e di Sassari e in quest’ultima si laurea nel 1924. Inizia la carriera forense a Nuoro quindi si trasferisce a Milano per esercitare il tirocinio di avvocato. Una malattia lo costringe a interromperlo e a ricoverarsi nel sanatorio di Merano. Da questa triste esperienza nasce la scrittura nel 1925, a soli 23 anni, del suo primo romanzo: La Veranda. Il rifiuto da parte della Giuria del concorso letterario cui lo affidò, probabilmente distolse Satta dal proseguire nella scrittura letteraria per dedicarsi completamente a quella giuridica. L’opera narrativa verrà pubblicata postuma nel 1981, sulla scia del successo dell’opera maggiore: Il giorno del Giudizio.

Da alcuni critici la Veranda è stata accostata alla Montagna incantata di Thomas Mann e a La cura di Herman Hesse.

Ottenuta la libera docenza, negli anni ’30 insegnerà Procedura civile in varie Università italiane: Camerino, Macerata e Padova. Si afferma come giurista di fama internazionale grazie anche a opere come Il contributo alla dottrina dell’arbitrato ((1931), La rivendita forzata (1933), L’esecuzione forzata (1937). Sposatosi nel 1939 si trasferisce a Genova ma con l’inizio della seconda guerra mondiale, a causa dei bombardamenti abbandona la città. In questi anni pubblica Teoria e pratica del processo(1940), Guida pratica per il nuovo processo civile italiano(1941), Istituzioni di diritto familiare (1943).

Dopo varie peregrinazioni e incarichi, nell’anno accademico 1945/46 assume la carica di rettore dell’Università di Trieste, poi fa ritorno Genova, dove sarà anche Preside della Facoltà di Giurisprudenza, e nel 1948 pubblica il suo primo scritto letterario, De profundis: si tratta di un’opera memorialistico-riflessiva, una meditazione parafilosofica, un affresco sulla condizione umana motivato dall’orribile esperienza di quello che è stato il periodo più duro della guerra in alta Italia, specialmente dal 25 Luglio all’8 settembre del 1943. Il romanzo verrà ignorato dal grande pubblico. Lo storico Ernesto Galli della Loggia in un suo saggio, La morte della patria (Ed. Laterza , Roma-Bari 1988) ha definito il romanzo “il libro di più alta e dilaniata riflessione sugli avvenimenti italiani del 1940-45”.

Nel frattempo continua a pubblicare opere giuridiche: Diritto processuale civile (1948) e Nuove disposizioni su processo civile (1951). Dopo dieci anni di insegnamento nell’Università ligure si trasferisce a Roma dove insegnerà Diritto processuale e per un anno, nel 1965, sarà Preside della Facoltà di Giurisprudenza alla “Sapienza”, successore di Francesco Calasso. Nella capitale vivrà fino al 1975, anno della morte. Nel corso di questi anni vengono pubblicati il Commentario al codice di procedura civile (1959-1971 –un’opera veramente monumentale- Soliloqui e colloqui di un giurista (1968), Quaderni del diritto e del processo civile (1969-1973), Diritto fallimentare (1974). Nel 1970 inizia la stesura del romanzo Il giorno del giudizio. Nell’agenda che contiene il manoscritto infatti, in cima alla prima pagina è annotato: Fregene 25 Luglio 1970, ore 18 e poi la sua firma e il titolo. Con molta probabilità nel 1974 il libro aveva già assunto la forma che conosciamo.

Muore a Roma, colpito da un mare incurabile, il 19 Aprile 1975. Nello stesso anno Il giorno del giudizio verrà pubblicato postumo dalla Cedam, una casa editrice di testi giuridici che pubblicherà tutte le sue opere. Il romanzo suscita sconcerto e malcontento, soprattutto a Nuoro: in realtà si rivelerà una delle opere di più alto livello letterario che si siano registrate in Sardegna.

Nel 1979 esce infatti lo stesso libro per i tipi dell’Adelphi. In pochi mesi vende 60.000 copie e conosce subito decine di edizioni. Riconosciuto come un capolavoro della letteratura italiana, sarà tradotto in 19 lingue e gli procurerà una vasta fama in campo letterario. . Il romanzo ha finito così per rappresentare un caso letterario, una specie di Gattopardo sardo, come è stato definito, proprio perché maturato accanto e al di fuori delle tendenze narrative correnti. È infatti il prodotto di una scrittura letteraria raffinatissima e di una straordinaria libertà espressiva che traggono origine da una cultura umanistica e filosofica profonda e vastissima, un’opera che rappresenta davvero una grande e drammatica metafora dell’esistenza.  

 

Presentazione del testo [tratto dal capitolo primo de Il giorno del giudizio, Adelphi edizioni, Milano, 1979, pagg.11.16].

L’apocalittico titolo del capolavoro di Salvatore Satta, Il giorno del giudizio, è mutuato dalla Bibbia, come del resto anche un altro, De Profundis.

Il progetto originario del romanzo prevedeva due parti: la prima in 22 capitoli è stata portata a termine, la seconda invece è rimasta incompiuta, conta appena una pagina.

Nella prima parte ricapitola i termini di una storia individuale e collettiva mentre nell’unica pagina della seconda parte racchiude il breve ma compiuto monologo del narratore che traccia l’inventario dei motivi dai quali è stato spinto a evocare le vite dei personaggi e ripensa a ciò che quell’atto ha prodotto. Una sintesi da giudizio conclusivo, appunto, che coincide col racconto del dramma interiore di chi si è distaccato da un mondo con cui sente il bisogno di fare i conti nel tentativo, vano, di riappropriarsene.

Il romanzo nasce – è lui stesso a scriverlo in alcune lettere- come “storia della famiglia che è la storia di Nuoro e della Sardegna”, “un’isola di demoniaca tristezza”. Con questo romanzo Satta ha inteso narrare, in voce individuale, l’autobiografia collettiva di Nuoro nel passaggio fatale dall’arcaismo alla modernità. E la famiglia Sanna Carboni, nel passaggio da una generazione all’altra, fa da filo conduttore dell’intero romanzo. Una famiglia che, pur se rustica e a volte indistinguibile da quella dei pastori e dei contadini, costituisce pur sempre una borghesia in ascesa e straniata dalla vera realtà sarda (si pensi al fatto che Satta stesso trascorse quasi tutta la sua vita adulta in Continente).

Ambienti e personaggi sono raffigurati con puntigliosità analitica e ogni asserzione ha il timbro di autenticità dell’esperienza vissuta anche se tutto è reinventato, reinterpretato, trasceso attraverso la memoria: che non è solo una ricostruzione del passato, e tanto meno  l’allestimento di un museo di reliquie, ma piuttosto un ponte con il presente e con la propria coscienza del presente. Per prendere coscienza della propria identità è necessario infatti riconoscere il proprio coinvolgimento nel sistema di cui si fa parte. 

 

LA FAMIGLIA SANNA CARBONI

“Don Sebastiano Sanna Carboni, alle nove in punto, come tutte le sere, spinse indietro la poltrona, piegò accuratamente il giornale che aveva letto fino all’ul­tima riga, riassettò le piccole cose sulla scrivania, e si apprestò a scendere al piano terreno, nella modesta stanza che era da pranzo, di soggiorno, di studio per la nidiata dei figli, ed era l’unica viva nella grande casa, anche perché l’unica riscaldata da un vecchio caminetto.

Don Sebastiano era nobile, se è vero che Carlo Quinto1 aveva distribuito titoli di piccola nobiltà agli autoctoni sardi che avevano innestato gli olivastri nel­le loro campagne (la grande nobiltà con tanto di pre­dicato era quasi tutta cagliaritana, ed era praticamen­te straniera all’isola): ma il doppio cognome era solo un’apparenza, altro non essendo il Carboni che il no­me della madre, aggiunto al Sanna, il vero e unico nome di famiglia, un poco per l’usanza spagnola, un poco per la necessità di distinguere le persone, nella poca varietà dei nomi determinata dalla scarsa popo­lazione. Ogni bifolco in Sardegna ha due cognomi, an­che se poi sull’uno e sull’altro prevale di solito un soprannome, che, se la fortuna aiuta, diventa il con­trassegno temuto di una pastorale dinastia. Tipico esempio i Corrales. Il tempo e la necessità han finito col dare una certa legittimità al doppio cognome, e infatti «Sebastiano Sanna Carboni» circoscriveva in lettere tonde lo stemma sabaudo nel timbro ufficiale d’ottone, che Don Sebastiano chiudeva ogni sera gelo­samente in un cassetto della scrivania. Poiché Don Sebastiano era notaio; notaio nel capoluogo di Nuoro.

Chi fosse poi questa Carboni che aveva lasciato il suo nome in un timbro, nessuno avrebbe potuto dire. La madre di Don Sebastiano doveva essere mor­ta presto, e nulla è più eterno, a Nuoro, nulla piú effimero della morte. Quando muore qualcuno è co­me se muoia tutto il paese. Dalla cattedrale – la chie­sa di Santa Maria, alta sul colle- calano sui 7051 abi­tanti registrati nell’ultimo censimento i rintocchi che dànno notizia che uno di essi è passato: nove per gli uomini, sette per le donne, più lenti per i notabili (non si sa se a giudizio del campanaro o a tariffa dei preti: ma un povero che si fa fare su tocco pasau, il rintocco lento, è poco men che uno scandalo). L’in­domani, tutto il paese si snoda dietro la bara, con un prete davanti, tre preti, l’intero capitolo (poiché Nuoro è sede di un vescovo), il primo frettoloso e gratuito, gli altri con due, tre, quattro soste prima del camposanto, quante uno ne chiede, e veramente l’ala della morte posa sulle casette basse, sui rari e re­centi palazzi. Poi, quando l’ultima palata ha concluso la scena, il morto è morto sul serio, e anche il ricordo scompare. Rimane la croce sulla fossa, ma quella è affar suo. E, infatti nel cimitero, meglio nel camposan­to dominato da una rupe che sembra una parca, non c’è una cappella, un monumento. (Oggi non è più così: da quando la morte ha cessato di esistere è tutto pieno di tombe di famiglia: sa’ è Manca2, quella di Manca, così si chiamava, credo dal nome del pro­prietario anticamente espropriato, è diventata oltre le costose muraglie, oltre gli assurdi colonnati, la continuazione della città imborghesita). E così questa Carboni si era dissolta nel nulla, nonostante i cinque figli che aveva messo al mondo, e di lei non ricorda­vano neppure il nome di battesimo, protesi com’erano ciascuno nell’avventura della propria vita. Del resto, oltre questa faticosa avventura, erano vivi essi stessi, sentivano come vive le persone che il destino aveva legato al loro carro, mogli, figli,  servi, parenti?

Don Sebastiano afferrò il lume a petrolio, grande globo bianco su un piede iridato, e s’inoltrò per il vano della scala. I1 buio era immenso, e col passo incerto un occhio tondo di luce vagava rapidissimo sul soffitto. Vent’anni prima egli aveva costruito quel­la casa, su un terreno comprato da certi miserabili napoletani che il vento aveva spinto fino a Nuoro, e il vento aveva respinto chissà dove. L’impresa non era stata semplice, con sette figli maschi da gettare nel futuro, e partendo si può dire da zero, in un mondo che di speranza non voleva assolutamente sentirne. Ma essere notaio in un paese è un privilegio ine­stimabile, perché, come si diceva, una procura fa bol­lire la pentola; e oltre quel ridicolo atto che è la pro­cura (3 lire e 50 di onorari) c’erano i testamenti, c’era­no le vendite che già cominciavano a farsi per iscritto, poiché la parola perdeva valore, c’erano i contratti che quei signori del continente venivano a stipulare per il taglio dei boschi e la devastazione dell’isola. Costoro erano gente meravigliosa, che trasformava in oro quel che toccava (qualcuno però finiva col resta­re nell’isola, preso dalla sua demoniaca tristezza). Non pareva vero ad essi, abituati a quei notai affaristi del continente, di trovare un notaio che si qualificava ro­manticamente depositario della fede pubblica, e pro­curava loro gli affari, trattava i prezzi coi proprietari, e tutto questo senza pretendere un soldo (anzi rifiu­tando ogni offerta) oltre la tariffa dell’atto. Non im­porta: ciò che conta non è guadagnare molto, è spen­dere poco, anzi non spendere affatto, se possibile, e possibile era per via dei capretti, degli agnelli che la buona gente mandava in regalo. Una volta, la prima e l’ultima volta, si era lasciato attrarre nel circolo de­gli ufficiali (Nuoro era anche sede di una guarnigio­ne), e si era seduto a un tavolo da gioco. Dopo mez­z’ora – inadatto com’era – aveva perduto trenta lire. Aveva aspettato che la mano toccasse a lui (la digni­tà sopra tutto) e allora si era alzato, resistendo a tutte le lusinghe. Tornato a casa, per tre notti di seguito aveva fatto di suo pugno le copie destinate all’ama­nuense, fino a compensare le trenta lire. Così, dice­vano i maligni, le aveva pagate l’amanuense. Ma che importa? Qualcuno deve sempre pagare.

Se con un soldo si compra un mattone, la casa vien su da sé. Già, sarebbe troppo bello. Il fatto è che la casa di un notaio non può essere come la casa di un contadino di Sèuna3, con la sua corte4, il suo rustico patio, la catasta della legna, le loriche5 per il giogo, e in fondo la cucina col focolare in mezzo alla stan­za: questa si è fatta da sé attraverso i secoli, come l’uccello si fa il suo nido. Don Sebastiano ha bisogno di un ingegnere, e l’ingegnere è là nella casa di fron­te, la casa signorile forse più vecchia di Nuoro, chiu­sa come un fortilizio, piena di donne e di matti, con le finestre sempre chiuse, le porte che si aprono solo per segnali convenuti. Don Gabriele Mannu, come tut­ti i Mannu, era ricco e viveva in miseria: ma era stato a Roma, aveva studiato, ed era tornato ingegnere, in un paese dove da cent’anni non si costruiva una casa. Quel terreno dei miserabili napoletani, quel notaio in­traprendente si offrivano alla sua pigrizia ancestrale lordata sulla diffidenza di se stesso prima che degli al­tri (rispondeva sempre di no prima di sapere che cosa si volesse da lui) come un banco di prova e una sfida. E così stese disegni su disegni, calcoli su calcoli. Tut­to bene, ma egli aveva in mente i palazzi di Roma, le scalee dove gli antichi salivano a cavallo (aveva letto), e così invece di una casa fece una scala, un vano immenso nel quale a ogni piano si aprivano dei buchi , che erano stanze, una dentro l’altra, destinando al sacrificio e alla insofferenza la crescente fa­miglia. Vero è che la gente stupiva, guardando di là dalla soglia, di quell’atrio inutile e immenso, e co­minciava a favoleggiare di chissà quali ricchezze, an­che se il capomastro andava dicendo che senza il suo provvidenziale intervento Don Sebastiano sarebbe do­vuto entrare carponi nel suo palazzo, tanto bassa era stata concepita dall’ingegnere l’architrave che reggeva la porta.

Per questo, la discesa serale dallo studio al piano terreno era quasi un viaggio, e per questo l’occhio ton­do del lume a petrolio vagava su e giù per le volte, al vacillare del passo. Ma finalmente si odono le risa, gli strilli, le liti, e Don Sebastiano può spegnere il lu­me, soffiando dall’alto nel suo lungo tubo di vetro en­tro il quale arde la fiamma.

Un altro lume più grande ardeva nella stanza da pranzo, questo con un piede di bronzo che accoglieva un vaso, simile a un’urna, ornato di trasparenti scene di caccia, su uno sfondo lievemente azzurro. Un lume come quello oggi varrebbe chissà quanto: ma i San­na, nel loro maledetto istinto di dissoluzione, non hanno lasciato la più piccola traccia del loro passato. La morte è eterna ed effimera in Sardegna non solo per gli uomini ma anche per le cose. Ardeva, quel lu­me, su un grande tavolo ovale, che occupava quasi tutta la stanza (la credenza di mogano coi piatti buoni esposti di sopra, e in un angolo la scodella coi soldoni di rame e le lire d’argento della spesa do­mestica; di sotto le grandi ostie del pane in enormi pile, che ogni quindici giorni si rinnovavano, era inca­strata nel muro divisorio dall’attigua cucina): ma la luce che illuminava i visi dei sette ragazzi, l’ultimo poco più che decenne, non veniva da quel lume, ma dalle elci ardenti del caminetto, dall’unica fonte di calore di tutta la casa. Donna Vincenza, moglie e ma­dre, stava in un angolo, avvolta nei suoi panni neri. come si conveniva ai suoi cinquant’anni, esausta, in­grossata dalle maternità, il capo sempre chino sul petto. Ciascuno di quei figli era ancora come dentro le sue viscere, e nel suo silenzio ascoltava le loro voci come i moti segreti e misteriosi di quando erano nel suo seno. Essi erano la sua vita, non la sua speranza. Perché Donna Vincenza era una donna senza speranza […].”

 

Note

1. Si riferisce  Carlo V, (1500-1556), imperatore di un impero “su cui non tramontava mai il sole”. Era anche re di Sardegna. 

2. Sa’ è Manca (significa: quella di Manca). Questa grafia del Sardo riprende quella arbitraria e sbagliata del dattiloscritto, con l’accento sulla e. Quella corretta –presente nel manoscritto- è : Sa ‘e Manca (in cui il segno grafico ‘ indica che è stata elisa la d).

3. I personaggi di Salvatore Satta vivono a Nuoro, una piccola città con 7051 abitanti, ,”borgo” la chiama, alla maniera di Leopardi. Essa è divisa  in tre parti:  Seuna, abitata dai contadini, San Pietro, abitata dai pastori e il Corso, la strada principale che divide Nuoro in tutta la sua lunghezza abitata dai “Signori” , dalla borghesia.

4. La corte (dal sardo sa corte o colte) faceva parte integrante della casa del contadino e non solo, serviva soprattutto per la custodia degli animali ma anche come legnaia ecc.

5. Loriche (o lorighe) sono termini sardi che indicano gli anelli. Venivano conficcati nel muro e servivano per legare gli animali, soprattutto i cavalli. 

 

Giudizio critico

Ha scritto Vittorio Spinazzola […] L’opera postuma e incompiuta di Salvatore Satta  acquista il valore di una rappresentazione totale dei motivi di travaglio della condizione umana. Memoria e antimemoria, riferimenti di realtà e invenzioni romanzesche, laicismo iperrazionalista e pathos struggente, condanna del presente e ripulsa del passato, tensione giudicatrice e rinuncia a giudicare, ossessione mortuaria e vitalismo cosmico, compianto fraterno e ironia tagliente: una somma di attitudini discordi anzi contraddittorie trovano equilibrio organico in un’opera che è assieme testimonian­za di una verità sofferta individualmente ed epitome storico-sociale sulla sorte di una etnia, un costume di vita minacciati dal volgere dei tempi […].

[in Salvatore Satta, oltre il Giudizio, a cura di Ugo Collu, Donzelli editore, Roma 2005, pag.61].

 

ANALIZZARE

La morte è effimera e insieme eterna: è il tema che attraversa tutto il romanzo ed è presente fin dall’incipit, proprio in questo passo, per poi essere ripreso in alcuni punti fondamentali della narrazione e anche nella pagina conclusiva.

Con due dei suoi icastici, lapidari e fulminanti aforismi, “Nulla è più eterno a Nuoro, nulla più effimero della morte” e “La morte è eterna ed effimera in Sardegna non solo per gli uomini ma anche per le cose” Satta entra subito, per così dire, in medias res. Sono parole che colpiscono per la loro paradossale contraddittorietà, per quei due predicati fortemente antitetici, per gli ossimori che formano.

Il romanzo è pervaso dunque dal senso della caducità che toglie ai personaggi consistenza, vigore, vitalità. Per Satta, uomini e cose, eventi e storia sono e devono rimanere effimeri e fuggevoli, transitori, precari e labili. La vita e la morte hanno questa tragica connotazione. C’è di più: il morire di un individuo è inteso non solamente come un distacco dalla sua fisicità, ma anche come una sua cancellazione definitiva dalla memoria dei vivi. La non presenza del defunto comporta e implica, più o meno progressivamente ma inesorabilmente la sua non ricordanza da parte dei superstiti. E l’autore cita in questo passo, come esempio, la sorte delle sue nonne, quella paterna, di cui soltanto il cognome era rimasto nel timbro notarile di don Sebastiano e quella materna, il cui unico ricordo era un ritratto, scomparso poco dopo la sua morte, ma ormai nessuno sapeva più che era esistente.

Nell’aforisma “la morte è eterna ed effimera…” sembra di avvertire qualcosa di cupo e di misterioso, un cupio dissolvi perentorio e oscuro: neanche la morte può avere un significato, o meglio deve deperire nel suo significato. Si delinea così una prospettiva infinita di caducità, in un tragico e chiuso orizzonte, senza speranza: ”Donna Vincenza era una donna senza speranza”.

L’autore impiega il discorso indiretto uniformemente attraverso tutto il romanzo, con l’esclusione di alcune iniezioni autoriflessive su cui in prima persona si sofferma, quasi per rallentare il flusso della narrazione. Il discorso assume allora un andamento divagatorio e digressivo con un ricorso frequente a prolessi e analessi.

Nel Giorno non c’è dunque che la voce del Satta, tutto il resto è silenzio. Silenzio assoluto dei personaggi e quindi assoluta mancanza di uno scambio di voci, di interazione di due espressioni, di sovrapporsi di due stili. L’io narrante volontariamente si sostituisce alle voci degli altri. In questo romanzo infatti l’interlocutore non esiste e di conseguenza non esiste la sua volontà. Allegoricamente, in un’operazione metalinguistica all’interno del testo, troviamo esemplificato quest’atto repressivo come una pratica comune nella vita dei Sanna-Carboni e dei nuoresi, si pensi alla sorte di Donna Vincenza, zittita ripetutamente da Don Sebastiano che fa leva sulla inutilità e ridondanza della voce della  moglie

La caratteristica dominante del suo linguaggio è il nitore e la profondità della parola, l’asciutezza –tacitiana, verrebbe da dire-  dello stile aforistico, degli enunciati sentenziosi, proferiti con l’assertività di chi ribadisce verità indiscutibili.  

 

FLASH DI STORIA

-La dimensione “visionaria” nella produzione artistica sarda e in Salvatore Satta

“[…] “L’altro aspetto presente nella nostra produzione artistica è -a mio avviso- quello visionario. La modalità visionaria, invocata da Jung, è presente in molte espressioni artistiche sarde. A livello più semplice questa modalità sem­bra, in un certo senso, nutrirsi del chiaroscuro della indiscriminazione, della difficoltà a discernere e separare la dimensione fantastica da quella reale. D’altronde, al di là della creazione artistica, tende a permanere in noi sardi, accanto a una ruvida e persino spietata concretezza cognitiva, un alone fantastico, quasi mitico, che circonfonde la percezione e la coscienza del rea­le. Sebbene cognitivamente logici, in una consequenzialità rigorosa che può sfiorare la rigidità, siamo perciò sempre sopra o sotto le righe nella consape­volezza di noi stessi e della realtà.

A livello elevato la modalità visionaria entra nella realizzazione artistica di opere d’alto profilo. Esempio della tensione visionaria in tutta la sua forza dirompente e creativa è lo straordinario romanzo di Salvatore Satta Il giorno del giudizio. La dimensione visionaria trova qui la sua più profonda e intima essenza. È questa vettorialità visionaria, di stile junghiano, che dall’artista si trasmette alla sua opera, a conferire al romanzo la sua violenta bellezza. Dietro la sua trama narrativa tacitianamente essenziale, dietro le sue storie nude e fe­roci, dietro le sue vicende senza appello -come è stato osservato- ne sentia­mo l’arcaico pulsare. Questa febbre visionaria pervade il mondo sattiano, so­speso nell’attesa del giudizio, come una luce che penetra in una stanza oscura.

La gente di Nuoro con i suoi uomini e le sue donne, gli avvocati, gli abigeatari, i contadini, i pastori, i piccoli nobili, gli omicidi, le prostitute, i preti, i maestri elementari, i notai, i politici, etc. prima di inabissarsi e scomparire per sempre nel cono d’ombra e di silenzio viene investita da questa luce visionaria che la definisce e la rivela, quasi la folgora, rendendola universale. “Il sogno galoppava in quelle brulle lande” scrive il Satta. La pulsione visionaria sembra perciò tanto forte da rappresentare il polo dialettico oppositivo al Thanatos, altrettanto potente che rende la morte “eterna ed effimera”. Ma i dissolventi morituri sognano. In questo tendere a un’ulteriorità si potrebbe cogliere un afflato quasi blochiano, sebbene giocato su un registro irrimediabilmente diverso”

[Nereide Rudas, in “Quaderni Bolotanesi”, n.25, anno 1999, pagg.31-32] 

-Il giorno del giudizio

Il titolo del capolavoro del Satta è preso dalla Bibbia. In die iudicii “nel giorno del giudizio” è infatti un’espressione che ricorre letterariamente sette volte nella traduzione latina della Bibbia (Vulgata). Una volta nell’Antico Testamento nel libro di Giuditta (16,17: <Il Signore onnipotente li punirà il giorno del giudizio> e sei volte nel Nuovo Testamento: tre volte nel Vangelo di Matteo (Mt. 10,15; 11,24; 12,36), due volte nella seconda lettera di Pietro (2 Pt 2,9; 3,7) e una volta nella Prima lettera di Giovanni 84,7).

Michelangelo nel suo capolavoro pittorico della Cappella Sistina, ha colto quel momento supremo di verità e di realtà il cui il Giudice universale <giudica> ossia <discerne> tra buoni e cattivi e quindi <separa> i giusti dai malvagi, operando l’atto supremo di giustizia.

 

 

Lettura [brano tratto dal XV capitolo della Veranda di Salvatore Satta, Adelphi Edizioni, Milano 1981, pagg178-183]

“Sono andato alla visita. Gli ho detto che mi sen­tivo benissimo. Mi ha trovato benissimo, e mi ha concesso di partire.

Milano.

« Dazio, signore ».

Mi fermo dinanzi a questo improvviso ostacolo umano, fra me e la città sonora. Quest’uomo in­gabbanato di nero, curvo sulla mia valigia, la sop­pesa con le mani rudi, guardandomi di sotto in su fisso negli occhi. Io resto senza parola, quasi so­praffatto, cercando nella mia memoria un lontano perché; intanto il mio silenzio ha indotto co­stui a risospingermi dolcemente verso l’interno, davanti a un tavolo lungo, dove la mia valigia è is­sata, accanto ad altre uguali, così come io mi ri­trovo accanto ad altra gente uguale. Ho scoper­chiato la valigia al cenno d’un nuovo venuto in­gabbanato di nero, che ha dato un colpo secco con l’indice sopra la fibra. Rivedo la mia biancheria con la matricola rossa, la piccola Santa Teresa, lo spruzzatore defunto, lo scaldapiedi foderato di la­na, tutta una vita. Le sue mani si sono tuffate tra quelle povere cose…

Qualcuno ha sollevato di peso la valigia, me l’ha tolta di mano. Mi volto tutto trepidante. E’ uno con una casacca blu, e una grossa patacca sul pet­to. Veramente volevo portarla da me all’albergo più prossimo; ma quest’uomo mi si è messo davan­ti e sembra mi conduca dove vuole lui. Davanti alla bussola di un hotel si arresta. Quanto debbo dar­gli? Non saranno che venti passi: basteranno due lire. Ma non sono bastate, perché non mi ha de­gnato d’un saluto, anzi voltando le spalle, lui ha lanciato qualche parola che doveva essere un moc­colo. Forse però era ubriaco… Odorava terribilmente di vino.

Ora io scendo, a piedi, giù fino in piazza. Via Principe Umberto, Piazza Cavour. E’ bene invec­chiata in due anni questa città. Sulle case s’è diste­sa una patina bigia, un misto di polvere, di fumo, di umido. O forse è soltanto l’aria, la stessa aria che si respira, perché queste lunghe file di gente che mi passano accanto hanno un pò lo stesso aspetto di queste case. Mi f’ermo a una vetrina di mode: mi appaio in uno specchio lungo, tra due manichini estatici. C’è una bella differenza : le mie carni sono sode, il mio occhio è vivo, la mia pelle è bronzea, quasi dorata. Questa gente è flaccida, giallastra in viso, e per quanto si dia un gran da fare, tradisce un’interna stanchezza negli occhi. Ma poi, non senti? I miei polmoni si ribellano a questo innominabile miscuglio. Sembra aria già respirata. Piego a sinistra. E’ meglio arrivare in piazza per vie più tranquille.

C’è un caffè, all’angolo di questa strada. Se pren­dessi qualcosa? Ma, come passo, una zaffata orrenda mi invade le narici. E’ un tanfo di vapore, di rigo­vernatura, di alcool, che mozza il respiro. Come si faccia a vivere là dentro, io non lo so. Eppure, sbir­ciando, ho notato due che sembrano essersi dimen­ticati a un tavolino di marmo. Ma comincio a du­bitare che quest’odore mi si sia appreso alle narici: perché da ognuno di questi tuguri, da ognuno di questi anditi lunghi rischiarati in perpetuo da una lampadina con la museruola, tutta tempestata di mosche, promana lo stesso sito; e forse ogni uomo che mi sfiora passando sente un poco allo stesso modo.

Un’insegna gialla, con una vacca dipinta. Per­bacco! Come la polvere sulle cose, e le cose sopra la terra, io credo che le impressioni si dispongano a strati nel nostro cervello. Le ultime coprono le prime, e sembrano averle sepolte del tutto, quan­d’ecco, come a un colpo di piccone, a un improv­viso richiamo queste risorgono, più vive di prima, e risorge il passato con esse. E’questa la latteria nella quale, per tanto tempo, ho consumato le mie parche colazioni, quando mi affacciavo alla vita. Quanti anni, là dentro-, e quante speranze, tra me, e X e Y intorno a quei tavoli! E se ci tornassi, ancora una volta? Accidenti, ma anche l’aria sa di rinchiuso, anche qui. Eppure, prima non era, o al­meno non mi sembrava. Istintivamente, lascio la porta aperta, e mi dispongo in modo che l’aria mi colpisca diritta nel viso. Ma ho appena fatto due passi verso il tavolino di fronte che una voce urla dal fondo: «Mani non ne ha, lei?». Sento un tuffo nel cuore, in tutto il corpo: ma non mi volto. Fac­cio due passi indietro, richiudo la porta, mi siedo ad un tavolo; e solo quando sono seduto avvio lo sguardo da quella parte. Quel troglodita mi guarda fissamente, quasi attendendo da me che gli pro­vi che le mani le ho, e sode anche, se occorre. Ma io abbasso gli occhi, intimidito. E’ un’ingiustizia così grande che mi vien voglia di piangere.

E’ venuto un cameriere e mi ha detto con voce secca: «Comanda?». Ho alzato gli occhi. L’ho ri­conosciuto sotto la patina grigia. È lo stesso d’un tempo. Ora ha la testa impomatata, i denti neri di fumo e di carie: e indossa un abito nero pieno di pillacchere, che io guardo con terrore, e che pare ingrandiscano, si espandano al fissarle. Ma prima, era così? Per fortuna egli non mi ricorda. Non ho desiderio alcuno di essere ricordato da lui. «Comanda?» mi ripete egli, e stavolta il suo timbro è più aspro, così ch’io penso: mi comanda di coman­dare. E gli dico: «Un cappuccino, anzi, un caffe­latte». Quello si allontana: ha i piedi piatti. E come tutto si è insudiciato in questo frattempo! Si direbbe che non abbiano mai spazzato, mai lavato il banco, mai tolto la polvere dai muri. E questa tazzina tutta scrostata, come se ciascuna delle mille labbra che vi si sono posate abbia sottratto la sua particella di smalto. Trangugio in fretta la broda che mi fuma davanti (ho vergogna di lasciarla lì nella tazza), lascio due lire sul tavolo, ed esco. Il cameriere impillaccherato, che mi spiava dal ban­co, nel vedere l’insolita mancia mi rincorre, mi apre la porta, mi si sprofonda in inchini. Levati di mezzo, imbecille, se non vuoi che ti faccia ruzzo­lare nel fango. Sono fuori. Sono solo. Bisogna che esca da questo labirinto di strade, che mi affretti altrove, che fugga.

Senza dubbio è la solitudine che mi ha reso così sensibile, così insofferente. Come i miei polmoni, avvezzi all’aria libera e pura, mal sopportano il peso di questa atmosfera dai cento ingredienti, co­sì i miei nervi disabituati non reggono al contatto con gli uomini e con le cose degli uomini. Ecco due che passano e ridono rumorosamente. Che co­sa hanno da ridere? Non può essere una allegria sincera, perché io non so veramente di che cosa si possa essere allegri sulla terra. Ed è tanto vero che l’altra gente si volta al loro passare, e li guarda at­tonita, con l’aria di dire: Son pazzi! Questo che più di tutti li segue, e presta orecchio alle risa, de­v’essere un viaggiatore di commercio. Ha una bor­sa pesante sotto il braccio, e fa fatica a portarla, as­setta tutto com’è, con quei ventagli di orecchie che gli fanno da cariatidi al cappello calato sul viso. Sembra lo specchio dell’umana miseria, ed io già mi rifletto in lui, quand’egli si scontra con una femminuccia che gli attraversa la strada. Gli si so­no accesi gli occhi, e tanto ha fatto che l’ha stri­sciata col braccio. Quella si è voltata e gli ha fatto uno sberleffo. Senza dubbio lo sberleffo era diretto alla sua miseria di uomo; ma intanto quella mise­ria già non mi appare più degna di pena; ha qual­che cosa di viscido in sé, di desiderio insaziato che mi ripugna. Possibile che io abbia perduto così il senso della realtà, che non ci sia qualcosa più nella vita che vibri all’unisono con me? Questa strada liscia asfaltata, che io imbocco con la furia di un fuggitivo, conduce diritta ai giardini. Le sagome brune degli alberi, che la sera imminente fa gigan­teggiare davanti ai miei sguardi, mi appaiono co­me colonne poste al termine di un mondo. Biso­gna affrettarsi a varcarle. Raddoppio il passo. Un cancello mi taglia la strada. Sono giunto tardi. Di là dal cancello, al quale mi appoggio un istan­te, non c’è la grande pace dei vegetali immersi nel sonno. Grida e strida, che l’oscurità sembra rende­re umane, rompono l’aria; a tratti, un tempestare d’ali; un muggito, soliloquio triste. Nei giardini stanno prigioniere alcune famiglie di animali. Ed ecco, questa notte insonne degli esseri senza ragio­ne accresce la mia tristezza, e mi pare che l’irre­quietudine loro sia la stessa mia irrequietudine, o che l’inquietudine sia al fondo di tutte le cose crea­te, degli atomi come dei mondi, che senza posa anch’essi si aggirano nell’inquieto infinito. Alzo gli occhi al ciclo, dove fra qualche nuvola bassa c’è già un tumulto di stelle […]

 

 

COMPRENDERE E VALUTARE

Altre attività didattiche per lo studente

 

Approfondimenti

-La rappresentazione paesistica segna i pochi momenti di distensione assorta che lo scrittore si concede, sia che contempli lo spettacolo della fioritura sia che indugi con occhio esperto sul suo rigoglio. Approfondisci il tema della natura custode di un mistero di fertilità, mettendo in rilievo i luoghi in cui si compiono le fatiche agricole, trasfigurate in luce di accaloramento commosso: è il caso della cantina del notaio, quando si procede alla vinificazione o, meglio, alla “creazione del vino”.

-I protagonisti del romanzo, come quasi tutti gli altri personaggi, sono innervati da una profonda solitudine, dolente e tormentosa, così radicata e perenne da assumere i contorni di una sofferenza a cui ci si è ormai abituati. Metti in rilievo la personalità di Donna Vincenza con le quotidiane “crudeltà”, le sorde incomprensioni e soprattutto i cupi silenzi.

Confronti

-La caducità che innerva Il giorno del giudizio, non è un tema nuovo nella narrativa sarda. Già Grazia Deledda, ad esempio, aveva scritto Cenere, anche se in esso la caducità è riferita alla nascita mentre nel Giorno di Satta è riferita soprattutto alla morte. Metti in rilievo somiglianze e diversità.

<Nulla è più eterno a Nuoro, nulla più effimero della morte>. <La morte è eterna e effimera in Sardegna>. Con queste espressioni Satta esprime una visione pessimistica che muovendo dall’Ecclesiaste, attraversa i classici della Letteratura e della filosofia ed esclude ogni visione del progresso e dello sviluppo lungo quel filone che congiunge Schelling a Schopenhauer a Nietsche e a Bergson, (l’autore di Materia e memoria) e giunge al pensiero contemporaneo. Illustra analogie e diversità del Satta con questi pensatori.

Ricerche (anche a mezzo internet)

-Registra i personaggi presenti in Il giorno del giudizio: specialmente gli avvocati, gli abigeatari, i contadini, i pastori, i piccoli nobili, le prostitute, i preti, i maestri elementari, i notai, i politici.

-Anche il titolo De Profundis è preso dalla Bibbia: si tratta del Salmo 130, un canto molto caro alla liturgia penitenziale della Chiesa. Lo stesso Salmo ha goduto di una vasta letteratura in quanto ad esso si sono ispirati letterati illustri come Charles Baudelaire, Paul Claudel, Oscar Wilde. Nonché molti grandi musicisti come Liszt, Felix Mendelssohn-Bartholdy, Arnold Schönberg. Servendoti anche di Internet registra scrittori e musicisti che si sono ispirati a questo salmo.

Spunti vari

La vita per Salvatore Satta non è che un itinerario luttuoso, un simulacro, un fantasma, rappresentato in funzione della perdita e del congedo. Sembra di ritrovare accenti leopardiani. O anche foscoliani? Argomenta le tue riflessioni in proposito.

 

 

 

Bibliografia essenziale

Opere (narrative) dell’Autore

– De profundis, Ed. Cedam, Padova 1948. (Ripubblicato dall’Adelphi, Milano 1980 e dalla Ilisso, Nuoro 2003 con prefazione di Remo Bodei).

– Il giorno del giudizio, Ed. Cedam, Padova 1977 (Ripubblicato da Adelphi, Milano 1979; Euroclub, Milano 1979; Gruppo editoriale Fabbri-Bompiani-Sonzogno-Etas, Milano 1982; Ilisso, Nuoro 1999).

-La veranda, Ed. Adelphi, Milano 1981.(Ripubblicato da Euroclub, Milano 1982; Ilisso, Nuoro, 2002)

Opere critiche sull’Autore

Salvatore Satta, oltre il giudizio, a cura di Ugo Collu, Ed. Donzelli, Roma 2005. 

Un millennio di solitudine di Gorge Steiner in New Yorker, 19 Ottobre 1987 ora ripubblicato come introduzione alla riedizione de Il giorno del giudizio, Ilisso editore, Nuoro 1999.

L’offerta letteraria. Narratori italiani del secondo Novecento di Vittorio Spinazzola, Ed. Morano, Napoli 1990.

 

*Tratto da Letteratura e civiltà della Sardegna, volume I, di Francesco Casula, Grafica del Parteolla Editore, Dolianova, 2011, pagine 179-189

 

 

 

MICHELA MURGIA SCRITTRICE

 

MICHELA MURGIA*

 

La vincitrice del Premio Campiello che sogna una Sardegna indipendente (1972-)

Nasce a Cabras nel 1972. Di formazione cattolica è stata educatrice[ ed animatrice nell’Azione Cattolica, ricoprendo il ruolo di Referente Regionale del settore Giovani. Ha ideato uno spettacolo teatrale rappresentato nella piana di Loreto al termine del pellegrinaggio nazionale dell’Azione Cattolica del settembre 2004, al quale ha assistito anche Papa Giovanni Paolo II.

Ma rispetto alla sua vita, ecco quanto lei stessa scrive nel suo Sito ufficiale: “Sono nata in Sardegna e per quanti indirizzi abbia cambiato in questi anni, dentro non ho mai smesso di abitarla, sognandola indipendente in ogni accezione del termine. Mi sono diplomata in una scuola tecnica e dopo ho fatto studi teologici, ma questo non ha fatto di me una teologa, almeno non più di quanto studiare filosofia faccia diventare la gente filosofa. Non mi piace essere definita giovane, a 37 anni essere considerati adulti dovrebbe essere un diritto. Non fumo, non porto gioielli preziosi, detesto i graziosi cadaveri dei fiori recisi, i giornalisti che mi chiedono quanto c’è di autobiografico e gli aspiranti pubblicatori che mi mandano da valutare romanzi che non leggerò mai, perché preferisco di gran lunga i saggi. Sono vegetariana, ma so riconoscere le occasioni in cui si può fare uno strappo. Per etica politica mi definisco di sinistra, e nel mio ordine interiore quella parola ha ancora senso. Sono sposata, e questo mi ha resa una persona più trattabile, anche se mi rendo conto che a leggere questa biografia non si direbbe”.

Nel 2006 ha pubblicato Il mondo deve sapere, la tragicomica storia di una ragazza al lavoro in un call center che ha poi ispirato il film di Paolo Virzì, Tutta la vita davanti.  Dal libro è stata anche tratta un’opera teatrale per la regia di David Emmer.

Michela Murgia racconta, con tono esilarante e con ironia,  la storia una ragazza laureata, Camilla, che trova impiego come telefonista presso il call-center di un’azienda che vende elettrodomestici porta a porta, offrendo una versione del precariato vissuto in prima persona, sulla propria pelle e dunque visto dall’interno.

Nel 2008 ha pubblicato Viaggio in Sardegna. Undici percorsi nell’isola che non si vede: ovvero oltre l’Isola oleografica delle cartoline e dei depliant turistici, rivelandone la storia, le leggende, i riti e le scaramanzie, il carattere della sua gente: una sorta di guida insomma ai luoghi meno esplorati di un’Isola. dai mille misteri a cominciare dai suoi abitanti, così diversi e dissonanti rispetto agli italiani.

Questa storia – scrive Murgia –  è un viaggio in compagnia di dieci parole, dieci concetti alla ricerca di altrettanti luoghi, più uno. Undici mete, perché i numeri tondi si addicono solo alle cose che possono essere capite definitivamente. Non è così la Sardegna, dove ogni spazio apparentemente conquistato nasconde un oltre che non si fa mai cogliere immediatamente, conservando la misteriosa verginità delle cose solo sfiorate.

Nel maggio 2009 ha pubblicato il romanzo Accabadora, una storia che intreccia nella Sardegna degli anni cinquanta i temi dell’eutanasia e dell’adozione. Il romanzo è uscito in traduzione tedesca nel 2010 per l’editore Wagenbach. Con questo libro ha vinto la sezione narrativa del Premio Dessì nel settembre 2009, il SuperMondello nell’ambito del Premio Mondello nel maggio 2010 e nel settembre dello stesso anno il Premio Campiello.

A proposito di Accabadora Angiola Codacci-Pisanelli, sul Settimanale L’espresso del 05-06-2009  scrive: “Sarebbe bello leggere ‘Accabadora’ di Michela Murgia (Einaudi) senza sapere cosa vuol dire il titolo, e scoprire insieme alla protagonista, Maria, qual è la professione segreta della sua madre adottiva, Tzia Bonaria Urrai. Sarebbe bello ma non si può: la quarta di copertina lo spiega subito. ‘Acabar’ in spagnolo significa finire, e nella Sardegna di ieri – e forse di oggi – ‘accabadora’ è ‘colei che finisce’, colei che porta al moribondo e alla famiglia stremati dall’agonia la ‘dolce morte’. Ma non è un libro sull’eutanasia, questo romanzo della Murgia, un’altra esordiente che la febbre di nomi nuovi lancia nelle librerie in questo 2009. Malgrado la foto funerea in copertina, c’è più amore che morte in queste pagine, e c’è uno stile che disegna ogni personaggio, ogni scena, ogni frase con l’accuratezza con cui Tzia Bonaria Urrai cesella le asole. Maria nasce, quarta figlia femmina non voluta, in una famiglia poverissima, cresce come “filla de anima” di una vecchia sarta che cuce per i clienti i vestiti della festa e, quando serve l’ultimo ‘cappotto’: lo dice lei stessa ridendo tra sé, con un umorismo che corre sottotraccia per tutto il libro. Quando intuisce di cosa la sua madre “de anima” vorrebbe farla erede, Maria fugge. Ma neanche Torino è abbastanza lontana, anche lì ci sono drammi segreti, amori impossibili, e il richiamo di un destino che diventa tale solo quando lo si accetta”.

Nel 2011 ha pubblicato Ave Mary, il libro, come ci tiene a sottolineare l’autrice, non è un saggio ma una conversazione con le donne e sulle donne. Contrariamente al titolo, non è un libro su Maria, ma proprio da Maria – madre di Gesù – trae spunto per discutere delle condizioni impari con cui la donna, attraverso i secoli, ha sempre dovuto combattere. 

 

Presentazione del testo [tratto da Accabadora, Ed. Einaudi, Torino, 2009, pagine 3-9].

Maria «la quarta» femmina di una madre vedova, Anna Teresa Listru, per cui rappresenta un problema, un’ulteriore bocca da nutrire, l’errore dopo tre cose giuste più che una figlia da amare.  finisce a vivere in casa di Bonaria Urrai. Diventa così fill’ e anima  di Tzia Bonaria: una vecchia da quando era giovane, vestita di nero, vedova di un marito che non l’aveva mai sposata. Ma, per fortuna ricca. Perché se non fosse nata ricca, Bonaria Urrai avrebbe fatto la fine di tutte quelle rimaste senza uomo, altro che prendersi una fill’e anima.

Ma perché Maria sia finita a vivere in casa di Bonaria Urrai, è un mistero che si fa fatica a comprendere a Soreni, di qui i commenti malevoli della gente, che accompagnano le loro camminate in quelle strade del paese che sembrano emerse dalle case stesse come scarti sartoriali, ritagli, scampoli sbilenchi, ricavate una per una dagli spazi casualmente sopravissuti al sorgere irregolare delle abitazioni, che si tenevano in piedi l’una all’altra come vecchi ubriachi dopo la festa del patrono.

Ma il mistero è presto svelato: Tzia Bonaria ha preso Maria con sé, per farla crescere e farne la sua erede, sottraendola alla povertà estrema della sua vera famiglia, chiedendole in cambio la presenza e la cura per quando sarà lei ad averne bisogno. Maria abituata a pensarsi, lei per prima, come «l’ultima», è  sorpresa dal rispetto e le attenzioni della vecchia sarta del paese, che le ha offerto una casa e un futuro, ma soprattutto la lascia vivere e non sembra desiderare niente al posto suo.

Ma c’è qualcosa in questa vecchia vestita di nero e nei suoi silenzi lunghi, c’è un’aura misteriosa che l’accompagna, insieme a quell’ombra di spavento che accende negli occhi di chi la incontra. Ci sono uscite notturne che Maria intercetta ma non capisce. Quello che tutti sanno è che Tzia Bonaria Urrai cuce gli abiti e conforta gli animi, conosce i sortilegi e le fatture, ma quando è necessario è pronta a entrare nelle case per portare una morte pietosa a chi è stremato dall’agonia. Ma Maria, inizialmente non lo immagina e non lo sospetta neppure. Quando lo scopre e se ne avvede segue il consiglio della maestra Luciana: Ti serve un’altra vita, dove nessuno sappia chi sei, di chi o di cosa sei figlia. Per ricominciare altrove, tagliarsi il cordone in un momento preciso dell’esistenza seclto da lei, senza levatrici né debiti apparenti.

E Maria fugge a Torino. Ma ritorna. Come richiamata da un destino che si accetta. 

 

CAPITOLO PRIMO

“Fillus de anima.

È così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra. Di quel secondo parto era figlia Maria Listru, frutto tardivo dell’anima di Bonaria Urrai.
Quando la vecchia si era fermata sotto la pianta del limone a parlare con sua madre Anna Teresa Listru, Maria aveva sei anni ed era l’errore dopo tre cose giuste. Le sue sorelle erano già signorine e lei giocava da sola per terra a fare una torta di fango impastata di formiche vive, con la cura di una piccola donna. Muovevano le zampe rossastre nell’impasto, morendo lente sotto i decori di fiori di campo e lo zucchero di sabbia. Nel sole violento di luglio il dolce le cresceva in mano, bello come lo sono a volte le cose cattive. Quando la bambina sollevò la testa dal fango, vide accanto a sé Tzia Bonaria Urrai in controluce che sorrideva con le mani appoggiate sul ventre magro, sazia di qualcosa che le aveva appena dato Anna Teresa Listru. Cosa fosse con esattezza, Maria lo capì solo tempo dopo.

Andò via con Tzia Bonaria quel giorno stesso, tenendo la torta di fango in una mano, e nell’altra una sporta piena di uova fresche e prezzemolo, miserabile viatico di ringraziamento.
Maria sorridendo intuiva che da qualche parte avrebbe dovuto esserci un motivo per piangere, ma non riuscì a farselo venire in mente. Si perse anche i ricordi della faccia di sua madre mentre lei si allontanava, quasi se la fosse scordata già da tempo, nel momento misterioso in cui le figlie bambine decidono da sole cosa è meglio impastare dentro il fango delle torte. Per anni ricordò invece il cielo caldo e i piedi di Tzia Bonaria nei sandali, uno che usciva e uno che si nascondeva sotto l’orlo della gonna nera, in un ballo muto di cui a fatica le gambe seguivano il ritmo.
Tzia Bonaria le diede un letto solo suo e una camera piena di santi, tutti cattivi. Lì Maria capì che il paradiso non era un posto per bambini. Due notti stette zitta vegliando con gli occhi tesi nel buio per cogliere lacrime di sangue o scintille dalle aureole. La terza notte si fece vincere dalla paura del sacro cuore col dito puntato, reso visibilmente minaccioso dal peso di tre rosari sul petto zampillante. Non resistette più e gridò. Tzia Bonaria aprì la porta dopo nemmeno un minuto, trovando Maria in piedi accanto al muro che stringeva il cuscino di lana irsuta eletto a cucciolo difensore. Poi guardò la statua sanguinante, più vicina al letto di quanto fosse sembrata mai. Prese sottobraccio la statua e la portò via senza una parola; il giorno dopo sparirono dalla credenza anche l’acquasantiera con santa Rita disegnata dentro e l’agnello mistico di gesso, riccio come un cane randagio, feroce come un leone. Maria ricominciò a dire l’Ave solo dopo un po’, ma a bassa voce, perché la Madonna non sentisse e la prendesse sul serio nell’ora della nostra morte amen.

Quanti anni avesse Tzia Bonaria allora non era facile da capire, ma erano anni fermi da anni, come fosse invecchiata d’un balzo per sua decisione e ora aspettasse pazientemente di esser raggiunta dal tempo in ritardo. Maria invece era arrivata troppo tardi anche al ventre di sua madre, e sin da subito aveva fatto 1’abitudine a essere l’ultimo pen­siero di una famiglia che ne aveva già troppi. Invece in ca­sa di quella donna sperimentava l’insolita sensazione di es­sere diventata importante. Quando la mattina si lasciava alle spalle la porta e stringeva il sussidiario verso la scuo­la, aveva la certezza che se si fosse voltata l’avrebbe tro­vata li a guardarla, appoggiata allo stipite come a regger­ne i cardini.

Maria non lo sapeva, ma era soprattutto di notte che la vecchia c’era, in quelle notti comuni senza nessun pecca­to a cui dare la colpa di essere svegli. Entrava nella came­ra silenziosamente, si sedeva davanti al letto dove lei dor­miva e la fissava nel buio. In quelle notti la ragazzina, che. tra i pensieri di Bonaria Urrai credeva di essere il primo, dormiva senza ancora conoscere il peso di essere l’unico.

Perché Anna Teresa Listru avesse dato la figlia mino­re alla vecchia, a Soreni lo si capiva anche troppo bene. Ignorando i consigli della gente di casa aveva sbagliato ma­trimonio, passando i successivi quindici anni a lamentarsi di quell’uomo che si era dimostrato capace di far bene una sola cosa. Con le vicine, Anna Teresa Listru amava lagnar­si di come il marito non fosse riuscito a esserle utile nem­meno in morte, avendo magari la buona grazia di crepare in guerra per lasciarle una pensione. Riformato per sua po­chezza, Sisinnio Listru era finito stupidamente come era vissuto, schiacciato come un acino nel torchio sotto il trat­tore di Boreddu Arresi, per cui faceva ogni tanto il mez­zadro. Rimasta vedova con quattro figlie femmine, Anna Teresa Listru da povera si era fatta misera, imparando a fare il bollito – diceva – anche con 1’ombra del campani­le. Adesso che Tzia Bonaria aveva chiesto Maria in figlia, non le sembrava vero di poter infilare tutti i giorni nella minestra anche due patate dei terreni degli Urrai. Se il prezzo era la creatura, poco male: lei di creature ne aveva ancora altre tre.

Perché invece Tzia Bonaria Urrai si fosse presa in casa la figlia di un’ altra a quell’ età, davvero non lo capiva nes­suno. Isilenzi si allungavano come ombre quando la vec­chia e la bambina passavano per le vie insieme, suscitan­do code di discorsi a mezza voce sugli scanni del vicinato. Bainzu il tabaccaio si beava di scoprire come anche un ric­co, invecchiando, avesse bisogno di due mani per farsi pu­lire il culo. Ma Luciana Lodine, la figlia grande dell’idrau­lico, non vedeva necessità di procurarsi un’ erede per sop­perire a quello che poteva fare qualunque serva pagata bene. Ausonia Frau, che di culi ne sapeva piùdi un’infer­miera, amava chiudere il discorso sentenziando che nean­che la volpe vuole morire sola, e a quel punto nessuno di­ceva più nulla.

Certo, se non fosse nata ricca, Bonaria Urrai avrebbe fatto la fine di tutte quelle rimaste senza uomo, altro che prendersi una fill’e anima. Vedova di un marito che non l’aveva mai sposata, in altre condizioni sarebbe forse sta­ta bagassa, oppure suora di casa o di convento, con le im­poste sempre chiuse e il nero addosso finché avesse avuto respiro. A rubarle l’abito da sposa era stata la guerra, an­che se qualcuno in paese diceva che non era vero che Raf­faele Zincu sul Piave c’era morto: più facile che, furbo’ com’era, avesse trovato femmina lì, e si fosse risparmiato il viaggio per venire a spiegare. Forse era questo il motivo per cui Bonaria Urrai era vecchia da quando era giovane, e nessuna notte a Maria sembrava nera come la sua gon­na. Ma di vedove di mariti vivi il paese era pieno, lo sape­vano le donne che sparlavano e lo sapeva anche Bonaria Urrai, per questo quando usciva ogni mattina a prendere il pane nuovo al forno, camminava con la testa alta e non si fermava mai a parlare, tornando a casa dritta come la ri­ma di un’ ottava cantata.

In quella decisione di prendere una fill’ e anima, la co­sa più difficile per Bonaria non era stata certo la curiosità della gente, ma la reazione iniziale della bambina che si era portata in casa. Dopo sei anni di notti passate a con­dividere l’aria di una sola stanza con le tre sorelle, era evi­dente che lo spazio che Maria considerava suo non anda­va oltre la lunghezza del braccio. L’arrivo nella casa di Bo­naria Urrai sconvolse questa geografia interiore; tra quelle mura gli spazi solo suoi erano cosi ampi che la bambina ci mise alcune settimane a capire che dalle porte delle molte camere chiuse non sarebbe comparso nessuno a dire «Non toccare, questo è mio». Bonaria Urrai non fece mai l’erro­re di invitarla a sentirsi a casa propria, né aggiunse altre di quelle banalità che si usano per ricordare agli ospiti che in casa propria non si trovano affatto. Si limitò ad aspet­tare che gli spazi rimasti vuoti per anni prendessero gra­dualmente la forma della bambina, e quando in capo a un mese le porte delle stanze erano state tutte aperte per ri­manere tali, ebbe la sensazione di non aver sbagliato a la­sciar fare alla casa. Una volta che si senti forte della nuo­va confidenza acquisita con quelle mura, Maria cominciò a mostrarsi via via piùcuriosa della donna che l’aveva con­dotta a viverci.

– Di chi siete figlia voi, Tzia? – disse un giorno, con la bocca piena di minestra.

– Mio padre si chiamava Taniei Urrai, era quel signo­re là …

Bonaria indicò la vecchia foto brunita appesa sopra il camino, dove Daniele Urrai impettito nel corpetto di velluto dimostrava forse trent’ anni, e tutto poteva sembrare alla bambina fuorché il padre della vecchia che aveva da­vanti. Bonaria le lesse l’incredulità sul viso roseo.

– Lì era giovane, io non ero ancora nata, – precisò.

– E mamma non ne avevate? – incalzò Maria, che evidentemente con l’idea che si potesse essere figlie di un pa­dre non aveva particolare confidenza.

– Certo che ne avevo, si chiamava Anna. Ma è morta tanti anni fa anche lei.

– Come mio padre, – aggiunse seria Maria. – A volte lo fanno.

Bonaria rimase stupita da quella precisazione. – Cosa?

– Lo fanno. Muoiono prima che nasciamo -. Maria la

guardò paziente. Poi aggiunse malvolentieri: – Me lo ha detto Rita, la figlia di Angela Muntoni. Anche a lei suo babbo era morto prima.

Durante la spiegazione il cucchiaio si agitava nell’ aria come l’archetto di un orchestrale.

– Si, alcuni lo fanno. Ma non tutti, – disse Bonaria, os­servandola con un sorriso vago.

– Non tutti, certo, – convenne Maria. – Uno almeno deve rimanere. Per i bambini. Ecco perché i genitori so­no sempre due.

Bonaria annui, infilando a sua volta il cucchiaio nella minestra, convinta di aver chiuso il discorso.

– Voi eravate due?

Bonaria finalmente capi, e senza smettere di mangiare, parlò con il tono quasi casuale che aveva usato fino a quel momento.

– Si, eravamo due. Il mio sposo è morto anche lui.

– Oh. Èmorto … – fece eco Maria dopo un istante, indecisa tra il sollievo e il dispiacere.

– Si, – fece Bonaria a sua volta seria. – A volte lo fanno. Con il conforto di quella personale statistica, la bam­bina riprese a soffiare piano sulla minestra. Ogni tanto, sollevando gli occhi dai vapori del cucchiaio, incrociava quelli di Tzia Bonaria, e le veniva da sorridere.

Da quel momento, quando Bonaria usciva al mattino a comprare il pane, Maria prese ad aspettarla seduta al ta­volo della cucina con i piedi ciondoloni, contando in silen­zio i colpi della scarpa di gomma contro la sedia finché sa­peva i numeri. Intorno a tre volte cento Tzia Bonaria tor­nava, e allora prima di andare a scuola mangiavano pane caldo e fichi infornati.

– Mangia Maria, che ti crescono le tette! – cosi diceva Tzia, battendosi una mano sul poco seno rimastole.

Maria ridendo mangiava i frutti a due a due, poi corre­va in camera con i semi dei fichi ancora tra i denti a con­trollare, perché tutto quello che diceva Tzia Bonaria era legge di Dio in terra. Eppure in tredici anni che visse con lei, nemmeno una volta Maria la chiamò mamma, che le madri sono una cosa diversa”.  

 

Giudizio critico

Valeria Parrella  nel Settimanale Grazia scrive: “Michela Murgia, attingendo alla potenza della letteratura, traspone il dibattito attuale su testamento biologico ed eutanasia in un universo mitico, donandoci la possibilità di tornare a pensarvi senza urlare, con la giusta forza e delicatezza”.

Mentre Paola Pittalis sul Quotidiano La Nuova Sardegna sostiene:”È lei, l’accabadora, la protagonista del primo romanzo di Michela Murgia. Sullo sfondo una questione etica, tra le più delicate e drammatiche che la modernità abbia prodotto. Senza che mai Michela Murgia, con grande eleganza, cavalchi il dibattito sull’eutanasia riferendosi a episodi della cronaca recente. […] Nel romanzo la scommessa etica diventa una scommessa narrativa e linguistica. Una narrazione senza idillio e senza retorica, senza luoghi comuni. Una lingua nitida, densa di aforismi e di ossimori, di immagini che colgono il segreto legame fra vita e morte”.

A sua volta Natalia Aspesi su la Repubblica a proposito di Ave Mary commenta: “Da un paio d’anni per fortuna c’è stato un risveglio di brontolii femminili colti, intelligenti, creativi, appassionati, impeccabili, sottoforma di saggi di successo […]. In questo fervore di scrittura femminile molto terrena, che chiama in causa i poteri contemporanei, la politica, la televisione, la pubblicità, le escort e le ministre con il tacco a spillo, appare finalmente il personaggio più inaspettato, umano e celestiale, antico ed eterno, celebre e sconosciuto, mitico e universale, da imitare e inimitabile: la Madonna. […] Ave Mary intreccia sapienza e ironia, Sacre Scritture e vita, non dando tregua a tutti gli e errori che credenti chic e atei devoti hanno scritto e soprattutto diffuso attraverso la televisione. 

 

ANALIZZARE

Sbaglia chi pensasse che Accabadora sia un romanzo sull’eutanasia. Il tema del fine vita è collaterale, ha affermato la scrittrice in una intervista. Il tema centrale è invece la comunità. Che, nella sua scrittura torna sempre.

Credo – è sempre la Murgia ad affermarlo – che alla letteratura spetti il compito di restituire la realtà desiderata. Siccome vivo in un contesto in cui si tenta di isolare il singolo, reagisco raccontando storie in cui la comunità, al contrario, lo sostiene.

Storie emotivamente molto forti in cui  mette in stretto rapporto – come ha scritto Angiola Codacci- Pisanelli sull’Espresso – la modernità/attualità di relazioni e sentimenti con le tradizioni ancestrali di una terra, un’isola, che sembra ancora mantenere intatte usanze arcaiche e superstizioni antiche che sopravvivono ad ogni forma di progresso.

Fra queste ataviche usanze e tradizioni la scrittrice di Cabras rievoca e descrive, almanaccando, l’accabadora e il suo gesto amorevole e finale che pone fine alle sofferenze dei malati terminali, quasi fosse un ultima madre per chi invoca una morte liberatoria. Ma quando Maria intuisce una delle attività della sua madre de anima, Tzia Bonaria Urrai, scappa. Ma ritorna.

Come succede ai personaggi di molti scrittori sardi: pensiamo ai Diavoli di Nuraiò di Flavio Soriga, un universo di personaggi e figure, soprattutto di giovani, che, incatenati al villaggio, “a sa bidda” e alla “prigione” Sardegna, non vedono l’ora di evadere. E si allontanano ma poi ritornano.

Così Maria. Perché molte cose che credeva di aver lasciato sulla riva da cui la nave per Genova si era staccata a suo tempo,ritornavano una dopo l’altra, come pezzi di legno sulla spiaggia dopo una mareggiata…lentamente tornarono a uno a uno visi, voci e luoghi dell’infanzia in cui era cresciuta, e Maria si scoprì ad abitarli, senza chiedere permesso.

Il  rientro di Maria in Sardegna non aveva stupito nessuno. Perché «E’ il debito del fill’e anima», dicevano a Soreni come fosse un destino a cui era impossibile sottrarsi.

E per la madre carnale, Anna Teresa Listru quella figlia frutto del suo più grosso errore era ora mutata nel migliore dei suoi investimenti.

Accabadora è un romanzo bello e avvolgente, di grande impatto emotivo, incarnato dentro un contesto storico e ambientale preciso: la Sardegna degli anni ’50, ma insieme senza tempo. Un romanzo forte e drammatico, elegiaco e poetico, scritto con cura e accuratezza, con un lessico semplice e scabro, inframezzato da locuzioni in lingua sarda, che riesce a rapirti, emozionarti e incantarti. A tal punto che, segnatamente quando riesce a evocare storia e tradizioni, con i colori, i sapori e i profumi dell’infanzia, il lettore sperimenta e vive un’impressione di letizia, come se avesse attraversato un paese amabile e felice.

 

FLASH DI STORIA-CIVILTA’

-Madonna sovversiva

“In un’estate dove curiosamente scarseggiano i libri cult, compresi quelli da spiaggia, c’è un passaparola che corre fra le lettrici, in particolare quelle che hanno trovato (o ritrovato) il gusto di analizzare la condizione femminile, cioè la loro, e i suoi numerosi disastri. E forse per catturare l’attenzione ci voleva un’autrice insolita come Michela Murgia, entrata nell’olimpo letterario con la super premiata, «Accabadora», ma che si tiene alla larga da ogni star system e se apre bocca in qualche talk show riesce anche a dire qualcosa di intelligente. E intelligente, oltre che coraggiosa da parte di una “credente organica e non marginale” come lei stessa si definisce, è la scelta di “Ave Mary“, (Einaudi Stile Libero, pp. 166, e 16), rilettura dell’icona cattolica per eccellenza, la Madonna.
Mitizzata fino a farne scomparire l’umanità, è la tesi di Michela Murgia, Maria è stata usata dalla Chiesa attraverso i secoli per giustificare il dominio maschile, anche se non erano stati i preti ad inventarlo. Nella narrazione ecclesiastica la ragazza di Nazareth che accetta l’annuncio dell’Angelo diventa lo stereotipo della “donna che dice sì”, creatura docile e ubbidiente a quel che le viene chiesto: come moltitudini di sue simili dovranno fare nei confronti della famiglia e della religione. Ma di Maria e della sua vita ricca di sorprese c’è un’altra narrazione possibile. Proprio con quel sì a una gravidanza misteriosa, inaccettabile secondo l’ordine sociale dei tempi, la ragazza compiva una scelta sovversiva, proprio come sarà il messaggio del Cristo. Non è una Madonna in chiave femminista quella della Murgia, quanto una figura storica riletta attraverso i Vangeli e altri testi dimenticati da una chiesa che nel ‘900 aveva poi trasformato Maria
«in una statuina da nicchia»“.

[ Chiara Valentini, L’espresso, 05/08/2011]

 

-La femina agabbad6ri : sacerdotessa del mistero

“C’è a Luras, in Gallura, un museo: Galluras. Il nome vorrebbe richia­mare «le Gallure», cioè le diverse parti di questa ampia cuspide della Sardegna che, pur omogenea nei costumi e nel linguaggio, si differen­zia nella configurazione geografica e nella dimensione storico-tradi­zionale. Tra gli altri oggetti del museo, su un cuscino ricamato fa bella (!) mostra di sé un martello di legno.

Era lo strumento di morte, il mazzuolo che la femina agabbad6ri (dallo spagnolo acabar,  «terminare»), usava per finire una persona sofferente che «non riusciva a morire».

Probabilmente l’arnese esposto nel museo è un modello, una copia di quello che era in realtà lo strumento di morte, ben più solido e pesan­te: chi scrive lo ha visto, più di una trentina di anni fa nelle mani di un centenario, nipote di una vera femina agabbad6ri. Era un rustico maz­zuolo di legno di olivastro stagionato, reso lucido dall’uso per essere passato negli anni in tante mani. Non un martello costruito da un arti­giano, ma un corto spezzone di ramo, lungo poco meno di trenta centi­metri, con una conferenza di circa 45. Il manico, corto e robusto, con­sentiva la presa sicura per assestare un unico colpo, pesante e deciso. Veniva usato, si dice, soltanto da donne forti, sempre e solo donne, vere «benefattrici» della piccola umanità dei paesi e delle campagne galluresi, quando sembrava che la morte, dispensatrice di quiete ma anche di estenuanti agonie, si divertisse a utilizzare tutta la sua trista cattiveria prolungando il tempo dello strazio. E allora, eccola lì, la donna della notte che accorreva al capezzale dei sofferenti per «mi­gliorare le condizioni del moribondo» favorendone il passaggio a  «miglior vita» , come affermano gli studiosi Alessadro Bucarelli (pre­maturamente scomparso qualche anno fa) e Carlo Lubrano, docenti all’Università di Sassari, nella loro opera Eutanasia ante litteram in Sardegna. Sa femmina acabbadora.

Di questi riti tribali come le accabadoras (o femina agabbadori, in gallurese) rimangono memorie e anche tracce. Queste “terminator” al femminile, si pensa abbiano agito fino alla metà del secolo XIX, anche se alcuni studiosi sostengono che in qualche parte dell’isola abbiano operato in data a noi più vicina.

Il filologo Zenodoto (vissuto nel IIIsecolo a.C., ebbe da Tolomeo Fi­ladelfo l’incarico di bibliotecario e si occupò soprattutto di studi ome­rici) parla di una colonia di Cartaginesi, nominata da Eschilo, che, ve­nuta in Sardone (Sardegna), sacrificava a Saturno i vecchi ultrasettan­tenni. Il sacrificio veniva consumato mentre tutt’intorno la gente si ab­bracciava sorridendo come durante una festa: in simili occasioni pian­gere e disperarsi sarebbe stato per i Cartaginesi quantomeno disdicevo­le, se non addirittura sacrilego. Pare che proprio da queste lontane usanze derivi anche l’espressione “riso sardonico”: il riso forzato dei Sardi, il riso amaro dei vinti, per dirla con il poeta Francesco Masala,

Anche per lo storico Timeo di Siracusa (vissuto all’incirca tra il 356 e il 260 a.C.) sarebbe stato costume dei Sardonii far precipitare i parenti più stretti, diventati vecchi e sofferenti, dall’ alto di una rupe o dall’ orlo di una tomba già scavata, mentre i figli ridevano enfatizzando la finta felicità che provavano nel togliere la vita a chi l’aveva loro donata.

A questo punto, nell’impossibilità di datare con esattezza la fine di cotanta barbarie, non resta che prendere per buone, sempre restando nello statuto indefinito dell’ipotesi, le parole del «mio»  testimone cen­tenario che verrà presentato fra poco. Dalle sue dichiarazioni e da un conteggio all’indietro fino agli anni in cui la sua antenata   «avrebbe esercitato», si può approssimativamente desumere che l’opinione co­mune sulla datazione di questa pratica può coincidere con quella che risulta dalle affermazioni del centenario. E che l’«eutanasia nuragica»  – sempre negata – avveniva, in tempi non troppo remoti, anche nella civilissima Gallura. Così risulta dalla confessione sofferta del cente­nario cui ci si riferiva poc’anzi e che ripeto pari pari com’era avvenu­ta; già annotata, peraltro, nel mio Antica terra di Gallura”.

[Franco Fresi, La Sardegna dei misteri, Ed. Newton compton, Roma, 2010, pagine 101-102].

 

 

Lettura [brano tratto AVE MARRY – E la chiesa inventò la donna, di Michela Murgia, Einaudi editore, Torino, 2011, pagine 121-123]

Mi disegnano così

[…] Jessica Rabbit, che nel famoso film di Robert Zeme­ckis è la prosperosa e sensuale femme fatale moglie del co­niglio Roger, si difendeva dalle accuse di cattiveria con disarmante fatalismo: «lo non sono cattiva, è che mi di­segnano cosi! » Involontario manifesto di tutti i soggetti privi di voce propria, la felice battuta di Jessica contiene un’evidenza che si estende ben oltre il tratto di matita del cartoonist: quando si è impossibilitati a rivelare da soli la propria verità, è il modo in cui veniamo raccontati l’unica strada che ci rende intellegibili agli altri. Solo che spesso quella strada conduce da qualche altra parte.

Non esistono narrazioni prive di conseguenze: nem­meno la più innocente delle fiabe lascia il mondo come lo ha trovato. Se persino Cappuccetto Rosso è un affare serissimo, a maggior ragione devono esserlo i racconti su Dio, perché da quella narrazione passa da sempre anche la storia dell’uomo, della donna e del mondo in cui essi vivono. Questa accortezza va tenuta a mente soprattutto quando si raccontano storie ai bambini. È dalle storie che i bambini ricavano inconsapevolmente i codici segreti per aprire la cassaforte del mondo. Una delle prime storie che tutti impariamo è quella dettata dal contesto religioso in cui abbiamo avuto la ventura di nascere, una storia che passa anche attraverso le parole che sono state scelte per raccontarcela. Sul nostro accesso all’immaginario del racconto biblico ha infatti influito molto la traduzione di cui disponiamo, che in molti casi risente dell’intenzione cul­turale di chi l’ha costruita. Per esempio il termine greco diàkonos che si incontra spesso nelle lettere di san Paolo e che significa «servitore», nel testo biblico approvato dal­la Cei viene tradotto in due modi diversi a seconda che si riferisca a un uomo (allora diventa «diacono») oppure auna donna (che invece è tradotta come « collaboratrice»). È evidente che pur di non offrire materiale speculativo alle teorie sul sacerdozio femminile, in questo caso non si è esitato a tradire il testo paolino. Il famoso passo del profeta Isaia che viene ritenuto una profezia messianica – «Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele» (Is 7,14) – contiene un altro esem­pio di traduzione eterodiretta, perché la parola almà, che in italiano e in greco viene resa con «vergine», in ebraico significa semplicemente «fanciulla, giovane donna in età da marito» e non vergine in senso biologico, che in ebrai­co si dice betulà. L’intenzionalità del traduttore in questa libera interpretazione del testo è sin troppo evidente ed è su quella secolare traduzione che hanno fondato la loro fede generazioni di donne e di uomini.

Le religioni di matrice biblica conoscono bene l’impor­tanza delle parole: il racconto biblico ci mette davanti a una realtà figlia di un Dio Narratore, perché è stata proprio la sua Parola potente a dare forma alle cose: tutto quello che chiamiamo realtà esiste perché Dio lo ha raccontato. Il suo è stato il più potente degli abracadabra, meraviglio­sa parola di origine aramaica che sembra significhi proprio «io creerò come parlo».

La storia biblica racconta che l’umanità è sorta «a im­magine e somiglianza» del suo Narratore, una espressio­ne affascinante e misteriosa che ha fatto diventare matte  generazioni di esegeti, perché immagine e somiglianza può davvero voler dire tutto e il suo contrario. È certo impor­tante stabilire cosa possa significare per l’uomo e per la donna essere a immagine e somiglianza di Chi li ha narra­ti per primo; ma interessa infinitamente di più indagare il processo inverso, ripercorrendo il complesso percorso che ribalta gli attori del racconto e trasforma Dio da soggetto narratore a oggetto narrato.

Dio ha raccontato l’uomo e la donna a sua immagine, ma gli uomini e le donne a immagine di cosa si sono raccontati Dio? Tutti i credenti sono a loro modo vittime delle false narrazioni su Dio. Qui interessano soprattutto le ferite che queste narrazioni hanno causato e continuano a causare alle donne, .a quelle credenti e anche a tutte le altre: dobbiamo capire le storie che hanno generato i mondi dove tutte abbia­mo dovuto prendere cittadinanza, spesso nostro malgrado. I credenti consapevoli del fatto che tradizione e tradimento sono parole con la stessa radice comprenderanno bene che non si tratta di una ricerca speculativa: risponde al dovere di cercare rimedio alla sofferenza causata dalle narrazioni distorte che da sempre tentano di fondare su Dio ogni ge­rarchia di dignità tra gli uomini e le donne.

È certamente fondamentale smettere di fare a Nostro Signore lo stesso torto che ha subito Jessica Rabbit: quel­lo di essere raccontato per come non è. Ma è ancora più urgente invertire le narrazioni su di noi, perché spesso fi­niamo per definirci (o vederci definite) a immagine e so­miglianza del Dio che ci è stato cucito addosso. Indagare quelle storie, decostruirle e cercarne di alternative è un indispensabile atto spirituale e politico che non va lascia­to ai soli recinti specialistici: Dio è affare di tutti, giacché tutti siamo affar suo.  

 

COMPRENDERE E VALUTARE

Altre attività didattiche per lo studente

Approfondimenti

Prendendo spunto dal romanzo Accabadora approfondisci il tema dell’eutanasia e argomenta il tuo punto di vista anche in relazione ai fatti clamorosi che hanno riempito le cronache giornalistiche in questi ultimi anni (Caso Englaro ecc.)

Confronti

Come il protagonista dei Diavoli di Nuraiò di Flavio Soriga Gabriele Pintus, scappa dalla Sardegna per andare per le stradine d’Europa, ma poi ritorna a Nuraiò; anche Maria, la protagonista di Accabadora,  abbandona il suo paese, Soreni, per andare a Torino, ma anche lei rientra in Sardegna dopo poco tempo. Confronta le due “fughe” e i due “ritorni” individuandone analogie e diversità.

Ricerche (anche a mezzo internet)

Ricostruisci la figura dell’Accabadora in Sardegna, ricorrendo anche a Internet e alla ormai vasta documentazione e letteratura sul tema (in particolare vedi Eutanasia ante litteram in Sardegna, Sa femmina accabbadora di Alessandro Bucarelli e Carlo Lubrano, Scuola sarda editrice, Cagliari, 2003) 

Spunti vari

-Analizza la figura della Madonna, così come viene delineata da Michela Murgia in Ave Mary.

– Il problema del precariato giovanile, oggi.

Bibliografia essenziale

Opere dell’Autore

-Il mondo deve sapereRomanzo tragicomico di una telefonista precaria,IBSN edizioni, Milano, 2006.

-Viaggio in Sardegna. Undici percorsi nell’isola che non si vede, Ed. Einaudi, Torino, 2008

-Accabadora, Ed. Einaudi, Torino, 2009.

Ave Mary, Ed. Einaudi, Torino, 2011. 

 

Opere sull’Autore

-Angiola Codacci-Pisanelli, Sotto il vestito della festa, L’espresso, 05-06-2009.

-Natalia Aspesi, Madre Nostra, dove sei nei cieli? Eva e Maria, così la Chiesa ha sacrificato la donna, la Repubblica, 21 Maggio, 2011.

Federica Coradduzza, Michela Murgia: “Viaggio in Sardegna. Undici percorsi nell’isola che non si vede” , Fonte www.einaudi.it. 2011.

 

*Tratto da LETTERATURA E CIVILTA’ DELLA SARDEGNA, Volume II, di Francesco Casula, Grafica del Parteolla Editore, Dolianova, 2013.

 

 

 

Antonio Simon Mossa

Antonio Simon Mossa

1.La sua figura.

Simon Mossa è un architetto di talento, arredatore, urbanista e artista di genio, insegnante dell’istituto d’arte e scenografo, intellettuale dagli interessi pressoché enciclopedici e dalla forte sensibilità artistica, umanista e nel contempo eclettico da uomo del ‘700, viaggiatore colto e curioso del nuovo e del diverso tanto da spaziare con gusto e competenza nell’ambito di una pluralità vastissima di arti: dalla letteratura alla pittura e alle arti popolari. Ma soprattutto, – almeno per quanto mi interessa in questa sede – brillante ideologo e giornalista, polemista ironico e versatile.    

 

2. La Sardegna “colonia”.

Simon Mossa considera la Sardegna come una colonia interna dello Stato Italiano e nel contempo una Nazione (“unità o comunità etnica ben distinta dalle altre componenti dello Stato Italiano”) oppressa dallo stesso Stato, brutalmente e pervicacemente unitario, accentrato e centralistico.

In sintonia con i “Nuovi meridionalisti”, – penso in modo particolare a Nicola Zitara (2) a EdmondoMaria Capecelatro e Antonio Carlo (3), quest’ultimo fra l’altro per molti anni docente incaricato di diritto del lavoro all’Università di Cagliari – ritiene che la Sardegna sia una “colonia interna” dello Stato italiano e che dunque la dialettica sviluppo-sottosviluppo si sia instaurata soprattutto nell’ambito di uno spazio economico unitario – quindi a unità d’Italia compiuta – dominato dalle leggi del capitale.

   Simon è ugualmente in sintonia con studiosi terzomondisti come V. Baran (4) e Gunter Frank (5) che in una serie di studi sullo sviluppo del capitalismo tendono a porre in rilievo come la dialettica sviluppo-sottosviluppo non si instauri fra due realtà estranee o anche genericamente collegate, ma presuma uno spazio economico unitario in cui lo sviluppo è il rovescio del sottosviluppo che gli è funzionale: in altri termini lo sviluppo di una parte è tutto giocato sul sottosviluppo dell’altra e viceversa.

“L’oppressione coloniale – scrive – si è intensificata con lo Stato Italiano… l’emigrazione, la distruzione dell’economia locale, l’imposizione di modelli di sviluppo forestieri comportano effetti devastanti contro la struttura sociale del popolo sardo” (6). Attacca poi duramente “l’albagia dei colonialisti romani”(7) che si permette di considerarci “straccioni, infingardi, banditi, mantenuti e queruli mendicanti”(8). Altrettanto duro è con i Partiti italiani che “rappresentavano e servivano esclusivamente gli interessi della potenza coloniale che sfruttava la Sardegna” (9). E ancora “La partitocrazia di importazione, aspetto non secondario del fenomeno di colonizzazione e di snazionalizzazione adottato dall’Italia, nella sua funzione di potenza occupante, costituisce nella nostra terra un’etichetta esteriore, uno strumento per assicurarsi il potere a tempo indefinito della madrepatria sulla colonia” (10).

   Certo – scrive Simon Mossa – “ apparentemente lo Stato è democratico ma sostanzialmente colonialista…la potenza coloniale opprime da tanto tempo la nostra gente” (11). “Uno Stato di fatto prettamente coloniale” (12) che “con i suoi organi costituzionali e di sottogoverno persistono in una politica liberticida e soffocatrice per i Sardi” (13).

   Riprendendo un articolo di Michelangelo Pira, apparso sulla Nuova Sardegna nell’Agosto del 1967 e condividendolo, lo cita testualmente:” La Sardegna ha sperimentato non solo la politica coloniale ma anche quella di colonizzazione in senso stretto. Ieri le migliori località della costa sarda erano occupati dai miliardari, oggi dal capitale forestiero industriale turistico. Ieri Arborea, oggi i poli industriali. La politica italiana è sempre stata politica colonialista, sia quando si è rivolta all’esterno con le avventure africane, sia quando si è rivolta all’interno. Sono cambiati i miti di questa politica ma la sostanza è rimasta. Che oggi siano i tecnocrati di Roma o di Bruxelles a dire quel che è bene fare o non fare in Baronia e dintorni anziché i ministri piemontesi, non cambia molto, cioè non rovescia la tendenza. Mutano le forme del colonialismo ma la sostanza politica di sfruttamento delle zone coloniali, resta” (14). 

3. La Sardegna “nazione oppressa”.

Oltre che colonia interna, per Simon Mossa la Sardegna è una “nazione oppressa”, “proibita”, “non riconosciuta” dallo Stato Italiano, emarginata dalla storia, insieme a tutte le altre minoranze etniche del mondo. In Europa al pari dei Baschi, Catalani, Bretoni, Occitani, Irlandesi etc. Contro cui è in atto un pericolosissimo processo di “genocidio” soprattutto culturale ma anche politico e sociale. Si tratta di “minoranze” che “l’mperiale geometria delle capitali europee vorrebbe ammutolire” (15).

   Per Simon Mossa, che la Sardegna abbia una sua precisa identità etno-nazionale è indubitabile, tanto da portarlo a polemizzare duramente con chi la nega:” Non crediamo certo – scrive – allo slogan “Sardegna nazione mancata” coniato dai rinunciatari di ogni tempo e di ogni colore” (16).

   Più precisamente cosi definisce la Sardegna “Noi Sardi costituiamo una comunità etnica abbastanza omogenea e compatta” (17). Lo stesso concetto ripete sia al Convegno di San Basilio a Ollolai il 22 Giugno 1969  sostenendo che la Sardegna è “Una Comunità etnica con i suoi aspetti storici, geografici, sociali, economici e culturali (Lingua, tradizioni popolari etc.)(18); sia parlando con l’Europeista Guy Heurod a Strasburgo, nell’Ottobre dello stesso anno quando afferma “ Noi concepiamo la regione come entità umana, economica, in una parola etnica”(19).

  Del resto – sostiene Simon Mossa – “Persino lo Stato ha riconosciuto, almeno formalmente una sostanziale differenza fra la Sardegna e le Regioni interne del Paese. Cioè ha implicitamente riconosciuto la Comunità etnica o il popolo sardo che dir si voglia, tale da essere degno di un vero e proprio autogoverno…di un riconosciuto diritto storico” (20). E ancora, sempre sulla stessa lunghezza d’onda, ma polemizzando sommessamente con i Sardi un po’ autocolonialisti e un po’ ascari scrive :” Gli stessi italiani più realistici e politicamente ben più avanzati dei Sardi, avevano nella loro Costituzione Repubblicana solennemente confermato il diritto della Sardegna a uno Statuto speciale, cioè gli Italiani riconoscevano in sede costituzionale il carattere di  <comunità distinta> al popolo sardo per le ragioni storiche, geografiche etniche, sociali che il Partito sardo aveva con chiarezza sin dalle origini posto sul tappeto” (21).

4. “Il Genocidio”.

Per annichilire e distruggere l’identità etno-nazionale dei Sardi è in atto – secondo Simon Mossa – “un processo forzato di integrazione che minaccia l’identità culturale, linguistica ed etnica” (22).

   Una vera e propria aggressione, un “genocidio” sia pure “sotto ad innocente maschera della difesa di determinati interessi di classe o di casta, di privilegi, di antiche sopraffazioni”(23).

   E’ lo stesso processo di “snazionalizzazione” delle minoranze etniche che vivono in Europa. “Secondo gli studi di investigatori dell’Unesco si sta arrivando – scrive Simon – a una vera e propria azione di <genocidio>. Cioè alla snazionalizzazione ad oltranza, da parte di tutte le nazioni europee verso le minoranze e le comunità etniche comprese nel proprio territorio….l’Italia che pure aderisce all’Unesco non ha mai e poi mai ottemperato alle stesse norme e gli accordi internazionali. I gravi problemi economici hanno sempre posto nella Repubblica in secondo piano i problemi delle minoranze e delle comunità etniche. L’operazione <genocidio> viene applicata egualmente in Italia con i guanti di velluto anziché col bastone” (24).

   Complici di tale <genocidio> sono anche i Sardi:” Oggi troppi sardi si lasciano comprare e si applicano con spietata brutale complicità all’opera di genocidio che si sta attuando” (25).

   E si commette genocidio “ Non solo distruggendo fisicamente un popolo. Vi sono altri modi: assoggettandolo a schiavitù e a regime coloniale, assimilandolo per mezzo dell’integrazione: questo è il più moderno, il più subdolo perché incomincia con l’intorpidimento delle coscienze, ma il punto di arrivo è lo stesso: l’uccisione della coscienza comunitaria di un popolo e la distruzione della sua personalità”(26).

   Antonio Simon Mossa, dotto in lingue diverse, viaggiatore colto e aperto alle problematiche delle minoranze etniche mondiali, ma soprattutto europee, che conosce direttamente, “de visu”, si rende conto della drammatica minaccia di estinzione che pesa su di loro: oramai sul bilico della scomparsa. Si tratta di una vera e propria catastrofe antropologica che qualche anno dopo, rispetto all’analisi e alle previsioni di Simon Mossa, sarà impietosamente documentata dal noto Centro Studi di Milano “Luigi Negro”, secondo il quale ormai ogni anno scompaiono nel mondo dieci minoranze etniche e con esse altrettante lingue, modi di vivere originali, specifici e irrepetibili, culture e civiltà. Il pretesto e l’alibi di tale genocidio è stato ed è che occorreva e che occorre superare, trascendere e travolgere le arretratezze del mondo “barbarico”, le sue superstizioni, le sue aberranti credenze, i suoi vecchi e obsoleti modelli socio-economico-culturali: espressioni di una civiltà preindustriale ormai tramontata.

   I motivi veri sono invece da individuare nella tendenza del capitalismo e degli Stati – e quindi delle etnie dominanti – a omologare e assimilare, in nome di una falsa unità, della razionalità tecnocratica e modernizzante, dell’universalità cosmopolita e scientifica, le etnie minori e marginali e con esse le differenze e specificità, in quanto “altre”, scomode e renitenti.

   Quella ”unità” di cui parla lo scrittore Eliseo Spiga in un suo recente suggestivo e potente romanzo “Capezzoli di pietra”: “Ormai il mondo era uno. Il mondo degli incubi di Caligola. Un’idea. Una legge. Una lingua. Un’eresia abrasa. Un’umanità indistinta. Una coscienza frollata. Un nuragico bruciato. Un barbaricino atrofizzato. Un’atmosfera lattea. Una natura atterrita. Un paesaggio spianato. Una luce fredda. Città villaggi campagne altipiani livellati ai miti e agli umori di cosmopolis”. Che vorrebbe – aggiungo io – un mondo uniforme, una sfera rigida e astratta nell’empireo e non invece tanti mondi, ciascuno col proprio movimento e con un suo essere particolare e inconfondibile.

   Dentro l’ottica unitarista e globalizzante, le lingue delle minoranze vengono degradate, represse e tagliate, in ossequio alle lingue di Stato, imperanti e imperiali, omologanti e impoverenti, anche perché loro stesse sono ormai giunte all’afasia quasi totale: in questo modo, insieme alle lingue minori vengono distrutti e saccheggiati interi patrimoni culturali fatti di espressività popolare, di codici etici, religiosi e giuridici, di memoria e vissuto storico, di tesori artistici e ambientali.

   Simon Mossa aveva visto con i suoi occhi e in luoghi diversi tutto ciò: terribile e insieme profondo. Aveva cioè verificato la tendenza del genocidio culturale e non solo, dei piccoli popoli, delle piccole patrie, incorporate e chiuse coattivamente nei grandi leviatani europei e mondiali, “entro un sistema artificioso di frontiere statali, sottoposti a controllo permanente, con evidenti fini di spersonalizzazione, ridotti all’impotenza e di continuo minacciati delle più feroci rappresaglie se mai tentassero di rompere o indebolire la sacra unità della Patria” (27).

   Anche quando non si trattava di una vera e propria guerra, l’emigrazione di massa, il tentativo di liquidare e potare le culture e le lingue auctotone, di distruggere le attività economiche locali imponendo modelli di sviluppo estranei quando non ostili alle vocazioni naturali del territorio, portava inesorabilmente verso la distruzione etnica.

 

5. Finalità e obiettivi di Simon Mossa

   Questo fenomeno per l’architetto algherese avanzava anche in Sardegna: di qui le sue proposte e la sua militanza politica per bloccarlo. Egli infatti non è solo un brillante ideologo ma un leader di lotte e di iniziative, politiche e culturali concrete. E’ anzi difficile trovare – come in lui – così miracolosamente fuso il nesso teoria-prassi. E la sua azione teneva sempre conto di tutte le componenti della “Questione sarda”: da quelle economiche e sociali a quelle politiche, storiche, culturali, linguistiche ed artistiche, convinto com’era che la soluzione della “Questione sarda” doveva aggredire tutti questi nodi e dunque non limitarsi al versante esclusivamente economico. “ Il nostro obiettivo – scrive – è la liberazione della Sardegna dal giogo coloniale, la redenzione sociale del nostro popolo….Lo Stato italiano ha dimostrato e dimostra di essere ferocemente colonialista e liberticida nei nostri riguardi…noi vogliamo conquistare l’indipendenza per integrarci non per separarci nel mondo moderno. Noi siamo nella stessa posizioni di quei paesi del Terzo Mondo che, nelle loro articolazioni nazionali, hanno già compiuto i primi passi verso l’indipendenza”(28). 

   In questo passo  è delineato con nettezza l’obiettivo simoniano: rompere la dipendenza coloniale – e dunque lo sfruttamento economico – e nel contempo liberare i sardi dall’oppressione nazionale. Il tutto dentro una cornice europea e mondiale.

   Simon Mossa, algherese di famiglia, membro dunque di una minoranza (quella catalana) dentro una minoranza (quella sarda) non perde dunque mai di vista nelle sue analisi come nelle sue azioni, le numerose altre nazionalità europee ed extraeuropee, al pari di quella sarda soggette a una duplice oppressione, quella “coloniale” e quella “nazionale”. Anzi, alle minoranze del “Terzo mondo europeo” propone una Federazione: sposta così la prospettiva federalista dal terreno italiano a quello euromediterraneo. Non solo. Ribaltando la visione tradizionale del federalismo europeo, all’Europa degli Stati contrappone l’Europa delle Regioni etniche e autonome, delle comunità minoritarie, delle piccole nazionalità, ignorate, contrastate e oppresse che “avrebbero provocato un radicale mutamento degli stessi confini tradizionali degli Stati” (29).

   Di qui il suo impegno perché tra le comunità etniche europee e la comunità sarda ci fossero scambi permanenti e lavora dunque per un processo di organiche alleanze anche “per evitare la dispersione del ricco patrimonio culturale europeo costituito dalle lingue regionali e dai dialetti, dalle cosiddette lingue mozze”(30): quest’ultima frase virgolettata è dello scrittore italiano Gaspare Barbiellini Amidei, ma sicuramente Simon Mossa l’avrebbe sottoscritta. E avrebbe condiviso in toto quanto Barbiellini sostiene in un suggestivo saggio, (“Il Minusvalore”, Rizzoli ed.,Milano 1972): gli uomini ricchi – ed io aggiungo i popoli ricchi – rubano da sempre agli  uomini poveri,

-ed io aggiungo ai popoli poveri – la loro fatica, pagandola con un salario che è soltanto una parte dei loro prodotti. Il resto, plus valore, va ad accumulare altra ricchezza. Ma gli uomini – e i popoli – ricchi  rubano  agli uomini – e ai popoli – poveri anche la memoria, la lingua, la cultura, la bontà.

 

6. Identità, Lingua e cultura

Uno degli elementi che per Simon Mossa devasta maggiormente l’Identità di un popolo è l’attacco alla cultura e alla lingua locale: in Sardegna dunque il divieto e la proibizione della cultura e della lingua sarda, segnatamente dell’uso pubblico del Sardo.

   L’ideologo nazionalitario e indipendentista, poliglotta – conosce infatti e parla correttamente lo spagnolo, il catalano, l’inglese, il tedesco, oltre che il Sardo in tutte le sue sfumature, ma studia anche il russo, il greco e l’arabo – sa bene che un popolo senza Identità, in specie culturale e linguistica, è destinato a “morire”: “ Se saremmo assorbiti e inglobati nell’etnia dominante e non potremmo salvare la nostra lingua, usi costumi e tradizioni e con essi la nostra civiltà, saremmo inesorabilmente assorbiti e integrati nella cultura italiana e non esisteremo più come popolo sardo. Non avremmo più nulla da dare, più niente da ricevere. Né come individui né tanto meno come comunità sentiremo il legame struggente e profondo con la nostra origine ed allora veramente per la nostra terra non vi sarà più salvezza. Senza Sardi non si fa la Sardegna. I fenomeni di lacerazione del tessuto sociale sardo potranno così continuare, senza resistenza da parte dei Sardi, che come tali, più non esisteranno e così si continuerà con l’alienazione etnica, lo spopolamento, l’emarginazione economica. Ma questo discorso è valido nella misura in cui lo fanno proprio tutti i popoli parlanti una propria originale lingua e stanzianti in un territorio omogeneo, costituenti insomma una nazione che sia assoggettata e inglobata in uno Stato nel quale l’etnia dominante parli una lingua diversa” (31).

   A fronte di questo pericolo e di questo rischio reale, documentato fra l’altro dal fatto che i Sardi stanno abbandonando uno dei tratti più significativi ed essenziali della loro Identità, ovvero la propria lingua materna, Simon Mossa interviene su questo versante come su quello complessivo della Sardità e dunque dell’etnos, con i suoi scritti come con la sua iniziativa politica concreta: dalla battaglia per difendere l’autonomia di Radio Sardegna – la radio perderebbe immediatamente le sue capacità educative , scriveva ne <Il Solco letterario> del 23 Settembre 1965, se dovesse essere accentrata, unitaria e controllata da un gruppo o da una fazione politica –  ai modi auctotoni di costruzioni, alieno com’era dal seguire schemi e mode esterne.

Ha scritto Vico Mossa:” Doveva trasparire la sardità quando fu incaricato di ampliare e modificare il primo Piccolo Hotel El Faro, presso la Torre di Porto Conte, ispirandosi a partiti costruttivi delle <lolle di Assemini>…Sortì un effetto razionale ed accogliente, che piacque agli ospiti del primo vero boom turistico di Alghero: era un albergo che si attagliava alla cittadina catalana” (32).

   Sempre a proposito della sua architettura ha scritto G. B. Melis” Le sue soluzioni erano ispirate dall’arte e interpretate con senso di poesia e di genuina fedeltà alla matrice: la Sardegna, il suo mondo, valorizzato e fuso nelle realizzazioni più rispondenti alle tecniche più moderne e razionali”(33).

La sua attività di costruzione-ricostruzione dell’Identità etnonazionale dei Sardi vista in tutte le sue componenti – abbiamo già accennato a quella architettonica e artistica – è particolarmente intensa nello studio e nella valorizzazione del Sardo come del Catalano di Alghero.

Appassionato e studioso di lingua e di linguistica  – fra l’altro traduce in Sardo il Vangelo e scrive ottave deliziose – ritiene che “Il sardo lungi dall’essere un dialetto ridicolo è già, ma in ogni modo può e deve essere una lingua nella misura in cui sia parlato e scritto da un popolo libero e capace di riaffermare la propria identità”(34). A questo proposito pone questo interrogativo “ Hai mai meditato su ciò che significa l’esclusione della nostra lingua madre dalle materie di insegnamento delle scuole pubbliche e il divieto di farne uso negli atti “ufficiali”? Ci regalano insegnanti di un italiano spesso approssimativo e zeppo di provincialismo e noi non abbiamo il diritto di esprimerci adeguatamente nella nostra lingua! Ci hanno privato del primordiale e più autenticamente <autonomista> strumento di comunicazione fra gli uomini!” (35)

   Sostiene ciò nel Luglio del 1967 al Convegno- di “Studi dottrinari sardisti” a Bosa, molto prima che in Sardegna la Questione del “Bilinguismo perfetto” diventasse oggetto di discussione prima e di iniziativa politica poi: a buona ragione possiamo perciò considerare Simon Mossa il precursore più avveduto, il vero profeta e anticipatore delle proposte prima e della Legge sul Bilinguismo poi. Con acume e perspicacia aveva capito che il problema della Lingua sarda non era tanto o soltanto parlarla, magari nell’ambito familiare, ma scriverla e soprattutto insegnarla nelle Scuole e usarla nella Pubblica Amministrazione: il problema era cioè la sua ufficializzazione.

   Oggi noi nel 2002 sappiamo bene che la Lingua sarda, al di fuori di questa prospettiva è destinata a morire o, al massimo, a vivacchiare e languire, marginalizzata e ghettizzata nei bomborimbò delle feste paesane. Simon Mossa questo lo aveva capito ben più di 30 anni fa: di qui la sua azione.

Nel 1960 pubblica il periodico “Reinaixencia nova” scritto completamente in catalano. Il 10 Settembre 1961 organizza con il Centro d’Estudios Algheresos – di cui è Presidente – “Giochi floreali della lingua catalana” ad Alghero;  nello stesso periodo promuove una “Sezione per la poesia algherese” all’interno del “Premio Ozieri” (36) a cui peraltro aveva segretamente concorso nello stesso 1961 con una poesia in sardo (titolo: ”Cabras”) ottenendo il sesto premio e la menzione speciale d’onore, prima che nell’anno successivo entrasse nella Giuria stessa del premio.

   La valorizzazione delle tradizioni popolari come delle gare poetiche per Simon Mossa non è vista però come mania estetizzante e folclorica ma come sforzo – uso volutamente una bella espressione di Antonello Satta –  “per tentare di non far inaridire le radici culturali intime della nostra sfiorita nazionalità” (37). E sa limba è per Simon Mossa lo strumento fondamentale: per combattere “l’integrazione e l’oppressione unitarista statuale“ (38); per opporsi “al massiccio attacco in atto dell’imperialismo delle <culture superiori> e delle maggiori comunità etniche nazionali”(39); “|per la rivoluzione sarda per l’indipendenza, non tanto e non solo di emancipazione e economica e sociale ma anche e soprattutto di libertà dell’intero popolo in senso etnico, etico e culturale”(40).

   Per Antonio Simon Mossa il problema dell’autonomia culturale del popolo sardo fu dunque quello centrale in tutto il suo pensiero e in tutta la sua appassionata azione politica. Per questo la questione della Lingua sarda, ovvero “della possibilità di scambio, di informazione e di istruzione nell’ambito della comunità, senza la presenza del dominatore e senza la sua tutela, aveva per lui tanto rilievo” (41). Egli infatti vedeva la difesa e lo sviluppo dell’autonomia culturale, non tanto – o non solo – come la riscoperta o il recupero, in qualche modo etnografico e antropologico, degli antichi valori e degli istituti giuridici, etici, consuetudinari o come la cernita minuta di quanto sia vivo e di quanto sia morto nel magma della tradizione isolana; bensì come ricerca proiettata nel futuro, dell’identità nazionale dei Sardi. E ricerca “non puramente storica e letteraria, ma come resistenza e lotta popolare contro l’asfissia e il livellamento culturale perpetrati dal capitalismo e dall’imperialismo. Non gli era sfuggito che quindi senza la riaffermazione dell’autonomia culturale, anche la più gloriosa lotta di liberazione popolare può approdare a risultati solo parziali e precari” (42).

 

Conclusione

Da più parti si è parlato di Antonio Simon Mossa come di un vecchio cavaliere ed eroe romantico, di un apostolo, di un nuovo profeta, idealista e utopista. Può darsi. Forse era anche “irragionevole”. Ma di quella irragionevolezza di cui parlava un caustico esponente della cultura europea del primo Novecento quando affermava che l’uomo ragionevole si adatta al mondo, l’uomo irragionevole vorrebbe adattare il mondo a se stesso: per questo ogni progresso dipende dagli uomini irragionevoli.

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

1.     Marx-Engels, “Corrispondenze con Italiani” Milano 1864.

2.     Nicola Zirara, “L’Unità d’Italia- nascita di una colonia”, ed. Jaca-Book, Milano, 1971.

3.     E. M. Capecelatro- A. Carlo, “Contro la Questione Meridionale”, ed.

     Savelli, Roma 1972.

4.     V. Baran, “Il surplus economico e la teoria marxiana dello sviluppo”,

     Milano,1966                            

5.  Gunter Frank, “Capitalismo e sottosviluppo in America latina, Torino 1969       

6.     Relazione in ciclostilato nella Riunione di Ollolai (10 Giugno 1967) nei monti del Santuario di Santu Basili, ora in “Antonio Simon Mossa: Le ragioni dell’indipendentismo” Ed. S’Iscola Sarda. Sassari 1984 a cura di Cambule-Giagheddu-Marras e in “Sardisti” vol.II di Salvatore Cubeddu, Ed. EDES, Sassari 1995, pagg.476-477.

7.     La Nuova Sardegna 4 Agosto 1967:”No ai Sardi straccioni” di Fidel.( Lo pseudonimo con cui Antonio Simon Mossa firmava, per la gran parte, i suoi articoli: Altri pseudonimi cui ricorse furono: “Giamburrasca”, “Il Moro”, “Cecil”.

8.     Ibidem.

9.     Tesi di F. Riggio, Etnia e Federalismo in Antonio Mossa, relatore il Prof. Giancarlo Sorgia, Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Cagliari, A.A. 1975-76.

10.           Ibidem.

11.           Ibidem.

12.           La Nuova Sardegna 1° Agosto 1967.

13.           Ibidem.

14.           La Nuova Sardegna, Agosto 1967, Intervento di Michelangelo Pira.

15.           La Nuova Sardegna, 28 Ottobre 1972, Intervento di Eliseo Spiga.

16.           La Nuova Sardegna, 4 Agosto 1967, art. cit.

17.           La Nuova Sardegna, 2 Settembre 1965, Fidel.

18.           Relazione al Convegno di Ollolai, cit. al punto 6.

19.           La Nuova Sardegna 18 Agosto 1971, Intervento di Mario Melis.

20.           Lettera ad Anselmo Contu l’11 Novembre 1967 ora in “Sardisti” op. cit. pag.481-494.

21.           Tesi di Riggio, op. cit. pag.17

22.           “L’Autonomia politica della Sardegna” – Nota critica introduttiva – Ed. Sardegna libera, Sassari 1966.

23.           La Nuova Sardegna 20 Agosto 1965, ora in “Sardisti” op. cit. pag.458

24.           La Nuova Sardegna 2 Settembre 1965, op. cit.

25.           La Nuova Sardegna 11 Agosto 1967, Intervento di Fidel.

26.           Ibidem.

27.           “Il Partito sardo d’azione e la lotta di liberazione anticolonialista” in Sardegna libera, anno1° n.2 Aprile 1971, Sassari.

28.           Ibidem

29.           Gian Franco Contu, Sa Republica Sarda, Dicembre 1971.

30.           Gaspare Barbiellini Amidei, Corriere della sera, 1° e 8 Dicembre 1971.

31.           La Nuova Sardegna, 18 Agosto 1971, op. cit.

32.           Sardisti, op. cit. pag. 449-450.

33.           La Nuova Sardegna 18 Agosto 1971, Intervento di G. B. Melis.

34.           La Nuova Sardegna 8 Agosto 1972, Intervento di Michelangelo Pira.

35.           La Nuova Sardegna 11 Agosto 1967 Intervento di Fidel.

36.           La Nuova Sardegna, 25 Luglio 1972.

37.           La Nuova Sardegna,20 Maggio 1973, Intervento di Antonello Satta.

38.           Sardegna Libera, Aprile 1971.

39.           Ibidem.

40.           Ibidem.

41.           La Nuova Sardegna, 28 Ottobre 1972,Intervento di Eliseo Spiga, op. cit.ù

42.           Ibidem  

 

Testi per conoscere meglio il pensiero e la figura di Antonio Simon Mossa

  • Federico Francioni (a cura di), Antonio Simon Mossa. Dall’utopia al progetto, Edizioni Condaghes, Cagliari, 2005.
  • Raffaele Sari, Antonio Simon Mossa ad Alghero, Edizioni del Sole
  • Antonio Simon Mossa, Le ragioni dell’indipendentismo, Alfa Editrice, Quartu Sant’Elena, 2008.
  • Giampiero Marras (a cura di), Antonio Simon Mossa. Un intellettuale rivoluzionario, Alfa Editrice, Quartu Sant’Elena, 2008.
  • Giampiero Marras, Simon Mossa visto da vicino, Alfa Editrice, Quartu Sant’Elena, 2005.
  • Frantziscu Casula, Antoni Simon Mossa, Alfa Editrice, Quartu, 2006.
  • Francesco Casula, Uomini e donne di Sardegna, pagg.247-281, Alfa Editrice, Quartu Sant’Elena, 2010

        

 

In ricordo di Giovanni Battista Tuveri

GIAMBATTISTA TUVERI*

Il federalista illuminato, democratico e progressista  (1815-1887)

Nato il 2 Agosto 1815 a Forru. “Perdei mio padre a cinque mesi e mia madre a 17 anni” scrive lui stesso nella sua Autobiografia, pubblicata il 29 Dicembre del 1878 sul giornale <L’avvenire di Sardegna>”. Rimasto orfano del padre Salvatore (avvocato) e della madre Maria Angela Licheri, visse col nonno materno, il magistrato Domenico Vincenzo Licheri, -di cui parla il Manno nella Storia moderna della Sardegna- nella cui casa convenivano intellettuali di varia tendenza, e in cui il giovane Tuveri poté acquisire una certa formazione culturale.

Nel 1827 entra nel seminario di Cagliari. Studia diritto civile canonico, “quantunque avessi ripugnanza per il mestiere di avvocato” ,ci confida sempre nell’Autobiografia. Si ritira dall’Università, per l’insofferenza verso il clima rigido e chiuso, dopo aver conseguito il titolo di baccelliere.

Ben presto schierato su posizioni repubblicane, nella primavera del 1848 Tuveri condusse un’aspra polemica nei confronti di Giovanni Siotto Pintor, giornalista e deputato, partigiano della monarchia sabauda e accusato dagli ambienti repubblicani isolani di poco nobile spirito arrivistico. Essa riguardò in particolare l’origine del potere monarchico e i limiti dell’autorità, che riassunse nel breve opuscolo “Saggio sulle opinioni del signor deputato sardo Giovanni Siotto Pintor dato da G. B. Tuveri” (Torino, Tipografia G. Casson, 1848).

 I due in seguito si riconciliarono, ma quella polemica rappresenta un’importante testimonianza della lotta politica in Sardegna agli albori della libertà costituzionale.

Scrisse su vari giornali sardi e italiani, ed espresse il suo pensiero politico, sociale e morale, particolarmente tagliente e polemico specie nei confronti della corruzione degli ambienti politici dominanti e della “turba” servile, sostenitrice della monarchia sabauda.

Esponente del cattolicesimofederalista, fu eletto deputato dalla I° alla IV° legislatura al Parlamento Subalpino, ove polemizza duramente con Vincenzo Gioberti, che dalle colonne de il Il Saggiatore aveva attaccato faziosamente gli esponenti repubblicani. Da ricordare che Tuveri non era certamente un mazziniano, anche se era in affettuosi rapporti con lui e i suoi scritti venivano ospitati costantemente nei giornali mazziniani “Roma del popolo” e “Libertà e Associazione”. Aveva infatti in comune con il pensatore genovese il pensiero religioso come fondamento del pensiero politico, ma lo allontanava il suo programma nettamente federalistico che mal si accordava con l’unitarismo mazziniano.

La sua notorietà ebbe inizio ai primi del 1848, in seguito agli avvenimenti succedutisi alla fusione con il Piemonte, con l’abolizione degli antichi istituti autonomi del Regnum Sardiniae e con la concessione dello Statuto Albertino: il Tuveri fu tra coloro che considerarono quelle decisioni –e prima ancora la legge “delle chiudende” e l’abolizione dei diritti feudali- gravi errori che avrebbero aggravato le condizioni economiche e sociali della Sardegna, provocando la rovina del mondo agro-pastorale. Di qui la critica implacabile contro la politica accentratrice e colonialista del Piemonte.

Nel 1850 fondò a Cagliari la Gazzetta Popolare con cui continuò anche a Cagliari la polemica antigiobertiana attaccando l’“Indicatore sardo” dei fratelli Martini, Michele e Antonio, proprietari e collaboratori di quel giornale, monarchico e giobertiano. Nel Febbraio del 1949 avevano scritto violenti articoli contro Mazzini e i repubblicani, Tuveri risponderà polemicamente con un breve panflet: “Specifici di G. B. Tuveri contro il codinismo a 24 centesimi”.

Sindaco di Forru (18701887) ne propose il cambio del nome in Collinas; consigliere provinciale a Cagliari lottò contro il centralismo e promosse maggiore autonomia, soprattutto fiscale, per i piccoli comuni. A livello nazionale, amico di Cattaneo e di Mazzini, sollevò nel 1867la Questione sarda”: a Tuveri si deve la paternità di questa espressione con cui si vuole reclamare l’attenzione della politica statale sulle difficoltà dell’Isola, promuovendo il riscatto della Sardegna e del popolo sardo contro uno stato centralista e oppressivo.

Nel 1871 si trasferì a Cagliari e assunse la direzione del “Corriere di Sardegna”, in cui avversò la politica tributaria applicata nell’Isola dal governo centrale. Si occupò di vari problemi sardi, diffuse le idee federaliste repubblicane, difese la libertà d’insegnamento, propose lo svecchiamento dei programmi scolastici e l’obbligo dell’insegnamento elementare, considerando l’analfabetismo una delle maggiori piaghe della Sardegna.

Muore a Collinas l’8 Dicembre del 1887.

 

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Presentazione del testo [tratto dal cap. II°, Del diritto dell’uomo alla distruzione dei cattivi governi. Trattato teologico-filosofico”, Tipografia nazionale, Cagliari 1851, pagg.46-47-48]

 

Del diritto dell’uomo alla distruzione dei cattivi governi. Trattato teologico-filosofico, è considerata la sua opera più importante, quella di maggior respiro intellettuale e dottrinale, anche se molto carica di una pesante erudizione filosofica e soprattutto teologica per le numerose citazioni tratte dagli scritti dei primi Padri della Chiesa. In quest’opera Tuveri espone e definisce la sua concezione dello stato federalista, democratico e progressista, dove il popolo è sovrano e dove la religione, tornata al cristianesimo evangelico, si concilia con la libertà. Di un doppio federalismo: interno ovvero nazionale, con un assetto repubblicano-federalista delle varie regioni italiane, -Sardegna compresa- ed esterno, ovvero sovranazionale con una sorta di “Stati Uniti d’Europa”.

Ma Tuveri si spinge anche oltre: tende a valorizzare il comune, l’ente locale autonomo per eccellenza, che avrebbe dovuto godere di vita propria e che invece era pesantemente vessato da tributi e balzelli dello Stato unitario. E’ inoltre critico nei confronti delle Province –così come in seguito lo sarà Emilio Lussu- considerate vecchi e artificiali cascami dello stato napoleonico, centralista e autoritario.

 In modo particolare nel secondo capitolo del Trattato, affrontando i problemi della libertà e dell’indipendenza, sostiene la necessità di una organizzazione federalistica dell’Italia, la sola che avrebbe conciliato la diversità delle varie regioni italiane con l’unità politica dello Stato. Di qui la simpatia di Tuveri per stati federali come la Confederazione svizzera o gli Stati Uniti d’America e la vagheggiata Federazione europea.

 

CAP0 II.

DIGRESSIONE SUL FINE DELLA SOCIETA’ CIVILE
CONSIDERATO RELATIVAMENTE ALLA QUESTIONE
DELL’ INDIPENDENZA.

§27 “Può parere a taluno, che tra i mezzi autorizzati dal conseguimento del fine da me proposto, mal si possano comprender quegli, che richiede la difesa esterna della so­cietà: e che quindi io badi poco all’indipendenza dei popoli. Su di che dirò, che hassi ben a distinguere tra indipendenza ed indipendenza, e tra dipendenza e dipendenza: perché par­mi, che andando bonariamente dietro a certe fanfaluche, si corra pericolo di preferire la condizione, a mo’ d’esempio, del suddito russo a quella del cittadino ticinese: mentre è un fatto, che indipendentissimo è l’Impero di Russia, e che all’incontro il Cantone del Ticino dipende da un’ assemblea composta quasi interamente di Tedeschi e di Francesi1.

§28 V’ ha adunque una dipendenza sociale, libera, vi­cendevole: e perché è tale quella che lega la Svizzera Italiana cogli altri Cantoni della Confederazione Elvetica, i Ticinesi; lungi dall’aborrire 1’aver comune il governo con popoli di diversa lingua, e dall’aspirare a rendersene indipendenti, fecero quant’era in loro, per diminuire la propria indipen­denza, col secondare efficacemente la rivoluzione, che mirava ad estendere i poteri delle autorità federali. E per mio avviso, fecero saviamente: avvegnaché un popolo conscio dei suoi dritti, riguardando il loro libero esercizio pel fine supremo della Società, non deve sacrificare a considerazioni etnogra­fiche, ecc., quella dipendenza che. gliela guarantisce; salvo che vegga in tal sagrifizio un mezzo probabilissimo di con­seguire una libertà, se non più  perfetta, meglio guarentita, od accompagnata da altri vantaggi. Che avverrebbe delle piccole Repubbliche di Ginevra2 e di Neuchatel3, se illuse dalla vanità di far parte della gran nazione con cui han co­mune il linguaggio, s’ immedesimassero con esso lei? Quel che avviene dei ruscelli da che si uniscono a qualche grosso fiume.

§29 V’ha una dipendenza unilaterale, servile: qual si è quella dei così detti possessi, che gli Europei hanno nelle Indie, ed altrove: per cui un popolo vien tenuto come una fattoria, un oggetto di traffico d’un altro popolo, o piut­tosto dei suoi dominatori. Ed a comportare in pace cotal dipendenza vi vuol ben altro, che predicare al popolo traffi­cato o la comunanza dell’ idioma fra esso e il dominante, o i vantaggi dell’unione considerata in astratto, o il lustro e la forza che da essa deriva alla nazione. Finché gli oppressi conserveranno un qualche sentimento dei loro dritti, l’unico legame che può vincolarli agli oppressori è la forza. Tutta­via si danno dei casi nei quali conviene tollerare anche tal sorta di dipendenza, come quando vi è fondatamente a­ temere, che i nostri tentativi ad altro non possano riuscire che ad aggravare il nostro giogo; sia rendendo più ombrosi e più duri i nostri oppressori, sia soggiacendo ad una domina­zione più mite, ma più potente, e quindi più duratura. In questi e simili casi, dobbiamo restringere i nostri pacifici sforzi ad essere in qualche modo pareggiati col popolo favo­rito: al che gioverà non poco il richiamarci a lui stesso, il solleticarne gli interessi, l’educare i nostri conservi, il risve­gliare in loro la coscienza dei proprj dritti, il comprare inol­tre, se occorre, le persone che possono influire nelle nostre sorti; onde da una parte dando al popolo oppresso un’altitu­dine imponente, dall’altra convertendo, indebolendo i nostri dominatori, possiamo se non renderci indipendenti, dimi­nuire la nostra dipendenza, o porci in grado di profittare d’un favorevole emergente. Quando però fra i varj popoli assortiti sotto lo stesso governo o da conquiste o dall’interesse delle famiglie che ne avevano la proprietà, l’uno vuole inoltrarsi nella via della civiltà, l’altro par quasi nato alla schiavitù, e pone tutta la sua gloria nel secondare i Governanti, onde comprimere ogni slancio di libertà, che resta egli mai, ove non vi sia probabilità di peggiorare, fuorché infrangere l’infausto giogo che a lui ei tiene, o trascinarlo suo malgrado con noi?[…]”

 

Note

1.La Svizzera è una Repubblica federale –o confederale che dir si voglia- comprendente 23 cantoni, tre dei quali (Basilea, Liechtenstein e Appenzel) sono suddivisi in due semicantoni per un insieme di 26 stati. E’ compresa fra Germania, Austria, Liechtenstein, Francia Italia.

2.Città della Svizzera e capoluogo del Cantone omonimo. Dopo essere stata francese fu annessa alla Confederazione svizzera nel 1815. Vi nacque nel 1712 J. J. Rousseau.

3.Città della Svizzera e capoluogo del cantone omonimo.

 

Giudizio critico

Ma ecco il quadro che della personalità di Tuveri ne traccia il suo massimo studioso, Gioele Solari: “Il Tuveri fu sardo in tutta l’estensione del termine, fu il rappresentante tipico dell’anima e della mentalità sarda. A dimostrare quest’affermazione dovrei ricordare le storiche polemiche col Siotto e coi fratelli Martini, l’opposizione, che parve temeraria, al Gioberti nel Parla­mento subalpino, la parte avuta come rappresentante della Provincia e del Comune alla risoluzione dei pro­blemi economici che pesavano sulla Sardegna risorta, la lotta ad oltranza sostenuta contro il governo per l’iniquo trattamento fatto al suo paese, l’opera del giornalista tutta intesa a richiamare il suo popolo a dignità di na­zione, a farne conoscere le miserie e i bisogni, a difen­derlo contro immeritate accuse, dovrei infine rilevare i suoi rapporti col Mazzini dell’interesse della causa demo­cratica repubblicana. Per quest’ultimo aspetto la fi­gura del Tuveri si eleva e si estende oltre i confini della Sardegna e viene a prender posto tra i numi tutelari della maggior patria italiana.

     A questi geni benefici che la forza invocarono per la difesa del diritto, non contro di esso, dobbiamo in questi momenti di rinnovata barbarie, di naufragio di tutto ciò che fu vanto e ragion d’essere della civiltà no­stra, ritornare per consiglio e incitamento. La parola del filo­sofo (ricorda il Tuveri) è come la semente della parabola evangelica: or cade sulle vie, or sulle rocce, or su terreni sterili ed uggiosi. Ma nell’animo vostro, o giovani, in questo tempio sacro alla scienza, essa susciterà, non dubi­tiamo, viva ed operosa la fede che fu già del Tuveri nel trionfo ultimo della giustizia fra i popoli.”

[Giole Solari, Pensiero politico di G. B. Tuveri, Tipografia Valdès, Cagliari 1915, pagg.68-69]

 

 

ANALIZZARE

Giambattista Tuveri, in questo brano tratto dalla sua opera più nota, con un argomentare insistito, quasi scolastico, sottolinea la superiorità dello Stato federale rispetto a quello unitario: il cittadino della Confederazione elvetica è infatti –secondo Tuveri- più libero di quello dello Stato (impero) russo. Nonostante “l’impero russo sia “indipendentissimo” e “il Canton Ticino dipende da una assemblea quasi interamente composta di Tedeschi e di Francesi”. Evidentemente l’indipendenza non basta per “guarantire” la libertà.

Vi è però una “dipendenza sociale, libera e vicendevole” : quella che lega –per esempio- i cittadini della Svizzera italiana con gli altri Cantoni della Confederazione elvetica; di contro vi è “una dipendenza unilaterale e servile che lega quella dei cosi detti possessi che gli Europei hanno nelle Indie e altrove”. La prima è una dipendenza che permette la libertà la seconda la “opprime”.

Tuveri inoltre in questo brano –ma il discorso può estendersi a tutta la sua opera-  come sottolineerà il già citato, Gioele Solari, manifesta ”un senso della realtà e della relatività (storica) che pochi democratici dell’età sua possedettero in grado così spiccato”.

L’impiego dei verbi all’impersonale (hassi, v’ha, v’han ecc.) denota una visione in qualche modo oggettiva dei fatti e dei fenomeni che descrive, come se lui li guardasse in modo freddo e distaccato.

 

FLASH DI STORIA-À

-Il federalismo di Giovanni Battista Tuveri

“La notorietà di Giovanni Battista Tuveri ebbe inizio ai primi del 1848 in segui­to agli avvenimenti succedutisi alla fusione con il Piemonte ed alla concessione dello Statuto Albertino.

Il Tuveri fu tra coloro che individuarono subito in quell’atto affrettato un er­rore senza rimedio, che non avrebbe fatto che aggravare le già tristi condizioni dell’Isola.

Con la concessione dello Statuto, tutto il mondo politico moderato dell’Isola si scoprì improvvisamente propugnatore di idee costituzionali e progressiste. Il Tu­veri, spirito genuinamente democratico le cui idee erano venute a maturazione molto prima delle concessioni di Carlo Alberto, sdegnato per il trasformismo sa­baudo, ingaggiò una coraggiosa battaglia giornalistica contro il Siotto Pintor, rappresentante della nuova classe di liberali di derivazione piemontese. Forse è bene dire che, nella polemica contro il Siotto del 1848, il pensiero repubblicano del Tuveri non viene ancora compiutamente espresso. Vi si può notare anzi una sorta di benevola attesa verso il regime costituzionale, ma questo atteggiamento durerà poco. La delusione per le catastrofiche conseguenze della fusione (con la pioggia di nuovi balzelli che l’applicazione rigida delle leggi piemontesi aveva fat­to gravare su una terra a economia prevalentemente pastorale), l’amarezza per il modo poco democratico con cui egli stesso fu trattato nel Parlamento subalpino, nel 1849, quando aveva presentato una mozione di censura contro Vincenzo Gio­berti, lo condurranno ben presto a consolidare definitivamente le sue convinzioni repubblicane.

Nel 1851 diede alle stampe la sua opera maggiore Il Trattato teologico­filosofico. Del diritto dell’uomo alla distruzione dei cattivi governi,in cui il pensiero repubblicano è meglio definito in senso federalistico. Il secondo capito­lo del Trattato, dedicato ai problemi della libertà e dell’indipendenza, è un chiaro appello a una sistemazione federalistica dell’Italia, la sola che potesse conciliare le diverse esigenze delle varie regioni con l’unità politica dello Stato.

L’autonomia per Tuveri è la forma più completa di realizzazione della divisione dei poteri. Di conseguenza la rinascita dell’Isola è possibile quando questa venga messa in condizioni di autogovernarsi. Il passo successivo è quello della fe­derazione con gli altri territori autonomi per giungere così a una nuova forma di unità. Di qui la simpatia più volte ribadita dal Tuveri per le forme di Stato fede­rato quali la Confederazione Elvetica o la Repubblica degli Stati Uniti d’America ed infine la vagheggiata Federazione europea che avrebbe necessariamente segui­to la Federazione italiana.

 Qui sta l’originalità del pensiero tuveriano. Al tempo in cui scriveva il Tratta­to, è provato che il Tuveri non conosceva ancora le idee di Cattaneo e di Ferrari. Solo più tardi sarà Efisio Contini a metterlo in contatto con i massimi rappresentanti del repubblicanesimo italiano. Tuveri fu talvolta definito un seguace del Mazzini, dati i rapporti di collaborazione che il pensatore sardo intratteneva con i giornali mazziniani; altre volte fu avvicinato al Cattaneo a causa delle sue idee federalistiche. Senonché il fonda­mento mistico-religioso che pervade le opere del Tuveri nulla può avere in comu­ne con il rigido positivismo del Cattaneo; dal Mazzini si distacca per non condivi­dere la sua ideologia unitaria. In realtà il Tuveri non fu seguace di nessuno dei due ed il suo repubblicanesimo federalista era troppo originale per poter essere inscritto in una precisa corrente italiana di pensiero. D’altra parte non è possibile comprendere il suo pensiero (derivato dalla cultura gesuitica del secolo XVI) sen­za tener conto della particolare situazione storica della Sardegna.

L’opera del Tuveri suscitò non poche perplessità presso i suoi contemporanei, stupiti di trovarsi di fronte ad un’opera teologico-filosofica di sapore seicente­sco e per nulla preparati a scorgervi i legami con la situazione politico-sociale della Sardegna del momento.

L’analisi del dispotismo e la giustificazione del tirannicidio e la dottrina della sovranità popolare fatte dal Tuveri giustificano l’opinione di studiosi come Gioe­le Solari e Alessandro Levi che ricercano le origini del pensiero tuveriano nella dottrina dei monarcomachi cattolici della scuola gesuitica spagnola del sec. XVI, anche se l’Autore si sforza di ricavarne una visione democratica e moderna”.

[Gianfranco Contu, Il federalismo in Sardegna, un’alternativa perdente? Editrice Altair, Cagliari 1982, pagg.46-47]

 

Lettura [il testo è tratto da Il Movimento Sardo, “Giornale quotidiano politico, amministrativo e commerciale” che Tuveri diresse per poco tempo. Si tratta di un articolo non firmato del 28-6-1876, n.136)]

 

“Il vero decentramento stà nel lasciare al popolo l’esercizio di tutti quei diritti che non sono imprescindibili per lo Stato… Chi vuol discentrare davvero deve partire dal principio, che, generalmente parlando, niuno provvede meglio ai propri affari quanto chi vi è più interessato. L’interesse aguzza l’intelligenza e l’attività anche dei più torbidi. Quindi libertà individuali, libertà comunale, libertà provinciale, libertà regionale, finché queste libertà non sieno in opposizione con diritti più fondati e più rilevanti. Un Governo che si ingerisce di tutto, non può essere che lo strumento di quelli dei quali ha d’uopo di prendere l’imbeccata. Arrogandosi, per esempio, la scelta dei Sindaci, anche dei più miseri Comuni rurali, il Governo gli sceglie forse egli? Ei non fa che seguire i suggerimenti, ora della Preféttura, ora di qualche deputato, ora della polizia, ora della pretura, ecc… che spesso si affidano ad informazioni non sempre leali di altre persone.

Il vantaggio maggiore del discentramento sta pertanto nell’evitare delle pratiche che ridondano altresì a danno degli amministrati. S’intende che l’esaurimento di tali pratiche richiede un gran numero d’impiegati e quindi sciupio di denari. Ma la questione prende un aspetto sinistro quando si presenta come una grande speculazione finanziaria. Allora la libertà non entra nel decentramento che come il q. s. [quantum sufficit] delle ricette, vale a dire quanto basta per sgravare, come certo colore di liberalismo, sui Comuni e sulle Province, i pesi dello Stato. Ma al contribuente poco importa come si chiami l’imposta, se erariale, comunale o provinciale. Ei bada al vuoto che gli lascia nella borsa o nel portafogli, ché ora non si tratta più di borse. E se oltre ad accollarci nuovi servigi, ci si imporrà pure il personale colle relative tabelle di competenze, si maledirà al discentramento, come si maledice a tante altre riforme, che pure erano nei voti di tutti”.

 

 

COMPRENDERE E VALUTARE

Altre attività didattiche per lo studente

Approfondimenti

-L’Editto delle Chiudende, emanato il 6 Ottobre 1820 dal re sabaudo Vittorio Emanuele I, stabiliva che qualunque proprietario avrebbe potuto liberamente “chiudere di siepe o di muro o vallar di fossa qualunque suo terreno non soggetto a servitù di pascolo, di passaggio, di fontana o d’abbeveratorio”. A parte gli abusi e le sopraffazioni –si chiusero terreni incorporando strade, ruscelli e fontane-  tanto che ci fu bisogno di ulteriori editti che li limitassero.

Con quella legge si pose di fatto fine all’uso comune della terra da parte di tutto il popolo e al diritto di ademprivio: al diritto cioè, riconosciuto a tutti i componenti delle comunità, di far legna, raccogliere ghiande, attingere acqua, mettere gli animali al pascolo. Le conseguenze per le popolazioni e soprattutto per i pastori furono devastanti. Approfondisci e illustra tale Editto.

 

Confronti

-Confronta e illustra il federalismo moderato di Gioberti, quello democratico e repubblicano di Cattaneo con quello di Tuveri.

 

Ricerche (anche a mezzo internet)

-Servendoti anche di Internet censisci gli stati federalisti presenti oggi nel mondo

 

Altri spunti

-Traccia una sintesi della Confederazione elvetica, la democrazia di base e il pensiero di Rousseau.

-Illustra i poteri dello Stato federale e i poteri degli Stati federati.

 

 

Bibliografia essenziale

Opere dell’Autore

Il Trattato teologico-filosofico. Del diritto dell’uomo alla distruzione dei cattivi governi”, Tipografia nazionale, Cagliari 1851

– Tutte le opere, 6 voll., Delfino editore, Sassari, 1990-1994.

– Scritti giornalistici: questione sarda, federalismo, politica internazionale, questione religiosa, a cura di Lorenzo Del Piano, Gianfranco Contu e Luciano Carta, , Delfino editore, Sassari, 2003.

-La politica della ragione: antologia di scritti, 1848-1884, a cura di Alberto Contu, Editore Giuffrè,Milano,1989.

 

Opere sull’Autore

Giole Solari, Pensiero politico di G. B. Tuveri, Tipografia Valdès, Cagliari 1915.

-Gianfranco Contu, G. B. Tuberi, Vita e opere, EDES, Cagliari 1973.

-Aldo Accardo, Il pensiero politico di G. B. Tuveri nel giudizio dei contemporanei, Cagliari, Editrice Sardegna, 1989, estr. “Archivio sardo del movimento operaio contadino e autonomistico”, 1989, nn.26-28, 31-12-1989 

– Gianfranco Contu-Ivo Murgia, Giuanni Battista Tuveri, Alfa editrice, Quartu 2007.

*Tratto da Letteratura e civiltà della Sardegna volume I di Francesco Casula, Grafica dekl Parteolla Editore, Dolianova, 2011, pagg.123-130.

 

 

 

COLONIALISMO LINGUISTICO NELLE STRADE

di Francesco Casula

Lo Stato, e per esso il Ministero delle Infrastrutture, con una circolare della direzione Generale della Sicurezza stradale torna all’attacco contro la lingua sarda nei cartelli stradali. Questa volta però non direttamente, in modo frontale, ma obliquamente. Lo ha colto Pepe Corongiu (direttore del Servizio Lingua Sarda della Regione sarda) che ha scritto :”Sos cartellos bilingues non los cherent bogare ma colorare a tabachinu. Ma custu sa lege non lu narat, est sa tzirculare chi ponet paris art. 37 Codice della strada cun art.137 Regulamentu chi faeddat però de sinnales turìsticos. Duncas est un’interpretatzione chi podet èssere controida a manera simple. In tabachinu andant fatos àteros cartellos, ma non cussos de inghitzu e fine de bidda. Est unu clàssicu de su colonialismu linguìsticu italianu ipòcrita, chi in su libru meu «Il sardo una lingua normale», apo assimigiadu a s’orientalismu: non ti nego chi b’est una limba, ma ti la muto dialetu e ti la mudo a manera folclorìstica e turìstica. Non normale. Gasi tue etotu imparas a sa sola a la crisare. Tando est importante a nàrrere a sos sìndigos chi sos cartellos si podent fàghere, mancari sighende semper sos inditos de s’ufìtziu regionale”. Si tratta – come ognuno può notare – di una operazione pericolosissima: io Stato non proibisco il Sardo nei cartelli stradali purché siano scritti di un colore diverso da quelli in Italiano, siano di dimensioni più piccole e non apposti all’inizio e alla fine dei centri abitati. In altre parole quello che si nega è proprio il Bilinguismo. Il Sardo può essere utilizzato come “Iidioma locale” e “forma dialettale”. Con funzioni folcloristiche e turistiche. Non come lingua coufficiale con l’italiano. Con pari ruolo, funzione e dignità. Ma non vi è solo il colonialismo linguistico dello Stato, secondo Diego Corraine, uno dei protagonisti della battaglia per il Bilinguismo. “A dolu mannu scrive , non semus capatzos de parare fronte a sos atacos chi benint «dae intro»! Comente mai, difatis, non b’at e non b’at àpidu peruna protesta cando nch’at catzadu unos cantos cartellos pagados cun dinare pùblicu de sa Lege 26/99? Comente est capitadu in Ulìana, Oniai, Durgali, Nùgoro, etc. in ue est isparida parte manna de sos cartellos in sardu? Custa genia de atzione autocolonialista est belle peus de s’atzione colonialista de s’istadu, ca semus nois etotu chi nos nche semus seghende sa limba in sos topònimos, chi sunt sa mustra prus crara e nòida de s’identidade linguìstica nostra”.

Pubblicato su SARDEGNA Quotidiano il 3-8-2013