Lingue povere e lingue ricche*

“Le lingue sono strumenti di comunicazione. Come ogni strumento possono essere usate bene oppure male. Ciò dipende dal grado di conoscenza che iparlanti, o scriventi, hanno della lingua; ma dipende anche dalla loro cultura e dalla loro fantasia, ovvero da quella capacità individuale di comunicare ef­ficacemente ogni cognizione e ogni pensiero, che i grammatici chiamano arte del dire (ars dicendi dei latini, rhetorica dei greci). La quale arte del dire è stata anche codificata in tutti i tempi, dai greci fino a noi, ma in realtà non si può codificare, perché la fantasia non conosce limiti regole.

E bastas, che razza di noioso discorso è questo? Sì, avete proprio ragione; me ne rendo conto dal fatto che mi sto annoiando anch’io.

Volevo parlare di lingue “ricche” e di lingue “povere”, e soprattutto del­la lingua sarda – un tema piuttosto attuale e appassionante – ma è chiaro che non sono riuscito a comunicare il mio pensiero.

Ci riprovo saltando qualche passaggio che l’intelligente lettore saprà col­mare da sé. Ecco, si afferma polemicamente che la lingua sarda è una lingua povera, e si sottintende, in un confronto immediato, che la lingua italiana è ricca.

Davanti a questi giudizi mi domando con quale criterio possa venire ac­certata la ricchezza o la povertà di una lingua; mi domando se, per esempio, sia accettabile un metodo aritmetico come contare le parole del suo vocabolario. Se un tale metro fosse buono sarebbe possibile stabilire persino l’esatto rap­porto, o differenza, di ricchezza – povertà fra due lingue, così come si può stabilire il rapporto, supponiamo, fra  due greggi di pecore e fra due conti in banca. Pertanto, sulla base del numero delle parole, sipotrebbe dire (e qui invento i dati) che la lingua italiana, rispetto alla lingua sarda, è il 35 per cento più ricca (o il 50, o il 70 per cento).

Senonché, a parte il fatto che non è stato ancora convenuto quante pa­role siano necessarie a una lingua perché si possa definirla ricca, a me pare di dover respingere il metodo aritmetico di valutazione.

Nessun dizionario infatti, per sterminato che sia, può considerarsi una lingua. Il vocabolario della lingua italiana non è la lingua italiana; il voca­bolario della lingua sarda non è la lingua sarda. Che altro è dunque una lin­gua? Forse la grammatica, la stilistica? No, neppure i migliori trattati di grammatica e di stilistica sono una lingua.

A voler tentare una temeraria definizione – necessariamente incompleta e provvisoria – direi che una lingua è la cultura stessa del popolo che la parla (e la scrive, se la scrive). Per questa ragione a me pare che, in assoluto non vi siano e non possano esservi lingue povere né lingue ricche, ma soltanto lingue in quanto sufficienti e in grado di esprimere tutta la cultura di cui sono appunto l’espressione. Un contadino bolotanese capace di comunicare le proprie cognizioni relative all’agricoltura, capace di esprimere le sue sensazioni di stanchezza, di scoramento, di preoccupazione, di gioia, di soddisfazione, di orgoglio, come pure le sue riflessioni sui rapporti col mondo che lo circonda, la sua filosofia politica e sociale; ricchezza e povertà, oppressione e libertà, giusto e ingiusto, amore e odio, e via via il vasto bagaglio della sua cultura bolotanese, parlerà certo una lingua sufficiente, ma se è fornito di intelligenza e di fantasia parlerà forse una ricchissima lingua bolotanese, molto più ricca di quella italiana che si legge nel cinquecentesco poema L’Italia liberata dai Goti, il cui autore era colto e intelligente ma aveva scarsa fantasia.

Si potrà obiettare che il mio fantasioso contadino non è in grado di par­lare di sant’ Agostino nédi Dante né di psicanalisi, né di processi chimici nédi missilistica; è vero, ma su questi temi non avrebbe potuto aprir bocca neppure Marco Tullio Cicerone, un oratore senza dubbio intelligente e fantasioso.

Del resto, se andiamo a verificare come se la cavano, in lingua italiana, i cittadini italiani del nostro tempo, scopriremo che la maggior parte di essi, intorno ai temi sopraenunciati, o non sono in grado di parlare o diranno un mucchio di sciocchezze.

Si potrà ancora obiettare che il nostro bravo contadino, nel caso in cui seguisse un regolare corso di studi in Italia fino a conseguire il titolo di dot­tore e venisse a conoscenza di sant’ Agostino, di Dante, della psicanalisi, eccetera, volendone parlare abbandonerebbe la lingua sarda e si esprimerebbe in italia­no, così come fanno tutti gli intellettuali sardi che pur conoscono la lingua sarda.

Benissimo, qui vi aspettavo per potervi concedere che anche questo è vero, ma soltanto perchélo avrete obbligato a seguire il regolare corso di studi in lingua italiana con rigorosa esclusione della lingua sarda.

La questione della povertà, o insufficienza, del sardo come lingua colta (o dotta) è tutta qui. Se la storia avesse marciato in direzione opposta, se nel quinto secolo avanti Cristo i Greci – poeti epici, poeti lirici, poeti tragici, oratori, storici, matematici, filosofi, astronomi, navigatori, architetti, pittori, scultori e via dicendo – avessero conquistato Roma ancora tutta contadina o pressappoco, e le avessero imposto la lingua greca col dileggio continuato del latino e a forza di colpi di bacchetta sulle mani degli scolaretti, la grande lingua di Cicerone e di Virgilio sarebbe rimasta dentro le capanne dei pastori laziali. Seneca e Plinio avrebbero scritto in greco, e cosìpure Agostino e Tomaso, Lattanzio e Tertulliano, come ancora tutti i papi; el’italiano, lo spa­gnolo, il francese dei giorni nostri non sarebbero lingue neolatine bensì neo­greche o, chissà, neocartaginesi.

Dunque. Vogliamo restituire al Sardo la libertà e la dignità di lingua, anche illustre, che ebbe nel medioevo e fino al giudicato di Eleonora; consen­tiamole di colmare come può alcuni secoli di esclusione (un vero bando) dal processo culturale europeo e concediamole di partecipare – come l’italiano – ­al cammino della cultura che suole autodefinirsi “grande” e “alta” (ma chis­sà!), e vedrete che il Sardo non sarà soltanto la lingua umiliata dei contadini e dei pastori.

Per finire, ai Quaderni Bolotanesi vorrei consigliare di indire un concorso istruttivo e divertente, magari nel quadro delle annuali celebrazioni di Santu Bachis, un concorso che potrebbe dimostrare la ricchezza o la povertà delle lingue, non tanto in relazione al numero delle parole quanto in relazione alla fantasia espressiva dei concorrenti.

Si tratta di concorrere alla elaborazione di un breve componimento, in italiano e in sardo, che non superi le 150 battute dattiloscritte. Salvo il libero uso di articoli, preposizioni, congiunzioni, eccetera e la libera declinazione – o flessione – delle parole date, il dizionario a disposizione è il medesimo per l’una e per l’altra lingua:

 

ITALIANO                  SARDO

ragazzo                         piseddu

essere                            essere

cadere                           rùere

mano                             manu

Gesù                             Zesu

Avere                            àere

testa (nuca)                   cuccuru

gettare                           bettare

terra                              terra

cavallo                          caddu 

vedere                           bìere

cosa                              cosa

Maria                            Maria

nero                                 nieddu

ficcare                             ficchire

 

Conosco già il risultato e ve lo dico. A parere della giuria, i due migliori componimenti, uno in italiano e uno in sardo, sarebbero questi:

ITALIANO = Maria, vedendo che Gesù aveva la mano sulla nuca, per non cadere gettò un cavallo nero al ragazzo ma la cosa ficcava la testa nella terra (concorrente: Gimaro Lo Giusto, professore universitario di storia sacra, raccomandatissimo da influenti personaggi politici).

 

SARDO = Dae caddu nd’est rutta sa pisedda a manu in terra e a cuccuru ficchidu, zesumaria ite ch’appo idu betto sa manu … una cosa niedda .. ‘. (concorrente: Luca Cubeddu, sconosciuto alla Giuria).

 

Ora giudicate voi, gentili lettori, quale dei due componimenti sia più me­ritevole della benedizione di Santu Bachis!”.

[Michele Columbu, Lingue povere e lingue ricche, in Quaderni bolotanesi: appunti sulla storia, la geografia, le tradizioni, le arti, la lingua di Bolotana”, Vol. 4 Anno. 1978 , n. 4].

 

*Tratto da La Lingua sarda e l’insegnamento a scuola di Francesco Casula, Alfa editrice, Quartu sant’Elena, 2010.

    Ora anche in Letteratura e civiltà della Sardegna di Francesco Casula,  vo II, Grafica del Parteolla Editore, Dolianova, 2011.

 

 

Lingue povere e lingue ricche*ultima modifica: 2013-08-21T09:23:04+02:00da zicu1
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