Oggi 22 gennaio 2013, in occasione del 122° Anniversario della sua nascita, voglio ricordare la lezione di Gramsci sulla Lingua sarda, Gramsci e la Lingua sarda
di Francesco Casula
Le Lettere dal carcere scritte dopo il suo arresto sono dirette per la gran parte ai
familiari: alla moglie e ai figli, alla cognata, alla madre, alle sorelle e al fratello Carlo.
Solo alcune sono indirizzate agli amici.
Per la prima volta furono pubblicate in un volume uscito nel 1947 che ne comprendeva
218. Nel 1965 un nuovo volume ne comprenderà 428, delle quali 119 fino
ad allora inedite. Esse risultano un grandioso e insieme toccante documento autobiografico
testimonianza umana culturale ed etica.
Esse oltre a costituire un documento di insostituibile interesse storico e letterario
rappresentano un’avvincente testimonianza psicoantropologica, una vita ricca di eventi
significativi e persino drammatici. Eccone una11 diretta alla sorella Teresina in cui
affronta la questione della Lingua sarda.
Carissima Teresina,
mi è stata consegnata sola pochi giorni fa la lettera che mi avevi inviato a Ustica e
che conteneva la fotografia di Franco. Ho così potuto vedere finalmente il tuo bimbetto
e te ne faccio tutte le mie congratulazioni; mi manderai, è vero? anche la fotografia
della Mimì e così sarò proprio contento. Mi ha colpito molto che Franco, almeno dalla
fotografia, rassomigli pochissimo alla nostra famiglia: deve rassomigliare a Paoloe
alla sua stirpe campidanese e forse addirittura maurreddina: e Mimì a chi somiglia?
Devi scrivermi a lungo intorno ai tuoi bambini, se hai tempo, o almeno farmi scrivere
da Carlo o da Grazietta. Franco mi pare molto vispo e intelligente: penso che parli già
correttamente. In che lingua parla? Spero che lo lascerete parlare in sardo e non gli
darete dei dispiaceri a questo proposito. È stato un errore, per me, non aver lasciato
che Edmea, da bambinetta, parlasse liberamente il sardo. Ciò ha nociuto alla sua
formazione intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia. Non devi
fare questo errore coi tuoi bambini. Intanto il sardo non è un dialetto, ma una lingua
a sé, quantunque non abbia una grande letteratura, ed è bene che i bambini imparino
piú lingue, se è possibile. Poi, l’italiano, che voi gli insegnerete, sarà una lingua
povera, monca, fatta solo di quelle poche frasi e parole delle vostre conversazioni con
lui, puramente infantile; egli non avrà contatto con l’ambiente generale e finirà con
l’apprendere due gerghie nessuna lingua: un gergo italiano per la conversazione
ufficiale con voi e un gergo sardo, appreso a pezzi e bocconi, per parlare con gli altri
bambini e con la gente che incontra per la strada o in piazza.
Ti raccomando, proprio di cuore, di non commettere un tale errore e di lasciare
che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino spontaneamente
nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà un impaccio per il loro
avvenire, tutt’altro. Delio e Giuliano sono stati male in questi ultimi tempi: hanno
avuto la febbre spagnola; mi scrivono che ora si sono rimessi e stanno bene. Vedi, per
esempio, Delio: ha cominciato col parlare la lingua della madre, come era naturale e
necessario, ma rapidamente è andato apprendendo anche l’italiano e cantava ancora
delle canzoncine in francese, senza perciò confondersi o confondere le parole dell’una
e dell’altra lingua. Io volevo insegnarli anche a cantare: «Lassa sa figu, puzone»,
ma specialmente le zie si sono opposte energicamente[…].
Abbraccio Paolo affettuosamente; tanti baci a te e ai tuoi bambini
Nino
In questa lettera del 26 marzo del 1927, scritta alla sorella Teresina dal carcere,
giustamente notissima e super citata, Gramsci rivela una serie di intuizioni formidabili
sull’importanza, sull’utilità, sul ruolo e la funzione della lingua sarda, specie per quanto
attiene allo sviluppo del bambino e allo stesso apprendimento dell’italiano.
Per intanto ammette che “è stato un errore non aver lasciato che Edmea, da bambinetta,
parlasse liberamente in sardo”. Si tratta di un errore oltremodo diffuso nella
cultura e nell’intera scuola italiana, ancora oggi ma soprattutto nel passato.
Un errore e un pregiudizio che deriva da lontano: basti pensare ai primi Programmi
della Scuola italiana, impostati a partire dall’Unità e dalla Legge Coppino del
1867 secondo una logica statoiatrica e italocentrica, finalizzata a creare una supposta
coscienza “unitaria” un cosiddetto spirito “nazionale”, capace di superare i limiti
– così erroneamente si pensava – di una realtà politico-sociale estremamente divisa,
differenziata e composita sul piano storico, linguistico e culturale.
Così, tutto ciò che anche lontanamente sapeva di locale – segnatamente la storia e
la lingua – fu rigidamente espunto ed espulso dalla scuola, represso e censurato, messo
a tacere e bandito o comunque marginalizzato nella vita sociale.
Questo processo continuerà e anzi si accentuerà enormemente nel periodo fascista,
in cui si tentò addirittura di cancellarla e decapitarla la lingua sarda come pure la storia
e in genere quanto atteneva al locale, allo specifico, al particolare: elementi tutti che
avrebbero – secondo l’ideologia fascista – attentato all’unità nazionale dello Stato,
concepito in modo rigidamente monolingue e monoculturale.
Ebbene Gramsci, proprio in questo periodo storico e in questa temperie culturale
ed ideologica ha il coraggio di andare controcorrente, anche su questo versante:
“non imparare il sardo da parte di Edmea – sostiene – ha nociuto alla sua formazione
intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia… è bene che i bambini
imparino più lingue… ti raccomando di lasciare che i tuoi bambini succhino tutto il
sardismo che vogliono e si sviluppino spontaneamente nell’ambiente naturale in cui
sono nati: ciò non sarà un impaccio per il loro avvenire: tutt’altro”.
Il grande intellettuale sardo esprime in questa lettera una serie di posizioni sulla
lingua materna, che i linguisti e i glottologi perché gli studiosi delle scienze sociali:
psicologi come pedagogisti, antropologi come psicanalisti e persino psichiatri avrebbero
in seguito articolato, argomentato e rigorosamente dimostrato come valide, in
modo inoppugnabile.
Ovvero che il Bilinguismo, praticato fin da bambini, sviluppa l’intelligenza e costituisce
un vantaggio intellettuale non sostituibile con l’insegnamento in età scolare
di una seconda lingua, ad esempio l’inglese.
Nell’apprendimento bilingue entrano in gioco fattori di carattere psico-linguistico
di grande portata formativa, messi in evidenza da appropriati e rigorosi studi
e ricerche.
Tutto ciò, soprattutto con il Bilinguismo a base etnica – proprio il nostro caso
di sardi – che, come sostiene uno dei massimi studiosi e sostenitori, J. A. Fisman
non è da considerarsi un fatto increscioso da correggere e da controllare ma una
condizione che agisce positivamente nelle psicodinamiche dello sviluppo cognitivo
e relazionale, base di potenzialità linguistiche-coscienziali straordinariamente estese,
tanto che l’educazione bilingue ha delle funzioni che vanno al di là dell’insegnamento
della lingua. Ovvero che la lingua materna, la cultura e la storia locale hanno un
ruolo fondamentale e decisivo nello sviluppo degli individui, soprattutto dei giovani,
partendo “dall’ambiente naturale in cui sono nati”:
• per allargare le loro competenze, soprattutto comunicative, di riflessione e di
confronto con altri sistemi;
• per accrescere il possesso di una strumentalità cognitiva che faciliti l’accesso ad
altre lingue;
• per prendere coscienza della propria identità etno – linguistica ed etno – storica,
come giovane e studente prima e come persona adulta e matura poi;
• per personalizzare l’esperienza scolastica, umana e civile, attraverso il recupero
delle proprie radici;
• per combattere l’insicurezza ambientale, ancorando i giovani a un humus di valori
alti della civiltà sarda: la solidarietà e il comunitarismo in primis;
• per superare e liquidare l’idea del “sardo“ e di tutto ciò che è locale come limite,
come colpa, come disvalore, di cui disfarsi e, addirittura, “vergognarsi”;
• per migliorare e favorire, soprattutto a fronte del nuovo “analfabetismo di ritorno”,
vieppiù trionfante, soprattutto a livello comunicativo e lessicale, lo status linguistico.
Che oggi risulta essere, in modo particolare nei giovani e negli stessi studenti, povero,
banale, improprio, “gergale”: esattamente come aveva profeticamente previsto e
denunciato Gramsci.
Lo studio e la conoscenza della lingua sarda, può essere uno strumento formidabile
per l’apprendimento e l’arricchimento della stessa lingua italiana e di altre lingue, lungi
infatti dall’essere “un impaccio”, “una sottrazione”, sarà invece un elemento di “addizione”,
che favorisce e non disturba l’apprendimento dell’intero universo culturale e
lo sviluppo intellettuale e umano complessivo. Ciò grazie anche alla fertilizzazione e
contaminazione reciproca che deriva dal confronto sistemico fra codici comunicativi
delle lingue e delle culture diverse, perché il vero bilinguismo è insieme biculturalità,
e cioè immersione e partecipazione attiva ai contesti culturali di cui sono portatrici,
le due lingue e culture di appartenenza, sarda e italiana per intanto, per poi allargarsi,
sempre più inevitabilmente e necessariamente, in una società globalizzata come la
nostra, ad altre lingue e culture.
Anche da questo punto di vista il pensiero gramsciano è di una straordinaria attualità.
A più riprese infatti nelle sue opere sottolinea l’importanza del Sardo in quanto
concrezione storica complessa e autentica, simbolo di una identità etno-antropologica
e sociale, espressione diretta di una comunità e di un radicamento nella propria tradizione
e nella propria cultura.
Una lingua che non resta però immobile – come del resto l’identità di un popolo
– come fosse un fossile o un bronzetto nuragico, ma si “costruisce” dinamicamente
nel tempo, si confronta e interagisce, entrando nel circuito della innovazione linguistica,
stabilendo rapporti di interscambio con le altre lingue. Per questo concresce
all’agglutinarsi della vita culturale e sociale. In tal modo la lingua, per Gramsci, non
è solo mezzo di comunicazione fra individui, ma è il modo di essere e di vivere di un
popolo, il modo in cui tramanda la cultura, la storia, le tradizioni.
Dal punto di vista formale in questa “Lettera” – ma anche nelle altre – Gramsci
rivela una scrittura semplice e insieme intensa, talvolta persino scherzosa e ironica,
mai “letteraria”, di una naturale altezza e forza morale. La sua capacità di interessarsi
profondamente e amabilmente delle vicende dei suoi familiari, dell’educazione dei
bambini, cui racconterà favole e storielle, rivelano un uomo dall’alta statura umana
ed etica, affettuosamente e profondamente legato alla sua terra, alla sua lingua, alle
sue tradizioni. Pur infatti nel carcere – e nelle privazioni riesce sempre a mantenere
un eccezionale equilibrio tra raziocinio e fantasia e un dominio tranquillo sulla realtà,
tanto che raramente il carcere nelle «Lettere» «si sente». Eppure, come scriverà in
«Passato e Presente»: “la prigione è una lima così sottile, che distrugge completamente
il pensiero, oppure fa come quel mastro artigiano, al quale era stato consegnato un
bel tronco di legno d’olivo stagionato per fare una statua di San Pietro, e taglia di
qua, taglia di là, correggi, abbozza, finì col ricavarne un manico di lesina”.
(Passo tratto da Uomini e donne di Sardegna di Francesco Casula, Alfa Editrice, Quartu, 2010, pagine 145-149),